Porta Nuova – treni

Citato in
Un altro lunedì, 1946, AOI, II: 688

Passo
“Dico chi finirà all’Inferno:
I giornalisti americani,
I professori di matematica,
I senatori e i sagrestani.
I ragionieri e i farmacisti
(Se non tutti, in maggioranza);
I gatti e i finanzieri,
I direttori di società,
Chi si alza presto alla mattina
Senza averne necessità.

Invece vanno in Paradiso
I pescatori ed i soldati,
I bambini, naturalmente,
I cavalli e gli innamorati.
Le cuoche e i ferrovieri,
I russi e gli inventori;
Gli assaggiatori di vino;
I saltimbanchi e i lustrascarpe,
Quelli del primo tram del mattino
Che sbadigliano nelle sciarpe”.

Così Minosse orribilmente ringhia
Dai megafoni di Porta Nuova
Nell’angoscia dei lunedì mattina
Che intendere non può chi non la prova.

*

Risalente al gennaio 1946, è certamente un’altra delle ‘poesie urbane’ di Levi, sicuramente una delle più metropolitane, e insieme alla precedente lirica intitolata Lunedì (1946, AOI, II: 687) forma una coppia assai rappresentativa della stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Appartiene alla prima stagione poetica di Levi, quella in cui rientrano anche le poesie del Lager, e contiene un’allusione fondamentale, quella al Minosse dantesco, il giudice infernale che Levi aveva già incontrato nel Lager, durante il suo esame di chimica.

Queste due poesie sono particolarmente rappresentative di Torino perché ne affrontano un luogo fondamentale, in cui Levi passò molte volte e che frequentò per diversi anni della sua vita: la stazione di Porta Nuova era, appunto, una finestra sul mondo per i torinesi prima che le tratte aeree divenissero così accessibili. La prima, in particolare, sembra nascere proprio dal percorso quotidiano di Levi che si reca ad Avigliana per lavorare: in Lunedì (però composta di giovedì, e a Torino) c’è un riferimento ben più che esplicito al treno e alla solitudine che prova durante i viaggi verso il proprio luogo di lavoro, e più in generale nella sua vita. In particolare, il mezzo di locomozione è collegato in maniera assai sinistra con il treno che lo aveva portato ad Auschwitz (così come quelli che lo riportarono indietro dalla Polonia), il quale rimane un ricordo traumatico nella sua memoria iconica e getta un’oscura ombra simbolica su ogni altro suo simile.

In Un altro lunedì, però, Levi decide di vestire i panni dell’infernale giudice che ritroviamo nell’Inferno dantesco, di cui riporta le parole in discorso diretto, virgolettandole. Il rimando a Dante è più che esplicito e si palesa senza possibilità di travisamento solo alla fine della lirica, il cui ultimo verso rimanda al primo terzetto di Tanto gentile e tanto onesta pare. Spunta perfettamente diritto, come un endecasillabo che regolarizza la chiusa della ultima strofa, e gioca il ruolo di immobile motore metrico: prelevato pari pari dal famosissimo sonetto di Dante, sembra attirare alla sua misura versale le righe precedenti, le quali presentano una sorta di ritorno all’ordine endecasillabico dopo il polimorfismo dei versi brevi nelle due strofe precedenti. Pur non utilizzando uno schema metrico fisso, dunque, Levi era assolutamente in grado di comporre versi di undici sillabe proprio come prescriveva la tradizione poetica italiana (a cui spesso si rifaceva, e che aveva sempre ben presente).

L’ultima strofa è infatti la più importante perché, insieme al primo verso, offre gli estremi in cui inquadrare la poesia: dopo il lunghissimo elenco che contiene il variopinto campionario di geografia umana cittadina che si sposta sui tram e per la città puntando verso la stazione per raggiungere il proprio luogo di lavoro (esattamente come faceva Levi all’epoca). L’occasione poetica nasce, in particolare, proprio dall’ascolto del megafono da cui si spargono gli annunci che specificano l’itinerario dei singoli treni: il poeta immagina che dietro agli altoparlanti, alla sorgente di ogni impulso vocale trasmesso in stereofonia in tutta la stazione, stia proprio il giudice dantesco che, osservata e conosciuta l’abituale routine dei viaggiatori, può dire meglio quale sia la loro direzione, indicandogliela. Metaforicamente, il poeta immagina che la voce sancisca chi di loro debba andare all’inferno («Dico chi finirà all’Inferno»; peraltro scritto qui con la maiuscola in riferimento palese alla Commedia) o in paradiso, a seconda della loro occupazione e delle loro abitudini mattutine.

La fauna torinese è però molto varia: c’è un discrimine fondamentale, che non è possibile evincere chiaramente: i versi del poeta mimano qui il dedalo della stazione e le numerose masse che la attraversano, in cui si mescolano le più svariate professioni, ed è impossibile comprendere perché alle anime tocchi l’una o l’altra sorte. In ogni caso, Porta Nuova si rivela di nuovo un crogiolo di esistenze, un cuore pulsante della città che è punto di riferimento comune per una grandissima parte della popolazione locale (e non soltanto).

Un altro dato molto importante della poesia è proprio l’«angoscia del lunedì mattina», la stessa che attanagliava il poeta già nella poesia precedente scritta soltanto dodici giorni prima. Questa, tuttavia, è più allegra (in un certo senso) e sicuramente meno disperata, per quanto comunque lapidaria: i versi brevi sembrano davvero essere stentorei giudizi irrevocabili; e, allo stesso tempo, gli endecasillabi finali riportano in gioco il sentimento di angustia che il poeta sentiva durante quel periodo della sua vita (quando, peraltro, era ancora uno di «Quelli del primo tram del mattino / Che sbadigliano nelle sciarpe» e non ancora uno dei «direttori di società» che si affrettano per raggiungere i binari e riprendere la loro azienda lì dove si era fermata prima del fine settimana).

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