Corso San Martino

Citato in
Schiera bruna, 1980, AOI, II: 718

Passo
Si potrebbe scegliere un percorso più assurdo?
In corso San Martino c’è un formicaio
A mezzo metro dai binari del tram,
E proprio sulla battuta della rotaia
Si dipana una lunga schiera bruna,
S’ammusa l’una con l’altra formica
Forse a spiar lor via e lor fortuna.
Insomma, queste stupide sorelle
Ostinate lunatiche operose
Hanno scavato la loro città nella nostra,
Tracciato il loro binario sul nostro,
E vi corrono senza sospetto
Infaticabili dietro i loro tenui commerci
Senza curarsi di
Non lo voglio scrivere,
Non voglio scrivere di questa schiera,
Non voglio scrivere di nessuna schiera bruna.

Fonte: https://www.museotorino.it/view/s/a72232425545401c85700825707f151a

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Questa poesia, tra le più note di Levi, è uno splendido esempio dell’attenzione alla vita di città che il chimico-scrittore-poeta, interessato alle specie animali e vegetali, non può fare a meno di notare: anche in questa lirica impera la sua attenzione microscopica a quanto solitamente sfugge all’occhio umano, specie in contesti tanto trafficati quanto quelli dei corsi nel centro di Torino. Non è infatti detto che è in una città in cui regnano sovrani cemento e asfalto sia dato soltanto di vedere presenze umane: questa poesia giustifica che gli abitanti della città non sono soltanto uomini, donne e bambini, ma anche altri animali.

Proprio come in un meccanismo a matrioska, quasi frattalico, sotto al tram su cui i torinesi viaggiano tutti i giorni per spostarsi da una parte all’altra della città e raggiungere i luoghi delle loro occupazioni dalle proprie case, vive un’intera popolazione di formiche che, incurante dei pericoli della modernità, ha costruito un formicaio proprio nel corso che dà il titolo a questa poesia, «a mezzo metro dai binari del tram / […] proprio sulla battuta della rotaia». Al poeta viene da chiedersi: «Si potrebbe scegliere un percorso più assurdo?», perché sembra quasi insensato, un atto di resilienza estremo tanto quanto gratuito, gravemente rischioso. Ma non si cura di questo la «lunga schiera bruna».

È proprio questo nome, con l’aggettivo che lo accompagna, che si richiama alla Commedia dantesca: il rimando al canto XXVI del Purgatorio che leggiamo in calce alla poesia, secondo la pratica di allusione intertestuale che spesso è tipica di diverse liriche primoleviane, non lascia dubbi e riporta il lettore alle terzine del Sommo. I suoi versi vengono ripresi alla lettera e, riportando sulla scena le stesse parole che descrivevano il manipolo di lussuriosi che sulle pendici del monte sfila davanti a Dante e Virgilio, descrive le azioni degli insetti: intenti a proseguire nel loro caotico allineamento, scontano la loro pena camminando in gruppo e scontrandosi l’uno contro l’altro, confusamente. Alla stessa maniera, così fanno anche gli insetti protagonisti della lirica: sembra che si parlino per capire come muoversi, dove andare (questo intende il fatto di «spiar lor via e lor fortuna»), creando uno confusionario frastuono che l’intelletto umano può solo immaginare, o percepire soltanto tramite la vista.

Le formiche sono descritte come «stupide sorelle / Ostinate lunatiche operose»: non si fermano davanti a nessun ostacolo e nessun posto è troppo ostico per ospitare i loro «tenui commerci»; sono perennemente intente a marciare e a portare avanti i lavori che gioveranno all’intero formicaio, e non si scollano mai dal luogo prescelto pure se la presenza umana minaccia la loro collettività in ogni momento. «Hanno scavato la loro città nella nostra» incuranti del pericolo (ecco perché sono «ostinate»), hanno «Tracciato il loro binario sul nostro, / E vi corrono senza sospetto»: come se fossero troppo indaffarate dalle loro attività, non si curano del fatto che un mondo esponenzialmente più grande di loro è all’opera, e rischia di distruggere il loro piccolo regno.

Ma improvvisamente la poesia si interrompe: la schiera di formiche richiama alla mente di Levi una lugubre associazione spontanea, che affonda le proprie radici negli oscuri giorni di Auschwitz. Molti critici, studiando l’opera del chimico scrittore, hanno infatti puntualizzato che gli insetti sono il genere biologico più spesso paragonato ai prigionieri del campo di concentramento: nelle pagine di Se questo è un uomo, molto spesso gli Häftlinge sono paragonati a miseri vermi striscianti, depauperati della loro natura umana e costretti a mendicare la benché minima briciola per restare in vita nelle loro meschine condizioni.

Per questo nella poesia si manifesta un trauma: sia a livello sintattico sia a livello tipografico. Gli ultimi tre versi iniziano infatti con un notevole rientro, e la frase precedente addirittura mozzata, priva di fine, lasciata monca dopo una brusca (e brutale) interruzione. La schiera di formiche che viaggia sulle rotaie del tram ricorda infatti al chimico-scrittore-poeta il tempo della prigionia, quando era lui il dannato costretto a marciare spalla a spalla con gli sventurati compagni. Per questo la lirica si chiude con una nota amara, forzata dalla negazione anaforica rimpolpata verso dopo verso, che non fa preludere nulla di buono e si configura come un vero e proprio rifiuto dell’arte poetica: il ricordo, pur se a quarant’anni di distanza, è ancora estremamente forte e velenoso, tanto insidioso da bloccare completamente un fenomeno spontaneo quanto quello di comporre versi.

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