Tutti gli articoli di Valentina Monateri

Il ghiaccio

Giorgia Bruno, in questo suo racconto, tratta di un giovane Amleto moderno innamorato e stregato che vive in prima persona una delle più tragiche storie cantate dal grande Fabrizio de Andrè, nell’ambito del corso di Letterature comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi). 

PREMESSA

Il racconto ha come intento quello di fondere le trame dei sonetti di Petrarca, dell’Amleto di Shakespeare e, infine, della Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André. Verranno riprese, in questa narrazione, alcune descrizioni tipicamente stilnovistiche della donna-angelo, gli eventi tragici raccontati dal cantautore italiano nella celebre canzone del 1966, e verrà riportato in luce lo sfondo psicologico di un figlio, affranto dalla perdita del padre, che si ritrova, da molto giovane, a dover affrontare una madre che al tempo stesso ama e odia. Il titolo non solo fa un chiaro riferimento al contesto invernale in cui si sviluppa il racconto, ma metaforicamente indica anche la freddezza con cui viene trattato e manipolato il protagonista. Sotto ad un affascinante lago ghiacciato possono nascondersi dei mostri, esattamente come dietro ad una fanciulla dai tratti paradisiaci, può celarsi una natura maligna e subdola.

*

Bene Vagienna, inverno del 1948[1].

La quercia nera nel giardino mi fissava con occhi assopiti, in quel bianco pomeriggio di gennaio. Io me ne stavo seduto sulla vecchia poltrona in vimini del nonno, travolto dall’odore di legna ardente e di sapone di Marsiglia, poggiato poco lontano dal lavandino. Quel giorno tutto sussurrava parole di morte: il vento tra le fessure della finestra, la vecchia radio di nonna sempre accesa e, più di ogni altra cosa, il cigolio del letto di mamma. Il “mostro maledetto”, come lo chiamava lei, era di nuovo tornato quell’anno e come tutte le altre volte l’aveva resa debole come una foglia secca, pallida come le lenzuola su cui giaceva e leggera come un foglio di carta. Il suo cuore allora, non era che un instabile marchingegno dalle viti mal fissate, sempre pronto ad interrompere il suo pulsare.

In pomeriggi come quello, affiorava in me il ricordo di quando mamma, alla domenica, mi passava il mestolo sporco di crema o di cioccolata, dopo aver cucinato una delle sue torte. Il gusto di quel cucchiaio, che ora giace abbandonato nel cassetto, è ancora fisso nella mia mente, tatuato ed indelebile. Proust, forse, parlava già di un concetto simile quando raccontava della memoria rianimata da un piccolo boccone di madeleine[2], o almeno questo è quello che mi ricordo delle lezioni del vecchio professore di Carrù. Mi basterebbe un minuscolo assaggio di quel mestolo per poter rivedere la mia infanzia: la mamma impeccabile ai fornelli con quel grembiule immacolato, la nonna seduta sulla poltrona a cucirmi le toppe della divisa scolastica e il papà…beh il papà non lo so a dire il vero: era partito un giorno del ’43 dicendo che sarebbe andato a comprare il tabacco giù in paese, ma dal vialetto di casa non fece mai ritorno. Lo aspettai per delle settimane, incollato alla finestra, pregando e piangendo. La mamma, invece, passava delle ore sul balcone affacciato sulle Langhe e, per quanto il suo sguardo fosse diventato grigio e i suoi occhi viola dalle lacrime, dava l’impressione di sapere esattamente dove fosse papà. Iniziò a stendere lenzuola nere quando le truppe tedesche giravano in città, e quelle bianche quando le vie di Bene Vagienna erano sgombre dai fascisti. Fu solo qualche anno più tardi che, studiando, capii che mio padre faceva parte dei cosiddetti “partigiani”, e solo quando scoprì la sua malattia, la mamma decise di dirmi che era stato catturato ed ucciso in un campo poco lontano da noi.

Mamma è sempre stata il mio unico punto di riferimento, una sorta di dea, un raggio di luce che penetra e graffia l’atmosfera. Ho sempre provato una sorta di affetto morboso per lei, una pulsione, una scossa d’inestimabile amore edipico, e questo mio sentimento nei suoi confronti lo coltivai fino all’anno seguente la morte di mio padre. Esattamente due mesi dopo la scomparsa di papà, infatti, la mamma mi presentò Claudio[3], un uomo pungente, basso, vecchio, sicuramente intelligente, ma sempre pronto a criticare e a dare consigli di certo non richiesti. Non aveva niente a che fare con mio padre e ciò che ancora di più mi dava noia era il non riuscire a capacitarmi del come mia madre si fosse dimenticata così in fretta dell’armonia della nostra famiglia. Ricordo che una sera, affranto dal dolore per la morte di mio padre e colmo di odio e rancore verso quell’uomo disgustoso, seduto a capotavola mi rivoltai contro mia madre dandole della “bestia”[4]. Un animale avrebbe patito più a lungo la morte di un caro, un animale sarebbe stato più bravo nel portare il lutto. Un Animale avrebbe finto meglio. Da quella sera, il legame tra me e mia madre si ruppe, non ridemmo più, non piangemmo più. L’unico dovere che ancora mi costringeva a lei era la sua dannata malattia al cuore che la divorava dal mattino alla sera, senza sosta. E Claudio? Beh lui, da vero gentiluomo, scappò dopo due anni per una donna molto più giovane di mia madre, abbandonandola nel suo letto che in quel maledetto pomeriggio di gennaio cigolava e strillava. Fu proprio quel giorno del ’48, però, in cui finalmente, dopo tanti anni di buio, rividi un raggio di luce simile a quello che emanava mamma quando ero piccolo: affacciato alla finestra incorniciata dalla muffa, vidi un angelo passeggiare sulla neve del vialetto. Era una creatura con la pelle liscia e di un colore poco più roseo della neve circostante, le labbra della stessa tinta delle rose sul comodino, e i capelli come raggi di sole ondulati che si scioglievano sulle sue spalle[5]. Mai, e dico mai, avrei creduto che si potesse assistere ad una visione come quella: rimasi estasiato, con un vortice di farfalle e falene che volteggiavano non solo nel mio stomaco, ma in tutto il resto del mio corpo, fino a raggiungere i più estremi capillari. Non trovo pace, non riesco a contenere il mio cuore che batte come un tamburo, non voglio nemmeno provarci a contenerlo, a dire il vero. Mi sento ardere e mi sento ghiaccio, mi sembra di volare e mi sembra di essere disteso a terra tra i fiori, piango e rido, grido e non ho una lingua, vedo e non ho gli occhi. Una prigione, quella donna mi aveva appena messo in una prigione da cui non sarei più uscito[6]. “É la nipote di Anita, qua accanto” disse mia madre che nel frattempo si era accovacciata sul bordo del materasso: “Viene da Parigi, è molto acculturata, ma si dice che sia una vera arpia”. Ricordo ancora lo sguardo che posai su mia madre dopo quell’acido “arpia”, sputato fuori dalla sua bocca come veleno. Come poteva essere cattiva una fanciulla arrivata direttamente dalle scale del Paradiso?

Il giorno seguente uscii per andare in centro a Bene a comprare le medicine per mamma. Il freddo quel giorno era ancora più spietato: si infilava in ogni fessura dei vestiti e correva sulla pelle e sui muscoli, penetrando nei pori e raggelando il sangue. Persino la statua di Botero, lì fiera ed inerme sembrava sentire il gelo più degli altri giorni: aveva un cappello di neve e del ghiaccio lungo tutto il mantello e sui manuali di teologia su cui poggiava la mano. Il suo sguardo marmoreo sembrava scrutarmi l’anima, pareva essere a conoscenza della voragine che divorava i miei organi, dopo l’incontro con la creatura fatale. Non appena varcai la soglia della farmacia, una nube di calore incorniciò il mio volto, riscaldando ogni centimetro della mia pelle. Lì l’atmosfera era diversa, più spessa, in qualche modo tangibile. Alzai lo sguardo e tolsi gli occhiali, rimasti appannati dallo sbalzo termico: quello che vidi davanti a me, mi diede una scossa così profonda e prepotente da lasciarmi senza fiato. Un cappotto rosso scuro, decorato da ricami di un colore verde pino e coperto sulle spalle da candidi riccioli d’oro, si ergeva a pochi centimetri da me. Il profumo di orchidea, che emanavano i suoi guanti color perla, ancora adesso mi arde nelle narici, e il suono della sua voce ancora ora risuona nella mia testa come un accordo d’arpa, lontano e delicato come cotone. “Buongiorno, Laurine” mi sembrò di sentire dalle mie orecchie, assordate dal frastuono del mio stesso battito. Laurine, L-A-U-R-I-N-E. Certo, come poteva non chiamarsi allo stesso modo della donna più celebrata dalla letteratura italiana?[7] Tutto di lei emanava luce e diffondeva calore, tutto di lei rendeva ciechi e sordi, tutto di lei era astrazione, niente di lei era umano. Nemmeno i suoi movimenti sembravano appartenere ad una persona in carne ed ossa[8]: lenti, dosati, leggeri come le piume di un cuscino. Si voltò con una pacatezza estrema e finalmente, dopo un tempo per me infinito, riuscii a vedere i suoi occhi. Due sfere del colore del mare, con sprazzi di schiuma bianca e graffi grigi e blu. Sentivo di affogare dentro quei laghi profondi e pericolosi di cui non si conosceva il fondale. Mi vergognavo quasi a guardarla, non riuscivo a mantenere il contatto visivo per più di tre o quattro secondi… come se davanti a me, imponente e spietata ci fosse la Madonna, pronta ad giudicare i miei peccati. Quando Laurine era a meno di venti millimetri da me, mi sentii sfiorare le dita dai suoi guanti di seta lucente: la sua mano corse sul mio braccio e mi disse con la voce di un candore sovraumano: “Tu devi essere Fabrizio[9], il mio vicino, vero?”.

Dentro di me cadde il buio, mi trovavo in un tunnel nero senza uscita: la lingua sembrava anestetizzata, incollata al mio palato senza via di fuga, i miei occhi guardavano a terra impotenti ed incapaci di sollevarsi, il mio corpo era pietrificato, come quello di Botero là fuori, che ancora sbirciava nella bottega. Il mio respiro era cessato e fu solo quando le sue dita d’avorio fecero una leggera pressione sul mio gomito, solleticando il nervo, che riuscii a riprendere vita e colore. Alzai lo sguardo, con una lentezza pari alla sua e per un nano secondo credetti di cedere: le mie gambe tremavano e sentivo il mio battito sussurrarmi il suo pulsare nelle orecchie. Aprii la bocca impastata come sabbia e vomitai un pallido “Si, sono io”. Il suo sguardo si spalancò in un sorriso sincero e compiaciuto, e mi chiese se mi andasse di accompagnarla a casa visto che stringevo tra le mani il mio ombrello viola. Fuori scendevano a gara fiocchi di neve, grossi come batuffoli di cotone, io strinsi con sicurezza l’ombrello rotto e vecchio della nonna e le risposi con maggiore convinzione “SI”. Laurine si attaccò al mio braccio, lo strinse a sé e il mio cuore si fermò. Trattenni il fiato, varcai la porta d’ingresso e con le mani tremanti aprii quell’insieme di ferraglia e bulloni che troppe volte avevo provato (invano) a riparare. Parlò, o meglio cantò, per dei minuti infiniti: la sua voce mi cullava, mi trasportava sulle nubi, mi rendeva aria. Ricordo di essere sembrato un impedito, ma le mie parole erano incastrate lì, tra la gola e l’ugola, e nulla riusciva a superare il palato. Talvolta mi voltavo per qualche millesimo di secondo per osservarla e annuire alle sue affermazioni sulla Sorbone, sul cibo francese decisamente troppo grasso e “burroso”, sui ragazzi troppo precipitosi e sulle riviste di moda banali e fatiscenti. Arrivati davanti alla porta di casa, mi diede un bacio sulla guancia e io rimasi a fissarla impietrito come un vero imbecille. Non potevo credere a cosa mi fosse appena successo. Mi sentivo completamente travolto da una bufera di sensazioni formidabili, calde, eterne, vive. Lei mi sorrise e mi fece un cenno con la mano, al quale io risposi con una pallida smorfia di saluto. Entrai in casa e lasciai che finalmente le mie gambe potessero crollare in un dolce svenimento: restai sull’uscio, accasciato e sorridente per una decina di minuti, quando all’improvviso una voce acuta e debole ruppe l’incantesimo: “Hai trovato le medicine o come al solito bisogna aspettare di morire per ottenere un po’ di aiuto?”. Il mio stomaco divenne un groviglio d’odio e di nervi, mi sollevai con le gambe tremanti e raggiunsi il letto matrimoniale dove giaceva mia madre. “Ho dovuto accompagnare a casa Laurine, mamma. In farmacia non sono stato per più di dieci minuti” “E ora sarà chiusa, immagino. Questo è il tuo grazie per tutti gli anni trascorsi ad allevarti da sola? Per di più per correre dietro a quella megera maliziosa di Laurine. Stalle alla larga, Fabrizio, ti farà del male”. In quell’esatto momento guardai mia madre negli occhi e le dissi con fermezza e piena coscienza: “Spero vivamente questo sia il tuo ultimo inverno”. Silenzio. Non rispose, non aveva parole e forza per farlo: lasciò andare tutti i suoi muscoli e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Con il cuore stretto da mani fantasma, mi voltai e uscii a denti sigillati per camminare nel bosco, proprio dietro la casa del vecchio Tom.

Dopo circa un’ora che passeggiavo sentii una voce lontana che gridava il mio nome: Laurine correva come un cerbiatto tra il muschio e le cortecce degli alberi. Mi raggiunse e il mio cuore cupo tornò a sorridere. Parlai a braccetto per delle ore, mentre i fiocchi le cadevano sui boccoli e sulle ciglia, completamente assopito e avvolto in quel calore e in quella luce che emanava il suo corpo sinuoso e puro. Quando arrivammo al ruscello ghiacciato mi prese le mani per non scivolare e, dopo alcuni minuti, mi trascinò ridendo di gusto sulla lastra di vetro lucente. Rotolammo per terra in meno di dieci secondi, e fu in quel preciso momento, in cui Laurine si stese sopra di me, esausta dalla fatica e dalle risate, che mi guardò e mi baciò. Labbra contro labbra, l’eternità celeste che si scaglia su due giovani fatti di cenere. Sarebbe potuto durare per sempre quell’attimo, sarei morto tra le sue braccia, felice, senza paura del dopo, dell’inferno o del paradiso. Sereno.

Ci tirammo su in piedi e ci mettemmo a sedere sul tronco di una betulla recisa. Lì mi prese le mani e con sguardo sicuro, ed in parte subdolo, pronunciò queste parole: “Tu mi ami, vero? Me ne sono accorta dal primo istante, fate tutti la stessa faccia quando mi vedete, tra l’estasi e lo stupore”. La guardai, perso tra il suo canto di sirena e i suoi capelli in lotta coi raggi di sole. “Tu uccideresti qualcuno per me? Come tua madre? Sono sicura che per me strapperesti via il cuore malato di quel diavolo, per darlo ai miei cani”[10]. Posso giurare di aver visto nei suoi occhi una scintilla di follia, mentre quelle parole taglienti sgorgavano dalla sua bocca. Incapace di riflettere, posai il mio sguardo sulle sue mani che sfioravano il mio braccio e, stregato dalla creatura le risposi: “Io per te fare qualsiasi cosa.” Sogghignò e mi disse “Bravo, ora dimostramelo!”. Tornai a casa con passo svelto e sicuro, spalancai silenziosamente la porta e mi avvicinai al letto, dove mia madre dormiva, con il viso rivolto alla foto di papà sul comodino. Sembrava quasi sorridere, mentre le piantavo il coltello tra lo sterno e le costole. La uccisi con una violenza innata e compiaciuta, e ricordo che ridevo forte. Ridevo, perché allora Laurine mi avrebbe amato; ridevo, perché finalmente papà avrebbe avuto la sua vendetta; ridevo perché ora la mamma, in qualche modo, era libera. Il suo cuore malato, ora, era nelle mie mani, esausto e senza vita: poteva scappare in alto nel cielo, senza più quel peso fastidioso del “maledetto mostro”. Corsi come un pazzo da lei, che ancora mi aspettava dalla betulla: le porsi il cuore di mia madre con orgoglio, in attesa di un suo apprezzamento per il gesto compiuto. Invece, ciò che ricevetti fu un unico e sprezzante: “Disgustoso, Fabrizio. Come puoi anche solo pensare che un orrore simile possa dimostrarmi il tuo cieco amore per me?”.

Mi sentii morire e per il primo istante percepii il magone e il dolore per ciò che avevo commesso: uccidere la propria madre, un gesto avventato ed orribile per cui mai e poi mai mi sarei dato pace. Piansi, piansi e piansi. Mi gettai tra le braccia del mio angelo che dandomi una carezza sulla testa mi sussurrò nell’orecchio con una voce affilata: “Se vuoi convincermi dell’amore che provi per me e soprattutto se vuoi espiare il tuo grave peccato, c’è solo una cosa che devi fare”. Esitò un istante guardando a terra, poi sorrise e mi ipnotizzò con le sue perle celesti: “Tagliati. Le. Vene.”

Gelo. Una scossa di ghiaccio percorse ogni mia vertebra, arrivando fino alla mia nuca. Le chiesi se fosse davvero quello che volesse, se desiderasse vedermi morire in quel bosco, col cuore ormai grigio di mia madre, poggiato poco lontano da noi sulla neve. Laurine mi spostò una ciocca di capelli dalla fronte, mi baciò e con un ghigno crudele, mi disse: “Si”.

Sono passati pochi minuti da quella risposta, arida e violenta, ma nella mia testa sono trascorse delle ore intere. Una cascata di fuoco sta colando tra i miei organi, sento l’adrenalina sulla punta delle dita, la gola secca, le guance umide di lacrime e le gocce di sudore che fanno a gara sul mio collo. Mi volto e vedo inerme il cuore di mamma, quel cuore su cui per tanti anni, da bambino, mi sono appoggiato per sentirne il lento pulsare che mi cullava. Prendo il coltellino svizzero dalla tasca in alto del cappotto, mi accarezzo il polso con la lama e osservo innamorato il primo fiotto di sangue che disegna una riga sulla mia pelle cadaverica. Sento dolore, ma almeno ora Laurine sa che l’amo. La guardo, tremando dalla paura e, invece di vederla pregarmi di smetterla, la trovo seduta sulla betulla che ride a crepapelle. Lei e la sua vanità gioiscono fredde accanto al ruscello, come un pezzo di ghiaccio. Il mio sangue bagna e scioglie la neve, sotto di me, le mani cambiano colore e la creatura si fa sempre più lontana e sfocata. Ora sa che la amo, ora sa che voglio lei e che per lei farei di tutto. Chiudo gli occhi e mi addormento sentendo il suono sinistro della sua risata leggera. Sono felice, sorrido, mamma e papà mi tendono la mano.

BIBILIOGRAFIA

  • À la recherche du temps perdu – Du coté de chez Swann di Marcel Proust (1906-1922).
  • Hamlet di William Shakespeare (1599-1601).
  • Canzoniere di Petrarca (1335-1374): Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; Pace non trovo, et non ó da far guerra.
  • Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André (1966).

[1] La data fa riferimento, nelle ultime due cifre, alla morte della celebre amata di Francesco Petrarca, Laura, avvenuta il 6 aprile del 1348 ad Avignone.

[2] Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust (1906-1922).

[3] Il nome si riferisce al personaggio di Claudius, amante di Gertrude, nella tragedia Hamlet di Shakespeare (1599-1601).

[4] Il termine bestia viene utilizzato nell’Hamlet di Shakespeare (1599-1601) per indicare la madre Gertrude, che non sembra aver realmente sofferto per la morte del primo marito.

[5] Si fa riferimento al primo verso del sonetto di Petrarca Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Canzoniere, 1335-1374), quando vengono descritti i capelli della donna amata.

[6] Queste ultime tre frasi (espresse all’indicativo presente, perché ancora sentite nel momento in cui vengono raccontate) riprendono i primi versi petrarcheschi del sonetto Pace non trovo, et non ó da far guerra (Canzoniere, 1335-1374).

[7] Si intende Laura de Noves, donna colta, amata e celebrata da Francesco Petrarca.

[8] Si fa nuovamente riferimento al sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Canzoniere, 1335-1374), nei versi in cui viene descritto il movimento e l’andatura dell’amata.

[9] Fabrizio come Fabrizio de André, che sarà protagonista dell’ultima parte del racconto.

[10] Questa prova d’amore, proposta da Laurine, fa un chiaro riferimento alla Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André del 1966

Antigona: La Madre Patria chiama!

Francesca Marino in questa riscrittura presenta il mito di Antigone nella Russia del primo dopoguerra.

Il lavoro è stato presentato nell’ambito del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa mia riscrittura ho voluto adattare il mito di Antigone in un periodo storico molto intenso. Ho voluto far emergere particolarmente il dolore provato dalla giovane protagonista divisa tra la libertà di amare i suoi fratelli e la tirannia di chi governava in quel momento”

*

Dialogo tra le sorelle Antigona e Ismiena.

Antigona
Basta! Basta! Per quanto ancora deve continuare questa tortura?
Qualche giorno fa eravamo sul corpo di nostro padre a versare le lacrime mentre sentivamo le nostre stesse urla e adesso ci ritroviamo di nuovo a dover sopportare tanto dolore…

Ismiena
Mia cara sorella purtroppo è questa la vita. Dobbiamo rassegnarci, la città di Volgograd è piena di disgraziati che da un momento all’altro potrebbero toglierti la vita a sangue freddo; è così, è questa la spietatezza, la rabbia e la disumanità che arriva con gli ordini da parte di Stalin.
Antigona mi raccomando stai attenta, ricordati chi è colui che dà gli ordini in questa città: Kreon. E’ un mostro e lo sai bene, anche se è nostro zio non si fermerà di fronte a nessuno, ucciderebbe anche la cosa più cara a lui.

Antigona
No! Ne ho abbastanza di queste sciocchezze.
Sorella io ti chiedo: perché i nostri fratelli sono stati ritenuti traditori? Solo perché hanno fatto sentire la loro voce? Perché hanno detto ciò che è giusto?
Non sono stati degnati neanche di una misera sepoltura, neanche un fosso ai piedi della collina. Tu li hai visti con i tuoi occhi, i loro corpi vicino al Volga, pronti ad essere trascinati via, senza alcuna dignità, dal fiume e dalle bestie.

Ismiena
Mia cara i nostri fratelli volevano solo andare via da questa città, trovare fortuna e realizzare i loro sogni ma ciò è ritenuto come un tradimento per la Patria e soprattutto per i Grandi che stanno al potere. Dunque adesso le nostre vite dovranno continuare anche senza di loro; sono sicura che troverai un uomo che ti sposerà con cui vivrai felicemente e non penserai più a tutto questo.

Antigona
Io non posso stare ferma a guardare.

Ismiena
Si che puoi, anzi, devi! Antigona basta seguire le leggi e andrà tutto bene; guarda che fine ha fatto nostro padre, guarda i nostri fratelli… vuoi lasciarmi da sola?

Antigona
Tu non capisci, io voglio rendere giustizia alla nostra famiglia, amo la mia patria ma… Non è giusto tutto questo.
Sorella se ami questa famiglia aiutami. Questa notte daremo degna sepoltura ai nostri fratelli che tanto ci hanno amato e difese fino all’ultimo dei loro giorni.

Ismiena
No sorella, io mi oppongo. Dobbiamo stare in silenzio, non fare niente, solo seguire le leggi emanate da Kreon, sai meglio di me che i corpi che vengono lasciati in riva al fiume devono rimanere lì e chiunque li tocchi farà la stessa fine.

Antigona
Sì, sono a conoscenza di questa legge, ma noi faremo tutto di notte, nessuna luce, solo quella della luna che risplenderà nei volti dei nostri amati fratelli.
Una sepoltura ai piedi della collina, dove un tempo ci riunivamo tutti insieme a leggere le pagine di Dostoevskij. Fallo con me, fallo, fallo, fallo!

Ismiena
Ora basta sorella, non lasciarti travolgere dall’irrazionalità, pensa prima di agire.

Antigona
Ho pensato abbastanza.

Intanto all’interno del Palazzo, il potente Kreon
stabilisce nuove leggi e impone la sua tirannia.

Kreon
Ora guardo la mia città, il mio popolo, sento il mio potere.
Adesso tutte le leggi emanate dovranno essere seguite e per nessun motivo devono presentarsi incongruenze o individui che non le rispettino. Esigo che entro il tramonto vengano appesi in tutta la città i cartelli con le leggi fondamentali; si fa come dico io altrimenti…la morte!
Sono arrivato fin qui grazie all’appoggio del grande Stalin a cui devo tutto, un grande uomo che darebbe la vita per la sua patria. Oh il nostro отец (padre)! Viva la Patria! Viva l’Urss!

Poche ore dopo…

Guardia
Kreon la informiamo che purtroppo tutte le guardie non sono riuscite a completare l’incarico dato da lei per la fine del tramonto. E’ colpa nostra.

Kreon
Incompetenti! Continuerete finché non avrete finito e se sarà necessario continuerete anche durante la notte. 
Ricordate di appendere nei dintorni del fiume una delle leggi fondamentali:

‘’любой, кто окажет честь и похоронит мертвого предателя, будет застрелен, а затем скормлен речным зверям’’

(‘’Chiunque darà dignità e sepoltura ai morti traditori verrà fucilato e successivamente dato in pasto alle bestie del fiume’’)

Durante la notte le guardie terminano l’incarico dato dal tiranno e Antigona attua la sua missione.

Antigona
Fratelli è questo che vi meritate, la dignità, la sepoltura, l’amore di una sorella.
E mentre scavo queste fosse penso a quanto sia ingiusto tutto questo; il silenzio che ormai trattenevo era così forte da spaccare la terra.
Giustizia! Giustizia! Giustizia!
Fratelli amati, nella fossa che ho scavato con le mie forze e le mie lacrime, terrete sempre accanto a voi la nostra citazione preferita di Dostoevskij:

‘’La gente spesso parla di crudeltà “bestiale” dell’uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e creativa.’’ [ i fratelli Karamazov].

Strano modo di morire vero? E’ quasi emozionante come la citazione più significativa per noi alla fine rispecchi tutto quello che stiamo vivendo.
Ultimo addio ai piedi della collina, tornerò qui quando i fiori che ho piantato sbocceranno e mi ricorderanno di voi. Ci incontreremo in весна (primavera).

Qualche istante dopo…

Guardia
Giovane donna lei è sporca di terra e oserei anche dire macchiata di peccato! Dovrà dare spiegazioni a Kreon.

Antigona
Non devo dare nessuna spiegazione! Lasciatemi libera!

La guardia porta Antigona davanti al giudizio di Kreon.

Guardia
Signore durante la notte ho scovato una giovane fanciulla ai piedi della collina Mamaev Kurgan sporca di terra, oserei dire che stesse seppellendo qualche suo caro.

Kreon
Guardia silenzio!

Antigona
E’ vero, ha ragione questa misera guardia. Ho seppellito i miei fratelli, sì quelli che lei chiama traditori solo perchè speranzosi in un differente futuro, quelli con cui condividete il sangue.

Kreon
Sciocca! Come osi dire una cosa del genere, io non sono come voi bestie traditrici.

Antigona
Sicuramente le bestie hanno meno crudeltà di lei.
Io e i miei fratelli siamo i Nikitin, nostro padre era Idip; le sembra familiare questo nome? Ebbene sì, le sto parlando proprio di suo fratello.

Kreon
Tu sei pazza! Guardie portate subito questa ciarlatana nelle stanze sotterranee, più tardi vedrò cosa farne.

La mattina seguente il giornale della città annuncia
l’imminente esecuzione pubblica di una giovane donna.

Ismiena
No! Non può essere lei, non può averlo fatto veramente; sciocca che sono io, dovevo fermarla, è colpa mia, non ho fatto niente, sono stata immobile…

Durante la notte precedente avviene però un fatto.

Antigona
Luna come sei bella, forse è l’ultima volta che ci vedremo da così lontane, forse presto ti raggiungerò.
Luna come sei bella, proprio come quei fiori che in primavera sbocceranno ma che io non vedrò mai; splendi di una luce non tua, fai di tutto per illuminare. Anch’ io ho fatto di tutto per i miei fratelli e per la giustizia, ah quanta giustizia brucia nel mio sangue.
Mia luna fa brillare la mia città, i suoi giardini, le sue case , le sue strade, le sue persone e le sue piante; fa sì che tutti si ricordino di me, anche se ho compiuto un gesto apparentemente sbagliato, ricorda a tutti che ogni persona ha una dignità e ha bisogno di essere ricordata.
Luna brilla sul mio giovane corpo e indica a mia sorella Ismiena il luogo di sepoltura.
Addio mia amata Volgograd ora sarò al fianco della luna.

La mattina le guardie vanno nelle celle da Antigona per portarla da Kreon.

Guardia:

Signore! Signore! La ragazza è morta, c’è sangue ovunque!

Kreon:

Siete sicuri?

Guardia:

Sì, è stato trovato un proiettile.

Kreon:

Sicuri che fosse suo? E’ veramente ferita o è una messa in scena?

Guardia
No Signore, la giovane riporta una ferita profonda al cuore.
E’ stata trovata una lettera accanto a lei su cui c’era scritto: ‘‘L’irrazionalità e l’amore mi hanno portata fino a qua, adesso metterò fine a tutto ma solo tramite la mia stessa mano, colei che mi renderà degna’’.

Kreon
Guardie…seppellite il suo corpo.

Bibliografia:

– Codovini Giovanni, Desideri Antonio, Storia e storiografia; dalla Belle epoqué a oggi.

– Dostoevskij Fedor, I fratelli Karamazov.

– Sofocle, Antigone .

Cieco sentimento

In questa composizione, Ambra Ceraldi racconta la storia d’amore tra Pierre de Ronsard e Cassandra Salviati, nata tra gli scaffali di una libreria di Blois di metà XX secolo, nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

Attraverso questa riscrittura ho avuto la possibilità di riscrivere il destino della coppia formata da Pierre de Ronsard e Cassandra Salviati: e se il rifiuto della donna derivasse da un’oscura profezia che minaccia la serenità dei due?

*

PREMESSA

Il racconto descrive il primo incontro tra Pierre de Ronsard e Cassandre Salviati, avvenuto nel XX secolo in una libreria di Blois. La donna, però, non è solo oggetto dell’amore del poeta francese, ma mantiene anche le caratteristiche di un noto personaggio mitologico: la profetessa Cassandra, della quale narrano Omero e Virgilio. Il rifiuto di Cassandre nei confronti di De Ronsard è qui legato ad un’oscura profezia che riprende la tragica storia di Edipo Re.

*

Vagava distratto tra le vie di Blois. Come ogni domenica pomeriggio, Pierre assaporava il suo pain au chocolat ancora caldo mentre pensava agli impegni della settimana successiva: documenti da catalogare, parenti a cui far visita, visite mediche che dovevano essere prenotate mesi in anticipo… programmava in maniera puntuale ogni singolo impegno mantenendo lo sguardo fisso di fronte a sé. Tutto, nella sua vita, era pianificato nei minimi dettagli, proprio come la passeggiata lungo Rue Anne de Bretagne che, da anni, rappresentava il momento conclusivo della sua settimana. Visitava il museo di Storia Naturale, lasciava qualche moneta al primo senzatetto che incontrava lungo il cammino e, infine, cercava classici che potessero arricchire la sua collezione nella libreria di Rue Saint-Lubin; era abituato a sfogliare solo le pagine dei volumi già in suo possesso per mantenere il brivido della sorpresa di quelli che, di lì a poco, avrebbe acquistato e poi letto sulla sua comoda poltrona.

Scriveva recensioni per un rinomato giornale letterario e sosteneva fortemente che comprare libri fosse parte del suo lavoro, ignorando l’esistenza delle biblioteche. Aveva un segreto che non avrebbe mai rivelato a nessuno: se scriveva una poesia della quale si sentiva particolarmente orgoglioso, decideva di pubblicarla in anonimato sul periodico seguita da un giudizio positivo scritto di suo pugno, rigorosamente firmato. P. De Ronsard, uno dei più grandi critici letterari del paese, era, paradossalmente, un poeta timoroso della disapprovazione altrui.

Confortato dalla familiarità degli scaffali e dei volti che lo circondavano, scelse con cura i due libri che avrebbe portato a casa con sé, prima di appoggiarli sul bancone ed estrarre dal portafoglio i soldi necessari a pagarli. Fu proprio in quel momento, mentre alzava lo sguardo dalla banconota per posare gli occhi sul vecchio e caro libraio Bernard, che incontrò la donna che avrebbe interrotto per sempre la monotonia delle sue giornate: Cassandre.

I capelli biondi e voluminosi sembravano essere baciati dal sole nonostante le nuvole e il petricore; le ciocche incorniciavano il volto chiaro in maniera così armoniosa che, per un solo secondo, Pierre pensò che Dio avesse voluto creare un individuo a immagine e somiglianza degli angeli solo per dare un assaggio agli uomini delle innumerevoli creature celestiali che avrebbero incontrato in Paradiso. Presto, però, gli occhi della giovane avevano smentito la sua teoria: neri pece, scuri come una notte priva di stelle o come il sonno senza sogni, la allontanavano dalle classica immagine dei messaggeri dagli occhi blu. Quello sguardo lo aveva catturato e disarmato a tal punto che tutto intorno a lui iniziò a perdere colore, forma e profondità, lasciando i due soli in mezzo agli altri o, almeno, così gli sembrava.

Infatti, soli non lo erano per niente e fu proprio il richiamo spazientito del cliente dietro di lui che lo riportò, improvvisamente, alla realtà.

“Per questi due libri sono cinque franchi”. La voce più soave che abbia mai sentito, pensava, incantato ad ammirare la bocca rosea che si incurvava in un sorriso di cortesia. Mentre porgeva i soldi direttamente nelle sue mani, pregava che il contatto durasse un istante in più di ciò che il galateo considera appropriato, che il tempo potesse fermarsi per permettergli di assaporare il momento con meno fretta.

“Qui c’è il resto, grazie per aver acquistato da noi”. Ogni parola sembrava essere il principio di una singolare melodia che Pierre avrebbe voluto ascoltare per l’eternità; fu proprio la necessità di udire ancora la sua voce a infondere coraggio all’ormai precoce  innamorato.

“La ringrazio. Bernard non c’è?”.

“Mio padre? Mi ha chiesto di sostituirlo per qualche ora, se vuole aspettarlo sarà di ritorno a breve. Si sieda pure qui”. Indicò una sedia in vimini poco lontana da lei.

La gioia di aver trovato facilmente una scusa per rimanerle accanto fu velocemente accompagnata da una sensazione di amarezza per non avere abbastanza tempo a disposizione, nonostante si chiedesse di quante ore, giorni, mesi avrebbe avuto bisogno per sentirsi pienamente soddisfatto.

Una volta seduto, attese impaziente il momento adatto per avviare una conversazione; desiderava ardentemente conoscere il nome della donna dagli occhi misteriosi e cupi che gli avevano rubato il cuore in pochi attimi. Aspettò che venisse servito l’ultimo cliente prima di chiederle informazioni sul padre, su qualche libro esposto in vetrina e, soprattutto, su di lei.

Si chiama Cassandre, continuava a ripetersi tra sé e sé. Cassandre, Cassandre, Cassandre; avrebbe voluto pronunciarlo più volte ad alta voce per confermarne la poeticità ma, per ora, si accontentava di aver impresso nella memoria il modo sensuale in cui le sue labbra si muovevano per articolare il nome.

Quando Bernard tornò, fuori era buio e la pioggia aveva rinfrescato l’aria; i due parlavano da ore, complici come solo gli innamorati possono esserlo. Ancora non lo sapevano, ma avevano appena concluso, tra una risata e un’altra, il primo di quelli che sarebbero diventati incontri abituali.

Dopo quella sera, infatti, Pierre passava a trovarla durante la pausa pranzo o appena uscito dall’ufficio; la ragazza selezionava per lui alcuni libri che avrebbe voluto commentare insieme, finché, in poco tempo, gli appuntamenti non si spostarono fuori dalla libreria. Passeggiavano mano nella mano in vicoli che nessuno dei due aveva mai visitato e passavano le domeniche pomeriggio stesi sul prato abbracciati. L’uomo sentiva di aver ormai abbandonato la prevedibilità che caratterizzava le sue giornate, trovando in Cassandre una musa ispiratrice per le poesie che tanto voleva tenere nascoste al pubblico francese. I versi portavano tutti il suo nome:

Nature ornant Cassandre, qui devoit
De sa douceur forcer les plus rebelles,
La composa de cent beautez nouvelles,
Que dès mille ans en espargne elle avoit…¹

Ma come fa presto l’amore a svanire, quando colui che ne scrive non trova più luce negli occhi di chi lo ispirava. Così, come la scintilla dell’intesa li aveva presto legati, ora essa sembrava pronta a spegnersi da un momento all’altro senza alcuna spiegazione.

Cassandre appariva più distante e silenziosa; non riusciva ad incrociare lo sguardo di Pierre neanche per pochi minuti che subito il volto mostrava un’espressione sconsolata.

“Non possiamo più vederci”. Furono le ultime parole che gli rivolse prima di allontanarsi con il viso rigato di lacrime. La donna che aspettava da anni, sua musa, amica e amante; gli pareva, quasi, che il mondo se la fosse inghiottita, che la loro storia fosse stata il frutto di un’immaginazione derisoria.

Passava le giornate a interrogarsi sulle ragioni che l’avevano portata al disinnamoramento senza spiegazione alcuna. C’era un episodio, di poco spessore, forse irrilevante agli occhi degli altri, che tornava continuamente alla mente dell’uomo come i motivetti delle pubblicità televisive; sdraiati sul prato, in silenzio, di domenica pomeriggio, Pierre celebrava la bellezza di Cassandre tra le pagine del suo taccuino. Ne descriveva la bocca come un ricco giardino colorato e gli occhi come causa del suo batticuore.² Cullato dalla tranquillità del tocco della donna sulla schiena e dal profondo sentimento che covava per lei, sentiva di poter finalmente dar voce alle sue poesie, di poter condividere con l’amata i versi che ne esaltavano la bellezza. Ma le sue rime non sembravano averla ammaliata: lo sguardo era più cupo parola dopo parola, le mani giacevano ora sul grembo e non cercavano più il contatto con il corpo del poeta. L’amore della donna appariva essersi esaurito in un solo colpo, come se i suoi sentimenti fossero stati forniti di batterie che ora non riuscivano più ad essere caricate.

Pierre non riusciva ad eliminare dalla testa l’angosciante pensiero che la donna si fosse allontanata da lui perché ne aveva sopravvalutato il valore intellettuale fino alla lettura delle sue poesie. Si rimproverava per aver pensato, anche solo per poco, che i suoi versi potessero lusingare l’amata; probabilmente, invece, avevano solo contribuito a farla riflettere su quanto i due fossero diversi: lei, brillante e seducente, lui, soporifero e insignificante.

Ovviamente, si trattava solo di una supposizione, di un pensiero ossessivo che doveva, però, necessariamente trovare risposta nelle parole di Cassandre. Per ritrovare la tranquillità doveva far luce sull’enigmatica separazione. Passò le settimane successive ad aspettarla in libreria, chiedendo, di tanto in tanto, a Bernard di rivelargli dove si trovasse la figlia; una sera, arreso all’idea di non vederla mai più, ecco che se la ritrovò davanti agli occhi più incantevole che mai.

“Non crederai mai a quello che ti dirò, anche se non potrei mai essere più sincera di quel che sono in questo momento”. Furono le prime parole pronunciate da Cassandre dopo le suppliche di chiarimento pervenute dall’uomo. Proseguì, poi, parlando di un dono, di una dote che la contraddistingueva fin da piccola e che non sembrava aver mai prodotto risultati positivi: il potere della profezia.

“Quando hai letto quei versi, non sapevo come reagire. Ero poco più che una bambina quando papà mi rivelò che le donne della mia famiglia erano accomunate dalla capacità di prevedere il futuro. La prima visione avvenne a dieci anni mentre leggevo un libro: il protagonista stava affrontando il lutto di una persona a lui cara e io vidi chiaramente come sarebbe avvenuta la morte di mia nonna e come si sarebbe svolto il funerale; a tredici anni lessi una lettera d’amore che un compagnetto di scuola mi aveva dedicato e nella mente mi apparvero le immagini del suo matrimonio con un’altra donna. Ciò che leggo, o che viene letto per me, si trasforma in un preciso ritratto di cosa ci riserverà il futuro e la tua poesia non prevedeva per noi un lieto fine”. Si era allontanata per amore. Aveva preferito soffrire per evitare ciò che il destino aveva in riservo per gli innamorati: Pierre sarebbe morto per mano di Cassandre. Lo aveva visualizzato in maniera così precisa che l’era sembrato di essere seduta al cinema davanti a uno schermo ad alta risoluzione. Il fato non voleva risparmiare due anime che si erano scelte per caso, interrompendo tragicamente qualsiasi principio di felicità che i due iniziavano genuinamente a provare.

Com’è terribile conoscere, quando conoscere non giova a chi sa.³ Se la profetessa lo sapeva bene, Pierre, invece, non riusciva ad accettare la verità confessata dalla donna. Cercava spiegazioni più razionali e, anzi, sentiva emergere dentro di sé un profondo senso di umiliazione, come se avesse d’un tratto realizzato di aver condiviso il proprio tempo con una persona che non riconosceva più: come poteva Cassandre riuscire a mentirgli guardandolo negli occhi? Forse non aveva mai avuto modo di conoscerla davvero a fondo, troppo ipnotizzato dal suo aspetto di angelo dalle pupille nere. Capiva, finalmente, perché per lei era stato facile abbandonarlo in poco tempo: dal loro primo incontro, non era mai stata sincera; per quanto si sforzasse di ricordare gli aspetti della donna che lo avevano sedotto, la mente rimaneva vuota, colorandosi di rosso rancore e accusandola di stregoneria: Cassandre lo aveva conquistato indossando la maschera di una ragazza che non era; fingere era la sua professione e, stanca di lui e pronta a mietere nuove vittime sul suo cammino, era ricorsa ad altre menzogne per giustificare il suo rifiuto. Aveva, insomma, masticato e poi sputato l’animo dell’uomo, riducendolo al fantasma di se stesso.

Dimenticarne i pregi era stato semplice, dimenticare lei lo era meno. Pensare di non pensarla era diventata l’attività preferita di Pierre che, ormai, aveva ricominciato a pianificare le giornate secondo un calendario che non gli permetteva di riposare e fermarsi a riflettere o ad affliggersi. Non tollerava il mal d’amore e ancora meno sopportava di essere l’unico, tra i due, a disperarsi.

Dopo le lunghe giornate di lavoro, trovava appagamento solo al Bar Fleur de Loire, dall’altra parte del fiume; la testa sembrava diventare più leggera ad ogni sorso, fino a quando i bicchieri vuoti sul bancone non diventavano due, quattro, sei – la diplopia da alcolici gli faceva pensare di essere riuscito a berne addirittura dodici -. Sembrava l’unico modo per smettere di sentire il nome di Cassandre ripetuto nella testa. Solitamente, la nottata si concludeva con un breve riposo sulle poltrone del locale, le minacce del proprietario che gli intimava di tornare a casa perché doveva abbassare le serrande, una camminata fino a casa, una doccia e una camminata fino all’ufficio; e così da capo. Se si fermava a pensare a quanto fosse cambiata la sua vita dall’incontro con la donna dai capelli biondi, rideva al pensiero di essere rimasto quello di sempre anche dopo essere stato svuotato della sua energia: era intrappolato, nuovamente, in una routine.

A Blois gira ancora voce che quando ha esalato l’ultimo respiro, abbia urlato il nome di Cassandre. Lo ritrovarono alcuni mercanti che avrebbero montato le bancarelle in Place du Château di lì a poco; erano le sei del mattino di una domenica d’inverno. La causa della morte fu assideramento: camminando dal bar verso casa, il sonno non gli permise di aspettare di giungere in un posto caldo prima di chiudere gli occhi e si addormentò appoggiato a un albero, sotto la neve. La lapide lo ricordava ancora come il più grande critico francese del Ventesimo secolo; non avrebbe mai più potuto trovare il coraggio per pubblicare le sue poesie firmate e farsi acclamare come Principe dei poeti, un titolo che sognava di ricevere entro la vecchiaia. L’amore era stato la sua rivincita e la sua condanna. Era morto per mano di Cassandre, come affermava la profezia; le dedicò il suo ultimo respiro: forse per dichiararla colpevole, forse per ammettere a se stesso che la donna non gli aveva mai mentito.

L’amata non partecipò al funerale. Sapeva che le immagini che le si sarebbero proposte davanti agli occhi sarebbero state un déjà vu di quello che, poco meno di un anno prima, aveva visto proiettato davanti a sé in maniera nitida. Aveva continuato a cercare, tra i suoi pretendenti, il volto di Pierre, sperando di poter essere la musa di altre poesie così profonde e impregnate d’amore; ma non era successo. La rincuorava solo la consapevolezza di averlo salvato allontanandosi da lui, convinzione che si era rivelata errata. Se, infatti, è vero che il destino può essere predetto, è altrettanto vero che esso non può essere cambiato, come hanno dimostrato i vani tentativi di coloro che hanno provato a rifiutarlo.

Due giorni dopo, Cassandre si accecò con la fibbia di una cintura trovata nell’armadio; nulla ormai poteva più essere dolce vedere.⁴ Le visioni, forse, non si sarebbero più presentate, o, perlomeno, non si sarebbero più confuse con la vita reale. Imparò a non sfidare il fato, ad abbracciare le sue scelte e a non rivelarle ad altri; ma non si innamorò mai più e dedicò la sua vita ad aiutare i senzatetto, cosicché a Blois nessuno più morisse per ipotermia. Le domeniche pomeriggio erano, invece, interamente dedicate alla libreria.

I due innamorati rimasero vittima di un destino inevitabile che gridava al dolore e alla tragedia, intrappolati nelle conseguenze di una profezia che portava il loro nome.

È un peccato che, ormai cieca, Cassandre non poté mai leggere il libro che Pierre aveva scritto per lei; Amours de Cassandre giaceva ammuffito in un vecchio cassetto messo all’asta e mai comprato. La giovinezza della donna sarà celebrata per l’eternità dai versi che il poeta le dedicò quando, spensierati, passeggiavano mano nella mano; come ha deciso il fato, fra qualche anno l’umidità scolorirà le parole e la carta perderà spessore. Ma l’intensità del sentimento troverà sempre il modo di riempire le pareti di una stanza quando il taccuino verrà aperto o quando Cassandre inizierà a raccontare: “Vagava distratto tra le vie di Blois. Come ogni domenica pomeriggio…“.

NOTE

  1. Premier livre des amours. Amours de Cassandre di Pierre de Ronsard (1560), Sonetto II.

(La natura Cassandra ornando

che con la sua dolcezza i più ribelli doma

di infinite bellezze novelle ricrea

che da mille anni aveva risparmiato…)

  1. Premier livre des amours. Amours de Cassandre di Pierre de Ronsard (1560), Sonetto VI, Ces liens d’or, cette bouche vermeille
  1. Edipo Re di Sofocle (430-420 a.C.), vv. 316-317.
  1. Edipo Re di Sofocle (430-420 a.C.), vv. 1251-1279.

BIBLIOGRAFIA

  • Il mito di Cassandra: Omero, Iliade; Omero, Odissea; Virgilio, Eneide; Euripide, Le Troiane.
  • Edipo Re di Sofocle (430-420 a.C.)
  • Premier livre des amours. Amours de Cassandre di Pierre de Ronsard (1560)

Il manoscritto perduto, alla scoperta di Ronsard

Nella seguente riscrittura viene riportato uno scambio epistolare e un articolo immaginari a seguito di una scoperta straordinaria. Il lavoro è stato presentato da Francesco Fornaseri per il corso di Letterature comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare(Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Nella seguente riscrittura ho cercato di fornire lo scenario verosimile dell’ipotetico ritrovamento di un manoscritto originale del poeta Pierre de Ronsard. La scoperta viene fatta in un paese della Francia in cui visse l’autore e il ritrovamento coincide con l’anniversario dei cinquecento anni dalla sua nascita.”

*

Caro Jacques,

Spero che questa lettera ti trovi in buona salute e serenità. Ti scrivo con una notizia che potrebbe suscitare il tuo interesse, considerando la tua passione per l’archeologia e la ricerca di reperti antichi che raccontano storie dimenticate. 

Mi trovavo, secondo la mia routine quotidiana, nella parrocchia della chiesa a cui sono stato ultimamente assegnato (La Madaleine, qui a Vendôme) a sistemare la vecchia cantina quando ho fatto una scoperta che potrebbe essere di interesse per te e per la tua fervida curiosità verso il passato.

Tra i vecchi scaffali polverosi e oggetti dimenticati da anni, ho trovato un reperto che sembra essere un antico manoscritto o, per meglio dire, un frammento di uno. È stato un ritrovamento inaspettato, un pezzo di storia che sembrava attendere pazientemente di essere scoperto.

Mi ha colpito particolarmente la sua natura fragile e il modo in cui le parole scritte con cura su pergamena sono sopravvissute al passare dei secoli. Non sono un esperto in materia, ma sembra trattarsi di un testo molto antico, forse risalente a diversi secoli fa.

Le righe scritte con inchiostro sbiadito sembrano raffigurare un antico canto o una poesia. È possibile che possa trattarsi di una qualche composizione religiosa, dato il contesto in cui è stato trovato, ma non posso escludere altre possibilità.

Riesco a leggere solamente alcune parole che mi riconducono però a tutt’altro contesto: rais, Amour, les yeux de ** dame e Archer (che si ripete due volte).

Riconosco che il mio interesse per questo ritrovamento è nato anche dal desiderio di capire meglio la storia della nostra chiesa e della comunità che l’ha preceduta. Ecco perché ho pensato a te, sapendo quanto tu sia appassionato nell’esplorare il passato attraverso reperti simili e quanto il tuo lavoro lo preveda.

Se ritieni che possa essere di interesse per i tuoi studi o se hai qualche collega che potrebbe offrire ulteriori informazioni o analisi su questo frammento, sarei più che felice di condividerlo con te per ulteriori esami.

Attendo con ansia la tua risposta e la tua opinione su questa scoperta. Spero che possa rappresentare un nuovo capitolo nella comprensione della nostra storia locale.

Con stima e cordialità,

tuo amico e parroco di Vendôme, Francois.                                                                                11 settembre 2024

Caro amico,

La tua lettera è stata una piacevole sorpresa. Sono entusiasta all’idea di poter esaminare personalmente questo affascinante reperto che hai scoperto nella cantina della chiesa. La storia nascosta dietro questi antichi manoscritti è sempre stata fonte di grande fascino per me.

Ti avverto, potresti avere tra le mani un oggetto di grande rilevanza: data la tematica amorosa potrebbe essere una poesia di un importante autore del 1500 o 1600 francese come Marot, Pierre de Ronsard o Pontus de Tyard!

Sto facendo il possibile per raggiungerti al più presto possibile. Ho già preso le misure necessarie per organizzare il mio viaggio e non vedo l’ora di gettare uno sguardo su quel frammento di storia.

Ti terrò aggiornato sui dettagli del mio viaggio e ti garantisco che arriverò non appena possibile. Grazie ancora per questa straordinaria opportunità.

Con sincera amicizia,

Jacques.                                                                                                                                       19 settembre 2024

Le Figaro                                                   25/09/24             

Un sonetto inedito di Pierre de Ronsard ritrovato da un prete in una chiesa a Vendôme

Di Antoine Matuidi

Vendôme, Francia – Un’emozionante scoperta ha lasciato sbalorditi gli studiosi e gli appassionati di poesia: il manoscritto originale di un celebre sonetto attribuito al celebre poeta rinascimentale francese Pierre de Ronsard è stato ritrovato in una chiesa qui dal prete della parrocchia di Vendôme.

Il reverendo Francois Clauss, responsabile della chiesa locale del piccolo paese di Vendôme, ha fatto questa straordinaria scoperta durante una recente opera di restauro all’interno della struttura religiosa. Mentre esaminava una vecchia cassa di libri e manoscritti dimenticati, ha trovato un antico manoscritto che sembrava risalire a secoli addietro.

All’interno di questo volume, tra pagine ingiallite e polvere accumulata nel corso del tempo, giaceva un frammento di pergamena contenente ciò che sembrava essere un sonetto inedito di Pierre de Ronsard. L’opera è stata riconosciuta come il celebre sonetto III dell’opera Les Amours dell’autore rinascimentale.

Il reverendo Clauss, sorpreso e al contempo emozionato dalla scoperta, ha espresso la sua gratitudine allo storico e amico Jacques Digne, che ha permesso il riconoscimento del sonetto.

Il sonetto riflette la struggente dualità di essere affascinati dalla dolcezza e dalla passione dell’amore, pur subendo la sofferenza e la struggente bellezza di esso. Riprende a pieno il modello petrarchesco molto diffuso all’epoca.

Così recita la poesia:

Entre les rais de sa jumelle flame
Je veis Amour qui son arc desbandoit,
Et dans mon cœur le brandon espandoit,
Qui des plus froids les mouelles enflame:
     

    Puis en deux partes près les yeux de ma Dame
Couvert de fleurs un reth d’or me tendoit,
Qui tout doré blondement descendoit
A flots crespu sur sa face pendoit             
    

     Qu’eussaé-je fait ? L’Archer estoit si doux,
Si doux son feu, si doux l’or de ses nouds,
Qu’en leurs filets encore je m’oublie.
     

      Mais cest oubly ne me travaille point,
Tant doucement le doux Archer me poingt,
Le feu me brusle, et l’or crespe me lie.

Pare infatti che il poeta, dopo i successi alla corte francese di Enrico II, Francesco II e Carlo IX, per via dei crescenti problemi di salute da cui era affetto, scelse di passare i suoi ultimi anni di vita lontano dai fasti di palazzo, soggiornando nella sua casa a Vendôme.

“Il potere e la bellezza della poesia possono sorprendere in modi inaspettati. Ritrovare un manoscritto originale di un maestro come Pierre de Ronsard in un luogo così sacro è un evento che mi ha lasciato senza parole”, ha commentato Digne.

La notizia di questo ritrovamento ha già suscitato grande interesse tra gli accademici, gli amanti della letteratura e gli storici, e molti si attendono con impazienza ulteriori analisi e studi approfonditi per datare esattamente il manoscritto.

Si dà il caso che la scoperta di questo sonetto di Ronsard sia avvenuta esattamente 500 anni dopo la nascita dell’autore (11 settembre). Il ritrovamento rappresenta un momento che offre una nuova prospettiva per apprezzare e comprendere ancora di più il genio poetico di uno dei grandi maestri della letteratura francese.

Bibliografia:

Pierre de Ronsard, éd. critique par Paul Laumonier, Paris, Didier, 1935. Ed. it di rif. Amori, a cura di C. Greppi, Milano, Mondadori, 1990. Wikipedia Pierre de Ronsard: https://it.wikipedia.org/wiki/Pierre_de_Ronsard

Pagliaccio non son

Carlotta Petruccioli dopo essersi laureata al Conservatorio di Torino, aver fatto parte del Coro di Voci Bianche del Teatro Regio di Torino per più di dieci anni e aver partecipato a centinaia di rappresentazioni ha sviluppato una grande passione, al limite dell’ossessione, in realtà, per l’opera lirica e per la musica in generale. Avendo la possibilità di rileggere a fondo l’Hamlet di Shakespeare e di stenderne una riscrittura, non ha resistito e ha scelto di coniugare le sue due passioni (quella musicale e quella letteraria) in quella che vuole essere una nuova interpretazione della tragedia shakespeariana alla luce dell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.

Il lavoro è stato presentato nell’ambito del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Recitar! Mentre preso dal delirio| non so più quel che dico e quel che faccio!| Eppur è d’uopo…sforzati!| Bah! sei tu forse un uom?| Tu se’ Pagliaccio! (Canio, Atto I, Scena IV, n. 12a – Recitativo)”

*

Ogni cosa, nella vita, è accompagnata dal suono. Movimenti, respiri e pensieri sono accompagnati da suoni. I colori hanno un suono, i sapori anche.

Ogni cosa, nella vita, è accompagnata dal suono. È per questo che, quando l’illuminazione arrivò, era più che naturale che fosse portata ad Amleto da un suono. Se era stato il suono di un frutto caduto a far scendere i primi uomini dagli alberi, perché mai non avrebbe dovuto essere sempre un suono a spalancare gli occhi e la mente di un giovane, ricco e tormentato uomo di fine Ottocento?

Amleto aveva seguito di nascosto le prove per parecchi giorni. Aveva potuto vedere come l’uomo con i baffi più all’insù che avesse mai visto si fosse barcamenato tra cantanti e musicisti, sempre cercando di soddisfare tutti ed evitare di mandare all’aria la possibilità di mettere in scena la propria creazione.

Amleto, in realtà, tra le seggiole in velluto rosso si sentiva a casa. Ci era cresciuto, correndo, bambino, sul parquet lucidato da migliaia di eleganti passi di dame e gentiluomini. Eppure, ora si doveva nascondere, in casa propria, da chi gli aveva portato via tutto. Claudio, lo zio che una volta lo accompagnava a comprare mandorle caramellate da sgranocchiare assistendo alla magia dell’Opera, ora era diventato il suo incubo. Si sentiva solo, abbandonato da quelle che erano state le figure cardine della propria infanzia. Non che biasimasse il padre, naturalmente. Un tempo sì. Il pensiero aveva sfiorato la sua mente più volte, mentre le sue dita accarezzavano i pesanti tessuti di costumi di scena nello sgabuzzino della sartoria, costumi lasciati ad accumulare polvere. Forse il padre lo aveva abbandonato proprio come erano stati abbandonati l’abito di organza che sussurrava sensuali notturni al primo tocco e la marsina di velluto damascato che profumava di serenate e allemande. Questo prima che sentisse i muri del teatro ripetere un pettegolezzo: sembrava che il padrone, quello precedente, fosse stato ucciso. Da chi? Ovviamente da quello nuovo, il fratello, che dalla sua morte aveva guadagnato una sposa e una posizione.

E così Amleto si era trovato a odiare lo zio, a odiare la madre per non aver respinto le sue avances, a evitare gli amici. Si era rintanato nel teatro, quello che avrebbe dovuto essere suo, ma che suo non era più. Per questo aveva spiato la nuova opera da lontano, cogliendone qualche spezzone qui e qualche battuta là, talvolta senza scena, all’italiana, e talvolta con i cantanti vestiti metà con gli abiti preparati dalla sartoria e metà con i propri, con gli oggetti di scena ancora raffazzonati, in attesa di direttive definitive.

Non si era ancora fatto un’idea di questo nuovo titolo verista. I corridoi dei palchi, anzi no, erano stati quelli del foyer, gli avevano sussurrato che la trama si basava su un episodio vissuto in gioventù dal compositore. Amleto si era sentito vicino all’uomo baffuto: forse il mondo aveva lo stesso suono per loro. O forse no, forse i suoni erano tanti e tutti diversi, forse per questo Amleto non riusciva ad agire, mentre Ruggero ora stava per mettere in scena quello che, le seggiole del loggione ne erano sicure, sarebbe stato un successo. Forse Amleto non aveva ancora sentito il suono giusto, forse il mondo non aveva ancora vibrato alla frequenza perfetta.

Una sera, finalmente, Amleto poté vedere l’opera nella sua interezza. Questa volta non dovette nemmeno nascondersi, anzi. Lo zio, con il sorriso che una volta sembrava elegantemente disinteressato e ora appariva freddo e cinico, lo aveva invitato nel palco di famiglia, quello che sarebbe dovuto appartenere di diritto ad Amleto e per il quale, invece, ora aveva bisogno di un invito formale. La madre si era presentata ingioiellata, bella come sempre, ma Amleto non aveva potuto fare altro che osservare con disgusto la mano dello zio accarezzarle la spalla, spostando uno dei riccioli elegantemente acconciati che sfiorava il collo della donna. Amleto non riuscì a frenare la propria immaginazione, a impedirle di proiettare immagini oscene e suoni raccapriccianti, sovrapponendo i volti che ora, sorridenti, venivano accarezzati dalle luci soffuse della sala, alle immagini viste nei bordelli quando, con gli amici, aveva avuto le sue prime esperienze di uomo.

Amleto riconobbe subito il baritono, non appena si presentò sul palco. Non ne ricordava il nome. Una cosa colpì il giovane appoggiato alla balconata e leggermente sporto in avanti, come per non perdere nemmeno una sillaba: il cantante, vestito con un costume da commedia dell’arte, chiedeva al pubblico di tenere conto del fatto che quelle sulla scena fossero persone vere e proprie, non personaggi bidimensionali. Amleto sapeva che la vicenda aveva come protagonisti degli attori itineranti e si chiese se a parlare fosse il cantante, di cui non ricordava il nome, o Tonio, l’attore, o ancora Taddeo, lo storpio, lo scemo della commedia. Alla realtà, all’uomo che aveva visto trangugiare bestialmente i bicchieri d’acqua offerti dal personale del teatro durante le prove e che aveva visto sputare sul palco nonostante gli fosse stato chiesto più volte di non farlo, si aggiungevano non uno, ma ben due strati di finzione. Due maschere. Amleto si chiese quante ne indossasse lui, quante il pubblico. All’improvviso ne percepì il peso sul volto, ne avverti l’odore, ne senti quasi lo scricchiolio. Quando Canio, nonostante il cuore spezzato, ricordò a sé stesso di sorridere, di recitare, di non essere un uomo, ma Pagliaccio…Amleto sussultò. Lui non poteva essere un pagliaccio, non poteva sorridere davanti all’orrore e all’ingiustizia che ogni mattina, appena sveglio, gli si paravano davanti agli occhi. Non poteva vestire la giubba, infarinare la faccia e far ridere il pubblico.

Ma il suono giusto, la frequenza che portò la mente di Amleto a congegnare, per la prima volta, un vero e proprio piano per vendicare il padre e sé stesso, fu il rumore lacerante dello squarcio aperto da Canio nel velo tra finta realtà e vera finzione. L’urlo di dolore, la disperata richiesta di riconoscimento rivolta alla moglie.

«No, Pagliaccio non son; se il viso è pallido, è di vergogna e smania di vendetta!».

Canio aveva detto: “Il teatro e la vita non son la stessa cosa”, eppure ora il suo dolore dimostrava il contrario.

Amleto non poté far altro che perdersi nei propri pensieri. Era stato il teatro a rendere veramente consapevole Canio del tradimento della moglie. Era stata la finzione, quella vera in quanto esplicita, quella in cui vivevano Pagliaccio e Colombina, a portare la verità nel mondo della finta realtà, il mondo di Canio e Nedda. Amleto doveva seguire lo stesso percorso. Doveva fare sì che lo zio si tradisse, fargli ammettere l’orrendo delitto attraverso il teatro: doveva far mettere in scena un’opera. D’altra parte, non ci sarebbe stato nulla che avrebbe fatto sentire più a proprio agio Amleto del mondo dei suoni e delle parole. Doveva solo trovare il titolo perfetto, qualcosa che provocasse in Claudio una reazione talmente evidente da far crollare la maschera che aveva indossato, da rivelare il disgustoso volto al di sotto della raffinata opera di dissimulazione.

L’Artaserse di Metastasio.

Intrighi, lotte per il potere e un fratello assassino: Amleto sul momento non riuscì a pensare a nulla di meglio.

Quasi vide la consapevolezza farsi strada nella mente dello zio. Vide il volto dell’uomo impallidire, le mani chiudersi strettamente attorno ai braccioli della poltrona. Vide lo sguardo dell’impresario posarsi prima sulla moglie e poi sul nipote. Osservò il pugnale affondare nel petto dello zio, senti il suono dei tessuti lacerarsi. Come sempre, il suono. Le mani gli si tinsero di rosso, non aveva mai visto un colore tanto brillante, tanto vitale e tintinnante. Senti le proprie ginocchia piegarsi, il tonfo del proprio corpo sul pavimento in legno.

«La commedia è finita».

BIBLIOGRAFIA:

Testi primari:

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci, Edizione critica a cura di Giacomo Zani, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano, consultato online il 02/01/2024 al link:

https://www.teatroregio.torino.it/sites/default/files/uploads/inline-files/20210807%20-

%20Pagliacci%20-%20Libretto.pdf

William Shakespeare, Hamlet in Tutte le opere, Vol. 1: Le tragedie, Edizione critica a cura di Franco Marenco, Bompiani, Milano, 2015

Testi critici:

Bernhard Kuhn, “Il teatro e la vita non son la stessa cosa?” Self Refereces and Their Cultural Context in Leoncavallo’s “Pagliacci” in Italica, Vol. 94, No. 1, pp. 31-51, Indiana University, Bloomington, USA, 2017

John Wright, “La commedia è finite”: An Examination of Leoncavallo’s Pagliacci in Italica, Vol. 55, No. 2, pp.167-178, Indiana University, Bloomington, USA, 1978

Ruggero Leoncavallo, How I wrote “Pagliacci” in The North American Review, Vol. 175, No. 552, pp, 652-654, University of Northern Iowa, Cedar Falls, USA, 1902

L’assedio

Questa riscrittura di Camilla Cattunar mira ad una rappresentazione concreta dell’interiorità di Petrarca attraverso l’impiego di personificazioni ispirate dal romanzo cavalleresco, facendo leva sul lessico bellico con cui l’autore caratterizza alcuni dei componimenti del suo Canzoniere, nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Ci troviamo nel profondo del cuore di un autore cardine nella storia della letteratura, qui egli non è solo, abbiamo modo di conoscere ciò che lo caratterizza, i suoi valori e la sua debolezza più grande. Viviamo con lui il suo dissidio, non più solo interiore ma reale, per quanto una riscrittura che si spinge fino al cuore di un uomo possa esserlo.”

*

Quella che sto per raccontarvi è la storia di un assedio, un lungo assedio durato decenni ma vinto grazie ad un sol gesto, che senza fatica sbaragliò ogni difesa, anche la più salda e sicura. L’oggetto della contesa fu un semplice ragazzino, ormai cresciuto, nascosto da tempo nella fortezza della sua interiorità. A difenderlo diversi cavalieri di grande esperienza e valore, addestrati dal più potente dei comandanti: la Fede in Dio. Tra loro presenziano Occhi, Cuore, Virtù e Ragione[1], gentiluomini fedeli, paladini difensori di quest’uomo che nulla può all’attacco del più potente dei rivali, Amore, la cui unica mira, a suo dire, è quella di distoglierlo dal raggiungimento della santità, dalla devozione a Colui solo che la merita, Dio.

Il protagonista è un uomo che presto nella sua vita ha intrapreso un’aspra via: rifugiarsi dall’Amore ch’egli considera maligno, costruendo una roccaforte imponente, dotata di sei torri almeno, numerosissime finestre, grandi abbastanza perché la luce del giorno possa raggiungere ogni sala ma non a sufficienza perché occhi indiscreti riescano ad osservare che cosa accade tra le sue mura. Ha diverse camere da letto, la fortezza, una grande biblioteca dove l’inquilino usa scrivere di sé e un giardino con diversi alberi da frutto e un ruscello, raramente frequentato per semplici ragioni, è di un assedio che parliamo. Il ragazzo ci vive da solo, ci cresce da solo, i suoi servitori non parlano e sempre più spesso si trovano ad affrontare gli attacchi di Amore, che imperterrito con la sua determinazione e i suoi dardi scandaglia il perimetro di quelle altissime mura, osserva i cavalieri, nell’attesa di trovare una breccia, fragilità, mollezza o difetto. Attende con pazienza il punto e il momento giusto per colpire, e poi attacca. Non è parsimonioso, non teme di sprecare i suoi dardi, al contrario è convinto, colpo dopo colpo, di ottenere il successo. Ma la rocca resiste. Nessun segno di cedimento, il giovane adulto che ci abita non esce allo scoperto e chi lo difende è competente e combatte valorosamente. Non è facile infastidire Amore, egli sa di non esser malvagio, in pochi hanno osato avere tale considerazione di lui, ma la situazione ristagna da troppo tempo ormai, come osa costui respingerlo con tanta violenza? Allora s’infuria, ripensa ad Apollo, sente quello stesso desiderio di vendetta ardergli dentro. Dubitare della mia forza? Pensare di essere più potente? Prendersi gioco di me con tale leggerezza? Non avete capito con chi avete a che fare. Dunque, ecco incominciare l’azione.

Mentre il ragazzo trascorre i suoi giorni come d’uso, l’irato arciere, anche abile stregone, escogita un piano per dimostrare la propria superiorità: per sua mano una donna apparirà in sogno all’uomo, talmente bella ch’egli alla sola apparizione rimarrà rapito, sarà il giusto diversivo per sconfiggere i suoi cavalieri e finalmente vendicarsi. Non resta che aspettare la notte.

È il 5 aprile 1327 e l’uomo dopo una giornata tranquilla s’addormenta. Cade in un sonno profondo e si risveglia in un prato agli albori di un giorno nuovo, il cielo è terso e c’è odore di rugiada. Inizia a camminare ma s’ arresta di colpo: davanti a lui una donna gli dà le spalle, ora si volta appena, forse attirata dal rumore, lo guarda di sfuggita e poi inizia a camminare leggera in quella distesa d’erba verde. L’uomo è rapito. Costei ha capelli dorati, splendenti alla luce del sole e un abito turchese svolazzante che lo inducono a dubitare della sua natura. Umana o divina? Qualunque sia la risposta, nessuno potrebbe far altrimenti se non seguirla.[2]

Intanto al castello Amore agisce indisturbato, questa volta Cuore non ha nemmeno il tempo di accorgersi del pericolo, ecco un dardo conficcarsi in una piega della sua armatura e subito dopo un altro penetrarla all’altezza del petto, spostato a sinistra di poco rispetto al perfetto centro. Occhi invece assume un comportamento del tutto inaspettato, che i suoi compari Virtù e Ragione trovano spregevole. Per qualche assurda ragione il cavaliere si avvicina allo stregone, pregandolo di ascoltare le sue parole: “Accetta la mia sottomissione a te, fin ora non conoscevo la ragione profonda delle mie azioni, grazie a te ho trovato uno scopo. Contemplare tanta bellezza. È questo ciò per cui sono nato”. Ecco che il combattimento si bilancia. Ragione, da sempre il più risoluto e potente di tutti si scaglia incollerito verso Amore, deciso a farla finita una volta per tutte. Occhi si affretta a difenderlo ma Virtù, pronta e scaltra lo blocca prima che riesca a sfiorare Ragione. Così i due, che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente si assalgono ma così simili nell’addestramento non hanno la capacità, forse nemmeno l’intima volontà, di prevalere sull’altro. Si trafiggono vicendevolmente e rimangono agonizzanti quanto increduli, supini nel vasto giardino del forte a contemplare l’aurora. Contemporaneamente Ragione si accorge, con suo grandissimo disgusto, di non avere alcun mezzo per ferire Amore, la spada non ha effetto, si piega come ferro bollente maneggiato da un maniscalco, e nello scontro fisico si scopre un agnellino di fronte al più possente dei leoni. Non resta che la fuga. Ragione si precipita all’interno, cerca il ragazzo, per avvisarlo del pericolo. Amore non si disturba nemmeno ad inseguire il cavaliere impaurito, il suo piano si è realizzato, la sua vendetta è conclusa, ha dimostrato che nessuno può rifuggirgli per tutta la vita, nemmeno un uomo con il suo esercito. Da quel momento, infatti, il suo cuore è gravemente ferito, il suo sguardo rapito, la sua virtù troppo debole per permettergli di agire nei confini di ciò che lui reputa giusto; cerca rifugio e forza nella ragione, che sola non ha potere alcuno davanti alla grandezza dell’Amore. Il ragazzo è rimasto solo, nella sua maestosa fortezza ormai espugnata. Un pensiero sconnesso gli si presenta alla mente, “forse non mi sarei dovuto nascondere”. “Ma di cosa ti convinci? – si risponde immediatamente – non senti il dolore che ti ha procurato?”.


[1] I cavalieri fanno riferimento a rispettivamente a occhi, cor, virtute ed al poggio faticoso et alto protagonisti dell’assalto di Amor nel sonetto 2 del Rerum Vulgarium Fragmenta.

[2] Il sogno si ispira al sonetto 190 del Rerum Vulgarium Fragmenta.

Amore, scintilla, grigiore

Nella seguente riscrittura, il rapporto tra vita e arte sembra indissolubile e la letteratura non trascurabile. Ripercorrendo tematiche presenti in alcuni sonetti di Petrarca, Michelangelo, P. de Ronsard e Shakespeare, argomento del corso di Letterature Comparate B della Professoressa Lombardi, gli stessi autori e temi vengono attualizzati con spunti maturati soprattutto in una certa letteratura dello scorso secolo, lasciando quasi l’inestricabile certezza che lo spirito vitale non possa sopravvivere in un mondo eternamente grigio e con rigide forme prestabilite che regolano la scansione quotidiana della vita umana.

Il lavoro è stato presentato da Federico Cabodi per il corso di Letterature Comparate B, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Nell’importuna nebbia, la monotonia sembra impedire di risvegliare un amore per la vita ormai sopito da anni. Calati in una realtà distopica dal sapore malinconico, arte e amore si intrecciano nel tentativo di sconfiggere la morte, l’appassimento dell’anima causato dal tempo”.

*

A nonno

Nell’importuna nebbia, la monotonia sembra impedire di risvegliare un amore per la vita ormai sopito da anni. Calati in una realtà distopica dal sapore malinconico, arte e amore si intrecciano nel tentativo di sconfiggere la morte, l’appassimento dell’anima causato dal tempo.

Margherita camminava per una via di porfido antracite. Ormai madre e moglie, appena uscita dal suo ripetitivo ufficio, era stata travolta dalle preoccupazioni delle faccende e degli impegni da rispettare, la maggior parte neanche suoi, ma degli altri componenti della famiglia. Non pensava ad altro. Il suo passo, intanto, si faceva più veloce: arrivare in ritardo non era previsto, la sua giornata era stata pensata e organizzata nei minimi dettagli, incastrata in modo tale che un ritardo non fosse possibile; perfino eventuali imprevisti   erano programmati.

Tra il grigiore cittadino, forse quella nuvola che ora passava sopra i tetti, invece che ottenebrare, offuscare e schermare i pensieri, schiarì per un attimo la sua mente. In quel barlume istantaneo le tornò alla mente ciò che in gioventù nei banchi di scuola tanto l’aveva rapita. In un lasso impercettibile di tempo, il cuore, o forse l’anima, o forse l’amore le avevano schiuso e smosso lo scrigno che non ricordava, ma in realtà non sapeva neanche più, di possedere.

Il pensiero per quel secondo si volse ad alcuni poeti che, lei era solita dire all’epoca, l’avevano elevata, o avevano ai tempi quantomeno la capacità di farlo per qualche minuto; quando l’idea era forte, può darsi che il gelo del cuore si sfacesse persino per qualche ora e lei vivesse addirittura una giornata governata dal tepore congiunto di mente e cuore.

In particolare, quella nuvola le aveva forse fatto tornare in mente un sonetto, ormai sepolto e stratificato nella sua mente, di Petrarca in cui il poeta vagava, chissà, magari circondato da tonalità cromatiche simili a quelle che circondavano Margherita in quel momento.

Solo questo, in quel secondo. Dopo tanti anni, il suo cuore, la sua anima, il suo ‘dentro’ si erano ribellati all’assordante grigio che stava al timone della sua vit… un altro lampo, un altro sussulto del cuore, a cui però Margherita non riuscì a dare seguito né ascolto e che scivolò via per sempre. La ragione aveva riconquistato il suo trono da cui era stata spodestata per un istante.

Tuttavia, la ragione è abituata a procedere per collegamenti logici, talvolta infiniti. Perciò, nonostante l’estraniazione fosse durata un battito di ciglia, il suo cervello continuò a processare pensieri che riaffioravano dal subconscio, senza che lei nemmeno se ne accorgesse.

Questo le portò, a detta sua, un inspiegabile malumore; semplicemente un piccolo scompenso che la accompagnò per tutto il giorno: fin da subito, mentre continuava a camminare per quella via, ma anche dopo, quando stava accompagnando suo figlio al corso  di teatro, o quando, la sera, stava ascoltando suo marito parlare del lavoro e dei problemi che dovevano superare per riuscire a chiudere un accordo con una grande società. L’umore scompensato di quel giorno si spense dopo che chiuse gli occhi per dormire, nonostante, nel letto, una sorta di disappunto avesse continuato a covare in lei, anche quando stava leggendo un libro sui ruoli e comportamenti giusti da adottare in famiglia e al lavoro. La sensazione era particolare: come se qualcosa dentro di lei non combaciasse.

La mattina seguente Margherita si svegliò, e normalmente andò in cucina a preparare la colazione e a consultare l’agenda che elencava, anzi dettava e scandiva la sua giornata, che la prestava anche a faccende di cui lei non era la protagonista, ma che lei sentiva terribilmente sue. Poco importava, anzi proprio niente: il suo pensiero ormai non si soffermava più su quello, … o forse non ci si era mai soffermato, cioè che fossero pressoché identiche a quelle del giorno prima… e forse anche a quelle del giorno dopo.

Con un saluto distratto indirizzato al marito, chiuse la porta di casa. Ore 8 entrata di suo figlio Simone a scuola, ore 8.30 ufficio, lavoro.

Gianluca un giorno, quasi allo stesso modo, era in macchina, fermo a un semaforo, ai confini di una città, quella in cui lavorava da quindici, o forse sedici, anni.

Nella sua costosa macchina con il cambio automatico, frutto e compenso del suo ininterrotto lavoro di anni e anni, stava lasciando la città e imboccando l’autostrada per tornare a casa. Viveva in un paesino in provincia, può darsi che fosse stata una giovanile scelta di vita, in opposizione al trambusto cittadino, ma in quel momento probabilmente non se lo ricordava neanche più; il pensiero automatizzato l’aveva quasi sicuramente portato a pensare che viveva lì perché ci vivevano i genitori, che gli avevano destinato una piacevole villetta di fianco alla loro. Il grigio, visibile dal tettuccio della macchina, stava cedendo il passo a un colore più scuro, ma ugualmente cupo. Ormai il pomeriggio era alla fine e il crepuscolo non lasciava spazio a luci e colori, ma si chiudeva in se stesso, filtrando le tonalità scure attraverso le nuvole.

L’autoradio, automaticamente incorporata alla macchina, era sempre accesa. In realtà però Gianluca non era solito ascoltarla, come un flusso continuo le canzoni passavano ma rimanevano echi inascoltati. Piuttosto, lui era sempre abituato a essere immerso nei pensieri del lavoro, e nel viaggio d’andata e nel viaggio di ritorno, indistintamente.

I problemi erano infiniti, dall’adottare la strategia più convincente all’allargare il numero di clienti, dal rapporto di subordinazione e accondiscendenza nei confronti del capo alle scartoffie ancora da sbrigare.

Assorto tra questi pensieri, che costituivano l’assoluta priorità nella sua vita, alla radio attaccò una canzone. Bastarono le prime due note, non cantate, solo suonate, perché a Gianluca cadesse il mondo addosso. Casualmente in quel secondo le sue assillanti preoccupazioni avevano lasciato uno spiraglio alla musica. La sordità e l’immunità alle melodie erano cessate. Silenzio. Anche i pensieri si fermarono. Si insinuava in lui in quei secondi uno stato di profonda inquietudine, per lui inspiegabile.

Questo, apparentemente, travolgente sentimento fu quasi immediatamente stroncato dalla quotidianità, che tornò staticamente inamovibile e schiacciante. Tornò al pensiero di come sarebbe stata la sua giornata di lavoro all’indomani e di cosa avrebbe dovuto fare.

La canzone continuò come una semplice vecchia canzone che non sentiva da molto tempo, con un po’ di malinconia però.

Il pensiero continuo, come un filo rosso, si instillò anche in lui, anche quando la canzone finì e la trasmissione proseguì indifferentemente.

Gianluca, però, era solo, una famiglia non ce l’aveva, per ora quantomeno, anche se l’età non era più giovanissima; pertanto, a parte cosa dovesse prepararsi per cena, – le ansie del lavoro ovviamente erano immancabili e lo assillavano senza lasciarlo quasi mai per davvero- non aveva particolari urgenze.

Dunque, arrivato a casa, si accomodò sul divano e il cuore ebbe la meglio, riuscì a dar ascolto e far emergere quella controversa sensazione che aveva provato all’inizio della canzone. Le angosce del lavoro volarono via e Gianluca iniziò a indagare più a fondo come e perché quella banale canzone gli avesse scaturito un tale vorticoso vuoto dentro di sé per un istante.

Il cervello percorse a ritroso per diversi minuti la sua vita fino a giungere, fermarsi e cristallizzarsi alla sua gioventù liceale. In un baleno gli tornò alla mente un giorno, ormai completamente dimenticato e sopraffatto dalla sua quotidianità attuale, del quarto anno di liceo in cui, mentre lui e una sua vecchia compagna di classe, forse una fiamma dell’epoca, abbagliati e ricoperti dal fascino della letteratura affrontata in classe, tornavano a casa sul tram per studiare insieme Petrarca nel pomeriggio, a un signore seduto vicino a loro si accese per sbaglio la radiolina, che stava trasmettendo proprio quella canzone che ora Gianluca sapeva di aver riconosciuto prima in macchina.

Una profonda tristezza lo assalì, rimase immobile senza sapere che cosa fare. Tutta la sua giovinezza ma soprattutto le emozioni che aveva provato in quegli attimi di ormai tanti anni prima lo attraversarono e lo baciarono con un brivido che lo trapassò per tutto il corpo.

Tutto sommato però, l’appetito non si sfama né con bei pensieri né tantomeno con la nostalgia pertanto, dopo quegli intensissimi momenti, Gianluca si alzò e andò a cenare, con la televisione accesa di fronte a lui che, quantomeno, gli faceva un po’ di compagnia.

La giornata era stata lunga e molto stancante, il lavoro gli aveva prosciugato non solo tutta l’energia fisica, ma anche quella mentale, tanto da non avere più la forza di riflettere.

La sicurezza del suo lavoro, tuttavia, gli consegnava una particolare tranquillità sul fatto che prima o poi si sarebbe concesso una bella vacanza rilassante, quindi non lo preoccupava più di tanto questa sua insofferenza nel riuscire a vivere a pieno la sua interiorità.

Conclusasi la breve serata, si diresse verso la camera da letto e si addormentò immediatamente: un’altra giornata di lavoro lo attendeva.

Così, la mattina seguente si alzò, si preparò per andare a lavoro, vestendosi con un bel completo nero, e salì nella sua spaziosa macchina, diretto verso l’azienda.

Qualche settimana, o forse anche qualche mese, dopo, un’amica -una collega- di Margherita le aveva proposto di andare a teatro una sera, per svagarsi e fare qualche cosa di diverso.

Dopo qualche incertezza, Margherita accettò. In fondo si trattava di Shakespeare, uno dei suoi poeti preferiti, almeno a scuola. Non si trattava poi di una semplice rappresentazione

di uno dei suoi drammi, ma era una novità, una sorta di intreccio tra la trama portante della tragedia e alcuni famosi sonetti, che ben si abbinavano ad alcune riflessioni del poeta.

Arrivarono a teatro. Cercarono il loro posto numerato. Si sedettero.

Mentre si stavano sistemando, arrivò un uomo che aveva il posto vicino a quello di Margherita.

Il sipario si aprì, lo spettacolo cominciò. Imprigionati in quella grande sala, era impossibile per loro fuggire i pensieri, dissimulare la realtà e non guardare in faccia la verità. Il dramma proseguiva, ma gli inserti dei sonetti erano continui e non lasciavano scampo. In particolare, ciò che emergeva era la disperata volontà di Shakespeare di non finire nel nulla, ma nel cogliere l’attimo, non sprecare il tempo devastatore della vita e accogliere e valorizzare la bellezza.

La rosa della bellezza non fa in tempo a sbocciare definitivamente che sfiorisce; così la vita stava scivolando via nelle lacrime sul volto di Margherita; il suo intelletto raziocinante non era più riuscito a bloccare sistematicamente il flusso di coscienza come in quel pomeriggio di qualche tempo prima. L’anima si schiuse e i pensieri di allora si riallacciarono a quelli che, nell’epifania di quel giorno, erano stati solo accenni, tracce di un cuore che da tempo stava pulsando sempre più forte per emergere.

I pensieri continuavano a sopraggiungere uno dopo l’altro e nel frattempo la consapevolezza di sé cresceva, fino a diventare insopportabile e insormontabile.

In quell’istante, con un gesto istintivo, come per voler distogliere l’attenzione da quello spettacolo che la stava letteralmente travolgendo e attenuare la tensione, si girò, smettendo per un attimo di guardare il palcoscenico, dirigendo lo sguardo verso destra, dove era seduto l’uomo che aveva notato prima.

Lo guardò, lui se ne accorse e fece lo stesso e, non appena Margherita vide le stesse lacrime anche sul suo volto, i due si riconobbero a vicenda: quell’uomo era Gianluca.

Forse questa messinscena aveva toccato quelle loro corde che, ai tempi del liceo, vibravano all’unisono nei momenti così densi di pathos, indubbiamente aveva risvegliato i loro sensi assuefatti. Gianluca e Margherita continuarono a guardarsi negli occhi e in quel frammento, con un’espressione di struggimento unita a un sorriso accennato, compresero che, ognun per sé, non erano riusciti a dar forma alla propria vita, proprio come Michelangelo, in uno dei suoi sonetti, temeva di non riuscire a dar la giusta forma al marmo.

Festival del Classico – Oriente / Occidente

Torino | 30 novembre – 3 dicembre

Al seguente link il programma del festival: Programma sfogliabile | Festival del classico

Programma convegno “Poteri della lettura. Pratiche, immagini, supporti”

è uscito il programma del convegno annuale dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura (Compalit) che si svolgerà presso l’Università degli Studi di Padova dal 14 al 16 Dicembre 2023.

Per vedere il programma delle plenarie e delle parallele, visitare il link: Compalit » Poteri della lettura. Pratiche, immagini, supporti

Shall I – Opera sperimentale in tre movimenti

I movimento
 Look in thy glass and tell the face thou viewest

II movimento
V: Nascondi ciò che sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni

III movimento
When Forty Winters shall besiege your brow

L’opera: Shall I è un esperimento di scrittura audace, perché stravolge, cannibalizza e contamina la più canonica – e insieme la più rivoluzionaria – tra le forme poetiche: il sonetto. Poiché i versi di Petrarca, Michelangelo e Shakespeare hanno superato la prova del tempo, gli autori hanno deciso di portare a nuova vita tutte quelle figure, quelle storie e quelle ambientazioni nascoste nell’impalcatura della forma sonetto. Fair Youth, Laura, lo specchio, l’acqua, le chiome e i capelli d’oro esistono materialmente e fisicamente in queste pagine e l’effetto che ne deriva ha la forma di una lanterna magica.

Lo spettatore viene catapultato in quest’avventura poetica senza avere il tempo di porsi delle domande, trovandosi immerso nelle storie, nei frammenti, nelle visioni, nelle grandi scene e nelle illusioni che abitano la poesia fin dai tempi di Petrarca e che ancora ci accompagnano.

Il Coro, retaggio della struttura tragica, introduce il tema dei tre movimenti.

Gabriele Corna ha partecipato alla stesura, all’elaborazione e all’editing dell’opera.

Primo Movimento

–   Argomento del primo movimento: nello scontro tra l’antico e il moderno, tra le tradizioni classiche e le rivoluzioni sperimentali, questo movimento si concentra sui temi di sogno e illusione; memoria ed eternizzazione; specchiarsi; follia e frenesia amorosa; vendetta; trasformazione della donna angelicata.

–   I sonetti di riferimento sono: 1 e 149 (Shakespeare), 272 (Petrarca), 102 e 151 (Michelangelo) e altri.

–   Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Elisa Rovetto, Giulia Rolando, Gloria Policaro, Chiara Cavallero, Letizia Desimone, Milena Re, Arianna Ferrero, Margherita Ricchiardi, Ludovica Maione, Mattia Marin, Leonardo Besson, Pietro Delodi, Celeste Palmas, Giulia Grosso, Marta Gennaro, Elisa Murgante, Ilaria Cervi.

Secondo Movimento

–    Argomento del secondo movimento: questo movimento sfida l’argomento classico del sonetto michelangiolesco relativo alla contesa tra le diverse forme d’arte. Come può manifestarsi, oggi, questa sfida impossibile della rappresentazione? Quali sono le forme ibride metaforiche e contaminate che riescono ad abbracciare tutti i linguaggi dell’arte?

–   Principali sonetti di riferimento sono: Sonetto 29 e 126 (Petrarca); sonetto 18, 116, 120, 149 (Shakespeare); sonetto 29 (Petrarca); madrigale Come può esser ch’io non sia più mio?, sonetti 17 e 151 (Michelangelo) e altri.

–   Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Matteo Bonino, Matilde Bianco, Dario Prunotto, Anna Paruzza, Giulia Frenna, Michela Voghera, Alessia Bersanetti, Rebecca Zanin, Lorenzo Pietracatella.

Terzo Movimento

–   Argomento del terzo movimento: questo movimento rielabora il tema della caducità dell’esistenza e del trascorrere delle generazioni. L’invito alla procreazione, e al non disperdersi della bellezza, caro al ciclo di sonetti dei Marriage Sonnetts shakespeariani, quali connotazioni può assumere nel nostro mondo?

–   I sonetti di riferimento sono: ciclo di Marriage Sonnets (Shakespeare).

–   Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Elia Ferrari, Cristina Galizio, Elisa Pantone, Giulia Bongioanni, Rebecca Deandrea, Alessandro Dema, Linda Pascazio.

Primo Movimento

Look in thy glass and tell the face thou viewest

[Entra il coro]

E allora parliamo di uomini.

Parliamo di me e voi,

di coloro che camminano

sulla terra bagnata dalla pioggia

e di tutti quei personaggi

che abitano tra le stelle.

Parliamo della guerra più antica di tutte

della contesa che non conosce pace:

se esista mai su questa terra

un’arte che sappia descrivere la vita.

I pittori hanno sfidato i poeti in descrizioni

e scultori e musicisti hanno combattuto

per la plasticità della materia;

tutto quello che ne è rimasto:

è che pace non abbiamo e non troviamo da far guerra.

L’unico giudice è l’umano

di quale sia l’arte migliore,

ma le Muse sono creature tentatrici

che a volte innalzano e a volte abbattono

il loro umile cantore.

Quando l’universo ha smesso di coincidere

e il mondo ha iniziato a esistere

sono nati i racconti;

parliamo, allora, di quelle storie

che nel loro svolgersi

ci aiutano a vivere.

[Esce il coro]

 Narratore

Il dottor Francesco Manzoni, che pure non aveva mai studiato l’autore lombardo per un rancore che provava nei suoi confronti, era uno psicologo. Nella sua breve carriera era già riuscito ad essere assunto in una delle più rinomate aziende per il supporto psicologico nella sua città, e in questo contesto aveva conosciuto la sua compagna. O meglio, “ex-compagna”. Sì perché il dottore, seppur di giovane età, era già intenzionato a mettere su famiglia, aprire il mutuo, scegliere la scuola per i figli, affrontare la suocera a natale durante una partita a tombola,… Laura no. E questo gli spezzava il cuore. Una volta bloccato su tutti i social di lei, tutto ciò che rimase al dottore era il lavoro (oltre che la casa, visto che la collega era andata a stare dai suoi), ma anche questo stava per essergli portato via. Questo perché, com’è risaputo, uno psicologo che vive un certo trauma non può seguire pazienti con traumi simili, e si dà il caso che Manzoni fosse un consulente di coppia e che le sue sedute individuali procurassero lui maggiore clientela quando entravano pazienti dal cuore spezzato. Si dà anche il caso che proprio domani si terrà la seduta che deciderà le sorti lavorative di Manzoni e lui è impreparato, come quando da ragazzo il giorno prima della verifica andava in montagna invece di studiare. – Come faccio adesso? – continuava a chiedersi. L’idea che ritenne più brillante fu una delle prime a cui pensò. Il dottore pensò al suo manoscritto da pubblicare: un diario delle sedute in cui erano raccontati quelli che per lui erano i sogni più coinvolgenti, professionalmente parlando, riguardo ai temi dell’amore. In questo breve testo aveva raccolto sette storie di sette pazienti e ora che stava rincasando lo stringeva forte in mano, tra una spallata e uno sguardo provenienti da quello e dall’altro concittadino con cui condivideva giornalmente il tram. Salì le scale e mangiò con stanchezza gli avanzi del giorno prima, poi si alzò senza sparecchiare e si diresse verso camera sua. Si tolse i jeans, e accesa l’abat-jour, si infilò sotto le coperte, con solo l’energia per sfogliare il suo stesso testo: ”Dedicato a Anne, per l’amore che mi hai trasmesso per lo studio”. Scansò la pagina con il titolo della raccolta e iniziò a leggere dal primo capitolo.

Prima categoria:
Sogno e illusione[1]

Dalle memorie di un sognatore

Cosa lega gli uomini ai sogni d’amore?

Risposta che solo un sognatore saprebbe indicare attraverso parole velate.

Sognatore non è colui che dorme, ma colui che rende la propria vita sospesa tra realtà e meraviglia, tra vita e sogno, dando un significato alle fantasticherie d’amore e rispettando questo sentimento poiché sa quanto sia più forte rispetto al dolore.

Immaginiamoci per un istante di vivere in un mondo privo di sognatori, chi guarderebbe più la luna con stupore, amando il firmamento più di quanto il cuore sia capace?

Un giorno lo incontrai un sognatore: all’epoca lavoravo come portinaio di un vecchio teatro e lo scorgevo spesso trovare conforto nel bicchiere di una vecchia locanda; le persone erano strane laggiù: nessuno lo capiva. Forse nemmeno lui stesso si capiva, ma gli andava bene così perché l’unico essere da cui voleva esser compreso era colei che da tempo incontrava all’uscita del vecchio teatro: una donna bellissima con i capelli dei colori delle foglie dorate in autunno. Dal suo viso scolpito dalla giovinezza traspariva l’ardere delle più misteriose emozioni che giorno dopo giorno lui osservava di nascosto. Le sue mani erano così bianche che sembravano in grado di non sfiorire mai. Il sognatore innamorato aveva concepito diverse proposte di come la donna si potesse chiamare, ma nessuna di queste sembrava appartenere a lei, o forse, era lui stesso a preferire silenziosamente di celare questo mistero.

Così, persuaso, dopo anni, il timido sognatore decise che quel volto meritava tanti versi quanti erano gli astri nel cielo: era gennaio, e sotto la porta del teatro una lettera ingiallita e con un timbro di ceralacca rosso attirò la mia attenzione.

Capii che la lettera non era per me ma, curioso, la lessi ugualmente: sulla carta, incisi come pietra, formicolavano versi così sinceri da intimorire persino l’animo più colto

Incrociare il tuo sguardo angelico

tra il buio

di ciò che mi circonda

mi salva

sognare di un futuro con te

è sufficiente

perché io percepisca la vita

farsi più leggera

ogni mio giorno è ormai segnato

da quel breve incontrarti

che dà sostanza al mio incompreso vivere

se quel che piace è grande sogno

a me piace

sognar di te.

Pioveva. I miei occhi non versarono lacrime, ma fu la pioggia a farlo per loro. Anche la pioggia si era resa conto che l’uomo altri non amava che un attore: il migliore dei talenti femminili, colui che poteva essere cento donne e non ne era nessuna.

Il sognatore non vide più la sua Ofelia o la sua Cleopatra, né tutti i ruoli che nel corso delle stagioni passate l’aveva visto interpretare. Ho pensato di dire la verità, di parlare al sognatore della misteriosa morte del giovane attore, avvenuta la notte stessa in cui la lettera venne lasciata sotto la porta del teatro. Una morte ingiusta, un omicidio apparentemente immotivato, o forse no, perché la sua ingenua femminilità turbava l’animo di molti. Decisi dunque di tacere, capii che era meglio lasciare un sogno infranto piuttosto che svelare un’aspra realtà: con le mie parole avrei trasformato il suo amore perduto in un giovane talentuoso con l’anima di donna.

Mi sveglio con un nodo alla gola. Frastornato un senso di angoscia pervade il mio corpo, controllo la data indicata sulla mia sveglia: 25 gennaio 1975. Era tutto un grande sogno, così reale che quasi mi sembra di tenere quella lettera tra le mani. Non sono un portinaio di un teatro, sono un misero dipendente che lavora nella biglietteria del cinema meno frequentato della città, è tardi, devo andare a lavoro. Non riesco però a concentrarmi su quel che devo fare, mi sento ancora immerso nel sogno e continuo a rivivere le tristi emozioni della constatazione dell’impossibilità dell’amore, immedesimandomi nell’animo del timido sognatore.

Decido di alzarmi e ricordo che è mercoledì, giorno in cui in programmazione ci sono solo film d’epoca. Sorrido mentre realizzo che tra il pubblico di habitué ci sarà Olivia.

È da tempo che sono innamorato di lei, penso spesso al momento in cui sarò pronto a dichiarare con sincerità ciò che ancora provo, ma la mia timidezza e la paura di poter ricevere un rifiuto mi bloccano da tempo. Ho sempre preferito rimanere nell’idea in cui ancora stiamo insieme, non vorrei che la dichiarazione della verità possa rovinare il nostro rapporto di amicizia. Non voglio interfacciarmi con la realtà, che potrebbe riservarmi dolore.

Mi preparo ed esco di casa, mentre cammino la mia mente ritorna al sogno di questa notte. Immerso nei miei pensieri arrivo al cinema, mi posiziono sulla mia poltrona rossa un po’ impolverata e attendo l’arrivo dei clienti, sperando che il primo volto che vedrò sia quello di Olivia.

Il sogno si ripresenta ai miei occhi, e sono quasi infastidito dall’ennesima successione di quelle immagini nella mia mente. Tra gli ultimi clienti entra Olivia e cammina verso di me con un sorriso sul viso, e con la sua fragile voce mi chiede un biglietto con le monete già pronte nella mano, desiderosa di raggiungere velocemente la sala per non perdersi i primi istanti del film. Mentre le porgo il biglietto penso che vorrei vivere in quell’istante per sempre. Prende il biglietto, mi saluta e si volta verso la sala. Comincia il film e l’ingresso del cinema si svuota, e io resto nuovamente solo con il sogno ben fisso nella mia mente. Forse dovrei trovare il coraggio di parlare a Olivia perché non riesco a sopportare l’idea di poter vivere una vicenda simile a quella del sognatore. Decido di scrivere una lettera che le consegnerò alla fine della programmazione

Ti cercherò là dove l’anima, Narciso, 

echeggia nel tuo profondo specchio d’acqua

così profondo, che quasi non ti vedo più

ma senza voltarmi continuerò a cercarti.

quando lo sguardo, incrocerà il tempo perduto

solamente allora, verrà la mia estate.

Sospirando, pervadi la mia mente di notte

lascia che il sogno tormenti i sentimenti.

Questo è il mio regalo per te.

Amore, consumato respira il rimpianto

quella sera di averti sorriso soltanto

e se illuso sarò io ad amare di più,

nessun uomo spenga le mie stelle

sarò il sole innamorato della neve.

tuo Will.

Narratore

 Lesse le proprie note: «I dati del paziente sono preoccupanti, confonde le illusioni della sua mente con fatti realmente accaduti, manca completamente di senso di realtà, non mangia, non vive. Sembra aiutarlo solo la poesia. Quell’uomo… erano mesi che pensava di aver parlato a quella ragazza. Forse Olivia non era neanche il suo vero nome ma solo un frutto della sua fantasia, così come tutte le sue interazioni con lei. Eppure ogni volta che si scontrava con la realtà rispondeva con uno sbadiglio. Non dormire per il lavoro lo faceva sognare di giorno e si sa non bisogna svegliare i sonnambuli.»

Seconda Categoria:
Ricordare, memoria ed eternizzazione[2]

Tempo, donna ammaliatrice e scaltra, nuda e altera

abbandona la tua superbia 

e concedimi un attimo in cui sopravvivere con te 

che vivi indifferente e non ami.

Non mi ami: fuggi; ridi di me e scappi

dalla noia di rendere me essere,

parole immobili e destinate,

pensieri e bagliori infiniti.

Donna, tempo tentatore e ladro, sentenza assassina,

fiori irrisolti, albe appassite;

scorgi dall’alto il mio affanno e 

non consoli la mia perduta eternità.

Corri ma consenti il ricordo del cuore e 

correndo non smettere di ricordarti di me.

Tra la critica e la poesia

Commento critico:

LA CRONOFOBIA: il tradimento e la consolazione del tempo.

La cronofobia è la paura del tempo. La paura del tempo che inesorabilmente fugge via da chi lo ama, lo brama e lo attende. Si tratta di una fobia comune a tutti gli uomini che possiedono un’anima che spera e piange, che riflette e si tormenta.

La cronofobia è l’angoscia del trascorrere di una vita che fuggendo tradisce se stessa, alienandosi e svuotandosi del suo puro significante e significato: il tempo.

La cronofobia è la malattia di un tempo veloce, fatto di sospiri fuggenti, emozioni consumate e ansia per l’eternità. Un tempo che sembra immobile nel suo destino ma fuggevole nei suoi attimi ordinari e quotidiani. Un tempo che tradisce e non sente obiezioni: un tempo che fuggendo ride di chi lo aspetta con un ghigno sordo e ridondante; un tempo che immobile osserva l’affanno di chi lo ama e gode animatamente. Un tempo che assale e che ricorda a chiunque possieda un’anima che è proprio lui a morire ripetutamente nel silenzio della malinconia e nell’orrore della mortalità.

La cronofobia è l’ossessione per gli attimi e lo sguardo attento di chi spera in un soffio vitale eternamente vivo, umano e reale. Un momento idilliaco dove tutto è destinato alla vita e niente alla morte. Tutto è eternamente presente e niente è disgregato dall’eco vicino del futuro imminente.

La cronofobia è la paura di non trovare dove la vita si nasconde nel tempo delle cose umane.

La vita si nasconde agli angoli del mondo, nei posti aperti all’ignoto e oscuri alla mente.

L’uomo si presenta in ogni luogo. Si mostra. Si palesa. Si rileva. Si svela.

La vita gode indifferentemente della sua eternità mentre l’uomo attende nella sua disperazione un momento che duri per sempre.

L’uomo cerca la vita. L’uomo piange e inspira, si dispera ed espira finché non la trova: la vita è lì in un angolo distesa. È nuda, pallida, indifferente. Sorridente di un sorriso fastidioso, vittorioso, capace di comprendere ma incapace di rispondere. Ha gli occhi vergini dalle paure, le labbra consumate di chi vive e il corpo di chi ha sentito su di sé il sorgere di molte albe.

L’uomo è illuminato dal suo bagliore di indifferente eternità. Sceglie di incatenarla a sé in un abbraccio indissolubile. Lei ferma e impassibile si lascia stringere, per un attimo. Un attimo folgorante che brillerà nell’anima di un uomo che ha paura del tempo e che proprio per questo illuminerà il suo breve momento di essere.

Un solo istante per essere anima e per essere luce.

Un solo istante per essere arte.

La cronofobia è la paura degli attimi che non sono anima, non sono luce. Non sono attimi che risplendono come un’alba salvifica, come uno scintillio positivo che da lontano ricorda e salva.

Non sono attimi abbracciati dall’uomo oltre l’oblio della dimenticanza. Non sono attimi stretti tra il cuore e la memoria di chi teneramente li stringe alla luce del proprio essere e ai primi colori lontani e tenui di un’alba che risolverà. Non sono attimi che obiettano contro il bisogno dell’uomo di amarli e piangerli. Non sono attimi che si divincolano, che scivolano e che svaniscono con il sorgere del Sole.

Ma sono attimi che cullano, rasserenano e accarezzano.

Sono attimi che hanno la traccia della luce e il bagliore del ricordo.

Sono attimi di cui non avere paura perché ricordano all’uomo di essere: di essere folgorante arte e pallida malinconia.

Sono sospiri di luce.

Sono arte.[3]

La nostra vita è costantemente scandita dal ticchettio di un orologio, dalla sabbia che scende piano piano verso il basso in una clessidra, da qualcosa che ci ricorda che il nostro tempo in questo mondo non è infinito: è un’entità onnipresente, ci scruta nella sua indifferenza e divora gli attimi della nostra vita che diventano pian piano irrecuperabili. 

Tutto scorre, compreso il tempo. Ci sembra che ciò avvenga fin troppo velocemente, tanto che talvolta perdiamo di vista i nostri obiettivi, che ci sembrano appartenere a un futuro lontano; talvolta ci dimentichiamo di fermarci ad apprezzare ciò che abbiamo. Ma vivere nel presente, senza affannarsi per il futuro e senza nemmeno rifugiarsi nelle memorie passate, non è semplice: il tempo sembra essere nostro antagonista, misura la vita e poi la toglie, consuma e distrugge, e la paura di non poter più vivere nuove estati e di dimenticare attimi appartenenti ad un passato di amore e giovinezza spesso ci divora.

Per questo motivo tendiamo a cercare più e più volte di rivivere un determinato istante, magari a causa della nostalgia di qualcuno, o di un determinato avvenimento, o perchè forse può destare ancora parecchie preoccupazioni nel presente, ma dal momento che questo non può più tornare una seconda volta possiamo farlo solo attraverso la memoria: così cerchiamo di imprimere in quegli attimi indimenticabili la vita. 

Il tempo è fuggevole, scorre veloce senza aspettarci, ma c’è una cosa che può temporaneamente fermarlo e si tratta della bellezza: solo l’arte riesce a imprimere nell’eternità i begli occhi o la morbida veste della donna amata nel giorno in cui l’abbiamo incontrata per la prima volta. L’arte, la parola e in particolare la poesia sa rendere dinamica, viva e collettiva un’esperienza prima solo personale, ma che i poeti hanno saputo dipingere con dettagli così suggestivi e commoventi tanto da renderla un’immagine eterna e coinvolgente anche a centinaia o migliaia di anni di distanza. Un incontro inaspettato, uno straziante addio, uno sguardo gentile o un paesaggio primaverile possono così rinascere ogni volta che si rilegge la poesia, riportandoci ad immaginare una scena già successa, anche se la linea del tempo prosegue lineare e rapida davanti a noi, ricordandoci di utilizzare sempre tutti i momenti a nostra disposizione, alla ricerca di un atteggiamento giusto, accogliendo tutti i piaceri, le gioie e le lezioni che la vita ci regala[4].

Narratore

Lo sguardo del dottore si distolse momentaneamente da quel giallo flebile, fioco, fragile, formale, estremamente onirico dei fogli. Poi si proiettò oltre il vetro della finestra: si erano appena accesi i lampioni. 

Terza Categoria:
Specchiarsi[5]

Perfettamente uguali

Nello specchio dell’antico [6]Nello specchio del moderno [7]
“Dalle più belle creature desideriamo procreazione, cosicché la rosa della bellezza non possa mai morire”.Amabili versi, dolci e raffinati, colmi di speranza per il pover uomo ormai giunto presso l’abisso.Così soavi che sembrano celare, seppur per un istante, l’amarezza intrinseca al vivere.Di questi versi, io non so che farmene.Nulla per me apporta conforto ela prospettiva di una morte anonimae non compianta mi è familiare.Non possiedo la fortuna di esser di bell’aspetto.Il mio volto è sfigurato, i suoi tratti rigidi.Il mio corpo è deforme, incompiuto.Chi mai amerebbe uno storpio?Solo un folle probabilmente.Non posso essere amato, tanto menoessere amante. I miei sentimentisarebbero certamente respinti con scherno, se non con disgusto.Come biasimare? Io stesso non possiedoné la forza né il coraggio di intrattenermidinanzi uno specchio. Il mio seme? Il mio seme dite? E cosa me ne faccio.Sarò tomba di un amore a me mai insegnato.La sola idea di averlo in sé ripugna colei su cui cade il mio sguardo.Io, frutto corrotto di una natura ingannatrice, non posso che giungere ai miei scopi tramite la forza brutale della crudeltà.La mia fame, o specchio, la fame che mi consuma, che mi divora, è fame del potere a me dovuto. Il potere più grande di tutti.Il destino ribaltato di colui che giudicato imperfetto ora si fa giudice e carnefice.Non mi importa a chi arrecherò danno, no.Siamo tutti effetti collaterali, d’altronde, di un mondo che rende spietati.E io mi sono deciso a sposare questa spietatezza.E a non avere più limiti.“Guardati allo specchio e di’ al volto che vediche è ormai tempo per quel viso di crearne un altro”. Con quanta grazia i poeti invitano alla vita, rendendo omaggio persino alle più grandi frivolezze. Il mio dono è tanto unico quanto infido e temibile. No, qui non si parla di frivolezze.Non necessito un fanciullo che risvegli in me la dolcezza di una gioventù ormai trascorsa. Il mio stesso viso, nei suoi lineamenti più amabili,ne è un ricordo perpetuo e indelebile.Questa stagione effimera per molti, è per me costante.  Una maledizione, forse? Una grazia, obietto io. Chiunque mi guardi resta incantato e ogni passante in strada volta gli occhi per ammirarmi. Sono io il fanciullo del poeta.Il volto della primavera perenne  che tutti bramano. Il seme che possiedo. Il seme bramato, supplicato, agognato. Sarei folle a volerne diventare tomba, eppure… eppure rabbrividisco alla sola idea che tale perfezione possa essere a me sottratta. Una voce, quella stessa, profonda, mia voce che mi spinge ad amarmi mentre ti guardo, specchio, mi spinge a conservarlo questo seme, a custodirlo, gelosamente.E poi questa voce mi parla di sangue. Vuole il sangue. Il mio piacere, la sofferenza altrui.Voi non la sentite questa voce? Voi non credete che io senta questa voce?Perfezione. Tutto ciò che è difetto va nascosto, relegato alle più oscure stanze del mondo. Sono eternamente giovane e perfetto. Perfezione. Altro non puoi avere da me, specchio.

Conclusione a “due voci”:

A: Cos’altro dovrei fare? Aver paura di guardarti, specchio? Di guardare questo mio sproporzionato viso?

B: E cosa dovrei fare io? Immagine perfetta all’esterno ma mostruosa all’interno, costretto a non vedere altro che la seconda quando di fronte al mio riflesso.

A: Un mostro sì, ma che ora ha in mano il mondo.

B: Lo stesso mondo che mi ha reso così, corrotto, privo di integrità. La mia non è stata una scelta.

A: Avevo forse alternativa? Quando ciò che conta è apparire, a cosa servono moralità e valori nel raggiungimento del più alto potere?

B: Servono quando convinti di distruggere gli altri per i nostri fini, non procuriamo che del male a noi stessi. Questo è quello che ora so. Questo ciò che vedo.

A: Esiste allora una possibilità di redenzione? Tornare a guardare il proprio riflesso senza esserne disgustato?

B: Agli occhi degli altri la nostra immagine non muterà mai… 

A+B: …così eternamente opposti, così perfettamente uguali.

Narratore

 Da lontano giunse l’eco esile di un tuono. 

Quarta Categoria:
Follia amorosa[8]

Lettera di un innamorato

                                                                                                                             8 maggio

Amata F,
Voglio che tu smetta di dubitare di me, perché sapere che il mio amore ti sembra un fiore che nasce e muore ogni giorno mi fa odiare la mia vita che non è nient’altro che tua serva da quando mi hai tolto a me stesso. 

 Così scrivo qui l’ultimo frutto del mio continuo malanno, amore, che per tanto tempo ho considerato la sorgente della mia vita, il nutrimento per saziare un certo appetito, ma che forse, alla fine, non è altro che bacino di oscurità e fuoco. Adesso la vedo, o Dio o Dio o Dio, ora vedo l’oscurità in cui siamo. Ma poiché questo è il tuo regno, decido di fermarmici, rinunciando al sole che non è caldo come il tuo inferno.
Se prima il buio mi spaventava e il fuoco mi bruciava e avrei tanto voluto una via d’uscita, adesso non saprei come aprire gli occhi davanti a una luce che non sia la tua e non riuscirei a inspirare senza l’inferno che mi passa el core.
Pensavo fossi cara e così ti ho seguita e inseguita perdendo a ogni passo un pezzo di quello che sono stato prima di incontrarti, la mia ragione è sparita, ma era solo di intralcio alle nostre felicità e a quella dei tuoi cani, esseri divini ormai figli per me. Pur di riuscire a vedere il tuo bel viso e non solo più le tue spalle ho agito come nessun essere umano dovrebbe. Nessuna vita potrà mai valere quanto un tuo desiderio o respiro e così, oltre a perdere pezzi di me, tanto altro ho dovuto sacrificare, per te, che esisti nel mio cuore senza avermi mai toccato.
Mi sono meritato una tua carezza, dopo aver ucciso per te mia madre, almeno da compensare il vuoto d’affetto che sarebbe venuto, ma la tua mano a me non si è mai avvicinata, così mi chiedo, cosa devo fare per sentire le tue dolci membra? Godi di tutta la devozione che ho per te, chiamami amore della tua vita e fa che io possa cullarmi in eterne estati grazie alla tua pietà. Nulla importa se ti sei rivelata porto chiuso ai miei occhi e al mio cuore, perché ti appartengo da quando i miei occhi li hai usati come finestre per rendere il mio petto la tua casa. Chissà chi sarei io adesso, se in quel momento fossi stato addormentato, visto che io senza te, donna diva, non sono.
Mi piaci sempre più e così voglio celebrare la mia ossessione irrefrenabile.
Mi sei entrata dentro, ora mi esci da tutte le parti, nel mio corpo non so più dove farti stare, l’hai riempito già tutto, e così ti lascio andare con il mio sangue, trabocca dalle mie vene, scorri e nutri questo mondo.
Ti dedico questo mio gesto d’amore, non credere mai più alla notte e lasciami adesso una carezza, per favore.

                                                                                                 Tuo perdutamente innamorato M 

4 maggio 

Caro M,

Forse non m’ami più? Mi dissi che mi amavi perdutamente, eppure io non vedo niente; l’altra notte ho anche sognato, un sogno strano di sgomento, che costodivi un’urna con dentro le mie ceneri, le spargevi al suolo, te ne liberavi come di un brutto giorno, come di un cane che non si vuole più, come di un figlio nato morto. Cosa mi dice la notte? Che non m’ami.

Eppure ciò che ti chiedo, tu lo fai, succube amante dei miei desideri.

Ti dissi, burla malvagia, portami domani, il cuore di tua madre per i miei cani: tu ieri uccidesti tua madre per me. Le hai dissacrato il petto, disonorato con le tue stesse mani colei che ti mise al mondo e che ti fece vivo. Dovrebbe farmi felice, non è vero? Eppure il tuo amore mi sembra un fiore che nasce e che muore ogni giorno.

Daresti la vita per me? Non avresti il coraggio, chiederesti pietà, ma io per te non ne ho; io ti odio perché tu non m’ami.

Non posso farmene niente delle tue lacrime e delle tue virtù, della tua onestà e delle tue follie, di parole scritte nei deliri del tuo amore cieco.

Amore mio, se mi vuoi bene, fa che io possa toccare con mano quel sangue che dici scorrere soltanto per me, e forse lì io ti potrò amare.

Tua F

Narratore

L’analista appoggiò un momento il libro sul suo busto coperto a faccia in giù, così da avere momentaneamente le mani libere per stropicciarsi gli occhi. Fece uno sbadiglio e tra un colpo di sonno e un altro riprese la lettura.

Quinta Categoria:
Vendetta[9]

Leòn e Marlene

Il chiasso del locale rendeva semplice perdersi nei ricordi a entrambi. Con una mano Leòn batteva un ritmo a cui nemmeno lui stava pensando, mentre con l’altra stringeva il bicchiere del whisky in cui lentamente il ghiaccio allungava il liquore. Sul divanetto di fianco a lui Marlene reggeva una Lucky con il filtro macchiato del suo rossetto in una mano e un Martini Dry nell’altra. Il fondo del suo bicchiere aveva raccolto tutta la nota amara del gin, ma la norma sociale del contesto in cui si infilava periodicamente pretendeva che il bicchiere rimanesse vuoto.

Un plauso seguito da grida e risate e schiamazzi dall’altra parte del locale destò entrambi dai loro pensieri e voltandosi in quella direzione videro un uomo dalla barba rossiccia e con un occhio nero acclamato da una folla radunata attorno a un tavolo verde. L’uomo era rimasto bizzarramente impassibile.

Avevano entrambi molto di cui parlare e poco dannato tempo per farlo: per lei il tempo era denaro, il denaro potere e il potere era tutto.

Il sicario sorseggiò in maniera delicata. – Voglio diecimila dollari in più, questo lavoro è stato una vera merda! – disse. Marlene lo guardò come se non avesse fiatato, con una nota di disgusto, aveva pensato un avventore che, sentito rumore per la prima volta dal loro tavolo, si era girato in quel momento. La donna tolse il filtrino dal bocchino ed estinse la combustione in un Fenton Swirl. Poi con compostezza, rispose: – Non ti pagherò proprio, ci hai messo più del dovuto; avevamo un altro accordo -.

–          Mh – rispose Leòn – Se questo è il modo in cui vuoi fare andare le cose penso che dovrai trovarti un altro professionista: non lavoro per una puttana che non paga -.

Ci fu un momento di pausa in cui due bicchieri di cristallo si toccarono.

–          Ti reputo intelligente, Leòn, sai? Però quando non regoli la lingua … – un tonfo sordo si levò da sotto il tavolo. Léon contorse la faccia: il suo piede era appena stato trafitto da un tacco a spillo.- …Possono succedere cose molto brutte – disse lei sogghignando. Il suo piede si alzò. – E ricordati che sono l’unico motivo per cui New York non ti ha ancora divorato-.

–          Se sei dove sei è merito di tutti gli ostacoli che ti ho tolto di mezzo in questi anni… Se solo volessi… io – sussurrò Leòn in preda alla rabbia, mentre afferrava il calcio intarsiato della sua Colt preferita-.

Con aria di sufficienza Marlene guardò il suo braccio e schioccò le labbra – Saresti così stupido da puntarmi addosso la pistola che ti ho regalato? Sei più riconoscente di così, mettila via.-

Lui la guardò, come se fosse lei ad avere una pistola in mano. Marlene aggiunse: – Sei solamente un mio strumento, nulla di più, senza di me vagheresti senza uno scopo preciso – poi con le braccia si spinse verso Léon e gli stampò un bacio sulla guancia.

Adorava che la barba la pungesse.

Si alzò sistemandosi i capelli crespi, grigi come il fumo, mentre lui fissava ammutolito la pelle di lei come squamata, riuscendo quasi a ricordare la bellezza di un tempo ormai sfiorita. Si era fatta divorare dalla sua ossessiva smania di potere e lui era stato a guardare inerme, senza rendersene conto fino a quel preciso istante. Lei non lo aveva mai amato, o almeno questo era quello che traspariva, ora limpido come il bicchiere di lei.

Spezzò bruscamente il suo monologo interiore: “Chiamo un taxi, andiamo a casa

mia!”

Durante la traversata del locale Marlene si fermò un secondo per sistemarsi il gancetto del tacco a spillo che le si era girato al contrario dietro la caviglia e mentre accovacciata decise anche di pulire il sangue sul tacco. Dietro di sé aveva lasciato una scia di goccioline rosso sipario, una percorso che decise di seguire con lo sguardo nonostante sapesse benissimo dove avrebbe portato.

I suoi occhi videro le zampe del tavolo ma il piede di un uomo pestò una delle sue goccioline e decise di cambiare bersaglio della sua curiosità. Smise in fretta di seguirlo con lo sguardo, per concentrarsi su una figura che aveva attirato la sua attenzione.

Era una donna. Indossava un vestito bianco marmo, fatto di un tessuto lucido, che dopo quattro piccoli bottoni all’altezza dell’addome lasciava posto a una gonna a tubino, mentre in testa aveva un cappello la cui rete copriva gli occhi e non permetteva a nessuno di far incrociare il suo sguardo, poichè assorto nel bicchiere che aveva posato sul tavolo. Questa, sentendosi osservata, alzò la testa e incontrò gli occhi di Marlene. In mezzo secondo le parlò con lo sguardo, facendole intendere del suo disagio nel trovarsi lì, circondata di gentaglia, criminali e istituzioni mosse solo dalla voglia di potere; le comunicò di suo marito, il quale non la amava più, come neanche lei amava lui, ma che le proponeva questo genere di serate per mantenere lo status; le parlò di Marlene stessa, che in quegli occhi si rivide come fossero uno specchio. Tuttavia, come spesso succede tra estranei, entrambe distolsero subito lo sguardo, e la donna tornò a nascondersi nel suo calice in vetro.

I due colleghi si ritrovarono sull’uscio che l’uomo del posto stava tenendo aperto per loro. Lo varcarono e salirono delle scale di compensato che portavano fuori dalla cantina e, varcata la botola, fecero un cenno di saluto al proprietario della pizzeria. Passarono indisturbati tra i clienti indaffarati a consumare la loro cena e uscirono sul marciapiede; Marlene alzò un braccio come segno di richiamo al taxi che viaggiava nella loro direzione.

Leòn fu pervaso da una sensazione angosciosa. Sentì come se non dovesse salire sul taxi, come se fosse la sua vita a farcelo salire sopra, non lui. Tuttavia provò a mettere da parte i brutti pensieri e obbedì al corso degli eventi, come aveva sempre fatto prima. Salì su quel taxi, su quei sedili su cui prima si erano sicuramente sedute molte altre persone nel suo stesso stato d’animo. Quel fottuto taxi lo stava traghettando verso l’inferno di una vita vissuta nell’ombra dell’altra

-110 Longfellow Avenue – disse Marlene, e l’auto partì.

La donna decise di prendere subito in mano la situazione: – Non ti illudere che io e te finiremo a fare qualcosa stasera, Leòn. Ricordo benissimo certi avvenimenti ma sai benissimo cosa penso del nostro rapporto. E sai benissimo che sono il tuo capo e che non conviene che due come noi finiscano a letto assieme. A proposito – e nel dire ciò estrasse dalla pochette da sera una busta con la paga del sicario. Leon la fissò stizzito per un momento, poi la prese e la infilò nella giacca.      – Come può dirmi questo? – pensò tra sé e sé, – Come riesce a essere così crudele? Come fa a non rendersi conto di quanto mi sono annullato per lei? Non si accorge che penso a lei soltanto? Come cazzo è possibile? -. Guardò fuori dal finestrino le luci della città, i passanti sui marciapiedi, i negozi chiusi, la polizia.

-Deve togliersi questo tarlo- pensava Marlene intanto,- non sono né Phoebe né Rachel e non ho intenzione di scopare come se fossi sua. Certo mi divertirei ma devo mettere da parte questo desiderio: non sono più una ragazzina e non posso permettermi di darla in giro come capita o perderei il rispetto di tutti i più grandi bastardi di questa città. Ho un’attività da portare avanti -. Guardò fuori dal finestrino i cestini, le prostitute, i grattacieli, i barboni.

Erano già arrivati sul Verrazzano-Narrows Bridge e nessun’altra parola era stata detta. L’atmosfera era molto pesante, carica di tensione: sapevano entrambi che sarebbero finiti a litigare.

Arrivati a casa di Marlene il rumore dell’auto fece svegliare la vicina, che però richiuse gli occhi; il rumore delle portiere che si chiudevano la fece ridestare: – Fottuta sgualdrina – pensò prima di riassopirsi.

Con regalità Marlene estrasse dal portamonete una banconota che porse cordialmente al tassista. Attese il resto, poi lo salutò con un – Arrivederci -.

Mentre percorrevano il vialetto, lei davanti con già le chiavi in mano, Leòn fu catturato dalla vista del corpicino di uno scoiattolo in decomposizione ai piedi di un albero: Perché lasciarlo lì? -, pensò tra sé e sé. Poi il rumore delle chiavi contro il pomello lo riscosse e seguì la padrona di casa oltre l’uscio.

Uscì dal taxi visibilmente scocciata, e buttò il mozzicone di sigaretta per terra quasi volesse ricordargli dove fosse il suo posto: dietro di lei, a raccogliere quel mozzicone imbrattato di rossetto. Lui lo fece e dopo averlo buttato in un cestino rimase immobile a cercare di capire quale fosse il modo migliore di procedere. Ma lei lo anticipò subito: – Leòn, sono stanca di tutto questo – disse salendo gli scalini di casa sua – vai a prenderti una birra qui sotto e togliti di mezzo -, non lo guardò nemmeno in faccia, emise un grugnito bestiale in segno di disprezzo e tirando fuori dalla borsetta un paio di chiavi aprì il portone. Ma Leòn non si mosse, non aveva la minima intenzione di spostarsi da lì e dargliela vinta, non quella sera.

Ignorò il comando di Marlene e la seguì sugli scalini.

Nel momento esatto in cui lei girò la chiave nella serratura del portone, Leòn rimase attonito (sbalordito) da ciò che si celava dietro l’oscurità: un immenso museo di opere d’arte. Gli ricordava uno di quei musei minimalisti, all’insegna della modernità e del lusso, ma una volta avvicinatosi poté scorgere dipinti risalenti ai più grandi maestri del passato.

“Si parla di milioni di dollari” pensò Leòn appoggiandosi alla porta esterrefatto, “come è possibile che siano finiti qui dentro”. Si girò lentamente verso Marlene, che disinteressata dal suo stupore momentaneo si incamminò verso la scalinata di marmo togliendosi il soprabito e lasciandoselo scivolare lungo le spalle. La scalinata portava al secondo piano della casa, e sui muri che accompagnavano gli scalini vi erano affissi unicamente quadri di Modigliani: tutte donne senza pupille. Le cornici si immedesimavano con il resto del muro per il loro colore bianco intenso, tutto sembrava freddo e surreale. León raggiunse frettolosamente Marlene al piano superiore e la seguì fino al suo studio; un lungo corridoio si apriva, mostrandone la magnificenza: su un lato appariva in tutta la sua gloria il Guernica, quasi a dimostrare il suo potere e la sua forza ,sull’altro lato La persistenza della memoria, a ricordare il tempo, onnipotente, e alla fine del corridoio, solo, in mezzo a pennellate di tonalità scure e sfumature macabre, La ragazza con il turbante, in tutta la sua eleganza e raffinatezza, quasi volesse sprigionare bontà e purezza velate. León aprì titubante la porta dello studio lasciata socchiusa e vi entrò. L’improvviso cambio di tonalità lo scosse per un secondo: un’unica sfumatura di rouge noir . Si girò intorno finché non vide Marlene seduta alla sua scrivania con un’altra sigaretta in mezzo alle labbra a contemplarlo con occhi ipnotici e crudeli, mentre esattamente dietro di lei si stagliavano nella loro maestosità le pupille di Jeanne Hébuterne, senza fine. Eccola, come Modigliani, León aveva trovato la sua Jeanne Hébuterne, Marlene, e ora cadeva in quei suoi neri e profondi occhi, senza fine.

Era stordito.

Tutto, in quella casa, gli stava facendo capire di essersi perduto. Ogni quadro, ogni elemento d’arredo avevano iniziato a sussurrargli debolmente la verità, aumentando poi di intensità, fino ad assordarlo… il mobilio inanimato l’aveva portato a realizzare di aver sempre conosciuto l’intima essenza di Marlene, ma di averla sempre nascosta a se stesso. Non era amato, non lo era mai stato, aveva accettato di legarsi ad una donna che non era legata a lui e che, per tutte le volte in cui lui aveva tentato di dimostrarle che l’amava, ve ne erano state altrettante in cui lei aveva trovato occasione di schernirlo.

Non poteva pensare di vivere senza di lei, nè poteva sopportare la sofferenza di essere rifiutato ogni giorno. Incrociò lo sguardo della donna, un sorriso malato, le labbra secche, avvizzite,

I pensieri di Leòn iniziarono a schiarirsi, raggiunse una lucidità a lui nuova. Non poteva resistere a quell’inferno un minuto di più o sarebbe arso vivo. E la sua amata, non più un sole, come l’aveva sempre voluta vedere, ma una fiamma infernale, che lo consumava sempre più, ritta davanti a lui, deformata in un sogghigno che pareva eterno. Accarezzò la Colt, rimastagli in tasca per tutto quel tempo, e, in un battito di ciglia, la estrasse. Marlene sbiancò. Il gesto, rapido e deciso, l’aveva colpita.

Leòn sorrise. Per una volta, l’aveva preso sul serio, ma la pallottola non era per lei. Questo sarebbe stato l’ultimo dei propri omicidi.

Aveva sopportato troppo, aveva accettato di sottomersi ad una vita che lo aveva consumato e ad una donna che si era compiaciuta di osservarlo appassirsi piano piano. Guardò il ritratto di Jeanne Hèbuterne, poi Marlene. Capì di aver amato una delle donne che Modigliani avrebbe dipinto senza pupille, perchè non aveva mai compreso davvero la sua anima. Era vuota, nonostante lui si fosse sempre voluto convincere del contrario. Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, vide Marlene, il volto di lei più pallido che mai, ammutolita, con gli occhi vuoti, bianchi. Si rifiutò di guardarla, volse la propria attenzione sul dipinto alle spalle di lei, volendosi perdere negli occhi di Jeanne mentre si portava la pistola alla testa. L’ultima cosa che vide fu il ritratto di un’anima.

Lo sparo riecheggiò per tutta la casa, ma Marlene neppure lo sentì. Era immobile, come di pietra, mentre osservava Leòn riverso a terra, col sangue che sgorgava dalla sua testa, dal suo volto ormai sfigurato, di cui anche lei era ormai cosparsa, mentre si spargeva ai suoi piedi.

Eppure non provava nulla. Il cadavere davanti a lei sarebbe presto scomparso sottoterra, cenere alla cenere, non sarebbe rimasto niente.

Del fedele sottoposto, dell’amante mai corrisposto, alla fine non le importava… non fosse che avrebbe dovuto trovare qualcun altro per sostituirlo nel lavoro.

Forse la verità era che non le importava di nulla, a un tratto anche la ricchezza aveva cessato di avere un senso, di avere un’utilità, per la prima volta si sentì spenta, come se non avesse più uno scopo.

Si alzò e prese da terra la pistola di Leòn.

Alle sue spalle si stagliava il volto di Jeanne, ora macchiato del sangue di Leòn, l’ultimo torto che lui le aveva fatto. Cercò di rivedersi nel ritratto che l’aveva sempre affascinata, l’immagine dell’unica donna di cui un autore immortale fosse riuscito a cogliere l’anima, ma non vi riuscì.

Gli occhi di Jeanne la scrutavano, la donna, non più impassibile, si sentì sbagliata. Il ritratto era l’espressione più viva dell’amore dell’autore verso la propria moglie, sentimento che lei probabilmente non era mai stata in grado di provare.

Si sentì vuota, per la prima volta comprese cosa, di quel quadro, l’aveva sempre inconsciamente ossessionata: lo sguardo di una donna viva, reale… all’improvviso Marlene non si sentì più tale.

Quei due occhi le stavano dando alla testa. Puntò la Colt verso il dipinto, come a voler spegnere lo sguardo vivo, acceso, di Jeanne.

Non aveva mai provato amore, Leòn si era ucciso per la sua indifferenza e a lei tuttora non importava, non provava nulla. E questo sentimento che non l’aveva mai toccata, che l’aveva sempre rifuggita, forse la odiava.

“Ma odiami pure, amore, ora conosco il tuo pensiero:

tu ami chi può vederti, ed io sono cieco.” [10]

E altri due spari riecheggiarono nella notte.

Narratore

Era giunto all’ultimo racconto, stanco, esausto; l’orologio segnava un numero troppo basso persino per le facce di un dado, ma non voleva abbandonare la ricerca della sua via di fuga. Lesse il titolo dell’ultimo capitolo, ma cominciata la prima riga cadde addormentato. 

Sesta Categoria:
Femminilità, idealizzazione, donna-angelo[11]

Quello che voglio

Primo SonettoSecondo Sonetto

Un giorno d’estate, riflessa in sabbia d’oro,la luce negli occhi come freccia ardentenel petto entrava. Il fuoco tra le tue dita imploroma tu lo lasci cadere e lo calpesti sprezzante. [12] L’anima s’accende come stoppie nella brezzaper quelle labbra da cui il frutto a me proibito cresce, perché il solo vento t’accarezza:lascia che lo colga prima che il tempo sia sfiorito.
Quella fascia di cielo che i capei biondi cinge,spezza e liberati da quella fasulla aureola:se l’abito bianco rappresenta la purezza,tu donna mia vestiti del nero più scuro. Ora ti vedo, non un angelo ma verace,adesso so che sei quella che voglio.[13]
Coming from across the sea, Sandypierced my soul with her gaze.Her lips, as sweet as ripe cherries,I harvest. “Tell me more” they said amazed Since the bonfire has been slain by my cruel wordsI find no peace, and all my war is done.All the power that you’re suppling bend my worldsand make chills and sorrow enter my every bone Liberated from thy light blue hairband, thou tie me with your new golden knots.I’m gonna break free from the mould, show thee that thy faith is justified I better shape up cause you need a manbecause I see thee, you’re the one that I want.[14]

Narratore

Laura non era tornata a lavoro come lui, era in mutua da qualche giorno: anche per lei la rottura era stata dolorosa, ma non voleva essere vista o vedere nessuno per qualche giorno, per avere lo spazio di riflettere. Manzoni invece mirò l’ora e pensò: “Che spreco che oggi sia qui solo per il colloquio”. La stanza era la 101. Bussò ed entrò. Venne fatto accomodare. Il collega, con cui non era mai stato particolarmente in confidenza, gli avvicinò una confezione di fazzoletti dell’Ikea.  

I pensieri di Manzoni si persero nel blu del tavolino. Mentre i ricordi di Laura gli riaffioravano nella mente, rievocati dalla vista di quel blu estoril che tanto le piaceva. Poi una lacrima cadde su quel mobile colore del cielo.


[1] Nota dell’analista: «I dati del paziente sono preoccupanti, confonde le illusioni della sua mente con fatti realmente accaduti, manca completamente di senso di realtà, non mangia, non vive. Sembra aiutarlo solo la poesia.

[2] Nota dell’analista: «Il paziente presenta un raro caso di ossessione per la critica letteraria. Vive immerso nella poesia: la produce, la legge, la scrive e l’analizza dettagliatamente. Ovviamente manca di ogni rigore scientifico. È ossessionato dalla forma sonetto».

[3] Sonetti 272 (Petrarca); 102 e 151 (Michelangelo); 1 (Shakespeare).

[4] Riferimenti:

–  Francesco Petrarca e in particolare i sonetti XC, CXC e CLXXXV: utilizzando la stessa metafora scelta dal poeta, in questi si afferma che l’amata sia un po’ come una fenice, proprio perché la sua scomparsa non ha consentito una sua morte definitiva; Laura infatti rinasce ogni qualvolta il poeta decida di ricordarla e il momento della sua apparizione, nonostante appartenga ad un passato che non può più tornare, permane nell’eternità grazie alla sua memoria che lo riporta all’istante in cui si è ritrovato legato a quei begli occhi, all’istante in cui ha commesso il suo primo giovenile errore.

–  Seneca, il De Brevitate Vitae e quindi la constatazione della fugacità della vita: non sono i giorni a trascorrere troppo velocemente, bensì siamo noi che non sappiamo dare il giusto valore alle cose importanti. Rendiamo la vita breve dedicandoci ad attività di poco conto, per questo motivo Seneca invita a dedicarsi alla ricerca della saggezza, essendo consapevoli che il tempo è un bene prezioso. Possiamo rivivere eventi passati attraverso la memoria, però sarebbe sbagliato rifugiarsi in essa per paura di fronteggiare il futuro.

–  Catullo e il Carme V: è posta in primo piano la capacità di godersi ogni attimo donato dalla vita proprio per il fatto che essa è troppo breve, amando e accogliendo le gioie di ogni momento; i baci dell’amata sono ciò che combatte lo scorrere del tempo, essi sono ricordati e dipinti dettagliatamente e l’immagine che giunge a noi è viva, dinamica, nonostante essi siano stati soltanto attimi appartenenti all’esperienza di un singolo uomo.

–  Angelo Poliziano e Lorenzo de’ Medici, il primo nella Ballata delle Rose e il secondo nel Trionfo di Bacco e Arianna: infatti “chi vuol esser lieto sia”, perché “di doman non c’è certezza”, afferma il Magnifico, e insieme al Poliziano invita ad accogliere i piaceri della vita, compresi quelli più terreni, proprio perché la primavera non è eterna.

–  Orazio, Ode 1, 11, 18: è un invito a cogliere l’attimo, confidando il meno possibile nel domani apprezzando ciò che abbiamo senza perdere tempo in attività inutili o che non ci appassionano. 

[5] Nota dell’analista: «Il soggetto potrebbe soffrire di un grave disturbo bipolare. N.B. consultare il Grosso su questo. Il soggetto è ossessionato dagli specchi. È narcisista: vaneggia sul potere di Nerone e Riccardo III. Quando portato all’aderenza con la realtà, il soggetto si esprime in forme oscure, come poesie o monologhi interiori. Sembra ossessionato da Dorian Gray e dai personaggi dei film. Cita spesso American Psycho. Crede di avere un fratello gemello, uguale, ma diverso».

[6] Nota: Monologo ispirato alle figure di Nerone e Riccardo III.

[7] Nota: Monologo ispirato alle figure di Dorian Gray e di Patrick Bateman.

[8] Nota dell’analista del 5 maggio: «Il soggetto manifesta tendenze masochiste. È disposto a uccidersi per la propria amata. Temo si tolga presto la vita. Inizialmente credevo l’amata non esistesse, mi sono dovuto ricredere. Il paziente sembra poter fare qualunque cosa pur di averla. Lo calmano le poesie. È ossessionato dai sonetti di Shakespeare e Petrarca. Ascoltiamo insieme la musica e chiede sempre di mettere La ballata dell’amore cieco di DeAndré. Credo presto dovrò intervenire».

[9] Nota dell’analista: «Il soggetto è costretto alla terapia solo perché temporaneamente in detenzione. Sembra sano. Ha forza di volontà. Non rivela i nomi dei suoi complici. Non rivela con chi ha parlato. Non rivela chi gli ha dato l’arma. Gli chiedo di lasciarmi qualcosa di scritto. Sembra un racconto. Non riesco a capire cosa sia vero e cosa no. È ossessionato dalle pupille delle donne dei quadri di Modigliani e dal sonetto 149 di Shakespeare. Dalla vendetta».

[10] Sonetto 149 (Shakespeare).

[11] Nota dell’analista: «Il soggetto potrebbe anche interrompere la terapia, è solare, canterino, allegro. Soffre tuttavia di grafomania. Scrive costantemente. È stato mandato da me perché la patologia sembra rara e acuta. Scrive solo sonetti. Alcuni in metrica, altri no. Vuole riscattare il genere femminile in poesia. Vuole raccontarlo. Ossessionato dalle donne e dalla bellezza. Quando interrogato sul suo senso di realtà vaneggia. Parla solo di cinema e di musical, in particolare Grease. Lo conosce a memoria».

[12] Nota dell’analista: «Il paziente ha sviluppato una dipendenza dalle sigarette a partire dall’inizio della sua relazione problematica con una cantante».

[13] Nota: riferimenti in ordine a sonetto 2 (Petrarca), sonetto 1 (Petrarca) , sonetto 1 (Shakespeare),  sonetto 130 (Shakespeare)

[14] Nota: riferimenti a Midsummer night’s dream Atto 3 scena 2 (Shakespeare), Tell me more di Grease, I find no peace adattamento del sonetto 134 di Petrarca a cura di Sir Thomas Wyatt, sonetto 90 (Petrarca), You’re the one that I want da Grease.

Secondo Movimento

V: Nascondi ciò che sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni

[Entra il coro]

Il lampo accecante di una visione:

una suora, un bambino, un’attrice

e poi il buio e l’assenza di colore.

È il bianco a trattenere la luce

dove un ladro di versi si nasconde,

mentre due colpevoli, un (finto) poeta e un artista

giocano a fare a nascondino.

E allora avviamoci per certi corridoi semideserti,

prepariamoci a incontrare le facce su quelle pareti:

i volti, gli sguardi, i gesti e le mani

nei mazzi di carte, tra le maschere

e dietro il sipario di quello che verrà domani.

[Esce il coro]

Un (finto) Poeta

Cucì su faccia, vendetta qual porti,
Maschera di furor guida del cor.
Gridando òe1 il Doge gioca ai morti2
e fa suo seggio lì, spodesta Amor!3

Si tesse sì la trama a fili storti
di destin fatal, correo d’ardor,
ma scorda il ché pensier ha tempi corti,
ciarlatan la Rachel4, ch’aizza al traditor.

Che accadrà quando Amor di nuovo assedio5
con l’arme tenterà? Strideran crani
divòti di fedel adepti al dio6.

Affannoso sarà romper i Pani7
e il trapassar premer8, senza quel Dio9,
bucata d’ago il dì dei vèlle insani10.

*Schema rimico: ABAB ABAB CDC DCD
In ordine i versi delle quartine sono di tipo: piano e minore, tronco e maiore, piano e minore, tronco e maiore.
I versi della prima terzina sono tutti piani e maiori, mentre quelli della seconda sono tutti piani e rispettivamente in ordine a maiore, a minore e a maiore.

Come ritmo sono rispettivamente in ordine: giambico, dattilico, giambico, giambico; giambico, anapestico, giambico, anapestico; anapestico, giambico, giambico; anapestico, giambico, giambico.

1. [1] [1] Òe: “Notissimo richiamo che i vogatori usano come avvertimento all’approssimarsi di un incrocio di canali o di una curva. All’òe ! di risposta di un altro vogatore dichiarano da che parte intendono dirigersi, con “a premàndo” se vogliono andare a sinistra, “a stagando” se vanno a destra e “de longo” se proseguono diritti. (Vedi anche prèmer e stalìr)”; fonte: https://www.vogavenezia.com/glossario-m-p1.htm, Coordinamento Associazioni Remiere di Voga alla Veneta. Questa espressione chiave per la risoluzione concettuale del sonetto, approfondita in seguito nella nota 8.

2. Il Doge che gioca hai morti ha un doppio significato: nella gondola il ferro da prua è composto da diverse parti e quella superiore è detta “testa del Doge”, quindi l’idea che il Doge faccia questo gioco con i morti è da intendere metonimicamente come la gondola che fende l’acqua creando quell’apertura che permette lo scorrere dell’imbarcazione, come se in mezzo ad una folla, un esercito, lui mieta le vittime facendole cadere; mentre a livello storico, ricollegandosi a quanto detto prima, per entrare nella metafora generale ripresa da Petrarca della guerra d’amore, si parla del Doge Domenico Selvo che nel 1075 affronta una dura guerra contro i Normanni e nel 1081 si scontrano nella Battaglia di Durazzo, un sanguinoso scontro navale (collegamento alla gondola) che vede molte perdite nei ranghi della Repubblica (ecco i morti con cui gioca). Da notare, infine, che nel quadro in basso a destra figura una testa del Doge appartenente ad una gondola ormeggiata nel canale veneziano.

3. Riferimento di riscrittura concettuale della prima quartina del sonetto di Petrarca: “Amor che nel penser mio vive e regna”. Qui riportato da Francesco Petrarca, Titolo: “Canzoniere” a cura di Sabrina Stroppa, Einaudi, Et classici.

Amor che nel penser mio vive e regna
e ‘l suo seggio  maggior nel mio cor tene,
talor armato ne la fronte vene:
ivi si loca, e ivi pon sua insegna.

Tutto il sonetto segue l’idea di Petrarca nei confronti dell’amore che si insedia nella mente partendo dal cuore (Rif. commento di S. Stroppa). Qui è il caso della vendetta, però, che per un momento invade la mente della protagonista del trittico di Hayez, Maria (prima tavola), per poi essere spodestata nuovamente dall’amore (ultima tavola del trittico). Nel sonetto di Petrarca la situazione è la seguente: dal cuore Amore giunge nella mente (v. 3) e ne diventa il regnante, caso appunto della protagonista del trittico, fino al termine della storia illecita d’amore, in questo sbigottimento emotivo Amore perde il controllo sulla mente e lì si insedia la Vendetta che annebbia l’agire e condanna la protagonista del quadro.

4. Rachele è una citazione diretta al trittico di Hayez, Deus ex Machina della vicenda rielaborata nel sonetto. Questo è il collegamento diretto al quadro preso in esame.

5. L’assedio richiama sempre l’ambiente veneziano, perché si ricollega alla vicenda citata sopra dell’assedio di Durazzo e alla metafora Petrarchesca della guerra d’amore.

6. dio: si intende una concezione pagana della Vendetta che diventa padrona dell’atto umano. La protagonista ne diventa adepta. Da notare che questa decisione del prostrarsi alla Vendetta, segna già il destino della protagonista, ormai condannata all’inferno per il suo avvicinamento ad un dio pagano. L’’opposizione con il verso 13 quindi è chiara, lì il Dio cristiano l’abbandona per questa decisione e per il successivo suicidio.

7. Riferimento all’ultima cena, qui utilizzato metaforicamente per indicare la decisione del trapasso volontario, ossia la rottura dei voti cristiani. È il momento in cui si infligge la ferita mortale.

8. Premer: ha diversi significati, come fonte sempre: https://www.vogavenezia.com/glossario-m-p1.htm, ne riporto alcuni:
– Coordinamento Associazioni Remiere di Voga alla Veneta.
– Vogare con forza: in generale indirizzare la barca a sinistra (il contrario di stalir).

9. – Premi (imperativo): voga, oppure volgi a sinistra.
– A premando: dicesi per indicare la direzione a sinistra impressa alla barca.
– Cascar a premando: tendere maggiormente a sinistra.
– Vegnir a premando: venire verso sinistra.
L’idea è inventare il finale della vicenda omesso da Hayez, ossia immaginare che le lettere giungano all’amante e che venga accusato, allora Maria per i sensi di colpa opta per il suicidio, qui reso con il concetto di vogare a sinistra, con forza, girando la barca a sinistra, che riprende la concezione della sinistra biblica come direzione infernale.

10.  Rif. a nota 6: Dio, sarebbe il dio della tradizione cristiana che entra in opposizione col dio pagano della vendetta. L’idea è che essendosi abbandonata alla vendetta, essendo devota ad essa, è già in quel momento che ha perduto Dio, il suicidio è solo un ulteriore prova della perdita di Fede.

11.  il nome vèlle, che deriva dal verbo infinito latino volo (Rif. Enciclopedia Treccani), è licenza poetica, perché in italiano lo si trova solamente al singolare (cfr. Dante: a già volgeva il mio disio e ’l velle, Sì come rota ch’igualmente è mossa, L’amor che move il sole e l’altre stelle), mentre qui lo utilizzo con valore plurale: “dei voleri/volontà insane”.

Una donna tradita

In una mattina qualunque realizzai che colui che credevo un compagno di vita, un confidente e colui che credevo che mi avrebbe sempre protetta da ogni forma di male, era stato proprio lui a causarmi il male maggiore.

Era il periodo di carnevale a Venezia e quel mattino ero seduta sul terrazzo a fare colazione. Stavo guardando il magnifico paesaggio veneziano quando un valletto entrò per portare la posta. Solitamente la prendeva Alberto, mio marito, e mi sembrò strano che invece arrivasse direttamente a me. Sul vassoio trovai un’unica busta color crema, sulla quale c’era scritto il mio nome: la calligrafia era molto elegante, sicuramente femminile e dentro di me sentii una strana sensazione. I miei sospetti si confermarono quando iniziai a leggere la lettera: mio marito mi aveva tradita. In quel momento sentii tutte le mie certezze crollare, le gambe iniziarono a tremare e le lacrime a scendermi sul viso. Con i fogli stretti in una mano entrai in camera e chiamai a voce alta la mia dama di compagnia, Rachele. Era l’unica che potevo considerare abbastanza affidabile da raccontarle cos’era successo; lei ascoltò attentamente ciò che le dissi, parola per parola, poi rimase in silenzio per alcuni secondi e infine, guardandomi, esclamò: “dobbiamo scoprire chi è questa donna!”.

Seguire una persona non era mai stato nei miei pensieri e men che meno seguire mio marito e la sua amante. Ormai non ero più tanto giovane, i segni della vecchiaia stavano iniziando a comparire: se non fossi già sposata, sarei considerata troppo vecchia per il matrimonio. Ma c’era un qualcosa dentro di me che mi spingeva a dire di sì a Rachele e probabilmente era la curiosità di vedere chi fosse questa donna. Nella mia testa c’era una domanda che mi stava dando il tormento: “Mi aveva tradita perché non sono più giovane e bella come una volta?”. Il pensiero che lei potesse essere più giovane si stava facendo velocemente spazio nella mia mente e mi stava portando all’esasperazione. Pensavo davvero che il nostro fosse un matrimonio felice, per quanto raro sia vederne, ma a quanto pare mi sbagliavo. Mi sentii presa in giro per tutte quelle volte in cui mi aveva giurato che per lui la mia bellezza giovanile sarebbe rimasta, che non sarebbe mai sfiorita. Che ingenua che sono stata!

Pensai qualche secondo alla proposta di Rachele e poi annuii semplicemente con la testa. Mi ritrovai nel centro di Venezia con la mia dama di compagnia, chiedendomi se stessi facendo la cosa giusta, quando vidi Alberto entrare in un portone e riconobbi subito il palazzo, dove abitava Caterina. Rachele dovette sostenermi per un braccio perché sentii le energie abbandonarmi lentamente, mi sentii vecchia e tradita in un unico istante. Fu allora che mi venne in mente una frase che Alberto mormorò distrattamente durante un ballo a cui stava partecipando anche Caterina: “Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna1”. Quella sera non capii fino in fondo in motivo di quelle parole, anzi, pensai addirittura che le avesse dette a me. Al mio ritorno da Vienna, avrei dovuto intuire che tra loro due fosse nato qualcosa. Caterina era solita ripetermi quanto le piacesse Petrarca e Alberto, proprio Alberto, che leggeva solo i giornali, aveva iniziato ad appassionarsi alla poesia mentre io ero lontana da Venezia. A pensarci meglio molte cose che credevo casuali, ora hanno un senso: gli sguardi veloci ai ricevimenti, le frasi allusive… e poi… Petrarca. Dal mio viaggio a Vienna, Alberto lo leggeva, lo citava e lo ri-citava. «Colei che sola a me par donna» questa frase fu come il pezzo mancante del puzzle: Alberto lo aveva detto la sera del ballo guardandola e solo adesso capii che non lo aveva detto distrattamente.[1]

Ritornammo a casa e la prima cosa che feci fu sdraiarmi sul letto, lasciandomi andare ad un pianto disperato mentre Rachele cercava di consolarmi in tutti i modi possibili.

Cosa lo aveva attratto? I suoi occhi blu come il cielo, la sua risata cristallina o il viso senza rughe? Il pensiero che anch’io potessi avere delle colpe era diventato un punto fisso dei miei pensieri. Alberto era colpevole di infedeltà ma io stavo invecchiando e, in cuor mio, sapevo che a lui erano sempre piaciute le bellezze giovanili.

Alberto mi aveva sempre detto che ero più bella di una semplice giornata d’estate che, per lui la vecchiaia mi avrebbe reso ancora più bella. Non sapevo il vero motivo per cui avesse scelto Caterina, ma di una cosa ero certa: se la mia colpa riscattava la sua, la sua doveva riscattare la mia.[2]

Una donna e un guardiano notturno

[Nella sala di un museo, prima dell’apertura, una donna lava il pavimento. Si ferma, si appoggia allo spazzolone, guarda un quadro, riprende il suo lavoro.

Poi ripone gli attrezzi e si siede, giocherella con un mazzo di chiavi.

Si sentono dei passi.]

Donna: eccoti. Sei in ritardo.

Guardiano notturno: ho perso tempo nel sotterraneo, c’è una porta che non riesco a chiudere.

D.: non mi piace aspettarti, è tardi, la prossima volta chiedi aiuto. (ride)

G.N.: non è solo un contrattempo. È stata una notte strana.

D.: hai sentito dei rumori sospetti?

G.N.: no, no, qui è tutto tranquillo

D.: ma non hai una bella faccia

G.N.: cerca di capire, non posso essere sempre brillante

D.: ho capito, qualcosa non va. Cos’hai?

(G.N.: non risponde, getta uno sguardo al quadro)

D.: stamattina vuoi mettermi l’ansia, cosa c’è? Non ti angosciare per quello che hai fatto. Le rose hanno le spine!

G.N.: (continuando a fissare il dipinto, parlando tra sé e sè) Tempo, tempo divoratore. Spunta gli artigli al leone*. (pausa). Ma sì, non è successo nulla… (poco convinto, non stacca gli occhi dal quadro)

D.: Anch’io non sono dell’umore giusto, adesso ho una specie di presentimento.

[Si avvicinano al dipinto, entrambi leggono il titolo dell’opera, poi si guardano]

Francesco Hayez – Consiglio alla vendetta (1851)

G.N.: È per noi. Sta per arrivare.

Una persona coinvolta in un tradimento

Era ormai quasi da un’ora che vagavo persa tra le varie stanze, immersa tra i colori, ma senza vederne alcuno. Erano lì per essere amati da chi poteva vederli, e io mi accorsi di essere cieca. Facevo stancamente scorrere gli occhi sulle pareti con la fretta di passare il più velocemente possibile alla stanza successiva, mi sentivo osservata; potevo sentire i loro sguardi – più vivi dei miei – giudicarmi, ma fingevo ipocritamente di non accorgermene e per non dar loro alcuna soddisfazione filavo via con una maschera di noia e apatia stampata sul volto. 

Ad un tratto, forse per caso o perché lei aveva deciso così, per la prima volta in quella mattina guardai una delle opere di quel museo, solo che questa volta lei non guardava me. Mi sarei dovuta sentire al riparo, perché finalmente uno di loro mi ignorava, poi però vidi nei suoi occhi rivolti verso il basso un’ira composta e severa che divampava, ed era rivolta a me. Provai un profondo imbarazzo, poi rabbia e mi infuriai: sentivo il bisogno di ribattere, perché mi stava accusando ingiustamente e non aveva neanche il coraggio di guardarmi in faccia, mi disprezzava. Vedevo quanto si sforzasse a soffocare il suo dolore nelle rughe della fronte e nella mascella serrata, sulle labbra che facevano a gara per non separarsi l’una dall’altra, nella mano rigida che stringeva la lettera quasi con l’intenzione di accartocciarla. Quel muro di distanza e silenzio che prima io avevo eretto tra di noi era ora un muro di tela innalzato da lei: mi puniva vendicandosi con la mia stessa arma; ora ero io la traditrice, ora ero io la colpevole e odiavo me stessa. Il suo sguardo mi minacciava e io volgevo a me quel desiderio di vendetta. Non ero più mia, mi aveva tolta a me stessa.

Una volta quegli occhi mi guardavano adoranti, si nutrivano di me come io di loro, quel volto sempre rosso di vita ora sbiadiva alla mia vista, il petto caldo in cui mi nascondevo da bambina e le braccia, che erano stati la mia corazza, mi erano stati rubati tra il fango da ciò che mi aveva creduta sconfitta, qualcosa che ora li indossava al mio posto. 

Era proprio così che la ricordavo, con i capelli neri lucenti raccolti ordinatamente sul capo, quando si chinava per darmi un bacio o una carezza frettolosa prima di uscire di casa, mentre guardava distrattamente in borsa per assicurarsi di aver preso le chiavi, le sue guance rosse e il volto illuminato quando assaggiava uno dei primi piatti che avevo imparato a cucinare. 

«Quindi te ne vai?» mi aveva detto seria e io non avevo risposto, ero rimasta piantata davanti a lei, non provavo pena, non dispiacere o rimorso. Se ero mai stata certa di sapere qualcosa era che non avrei voluto vederla mai più. 

«Adesso ho bisogno di te, non puoi andartene.» 

«Ѐ da una vita che hai bisogno di me, ma non ti è mai interessato del fatto che fossi io la prima ad aver bisogno di te. Non ho forse sempre pensato a te, io? Io che per causa tua ho dimenticato me stessa? Ora è tardi, io sono cresciuta e ho imparato a bastarmi, ora tocca a te crescere.»

«Sai che non è stata una mia scelta ammalarmi.»

«Sì ma hai scelto tu di essere una pessima madre.»

Fu l’ultima cosa che le dissi prima di chiudermi la porta alle spalle. Mi chiamarono una settimana dopo, aveva ingerito una dose eccessiva di farmaci. Aveva deciso di andarsene così come aveva vissuto, con l’intenzione di farmi sentire in colpa. 

Guardai ancora la donna davanti a me, non cercai neanche di trattenere le lacrime che senza che me ne accorgessi avevano cominciato a scorrermi sulle guance. 

«Si sente bene?»

«Prego?» mi voltai verso la voce che aveva parlato. 

«Piango solitario sul mio triste abbandono. Sonetto 29. Mi piace associare le persone ai versi di Shakespeare. Lei sembra sola. Si sente bene?»

“Mi manca mia madre”.[3]

Un artista

Ed eccola qui, finalmente. Sono partito da lontano soltanto per lei, quest’allegoria della città di Venezia personificata in una donna che mi pare talmente vera da credere che le allegorie abbiano acquisito il potere di farsi carne. Le vedrei bene mutarsi scultura, quelle dita che penetrano e si insinuano nella stoffa, e quelle altre che non tengono le carte, ma le premono con forza, quasi ci fosse il reale pericolo che un vento terribile le disperda.

Ne faccio uno studio, lo cancello e ricomincio da capo.

È possibile non essere mai soddisfatti di un proprio singolo tratteggio? Viene da incolpare la matita, la carta scadente dell’album, forse; poi scopri che è il talento del vero artista che ti manca, e allora la matita la posi e rimani in silenzio a contemplare chi ha saputo fare di meglio. Lo sguardo scivola da quelle mani carnali verso un petto ampio ed infine incontrano un viso su cui un labbro trema dal pianto, un pianto che ha arrossato le guance, le quali avvampano sotto due occhi in ombra che non ti vogliono guardare e che rifiutano le carte che le dita pinzano e il braccio allontana dallo sguardo.

Quale sofferenza l’avrà spinta in quel porticato?, quale crudele, acerbo e dispietato core? Se questa figura fosse una statua, questo dramma acquisterebbe la tridimensionalità, e allora sarebbe insostenibile da osservare. Se fosse pietra, avrebbe la crudezza che soltanto uno scultore saprebbe scoperchiare dal marmo in cui si nasconde, ed io, io che non posso far altro che sedermi qui davanti ed emulare, e disperarmi di non saper fare di meglio, guardo la mia mano che traccia silenziosa quelle stesse forme meravigliose che ammira, e la guardo soffrire perchè non sa ubbidire all’intelletto.[4]

Una suora

Guardati: Eva sei, Eva davanti al demonio che ti spinge al peccato. O povera, povera ragazza. Lo sentì già sulla lingua? È il gusto dolce della vendetta, succo dell’inferno. Cosa ti hanno fatto? Guarda il tuo bel volto da Madonna: è pallido, anche la maschera è discosta, nessuna difesa ti è ormai rimasta. Povera, povera ragazza mia. È una strana pena questa: dolore affossa il candido cuore, di fiamma l’ira dalla terra fuori lo ritira.

Vendetta ti chiama, e lo sai, un solo gesto è adesso giusto. Ma lo vedo che volgi il volto altrove. Combatti forse l’ appetibil proposta? E ammonirti, condannarti io dovrei poichè diritto divino ti vorresti arrogare.

E come comprenderti?  Non potrei: l’unico amore mio è Nostro Signore e suor immacolata e verginale io sono. Nessun diritto all’ira, la superbia mi è interdetta, il petto mai mi può palpitare, fuor del grave giogo et aspro dovrei stare per cui i’o invidia di quel vecchio stancho che fa con le sue spalle ombra a Maroccho.  Questo è il giusto prezzo da pagare per Altro amor, più alto e sublime.

Come potrei mai desiderare io la vendetta sollevando il pugno mio quando con l’altra guancia dilaniata e gocciolante voglio Dio? Ma umana sono pur sempre…

Ed oggi la tua vista o ragazza mia qualcosa in me ha cambiato. L’Amor mio per me stessa in me si è ridestato per fare una leggiadra sua vedetta e punir in un di ben mille offese. Eppure, era la mia virtute al cor ristretta, per

 far ivi, ne gli occhi sue difese: Quando ’l colpo mortal laggiù discese Dove solea spuntarsi ogni saetta.

Ed ora come il sommo poeta ormai pace più non trovo e non ho a far guerra. A chi dare la colpa? Contro chi vendicarmi se la mia fede è finora stata sincera?

Ragazza mia cosa mi hai fatto? Ormai tutto è cambiato, io ora davvero ti comprendo…

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa?

Un’attrice

L’odore di vernice riempiva la stanza. Stando in quelle sale si poteva rivivere un mondo ormai decorso. Il passato aveva sempre affascinato Clarissa e Virginia e, per questo motivo, appena la loro compagnia teatrale, la Royal Shakespeare Company, aveva concesso loro una settimana di riposo dopo la messa in scena del loro ultimo spettacolo, avevano deciso di tornare in Italia, la loro amata madrepatria, e visitare i siti storici e i musei, a loro avviso, di maggiore interesse. Fu così che si ritrovarono di fronte a un’opera che le incantò. Vedendola, una sola idea balzò nella mente delle due giovani attrici: mettere in scena ciò che si trovava di fronte ai loro occhi.

ACT 1

SCENE 1

(Maria enters the stage running. She is wearing a green dress with a repentant look )

Maria: ( Stops running; out of breath ) What have I done? How could I? Not all hope is lost. I can still make amend of my wrongdoings, if I’ll be able to get that wretched letter back. ( Starts moving towards the right stage exit as to take something )

(Dark figure, masked and hooded enters from left stage entrance. It embraces Maria with a

seductive manner)

Maria: (Coming back and speaking to herself ) «Love is too young to know what conscience is;

Yet who knows not conscience is born of love?»

Masked figure: Oh, Maria, I thought we were already over this.

(Maria turns herself towards Masked figure )

Maria: That mask. That damned mask. Who hides behind that mask has driven me to send the letter that could cause a man to be condemned.

(Masked figure removes the dark hood )

Masked figure: Why, Maria, why do you want to save the man that cheated on you? You now have the opportunity to obtain your vengeance. Do not waste it. Remember: «For, thou betraying me, I do betray».

Maria: I will not let myself be deceived by your sly words, Rachele. «Sweet mercy is nobility’s true badge».

Rachele: You now talk of mercy, but you were not so merciful when all of this started. (She moves closer to Maria) Do I have to recall you who, between us, has wrote and sent that accusation letter?

Maria: I know that what I did is despicable and it is for this exact reason that I want to put an end to it. Hate, spitefulness, vengefulness. These feelings will not get a hold of me. You too should not be overwhelmed by them, they will only corrupt your soul and nothing good will come out of it. Moreover learning to forgive could make you content.

Rachele: But how will I be able to do this, if I have only known sorrow and malice my whole life? It is not possible for me to change. To be honest, I don’t want you to fall by his side.

Maria: This is not true! You can be something different. I will help you to change for good, to get

better, however you must really want it for it to happen.

Rachele: I know that with your support and guidance I will succeed and, for that, I’m going to be forever grateful.

Maria: It delights me to hear this. Now I have to make haste and avoid that letter to be sent. (Exits quickly the stage)

Rachele: (Faces the spectators) Now that the fool is gone, I can make sure that the letter reaches its destination. (Exits stage)

[Cinque mesi dopo]

Il cuore le batteva all’impazzata. L’emozione che Virginia provava in quel momento era inquantificabile. Stava finendo di sistemarsi il trucco quando udì una persona entrare nella stanza. Era Clarissa. Le due si sorrisero. Erano passati cinque mesi dalla loro visita in Italia, ma quello non era il momento di farsi distrarre dai ricordi. Entrambe fecero un respiro profondo ed entrarono. Era arrivato il momento di salire per la prima volta su un vero palcoscenico nei panni di Maria e Rachele.

Un bambino

Canticchio ad alta voce “Fra Martino campanaro dormi tu? Dormi tu?”, ma la mamma mi dice di smettere, anzi, di fare il silenzio perché siamo qui, ma io sono così annoiata!

Non mi piacciono per niente questi posti pieni di gente che non fa altro che guardare tutto il tempo dei quadri impolverati che nemmeno si possono toccare.

“Mamma…quando usciamo? Io ho fame…possiamo andare a prendere qualcosa da mangiare?”, mi guarda tutta arrabbiata e mi dice di no, perché questo non è il momento e il luogo…uff!

Ma cosa fanno queste persone per tutto il tempo? Osservano lentissimamente ogni singolo quadro, poi c’è chi gli fa la foto e c’è chi legge una specie di targhetta in cui è spiegato quello che sta vedendo. Anche mamma fa lo stesso.

Non è più divertente giocare con le bambole o correre in giardino? Io ho provato a fare come loro, ma mi perdo, inizio a pensare ad altro, proprio non ci riesco.

“Quarantaquattro gatti in fila per sei con il resto di due”,  mamma mi guarda e mi dice “Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, e l’anno, e la stagione, e ‘l tempo, e l’ora, e ‘l punto in cui non faremo più brutte figure in giro”.

Aspetta…ma questo quadro è enorme…Hayez…

Vedo tre persone disegnate, il primo è un vecchio signore con la barba lunga e bianca, mi ricorda proprio nonno, anche se lui ce l’ha più lunga. A guardarlo mi viene in mente “Movesi il vecchierel canuto et biancho, del dolce loco ov’à sua età fornita. Movesi il vecchierel el el el…”. A scuola, la maestra ce l’aveva fatta imparare a memoria per la recita, ma ho dimenticato come continua.

Ci sono altre due signore: la prima ha un vestito verde, sembra arrabbiata o forse spaventata con la seconda signora che è vestita di nero e la sta tenendo per un braccio. Chissà come mai, adesso chiedo a mamma…la vendetta di una rivale…rivale…forse una delle due ha fatto qualcosa e quindi è rivale per questo motivo.

Quella donna vestita di nero sembra proprio mia mamma quando mi sgrida…con il dito alzato e la faccia tutta rossa! Qui la faccia rossa non la vedo dato che ha una maschera. Ma perché ce l’ha? Ha paura di farsi vedere? Chissà cosa c’è sotto.

Vendetta…che brutta parola. Mi ricordo quando un giorno a scuola ho preso la matita di Martina senza chiederle il permesso e lei si è arrabbiata tantissimo, mi ha urlato di non toccare più le sue cose e mi ha dato uno spintone…quando le ho chiesto il perché lei mi ha detto di averlo fatto per vendetta.

Anche nei film spesso usano questa parola…secondo me non ha senso, perché alla fine non ti porta da nessunissima parte, solo a litigare e a litigare e ancora a litigare e a litigare…

Un ladro

Era il mattino dell’ultimo giorno di un’estate d’incomparabile dolcezza e i raggi del sole scoloriti da qualche nuviletta lusingavano le vette dei monti dorati in lontananza. Tenevo socchiusi gli occhi assopiti  e camminavo solo e pensoso, pendendo verso un lato. A volte poggiavo uno sguardo distratto sui quadri appesi alle pareti del museo per poi ritirarlo adagio appena ne avessi colto la forma vaga. Da così tanti anni coltivavo questo rito di passaggio per salutare il termine provvisorio della calda stagione che con molti dei dipinti avevo stretto un rapporto di intesa: era sufficiente un’unica occhiata veloce per consolidare la nostra gentile confidenza. Ormai avevo salutato quaranta estati, avevo le ossa di legno secco, il cuore di zolfo, la carne di stoppa e mi reggevo in piedi simile ad un covone dimenticato di paglia. 

D’improvviso mi accorsi di una novità da poco esposta. La mia mente ne rimase bruscamente assorbita e una dardeggiante meraviglia, trovandomi del tutto disarmato, assediò il recinto gentile del mio cuore dopo avermi trafitto gli occhi vuoti e corvini che divennero l’uscio di un fiume di lacrime amare, esondante fino ad innaffiare la punta delle mie scarpe.  

Sparsi lacrime a mille a mille, finchè lasso, persi le ultime lagrimette, e mi chiusi in una tenace contemplazione che arrestò i battiti del mio cuore per alcuni minuti. 

A poco a poco, da secco e disidratato che ero, un tenero incendio si ramificò per le membra dilombate come un grappolo d’agresto in una ampolla che dopo il collo cresce e, così, il fuoco divampò sempre più avaro e insaziabile. Da docile ronzino legato ad un albero divenne un destriero dalla febbre indomabile e rovinosa che strappò le vili redini di cuoio che lo tenevano servo. 

Tra i boccioli vermigli di rose profumate (fresca aulentissima) che le fiamme zampillanti avevano formato, intravidi il riflesso del mio grifo infame di corteccia nodosa che si sovrapponeva all’angelica figura nivea di lei dal viso più dolce della sapa, i capei d’oro avvolti in mille dolci nodi, le labbra rosso corallo ornate da rose damascate. 

Allora maledissi il Tempo, tiranno sanguinario che impietoso aveva affondato i suoi artigli leonini sulla mia faccia tanto da farla sembrare ormai un graticcio per seccare le lasagne. 

Ormai il fuoco dissennato aveva bruciato ogni cosa, dentro di me avvertivo la cenere che svolazzava come una fenice mossa dal vento angoscioso dei miei gelidi sospiri che passava per le fessure del velo mortale. 

Un mesto rintocco di campane risuonava tremendo e pendolava da un orecchio all’altro senza sosta. Impallidii di bianca paura tanto da poter vedere distintamente i bagliori luminosi del sangue che circolava come magma per le vene. 

Tremante come una facella, serrai le finestre dei miei occhi. In una nebbia grigio inferno il mio pensiero peregrino si figurò fulmineo come delle onde onde infrante contro una pietrosa riva: me, vecchierello con la gotta, canuto e bianco. Me, immobile mucchio d’ossa senza più carne, nervi, muscoli e strutture. Me, preda di orridi vermi e coricato sottoterra  all’ombra dei mirti, circondato da fiori languidi e canzonato dall’acuto gracchio di un corvo nero melanconia. 

Imprecai contro il cielo e le stelle crudeli. Forse quella crosta disgraziata poteva vincere ciò che né bronzo, né pietra, terra o mare avevano saputo contrastare? 

Doveva essere mio! La lussuria assassina, selvaggia, estrema, brutale, crudele, infida mi fece ladro non d’occasione. Con occhi di bragia passavo a setaccio la sala color triaca. Se qualcuno avesse soltanto incrociato con lo sguardo amoroso quel fresco ornamento, vi giuro, gli avrei cavato le due sfere dalle orbite a mani nude.  Ero un amante solo con il suo amato che mi aveva aperto il petto molle e teneva il mio ardente cuore in mano. D’altronde fuori dal museo infuriava una tempesta demoniaca: turbini di grandine bombardavano le finestre, acuminate saette sulfuree illuminavano a stenti la sala e delle raffiche di vento mormoravano a denti stretti parole arcane e assurde. 

Allo scoccare di un tuono unanime, con vorace cautela e divina ammirazione m’impossessai della rosa della bellezza eterna. Feci lezi, vezzi, carezze e feste a quell’idolo sacro. Dopodichè mi ricomposi e lasciai scritto in grafie dorate nello spazio ora nudo e orfano: 

Non un volgare ladro di galline come quel tal Cianfa Donati,

Ma ladro d’arte pregiata  e di parole levigate della risma del ballard-lord Francois-Villon, 

Will, io sono Will! 

Not just a common thief of humble fowls,

Like Cianfa Donati in nightly prowls,

But I am Will, a poet-thief who’s sly

In Villon’s art, where dreams and verses lie.


[1] Sonetto 126 (Petrarca).

[2] Sonetto 120 (Shakespeare).

[3] Sonetti 18, 116, 149 (Shakespeare); sonetto 29 (Petrarca); madrigale Come può esser ch’io non sia più mio? (Michelangelo).

[4] Sonetto 17 e 151 (Michelangelo).

[14] Nota: riferimenti a Midsummer night’s dream Atto 3 scena 2 (Shakespeare).

Terzo Movimento

When Forty Winters shall besiege your brow

[Entra il coro]

Dopo la pittura, la poesia, la musica

dopo i sipari, i palchi, e le scene,

dopo quei buffi personaggi e quei destini improbabili

non è rimasto altro che la vita,

che sempre sfugge alle Muse pretenziose.

Dopo tutto il rumore e il furore

rimane soltanto

la tragicissima e comicissima

nostra esistenza.

Non rimangono altro che gli sparuti frammenti,

gli oggetti, i templi,

i salotti, i vestiti e le tazze da tè,

un cappello, una parola umana, un’imprecazione,

le lettere, le strade, le rovine

e il ricordo abbacinato

di un’emozione.

[Esce il coro]

[Entra il narratore]

Narratore

Che cos’è la poesia? 

Come rami, che si dividono e si crescono all’arrivo della primavera, per secoli i diversi approcci a questa domanda hanno piantato le radici e fatto nascere boccioli nelle pagine degli scrittori. 

Per i più pignoli, la poesia è una forma d’arte, che consiste nella capacità di produrre composizioni verbali in versi, secondo determinate leggi metriche o secondo altri tipi di restrizione.

Per i poeti, spesso, la poesia è immortalità. Ogni parola è una lotta a spada sguainata contro le forbici che recidono la memoria, un monumento più duraturo del bronzo che si staglia inamovibile contro il passare del tempo. La poesia è un incantesimo, che rende immortale tutto ciò che altrimenti andrebbe perso alle sabbie del tempo.

Trova però alloggio, negli angusti e raccapezzati versi delle ninna nanne e delle filastrocche, una poesia i cui autori vivono lontani dalle centinaia di fogli e indagini stilate da uomini in giacca di tweed e cravatta di raso. Una poesia semplice, la cui fluidità va e viene a singhiozzi, il cui significato è spesso perso o dimenticato col passare di generazione in generazione.

È la poesia dei contadini, cantata sul far della sera , come unica compagna nella camminata verso casa, mentre il cielo si fa sempre più scuro e il sole scompare all’orizzonte. È la poesia delle mamme e dei papà con le loro ninna nanne composte sul momento, goffi e stonati cantautori che tentano di portare il sonno ai loro piccoli spettatori. È la poesia che un giovane amante, seduto nel suo rifugio in trincea, compone alla sua promessa sposa lontana, una lettera che passerà di mano in mano e di ufficio in ufficio postale prima di giungere la destinazione fra le mani di lei. 

Nulla sanno, questi improvvisati poeti, di metrica e accenti, di forme e generi, anche se molti conservano nella loro sgangherata libreria di casa almeno un libro di poesie. 

Varranno forse meno, i loro componimenti?

Per rispondere a questa domanda bisogna determinare cosa sia la poesia. E quindi, eccoci di nuovo qui, in un loop continuo da cui forse non si può proprio uscire.

Incapaci di dare una risposta completa a questo quesito, forse è il caso di lasciare che sia la poesia stessa a dirci quale sia il suo lavoro, attraverso i semi che negli anni ha seminato nei suoi lettori. Che essi siano baldi giovani il cui passatempo è ostentare la loro collezione di libri rilegati a mano, un giovane soldato che le poesie le ricorda vagamente o lontane filastrocche lette a lui dalla nonna quando era ancora un bambino.

Quanti colori diversi possono fiorire dal seme di una stessa poesia?

1935, Berlino. Superfluo è soffermarsi troppo sulle circostanze in cui i nostri protagonisti si trovano, la funesta storia chiara e nitida nelle menti di ciascuno di noi. Lei è tedesca, riccioli castani che le arrivano alle spalle e la frangia un’onda di lato come usava sin dalla fine del secolo scorso. Lui sempre tedesco, ma ebreo. Camicia sempre ben abbottonata e pettinatura che segue la moda del tempo, la incontra mentre siede in un parco della città di Berlino. Perché si trovi ancora in Germania nonostante i tempi non è ben chiaro. Per alcuni, è un giornalista, per altri, uno scrittore. Qualcuno sospetta che sia una spia, ma nessuno osa fare nulla. Si innamorano e lui promette di sposarla, ma le tensioni internazionali non sorridono nella direzione dei due giovani. Il ‘39 si avvicina e lui è destinato a lasciare la patria, destinato a non vedere mai più né la sua giovane amante, né quello che lui ancora non sa essere loro figlio. 

Report giornalistico

1º settembre 1939

4:17 a Danzica alcuni attivisti nazisti prendono di mira l’ufficio delle poste polacche. Gli impiegati

armati riescono a respingere il nemico.

4:26 tre aerei da combattimento bombardano il dispositivo a micce impedendo la distruzione del

ponte e così tenendo aperta la via di accesso ai tedeschi

4:40 viene bombardata la città di Wielun

4:45 apertura del fuoco da parte delle artiglierie tedesche

51’300 tedeschi contro 950’000 polacchi

Il tempo scorre lento, nell’angoscia dei soldati.

Scandito solamente da avvenimenti che li riporta alla realtà.

Una realtà crudele. Una realtà in cui stanno in attesa di un passato che per molti non tornerà, con nessuna certezza eccetto la peggiore.

Che il tempo divoratore cancelli gli orrori della guerra e la scia di desolazione lasciata dai carri armati

Che la natura si riprenda ciò che gli appartiene, invecchiando, ingiallendo e portando via il sangue dei soldati. 

Dalla lettera di Mia al marito Jeremiah

Settembre 1939, Berlino

Caro Jeremiah,

spero che stiate bene e che la vostra nuova vita in America proceda senza troppe difficoltà.

Qui le cose non fanno che peggiorare e confesso, a malincuore, che avete fatto bene a lasciare il Paese: Hitler ha appena invaso la Polonia e, ovunque, si respira aria di guerra.

Questa, però, non vuole essere una lettera di sconforto, perché ho da darvi una notizia meravigliosa: aspetto un bambino, il nostro bambino, amore mio.

Sapervi così lontano da me, non potervi abbracciare e non poter condividere con voi un momento così importante mi spezza il cuore, ma confido che, leggendo questa lettera, proviate la stessa gioia che ho provato io quando l’ho scoperto.

Ho, dentro di me, una creatura che porterà la mia bellezza e tutto ciò che voi, di me, avete sempre amato: sarà il mio specchio[1] farà in modo, con la sua semplice esistenza, che la rosa della bellezza non possa mai morire.[2]

Chiudete gli occhi, amore, e immaginateci tra una trentina d’anni: voi ed io, di nuovo insieme, ormai anziani, e nostro figlio. Vi accorgerete, allora, che è mia la bellezza che eredita (cfr. sonetto 2) e dalle finestre della mia vecchiaia voi vedrete, a dispetto delle rughe, il mio tempo dorato, la mia giovinezza[3].

Di quello che sono stata, nostro figlio ne recherà la memoria[4] e, in questo modo, io vivrò due volte: in lui e nelle parole, intrise d’amore, di queste nostre lettere[5].

Vi prometto che, allora, saremo dieci volte più felici di quanto siamo[6].

Con la speranza di ricevere vostre notizie al più presto,

Vostra per sempre,

Mia

Dalla lettera di Jeremiah alla moglie Mia

Ottobre 1939, New York

Cara Mia,

Sono lieto di udire che state bene, mi mancate da morire e lo confesso,non passa giorno senza ch’io vi pensi. Io ormai mi sono sistemato: sono riuscito a reperire un impiego anche se misero e m’è stato offerto un rifugio che mi permette di vivere dignitosamente.

Nonostante questo resta sempre impresso in me il ricordo di ciò che mi lascio alle spalle, tutta la sofferenza portata alla mia famiglia ma, più di tutto , lo sguardo di coloro che fino a poco tempo fa potevo considerare amici e che ora è carico di disprezzo, resta segno indelebile nella mia mente.

Mai quanto ora mi rendo conto di come la vita sia fugace e non si arresti un momento e la morte stia sempre dietro l’angolo.

Sapete quanto sia grande ed incondizionato il mio amore per voi ma non vi nego che la notizia da voi annunciata crea in me un grande dissidio. Se da un lato pensare ad un erede, immagine della vostra infinita bellezza mi riempie il cuore, non vi nego le mie preoccupazioni.

In tempi come questi il presente ed il passato mi tormentano,così come il futuro, percepisco soltanto odio e distruzione intorno a me ed immaginare di mettere al mondo un figlio in un paese che non accetta la nostra natura, mi distrugge.

Nonostante tutto non credo che la mia misera paga attuale possa fornire sussistenza a noi ed al nascituro. Cercherò di raddoppiare i miei sforzi trovando un’ulteriore occupazione, così da poter spedire a voi più denaro mensilmente.

Ogni giorno più convinto del mio amore per voi,

                                            Per sempre vostro, Jeremiah

[Entra il narratore]

Narratore

1965, Berlino. Che il mestiere del genitore sia difficile, non c’è alcun dubbio. Alla nostra Mia, la vita sembra non aver voluto concedere alcuna sorta di aiuto. Anzi, sembra proprio averle voltato le spalle. Persi i contatti con il fidanzato ed obbligata a mettere alla luce il loro bambino sotto le bombe della Seconda guerra mondiale, ora si trova ad essere separata dal suo stesso figlio, ora un giovane uomo in ricerca di un lavoro dopo aver finalmente terminato gli studi, da un muro. Come se non bastasse la terribile muraglia fisica che li separa, fra madre e figlio sembrano crescere piccole acerbe discrepanze ogni volta che la politica fa capolino nelle loro conversazioni.

[Esce il narratore]

Dalla lettera di Mia a suo figlio Milo

23 aprile 1975, Berlino ovest

Mio dolce Milo, 

in questa Berlino ancora una volta divisa torno a soffrire la nostra separazione: fa paura sottostare agli stessi astri senza potersi toccare. La mia unica consolazione, di questi tempi, è il nostro amato giardino. Ricordo ancora le tue manine che mi aiutavano a piantare i germogli delle rose che oggi mi riempiono gli occhi. Come vorrei poter tornare a quei momenti, per potermi ancora prendere cura di te come ora faccio con loro. Sarebbe bello che anche tu potessi dare vita a un tuo germoglio, al contempo specchio del fanciullo che eri, ed erede dell’uomo di cui oggi sono fiera. Vorrei poter chiedere al tempo tiranno di avere pietà del tuo viso luminoso, di concederti un’eterna estate; ma più che le mie lettere, forse un figlio potrebbe conservare la tua gioiosa essenza per portarla negli anni a venire. 

Qualunque siano le tue scelte, dammi tue notizie. 

Sei sempre nei miei pensieri.

Tempus edax rerum sed tibi, mea lux, semper vita praeclara.

La mamma

Dalla lettera di Milo a sua madre

1 Giugno 1975, Berlino Est 

Cara mamma, 

Vorrei poterti dire che la vita qui sia facile, che il sogno che avevamo, per il quale abbiamo lottato e sanguinato si sia finalmente realizzato. Mentirei. 

Non dirò che il futuro che tu auspichi per me non rientri nei miei desideri; il fatto è, mamma, che ho paura: alla fine tutto ciò che cresce non resta perfetto che per un solo istante. Il mio sguardo, prima lucente e pieno di speranza, oggi è infossato dal peso degli eventi. In questo momento un figlio non sarebbe che una brutta copia di me, una contraffazione del tuo amore materno. Penso a questo: con che coraggio potrei metterlo al mondo sapendo cosa lo aspetta? La mia unica speranza è Viola: anche se i suoi capelli sono ogni giorno più metallici, il nostro amore è raro quanto quello delle storie che mi raccontavi da bambino. L’unica ragione per la quale desidererei piantare un mio germoglio sarebbe la possibilità di rivederci lei.

Parlami ancora del tuo bel giardino, mamma.

Mi farò sentire più spesso. 

Tuo,

Milo

[Entra il narratore]

Narratore

1995, New York. Questa volta, il nostro protagonista è sì nato in Germania, ma fortuna ha voluto che si sia trasferito a New York in giovanissima età, quando la carriera di suo padre, a noi già noto, ma ora con trenta inverni alle spalle e un lavoro che sembra intenzionato a strizzare via tutta la sua forza vitale, finalmente ha preso il volo. Il nostro protagonista, un promettente giovane, si trova alle prese con il peggior nemico che un aspirante artista possa desiderare: la noia. Attraverso uno scambio di eleganti e sofisticate lettere indirizzate all’altrettanto colto suo compagno di studi, seguiremo la sua drammatica avventura, alle prese con le tragiche tribolazioni causate dalla difficoltosa carriera che è quella del ricco artista Newyorkese.

[Esce il narratore]

Dalla lettera del giovane Clemens al giovane amico Berenger

23 Aprile 1995, New York.

Carissimo Berenger, ti scrivo nella speranza che la presente missiva possa giungere a te in condizioni di buona salute e prosperità.

Mi trovo in uno stato di profonda e angosciata contemplazione riguardo il nostro mondo. Non passa dì senza che io non mi arrovelli inutilmente nel fallimentare tentativo di comprendere la superficialità intrinseca nella quotidianità che mi circonda. Sono giunto, dopo meditate riflessioni, alla convinzione che il solo tentativo di definire la squallida mentalità del nostro mondo non sarebbe altro che un complimento, che sicuramente coloro che ci circondano non meritano

Cosa sarà di noi, ora che il tempo ha portato via l’ultima goccia di buon gusto da questo pianeta, dirottandolo inevitabilmente verso un’incurabile siccità? Nulla, se non assetati nomadi in un infinito deserto. Profughi senza terra: questo resterà di noi. 

Ti domanderai, mio caro (nome), quale sfortunatissima occasione mi abbia portato a cadere in questo vorticoso stato di dolore ed insicurezza che da settimane ormai tormenta le mie povere notti. Ebbene, per quanto il raccontarlo mi causi infinito dolore, mi sento in dovere di confessare a te codesta atrocità, per alcun motivo se non per un egoistico desiderio di confronto e consolazione.

Ho avuto la sfortuna di scovare, una fredda mattina di inizio Aprile, tra la mia curata e folta chioma, un capello bianco. Aprile è il più crudele dei mesi, scriveva Eliot, e nulla è in mio potere se non dargli ragione. L’illusione della florida estate viene accoltellata, soffocata dal freddo che invade le mie carni ogni mattina. Questa nuova scoperta, avvenuta proprio ai principi di questo orrido mese, è la coltellata finale. Muore così, dissanguata sul pavimento del bagno, la mia disperata speranza per un’estate migliore.

Come tu sai infatti, è proprio fra pochi mesi che è stata stabilita la visita di un pittore, che, per quanto in alcun modo si possa confrontare il mediocre lavoro di costui con il nostro»], fu incaricato da mio padre di dipingere un ritratto di famiglia. 

E così il mio destino viene segnato, ed io immortalato nell’attimo in cui già la lacera mano dell’inverno inizia a deturpare la mia estate. 

Un tempo mi sarei paragonato ad un giorno d’estate, e tutti quanti seducevo più caldo e più temperato del sole d’agosto.

Cosa fare, amico mio? Come combattere le tracce del terribile passaggio del tempo sul mio viso? Come combattere il perpetuo moto che ci allontana ogni giorno dalla nostra natura, dalla bellezza classica e originale propria dell’uomo in tempi antichi? Un figlio, forse? Ma un figlio è inevitabilmente il risultato di un’unione, e difficile è per me immaginare l’esistenza di un essere in grado di imitare la mia bellezza se non alla sua più purissima forma.

Ogni passo che compio al di fuori della mia dimora causa dolorosi tumulti nel mio petto. Come possono vestiti così orribili come quelli dell’ultima settimana della moda competere con i classici, stupendi capi delle precedenti collezioni? Come possono, tutti quei nuovi emergenti artisti e la loro arte senza senso, tutta improvvisazione e nessun senso, avere così successo, mentre la nostra arte, con i suoi stupefacenti richiami alla classicità, viene posta in secondo piano?

In peggio precipitano i tempi. Il loro scorrimento nulla crea, ma tutto distrugge. Ben presto, saremo sepolti da macerie di un’eterna terra desolata.

Aspettando le tue consolazioni, cerco di calmarmi ricordandomi che vivrò in eterno nella mia arte e che nel mio genio non passerò mai.

Tuo, Clemens

27 Aprile 1995, New York

Amico di conoscenza e ingegno,

che immenso piacere poter accogliere queste tue preziose parole, e condividere con te questi miei complessi ragionamenti! 

Mi rincuora averti così lontano da me, mi sento estraneo a questi luoghi, in cui vi è gente totalmente smarrita, incapace di cogliere le vere sfumature della vita!

Io, invece, riesco ad assorbirle a pieno, difatti leggendo con attenzione qualche sonetto di Shakespeare e Petrarca, grandi capisaldi di ogni tempo, mi sono divertito ad esplorare i vari punti di vista con cui si tratta la figura femminile, e penso che possiamo entrambi concordare sul fatto che la sapevano lunga. Tutti noi, anche i più dotti, all’inizio, come Petrarca, idealizziamo e ammiriamo una misera donna, ma poi, come Shakespeare, realizziamo che essa altro nome è se non un cumulo di carne priva di intelletto, utile solo al dilettevole piacere carnale dell’uomo, e alla procreazione.

Ecco, vedi, è questo che io apprezzo dell’arte: essa rimane lì, immobile, al di là del tempo e dello spazio. La innalzo quindi a modello assoluto, più forte di qualsiasi innovazione e cambiamento, di pensiero e di abitudini con cui, goffamente, si tenta di modellare l’ordine primordiale delle cose! 

Ora mi vedo costretto a salutarti, la mia vena artistica mi chiama. 

Saluti, amico mio

[Entra il coro]

Abbiamo celebrato i poeti mascalzoni

gli scrittori di sonetti, madrigali e canzoni;

abbiamo parlato, in forma d’arte, dell’arte stessa.

Uniamoci allora all’ombra di questa roccia rossa

festeggiamo l’umano e il suo gioco in versi,

nobile e miserabile, terreno e spirituale,

e brindiamo con il seguente canto:

Andiamo, tu ed io,

Quando la sera si stende contro il cielo

Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;

Andiamo, per certe strade semideserte.

Strade che si succedono come un tedioso argomento

Con l’insidioso proposito

Di condurti a domande che opprimono…

Oh, non chiedere « Cosa? »

Andiamo a fare la nostra visita.

Nella stanza le donne vanno e vengono

Parlando di Michelangelo.

[Esce il coro]

Fin