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Verrà la morte e avrà i miei occhi

Sara Staiti Sellitto, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la figura di Loki dell’Edda, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.  

In questa riscrittura ho cercato di rendere la sofferenza di Loki, incatenato in una grotta dopo la morte di Baldr. A dargli la forza per resistere sono il suo forte desiderio di vendetta nei confronti degli dèi che lo hanno punito e una profezia rivelata a Ódhinn.

*

Tic.

Una goccia mi brucia il viso e mi riga la guancia come una lacrima di veleno.

Tic.

Un’altra. Il dolore deve avermi stordito a tal punto che ho perso conoscenza; succede spesso ormai. A poco a poco riprendo i sensi, stringo i denti cercando di sopportare il dolore e non urlare; tendo i muscoli e stringo i pugni, le unghie conficcate nei palmi. Mentre mi divincolo in preda alla disperazione le catene mi graffiano i polsi e rivoli di sangue scorrono lungo le braccia incrostate di sangue rappreso e terra. È passato molto tempo da quando Thórr e Skadhi mi hanno legato a queste rocce, qui, in questa caverna buia; all’inizio contavo i giorni del mio supplizio per mantenere almeno un barlume di lucidità, ma qui attorno a me è tutto così buio che ho finito per perdere la cognizione del tempo. Ormai la vista del sole è solo un vago e lontano ricordo.

Tic.

Mia moglie, Sigyn, non c’è: il veleno ha corroso la ciotola che si ostina a voler tenere sopra la mia testa e appena se ne accorta è corsa a cercarne un’altra. Anche nella disgrazia mi è rimasta fedele, ma temo che non sarà così ancora per molto e che presto sarà costretta a cedere: le tremano le braccia e le gambe mentre tiene alzata la ciotola, ogni giorno mi sembra di scorgere sul suo viso ingrigito, un tempo candido e roseo , una nuova ruga, segno del tempo che scorre implacabile ma anche della fatica a cui si sottopone.

Tic.

Mi lascio sfuggire un gemito soffocato che diventa presto un urlo, un urlo di disperazione, sì, ma anche di rabbia. Il mio corpo è scosso da violenti fremiti e così la terra, che comincia a tremare con fragore tutto attorno a me. Mi divincolo, tiro le catene con tutta la forza che mi è rimasta nel corpo per cercare di sfuggire a quelle gocce di fuoco che cadono dalla bocca del serpente ma è tutto inutile, non riesco a liberarmi. Almeno per ora.

Tic.

Il bruciore mi toglie il fiato; le lacrime mi bruciano la gola, ma cerco di ricacciarle indietro, come ho fatto quella volta. Le immagini di quel giorno tornano a susseguirsi vivide nella mia mente, ogni volta è come se rivivessi la loro morte, la morte dei miei poveri figli. Nelle orecchie mi risuonano ancora i latrati di Váli e le urla strazianti di Narvi, la carne dilaniata strappata con forza dal suo esile corpo, il sangue che cola insieme a brandelli di carne viva masticata dalle fauci di Váli, mentre loro stavano lì, diritti, a godersi il macabro spettacolo con la soddisfazione dipinta sul volto. Gli dèi Asi sono i colpevoli della loro morte e della mia tortura: hanno voluto punirmi per la scomparsa del loro amato Baldr che probabilmente tutti staranno piangendo in questo momento e continueranno a farlo. Tutti tranne me. Anzi, se avessi la possibilità di tornare indietro, pur sapendo quale punizione mi attende, lo farei uccidere di nuovo, tutto purché loro soffrano. E soffriranno ancora, lo so.

Tic.

So della profezia rivelata a Ódhinn. Pensava di non essere visto mentre si recava furtivo dalla veggente per conoscere gli avvenimenti passati e soprattutto quelli futuri, ma non poteva sfuggire al dio degli inganni e, prendendo le sembianze del suo corvo Huginn, l’ho seguito fino all’antro oscuro che era la sede della vecchia. Non entrai, rimasi all’ingresso della grotta per evitare che lei potesse accorgersi della mia presenza e ascoltai. La lontananza non mi permise di afferrare tutte le sue parole, ma quello che sentii fu sufficiente: parlò della fine del mondo, la fine che attendeva gli dèi Asi e la battaglia che avrebbero combattuto contro le forze del male. Tra loro c’ero anche io. E mentre loro ora si affannano cercando di causare tra i mortali infinite guerre per riempire la Valhöll di un esercito  sempre più numeroso, io trovo una consolazione per le mie pene nella consapevolezza che prima o poi tutto questo finirà e potrò vendicarmi. Me li immagino, tutti quei valorosi guerrieri, che si addestrano strenuamente e si abbuffano di carne e met, ignari di essere solo delle misere pedine in mano a dèi a cui si affidano e che pregano.

Tic.

Mi consola il pensiero della resa dei conti e la speranza che quel momento arrivi presto. Li affronterò e restituirò loro tutto il dolore che mi hanno causato, ucciderò i loro stessi figli di fronte ai loro occhi, mi trasformerò in lupo e li divorerò lentamente perché sentano il dolore di ogni singolo nervo lacerato, di ogni singolo osso spezzato mentre affondo le fauci nel sangue caldo e allora sarò io a godere della loro morte. Ucciderò Frigg proprio davanti a Odhinn, riesco quasi a percepire la sua rabbia mentre si rende conto di averla persa per mano mia, e poi Thórr e ancora Niördhr e poi Freyr e poi…

Tic.

Il veleno mi scorre lungo il corpo, il fragore della terra che trema copre le mie grida. Sigyr è via da un po’ ormai, sicuramente sta per tornare. Sì, sarà di certo sulla via del ritorno, pronta a soffrire ancora una volta insieme a me. Sì, eccola, sento rumore di passi, si sta avvicinando. Mi sembra che qualcosa si stia muovendo nell’oscurità, diretta verso di me. Ma perché non mi ha ancora raggiunto? Quanto manca? Perché ci sta mettendo tanto? Mi si annebbia la vista, mi pulsa la testa e le orecchie iniziano a ronzare, gli arti mi si irrigidiscono e a poco a poco smetto di agitarmi, la testa mi cade all’indietro.

Tic.                                                 

Tic.

Tic.

Bibliografia

S. Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Milano, Adelphi edizioni, 2019

Sconosciuto multiforme

Veronica Fenoglio, in questa sua composizione, riscrive e commenta in un’inedita prospettiva la nascita del mondo dal caos, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

L’ uomo, animale pensante dotato di un naturale istinto per la speculazione, si è da sempre interrogato sull’origine delle cose. Questa sua indagine costante ha generato una moltitudine di interpretazioni la cui esposizione è stata poi affidata alle narrazioni. Da questi racconti emerge spesso l’idea che tutto si sia originato da uno stato primordiale definito comunemente ‘caos’: termine che assume differenti connotazioni a seconda della cultura a cui si fa riferimento.
La riscrittura vuole presentarsi come un’interrogazione ontologica che il Caos compie su se stesso. Attraverso l’analisi delle varie definizioni che gli sono state attribuite nel tempo, egli si domanda se una di esse potrà mai aiutarlo a capire cosa è veramente.
Un Caos triste, sconosciuto a se stesso, che si indaga alla ricerca del proprio nome e del proprio io in un lamento eterno senza risposta.

*

In principio c’ero io?

Mi manifestai all’improvviso e fui assimilato all’inizio di ogni cosa. Non so come mi originai, né perché.

Subito, senza far nulla e senza che avessi nemmeno il tempo di accorgermi della mia esistenza, fui temuto poiché io ero il Prima. Apparivo spaventoso perché fa paura ciò che non si conosce: molti furono i tentativi di definirmi per far scomparire quella terribile sensazione di incertezza e timore.

Mentre cercavo di capire cosa in me scatenasse quella reazione, una verità straziante mi si presentò dinnanzi: nemmeno io sapevo cosa fossi realmente.

Mi accorsi di non aver memoria né storia. Non sapevo dove trovare risposta.

Una paura prepotente si impossessò di me da quel momento: il terrore di non poter mai conoscere la mia identità, il significato di questa mia esistenza.

Ancora adesso voglio disperatamente trovare un senso a ciò che sono.

Neppure il mio nome posso dare per certo. Troppi me ne sono stati dati, nati guardandomi con il terrore negli occhi e caduti davanti ad altri ritenuti più veri.

In principio,

Mi chiamarono voragine.

Videro in me una caduta eterna, inesorabile sprofondo, vertigine immensa. Mi trovo ai confini di ciò che esiste, esattamente nel mezzo, poiché il mio abisso si genera quando ciò che è si interrompe. E lì inizia il precipizio che sono io. Ha un limite la profondità del mio essere? Sono forse finito? Come posso essere certo della mia infinità?

Poi,

Mi chiamarono buio.

Mi venne assegnato questo nome perché mi trovo dove luce non può essere. Sono oscurità nera, intensa, spaventosa perché al suo interno nulla si riconosce più, tutto si perde e diventa indefinito. Eppure al mio interno tutto permane nella sua forma originaria e aspetta solo di essere scrutato. Più che assenza di luce, non sono forse assenza di sguardo capace di cogliere il contenuto del mio essere? Non sono semplicemente incomprensibile entità a coloro che vivono di luce?

In seguito,

Mi chiamarono disordine

Fui descritto come moto infrenabile e mancanza di stabilità. Dove io sono non c’è posto per alcun ordine, la confusione è sovrana. Mi definirono come un insieme di elementi fuori posto ma come potevano esserlo elementi che ancora un luogo fisso non avevano?  Non sono piuttosto governato da un ordine diverso in questa mia diversa realtà?

Ancora,

Mi chiamarono nulla.

Pensarono a me come un’assenza totale, come ciò che non è. Eppure questa visione di me porta in se stessa un paradosso insolubile: come posso essere vuoto assoluto se da me si è originato tutto ciò che esiste? Non sono piuttosto il tutto non ancora manifestato?

Poi,

Mi chiamarono caos.

Videro che in me nessun principio è valido, nessuna regola può essere rispettata. Ciò mi rende ancor più imprevedibile e terrificante. Sono confusione totale, assenza di punti di riferimento. Ma una realtà in cui domina il caso può dirsi priva di leggi? Il dominio del caso non è esso stesso un punto fermo, una caratteristica peculiare e permanente del mio essere?

Infine,

Mi chiamarono ignoto.

Si arresero alla mia incomprensibilità. Divenni inspiegabile ai loro occhi e decisero di smettere di cercare un modo per definirmi. Utilizzarono semplicemente la negazione: “non-noto”. Mi descrissero con immagini che sono negazione di altre o sottrazione di altro e non giunsero mai ad assegnarmi un qualsiasi statuto netto che non fosse rappresentato da un contrasto. Esisto dunque solo per negazione di ciò che è conosciuto? Significa forse che non c’è modo per conoscermi?

La domanda vive con me. Il mio tempo continua, la mia indagine prosegue.

Sono solo questo? Sono tutto questo?

Non comprendo chi io sia, e mi domando se mai riuscirò ad avere risposta.

Affranto, rimango sconosciuto a me stesso.

Non trovo specchio che mi rifletta, non trovo idea che mi comprenda, non trovo nome che mi rappresenti.

Qui il file commentato.

Muri nel mare

Rossella Cutuli, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la nascita del mondo, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

La mia riscrittura è incentrata sulle origini, non tanto del mondo bensì della sua bellezza in cui la vera forza creatrice e al contempo distruttrice è la Natura. Ispirata in parte alla Genesi e in parte alle Metamorfosi, non preclude un discorso scientifico. L’origine qui viene narrata dal punto di vista di un non-corpo che dalla propria immobilità coglie il più impercettibile dei movimenti. La narrazione è infatti affidata a un coro millenario, a dei faraglioni in mezzo al mare. Anche se non è esplicitato, i faraglioni in questione sono quelli di Acitrezza, in Sicilia, un luogo che è stato di ispirazione per tanti artisti e poeti, non soltanto Verga ma anche lo stesso Ovidio nell’episodio di Aci e Galatea (Met. 13).

*

Siamo nati più volte, senza mai morire.
Eravamo qui quando il Sole non esisteva,
e la Luna non esisteva e le Pleiadi non pulsavano
e il Mare non rumoreggiava.
Quando tutto era niente[1],
solo vuoto di liquide tenebre
s’accresceva nei suoi bordi frastagliati.

Eravamo qui prima di Poseidone
quando le unioni erano sterili
mortali o immortali che fossero.
Poi dai vortici d’argento fu disegnata
una bellezza sovrana,
essa creò i colori da un fiore
ornamento profumato per i suoi capelli,
ne creò un altro ancora più colorato del primo
da quello nacque un uccello
fu così che venne al mondo la bellezza, l’ineffabile, il sublime,
la facoltà dell’essere umani.

Di noi fece alte cime più divine del Parnaso,
qui nacquero le ninfe dalla bella chioma
qui cominciò il canto,
l’eco delle storie antiche[2]

Polifemo[3]ci scaraventò contro Odisseo ché l’aveva accecato[4].
Fummo sommersi dai diluvi[5],
a lungo non sentimmo il respiro del vento,
diventammo la casa e il riparo del ramingo Caino[6]
quando dio ci dimenticò nel tartaro,
ma svettammo ancora grazie alla forza sottomarina dell’Etna,
e ci rivestì della sua lava.
Accadde allora che Caino fu ucciso da un Re avido,
poi da un padre geloso
e infine per amore della Bellissima
ci abbandonò espiando.

Non apparteniamo a nessuna dinastia,
non siamo figli di alcun dio.
Eppure, molti furono i poeti che per noi narrarono
non demmo loro muse e ispirazioni
ma motivi e ambientazioni
da Omero a Verga, e a chicchessia
sorsero parole, immagini e personaggi
Odisseo, i Malavoglia, Aci e Galatea

«Aci era figlio di Fauno e una ninfa nata in riva al Simeto:
delizia grande di suo padre e di sua madre,
ma ancor più grande per me; l’unico che a sé mi abbia legata.
bello, aveva appena compiuto sedici anni
e un’ombra di peluria gli ombreggiava le tenere guance.
Senza fine io spasimavo per lui, il Ciclope per me».[7]



E qui, nel blu dello Ionio, restiamo immobili nella forma maestosa
cesellata dai venti,
con lo sguardo fisso da giganti e l’udito di roccia,
senza merito, né gloria
da cinquecentomila anni e più.
Non proviamo pena, né languore
le nostre ossa sono pietra
delle lacrime però abbiamo il sale.
Col tempo anche noi ci siamo evoluti,
a tal punto che il nostro orecchio, che orecchio non è,
riesce a udire i pensieri più remoti
e il nostro sguardo, che sguardo non è,
può vedere al di là dei corpi,
fino all’anima e ai sogni che si distendono oltre l’orizzonte.

Le anime dei vivi con i loro desideri e le loro paure
tracciano strade inarcate dal buio alla luce,
noi sappiamo tutto ciò che dall’anima si stacca e cosa vi è penetrato.
Anime il cui corpo cambia
e cambiando muove passi leggeri
lungo un cammino in eterna creazione,
un cammino circolare irto di fine e inizi.

-Una danza commovente per noi immobili-.

Con l’aiuto del vento, assorbiamo la polvere della loro memoria
perché ci chiedono verità e poesia
ma un solo nostro sospiro scatenerebbe cataclismi.
Soltanto quando tutto il rumore cessa nella quiete,
e terminano gli schiamazzi,
le urla dei mercanti di pesce, i pianti dei bambini,
quando l’intero Ionio è pace
e il sole è già calato con la stessa lentezza di una palpebra che s’abbandona nel sonno;
è allora che, nel silenzio dell’etere,
noi rispondiamo, non con parole funeste,
ma sul palco dei sogni,
è così che ripaghiamo i nostri dispensatori di storie
poiché esse ci svelano la verità.
Col tempo le storie sono diventate per noi ciò che per i pesci è l’acqua: l’essenziale.
Alla fine, secondo l’ordine del caos dove tutto va e viene, le lasciamo andare.
È la nostra unica legge. Il nostro unico movimento.
Ma qualcosa di quelle storie resta in noi, nella nostra immortalità.
La chiamano legge del tempo.
Noi sappiamo poco del tempo,
esso passa e non passa,
i vecchi ritornano bambini e i morti rinascono.
Ecco, tutto ciò che sappiamo.

Uomini e donne ci raggiungono a nuoto dall’Isola dei Ciclopi.
I più coraggiosi si arrampicano sul nostro crinale di grigia roccia scura
e alcuni, desiderosi di belle imprese,
colmi di meraviglia e angoscia chiedono:

«Il mondo è stato tutto questo?»

Non fanno in tempo a finir la domanda che il mondo è già cambiato.
C’è sempre una voce che vuole raccontare,
dire cosa è stato e cosa sarà.

Ecco, tutto ciò che sappiamo.

Tuttavia,
per gran parte della gente noi non esistiamo.
Scogli. Muri nel mare.
Questo siamo per quelli che arrivano e non si fermano,
che passano senza ascoltare, ci girano attorno e ci evitano.

Siamo fatti di atomi, e un atomo funziona come un animale?

D’altronde anche per noi è impossibile non comunicare.
Ed è evocando le loro emozioni che comunichiamo
ciò che a parole non possiamo.
Non è forse vero che pensano di essere fatti della stessa materia delle stelle,
ignorando o scordando che tutto è della stessa materia delle stelle?

L’immobilità è la nostra condanna,
ci differenzia da quegli esseri in eterno movimento.
Portatori universali di anime.

Esiste un ”noi” e un ”voi”
malgrado fossimo già uniti in quel nucleo caldo e denso,
in un tempo in cui non esisteva ancora il tempo;
prima che lo scoppio del più grande evento creativo avesse inizio,
sì, chiamatelo Genesi o Big bang[8].

Se potessimo vi invidieremmo
la morte e la possibilità di ricominciare
non è che noi siamo immortali e voi no, niente affatto.
Dopo ogni morte si ritorna alla vita, ed è ciò che noi chiamiamo immortalità.
In noi, cose della natura, adulatori di storie,
c’è la chiave di lettura del linguaggio dell’universo;
in voi la voce.
La nostra missione è portare il messaggio e mostrare la strada
spesso entrambi falliamo.
Non era questo ciò che volevamo
ma a noi non è concesso volere qualcosa.
Essere muti portavoce di ciò che immaginiamo sia la realtà è il nostro mestiere.

Noi, voi, siamo l’universo.
Ditelo, siamo l’universo.


[1] Ovidio, Metamorfosi, I, 1-20.

[2] Cfr. Esiodo, Teogonia.

[3] Ciclope della mitologia greca citato da vari autori antichi: Omero, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio.

[4] Odissea, IX, 480-486. La scena dell’accecamento di Polifemo e del lancio di massi da parte del Ciclope trova un parallelismo nel gigante presente nella novella Sindbad il marinaio, nella raccolta Le mille e una notte.

[5] Riferimento al Diluvio Universale di Genesi, 6, 13 ssg.; Ovidio ne parla invece nel mito di Deucalione e Pirra (Metamorfosi, I, 313-415) e ritorna anche nella mitologia babilonese (cfr. l’Epopea di Gilgameš).

[6] Caino appare in Genesi, 4,1-15).

[7] È il riferimento all’episodio di Aci e Galateanarrato in Ovidio, Metamorfosi, XIII, 738- 897.

[8] Cfr. S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988.

Bibliografia
Bibbia, Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Dehoniane, Bologna, 1974
Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, Rizzoli, Milano, 1984
S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988
Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 2014
Ovidio, Metamorfosi, a cura di G. Rosati, BUR, Milano, 2003
N. K. Sandars (a cura di), L’epopea di Gilgameš, tr. it. di A. Passi, Adelphi, Milano, 1986

Riscrittura Proteiforme: “Disseboperciambo”

Fabio Angelo Bisceglie, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i drammi shakespeariani Cimbelino e Pericle unitamente all’Odissea e alle novelle del Decamerone, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Trattasi di Riscrittura Proteiforme dal nome “Disseboperciambo” riproposto dai tratti del ridisegno in copertina, da lui realizzato: ecco un ibrido testuale, plasmato e ri-cucito su scampoli testuali di diversa provenienza il quale rappresenta le cuciture tra i diversi testi e generi.

*

Prologo
Un Giovane stava rovistando nella posta quando all’improvviso, tra la pubblicità emerse una busta rosa, con una scrittina in rosso, che diceva: “solo-(sé) hai coraggio, saluti Nessuno”. Curioso, senza perdere tempo, mentre correva in casa, aprì la busta e al suo interno trovò un biglietto, una USB e degli auricolari. Entrato in casa, sedutosi su un sofà, lesse il biglietto che diceva: Da ascoltare sola-mente se.. UH.. E.. S’É B?
Sconcertato dalla cripticità, si lanciò sul PC ed inserì la chiavetta…sul desktop comparve una cartella con su scritto “G”, che a sua volta, cliccandoci, portava ad un file (traccia audio) intitolato “Es-senza”. Inquietato dalla situazione, prese lentamente gli auricolari dalla busta e, dopo qualche tentennamento, decise di ascoltare la traccia…chiuse gli occhi per concentrarsi: non sentiva Nessuno, il silenzio gli accecava l’udito… quando ad un certo punto, gli parve di udire delle voci, erano come lontanissime, si trattava di voci femminili, anzi no, forse maschili…non capiva, le voci erano ibridate si mescolavano ma ad un tratto gli parve di riconoscerle.

Le Es-senze[in coro].
Un non luogo, dov’é… Dove sei? Oppure, anche sette, otto. Ove la cosa cade oppure H-ade, noi siamo.. si amo! Es-senze, ed invochiamo Dea G……per…

[Il Giovane sta ascoltando due voci, che si definiscono Essenze e che stanno invocando una sorta di Dea dal nome G. Aprí gli occhi, cercando il volume per alzarlo un po’, ma si accorge che il PC è spento. Toglie gli auricolari e le voci continuano a parlare…].

Un Es-senza
Di’ le pene più tristi senza mostrare il tuo sdegno per le mosche mortali, questo è il figlio che mai ho veduto, che non ha fatto altro che giustizia, quando sono morto era ancora nel grembo. Tu che sei il padre degli orfani, dovevi salvaguardarlo dai terrestri.

L’altra Es-senza
Mi strapparono il figlio dal corpo, in acque piangendo tra i nemici. La sua fanciulla seppe intuire il suo grande valore; però concedesti che il suo cuore puro venisse colpito, ricolmato di sciocca gelosia ed anche oggetto di scherno.

Le Es-senze[in coro].
Per questo motivo noi discendiamo dal cielo, il nostro figliolo ha snudato la spada, apri la porta al duro cristallo, benigno guarda e sospendi questo sdegno in favore di una stirpe d’onore, che tu stesso però colpisti con grande potenza. Le sue miserie pietose rimuovi, dacci soccorso almeno per ripicca.

Dea G
Voi che abitate le regioni basse, non oltraggiate la nostra pazienza, osate denunciare l’onnipotente? Povere ombre in esilio, ritornate alle lande fiorite senza crucciarvi dei casi mortali. Spetta a noi prenderci cura, non a voi. Do sventure a coloro che più amo, il dono quand’è inritardo più sarà goduto. Quindi, ecco il messaggio da porgli nell’animo: La più bella e dolce giace qui, la migliore che appassì nella primavera dei suoi anni, era la figlia del re; una morte orrenda, un martirio. Per l’orgoglio venne inghiottita dalla terra mentre il cielo si scagliava furioso sui litorali, giorno dopo giorno, per allagare il terreno che aveva osato tanto. Ora andate, cessate il frastuono o perderò la pazienza.

[Il Giovane si sveglia di soprassalto, e, sconvolto da ciò che ha sognato, si mette subito a pregare].

Il Giovane
Ti pregherò da lontano in parole di miele, io mi inchino a te che sei di coloro che possiedono il cielo. Sii misericordioso, non darmi queste sciagure.

[Ad un tratto, durante l’orazione, una voce di donna interviene nelle sue preghiere: è la Dea AN].

Dea AN
Alzati! Ehi, dico a te! Su! Caro ospite lascia che io ti guidi dove si radunano le mie vergini vestali e racconta a loro i tuoi sconforti, rivela come hai perduto tua moglie e tua figlia, dai voce alle tue pene; ricorda le tue sventure in mio onore e sarai felice te lo garantisco. Svegliati, su! Narra ciò che il sogno t’a suggerito.

[Il vecchio Gower apre gli occhi, ancora gonfi dalla sbronza notturna, sbracato su una poltrona di una casa di piacere. Non ricorda nulla di ciò che accadde, forse non sa neppure lui stesso chi fosse. Ha come un sentore che deve fare qualcosa. Un gatto gli salta sulla pancia e dei grilli saltano sul bordo della finestra ed in lontananza gli sembra di vedere un infante che gioca davanti al camino].

Il Gatto
Allora, che aspetti l’invito? Non vorrai mica svignartela?

I Grilli
No No, tranquillo vedrai che farà il suo compito…

L’Infante
La dea D-an si é raccomandata, di seguirla..

[Gower a questo punto pensa di stare poco bene: un gatto, dei grilli ed un’infante che parlano, tutto questo gli sembra molto strano. Preso dall’angoscia, scappa, si getta in strada e corre a tutta forza fino al mercato di D-an, dove decide di metter qualcosa sullo stomaco].

Gower
Così dopo la colazione, mi sentirò meglio…

[Si siede per un attimo a prendere fiato vicino alla fontana, quando ad un certo punto, colto da un impeto come se non fosse padrone di sé stesso, ovvero qualcosa lo muove come un burattino, con uno slancio capace solo ad giovane, salta sul ciglio della fontana ed inizia ad invitare i passanti, che stanno nei paraggi ad ascoltarlo].

Gower
Signore e signori.. – no, fermi! Non mi ascoltate, non credete alle mie parole – [è come parlato, cercava con forza di opporsi]. Scusatemi eccomi, oggi è una giornata un po così, comunque ascoltatemi, perché ho qualcosa d’importante da dirvi, io diro solo quello che gli autori celesti riterranno opportuno che io dica, ne più ne meno. – Stai zitto!

[La gente incuriosita dalla stravaganza che il vecchio suscita, si ferma e guarda].

Gower
Shh! Silenzio! Allora: Oh! disse: Oh, guardando verso il ciel…

[Rimane come ipnotizzato verso il vuoto, poi guardo la folla, attonito]

Gower
Perché io.. [con un tono femminile], sono nata cosi sciancata… mum? Oh, non m’avessero mai generata! Ho camminato come donna, come uomo per una notte intera… vorrei solo appoggiarmi qui e dormire, posso?

[Socchiudendo gli occhi, si lascia cadere perdendo conoscenza. Nello stesso istante una donna apre gli occhi e esce dal suo sonno].

La Donna
Ma che razza di roba stavo sognando, un uomo vecchio ed ubriacone. [Disorientata, non sa in che luogo si trova, a prima vista, sembra di essere in un specie di grotta bianca, moltoluminosa, apparentemente senza vie d’uscita] Ma dove sono? [S’accorge che affianco a lei sul suo letto c’é un altro corpo. Tirando un grido cerca di scendere dal letto ma non può, è come pietrificata]Un uomo insanguinato! [Spera di trovarsi in un brutto sogno] Sto tremando dalla paura e sono purtroppo sveglia sia dentro che fuori. Oh dio, dov’é la sua testa! [Si accorge che il corpo è caduco, e che i vestiti che indossa gli ricordano il suo amato]Ma certo, queste sono le sue mani, i suoi piedi e la sua pelle… [Impazzita di dolore singhiozzando cade su di lui, e con parole di dolore chiede spiegazioni al defunto, fino a perdere i sensi].

[Quando si risveglia, si trova altrove, spalanca gli occhi, ma non vede altro che buio. È come immersa negli abissi dove nessun raggio di sole può arrivare, nel regno dei meta-pesci ed i meta-carne].

Lo Zoppo
Tiresia…

Tiresia
Si, dimmi mio caro, stavo sognando di una donna che aveva lo sposo senza testa.

[Il timbro di Tiresia è come sentir cantar un coro all’unisono, chi gli parla è il suo aiutante detto Lo Zoppo, il quale lo segue ovunque per via della sua cecità; essi sono esseri proteiformi, mutano d’aspetto e di voce ad ogni passo, nessuno sa quale volto o voce abbiano. Essi si sono fermati per un riposo vicino ad un uomo cosparso di mele nel deserto].

Tiresia
Che cosa ha fatto quest’uomo?

Lo Zoppo
Ha ingannato e quasi portato alla morte degli innocenti..

[La parola innocenti rimane come sospesa in volo, mentre tutto il resto diviene silenzioso, l’uomo legato al palo riapre gli occhi, cercando di vedere da dove provenissero le voci, ma purtroppo non scorge nessuno, al di là del ronzio dei tafani, che pregustano la loro futura pietanza. L’uomo appeso al palo, continua ad avere allucinazioni sonore, però questa volta è un voce di fanculla a parlare].

La Fanciulla
Non si conveniva sepoltura men degna che d’oro a cosi fatto cuore.

[L’uomo riapre nuovamente gli occhi cercando invano: non c’è nessuno al suo capezzale].

L’Uomo
Andate via, spiriti! [Gridando].

La Fanciulla
Ah dolcissimo albergo di tutti i miei piacerei, maledetta sia la crudeltà che colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere!

[L’uomo ormai non patisce più alcun dolore, ascolta le parole, che per ragioni sconosciute, qualcosa gli sussurrano all’orecchio. Dopo qualche istante egli muore, e la fanciulla continua a parlare].

La Fanciulla
O molto amato cuore, ogni mio ufficio verso di te è fornito.

[Nel frattempo in un altro luogo, un signore spagnolo, stanco per la dura giornata, riposa, appoggiato ad un albero nei pressi di un mercato].

La Fanciulla
Né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua comp…

[Un boato interrompe il sonno dello spagnolo, infrangendo così il sogno in cui la voce della fanciulla sta parlando. Si guarda intorno preoccupato, per carpire che cosa succede e vede che un vecchio che di solito cantava storie, era caduto nella fontana, aiutato a rialzarsi si mise nuovamente a cantare].

Il Vecchietto
Venghino signori verghino questa notte al Gowhere Dream, un appuntamento da non perdere, con la nostra vergine speciale…fidatevi del vecchio Gower.

[Il signor spagnolo cerca di riprendere il sogno da dove l’ha lasciato, purtroppo senza riuscirci, allora decide di alzarsi e di andare a sentire le parole di quel folle, che nonostante la caduta continua a sbraitare senza alcun riserbo…].

Bibliografia
Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi; i libri o i passi indicati: V; IX; X; XI 333-384.

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi: Proemio, Introduzione gen.; II, 9; Introduzione alla IV giornata; IV, 1.

W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani

W. Shakespeare, Cimbelino, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani

Letterature comparate, a cura di F. de Cristofaro,  Roma, Carocci; Cap. III – V

Il Grande Racconto delle Origini. Riscritture commentate

Qui allegato il file contenente il prodotto finale del seminario Riscritture dell’a. a. 2020-2021, tenuto dai dott.ri Mattia Cravero e Cristiano Ragni, incentrato sul tema Ri-scritture delle origini, nell’ottica del corso Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il quadretto, contenente quattro riscritture selezionate tra gli atti del seminario e commentate dagli autori, è stato offerto come primo premio in palio al quiz della terza sessione del Grande Racconto delle Origini, in occasione di SHARPER – Notte Europea dei Ricercatori 2020, tenutasi il 25/11/2020. La registrazione dell’evento è disponibile su Webex o su YouTube.

*

Gli autori

Veronica Fenoglio è studentessa al secondo anno di laurea triennale in Lettere, indirizzo Moderno e Contemporaneo presso l’Università degli Studi di Torino. Dopo aver frequentato per un anno la facoltà di Chimica e Tecnologie Chimiche, ha preferito seguire una passione nata durante il liceo; ha deciso così di iscriversi a un percorso di studi umanistici. Nel 2020 ha partecipato al seminario Ri-scritture delle Origini a cura di C. Lombardi, M. Cravero e C. Ragni.

Alice Ferretti è studentessa al secondo anno del Corso di Laurea in Lettere, indirizzo Moderno e Contemporaneo presso l’Università degli Studi di Torino. Sin dall’infanzia sviluppa inclinazioni per le arti: frequenta corsi di canto e scuole di recitazione, ama il disegno e soprattutto la scrittura; non le piace limitarsi e sceglie il liceo scientifico con indirizzo di scienze applicate, conseguendo inoltre la certificazione C1 alla “Kaplan” di Sydney. Nel 2020 ha partecipato al seminario Ri-scritture delle Origini a cura di C. Lombradi, M. Cravero e C. Ragni.

Eric Garofalo (Campobasso, 2000), diplomato al Liceo Classico Statale Mario Pagano di Campobasso, è attualmente iscritto al Corso di Laurea Triennale in Lettere, curriculum Moderno e Contemporaneo presso l’Università degli Studi di Torino. Con particolare passione per il mondo del fumetto, a cui si avvicina fin da piccolo, i suoi interessi spaziano dagli studi umanistici alle molteplici forme d’arte, tra cui il cinema e il medium videoludico. Nel 2020 ha partecipato al seminario Riscritture a cura di C. Lombardi, M. Cravero e C. Ragni.

Alessio Parmigiani è uno studente della laurea triennale in Culture e Letterature del Mondo Moderno presso l’Università degli Studi di Torino. Prima dell’università, ha vissuto un anno a Melbourne, Australia, dove ha maturato un particolare interesse verso la letteratura inglese e angloamericana. In questo periodo si avvicina al giornalismo, scrivendo articoli per un’associazione italiana in loco. Successivamente, si è diplomato alla Scuola Holden di Torino, nel corso di scrittura a. a. 2018-2020. Attualmente si occupa di diversi progetti narrativi per vari settori, spaziando dall’audiovisivo fino all’educativo-scolastico.

Dal bianco e nero all’arcobaleno

Agata Scarsi, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la nascita dell’arcobaleno, abbinandola a tavole da lei realizzate, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Una rivisitazione di fantasia del mito delle origini, in endecasillabi, su modello soprattutto ovidiano ma senza escludere altri echi, con l’arcobaleno per protagonista: la luce bianca sostituisce la condizione indistinta primordiale, fino alla scissione, improvvisa, nei sette colori che dà origine all’Universo. L’arcobaleno come simbolo di bellezza, di mistero, di grandezza, e quindi del sublime, nonché, in definitiva, come metafora dell’amore all’origine della vita.

*

Gefjun, la dea

Valeria Pellegrini, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Edda di Snorri Sturluson, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questa riscrittura nasce da un desiderio di immaginazione, da un piccolo viaggio intrapreso oltre le pagine di un libro. Gefjun è una dea che perde la sua immortalità nel momento in cui viene dimenticata dagli uomini e racconta la sua fine attraverso una sorta di epitaffio ispirato all’Antologia di Spoon River.

*

I miei occhi e questo buio.
Sono seppellita tra le insenature,
sono seppellita tra le onde.
Non sento le carezze,
e il peso di una promessa
e le preghiere e i sospiri.
Intreccio ghirlande con fili di nulla.
Può morire una dea?

I miei occhi e questo sangue.
Sono Gefjun,
la dea,
la giullaressa,
la donna dimenticata,
la madre dei tori.
La mia storia giace sul fondo del lago Mälaren.
Non sentite il canto?

I miei occhi e questa bugia.
Re Gylfi volle ricompensarmi;
“per i tuoi capelli color corallo”, disse
“per la tua pelle di alabastro”, sussurrò.
Mi diede la terra e io creai un mondo
fatto di acqua,
di abissi e solitudine.
Non prova dolore una dea?

I miei occhi e questa rabbia.
Un tempo conobbi un gigante,
ebbi dei figli da lui,
li trasformai in tori e li aggiogai all’aratro.
Così forti che la terra si staccò,
così vivi che l’acqua affiorò.
Forse sono io stessa quel lago.
Non ascoltate la voce?

I miei occhi e questo freddo.
Sono morta in sconfinate notti;
morta, quando gli uomini mi dimenticarono;
morta, quando l’ultima supplica divenne sussurro.
Una volta splendevo,
adesso sono seppellita qui
sul fondo del lago Mälaren
Voi conoscete l’amore?

Bibliografia
Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Einaudi, 2014
Snorri Sturluson, Edda, a cura di Giorgio Dolfini, Milano, Adelphi edizioni, 2019

La lacrima di Ulisse

Manuela Mangiocco, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Odissea di Omero, nell’ottica del corso Raccontare, riscrivere l’Odissea. In prosa, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Se la prigione di Ulisse nell’isola di Ogigia divenisse la mente: se il suo pensiero in tormento rileggesse il passato con impietosa, severa condanna. Mentre, come prodigio o ineludibile necessità, il tempo tuttavia scorre: pronto a cantare un capitolo nuovo. Vivo e grandioso come l’urlo di un gabbiano

*

Ulisse cammina a piedi nudi, lento; il luccicore infuriato del giorno gli confonde la vista, gli annebbia la mente. Siede sopra uno scoglio argenteo, levigato: il mare è di una vastità atroce, sconfinata.

Fluttuanti, scivolosi come l’acqua i suoi pensieri, che sembrerebbe immobile in una giornata come questa eppure va e viene senza sosta, fino a inondare terre innocenti, straniere, emerse a farsi luogo abitato, o spoglio. Finanche alla sua adorata Itaca che oggi è sospiro amaro e assente, petroso di malinconia.

Sono trascorse settimane, mesi, persino anni; Ulisse più non li rammenta. Da quando gli è apparsa Calypso tra le fronde degli ontani, con le sue trecce molli adolescenti, su un viso acceso da malizie tremende. Da quando incredulo si è scoperto prigioniero di lei, del suo amore da piovra, lo stupore, la rabbia, il dolore feroce. Da certe notti disperate in cui l’ha posseduta con vigore, lo smarrirsi dei sensi odoroso di rovi e peonie, invocando gli dei tutti affinché quell’oblio potesse durare per sempre e cancellasse ogni ricordo.

Le ore infinite trascorse dinnanzi al mare han trasformato a poco a poco i suoi pensieri. Il desiderio di casa, di affetti, la nostalgia struggente si è fatta lama sottile, puntuta, a perforargli mente e cuore: la ferita che di giorno in giorno diviene più profonda sa di rimorso, condanna. Per quei lunghi infiniti anni di guerra e di viaggio che sente oggi non solo perduti ma ahimè!, sciupati. Il furore che cova nel petto, frustrato sempre più dall’impossibilità di tramutarsi in azione e vendetta, non ha ormai come bersaglio Calypso, gli dei, la misera sorte. Ma è contro Ulisse, Ulisse stesso!, che Ulisse va sguainando la spada del rimprovero, del giudizio, della condanna.

Ulisse curioso e avventuriero che per la fame insaziabile di conoscenza ha trascinato se stesso e i suoi compagni in mille folli avventure “su isole incantate, sfidando forze arcane”1, e ritardando all’infinito il ritorno.

Ulisse lascivo e libertino, che per un anno intero si è smarrito tra le braccia voluttuose di Circe e se non fosse stato per i compagni savi e piangenti, forse oggi sarebbe ancora lì, dimentico di tutto.

E che dire poi di Ulisse superbo ed orgoglioso che ha rivelato per insulsa civetteria la sua identità al mostruoso sconfitto Polifemo, attirandosi le ire funeste del tremendo Poseidone.

E poi ancora Ulisse pigro ed ozioso che per ben due volte, non sorvegliando a dovere gli stolti compagni, ha permesso che questi compissero sacrileghe azioni, madri delle più nefaste conseguenze.

Ma il vero e più colpevole Ulisse, pensa ora meditabondo, mentre una brezza leggera gli scompiglia la chioma, è Ulisse stolto, ignaro, ignorante. Ulisse che per interminabili anni non ha compreso il valore infinito del tempo, questa implacabile clessidra fatale agli umani che granello dopo granello porta via, per sempre, il mistero chiamato vita. E nulla rende in cambio.

Ed ora che lo comprende appieno non può tornare indietro a mutare la sorte né tantomeno andare avanti: che in quest’isola tutto è stasi, immobile segreto dell’orrenda dea; il tempo pur scorrendo non scorre. Come un uccello divenuto pioppo intrappolato dalle sue radici.

E maledice mille volte il dono che lei vorrebbe fargli, quello dell’immortalità! Gli sembra l’ultima beffa crudele del destino. Per farne cosa? Contemplare all’infinito gli errori, le mancanze, le folli sue condotte? Darsi in eterno dello stolto, dell’imbecille, dell’ignorante? Meglio sarebbe stato trangugiare il loto e avvicendarsi immemore, con un sorriso da ubriaco. O farsi trascinare nel fondo degli abissi turbolenti dalle sirene incantatrici, fino a scomparire nel vuoto…

Ma se pure ha imparato qualcosa in tutto questo peregrinare tra battaglie e incantesimi, malie e avventure, a cosa può servire? Se non potrà narrarlo all’unica donna di cui ha saggiato il cuore fedele, la saggia Penelope; se mai il figlio suo potrà farne tesoro e insegnamento.

Se così è, ogni lezione è stata vana. Nulla ha avuto senso.

Ulisse oggi è solo un “misero battello perduto, spinto dall’uragano, che non troverà mai più la rotta. Perché ogni sole è ormai atroce e ogni luna amara”2: nell’isola di Ogigia il paradiso è inferno, l’incanto è dannazione.

Eppure sente ancora, in un angolo riposto del suo cuore, una scintilla fievole, che non può, non vuole chiamare speranza.

Ha la voce amorosa di Penelope, l’abbaio festoso di Argo, il tenero vagito di Telemaco. E’ pura e illesa come la bianca conchiglia che tiene tra le mani.

La guarda, la odora, la ascolta, sa di mare infinito e turchese, sa di ritorno.

(Ulisse ignora che nel frattempo la dea Calypso ha ricevuto per mezzo di un messaggero di Zeus l’ordine di liberarlo e procurargli i mezzi per tornare alla patria).

Diventa lacrima sottile, gli trafigge la guancia.

(Il volere degli dei non potrà mai essere inadempiuto).

Mentre un gabbiano sta planando sull’acqua, col suo urlo di vita.

Bibliografia
F. Guccini, Odysseus, Ritratti, 2004
A. Rimbaud (1871), Il battello ebbro, in Opere, tr. it. di I. Margoni, Feltrinelli, Milano, 2009

Sulle spalle dei giganti

Irene Fiducia, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles e il Cymbelineshakespeariani, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questa riscrittura nasce dall’idea secondo cui «quel che succede quando una nuova opera d’arte è prodotta è qualcosa che avviene simultaneamente in tutte le opere che l’hanno preceduta» (Eliot, Tradition and individual talent, 1919). Invertendo il rapporto di filiazione tra Shakespeare e le sue fonti ho quindi immaginato un Pericles scritto da Omero e un Cymbeline uscito dalla penna di Boccaccio, nella consapevolezza che non siamo altro che “nani sulle spalle dei giganti”.

*

Περικλῆς ὁ βασιλεύς Τύριος

Solcava i rapidi flutti la nera nave, lasciata alle spalle
la luminosa Pentapoli. Per molti giorni attraversarono
la scura distesa del mare; Zefiro soffiava benigno.
Riposava sereno Pericle Tirio stringendo la sposa,
sognando la casa e il ritorno: e illesi sarebbero giunti
alla terra dei Padri, ma il Fato crudele li strappò ai dolci lidi.
Violento infuriò il dio Enosictono, radunò i nembi e
nell’atra notte tutti scatenò i turbini. Euro e Noto
piombando impetuosi sul mare aprirono alti gorghi.
Fu sballottata la nave e vacillò, investita dai grandi flutti.
Invano si affannava Pericle Tirio, confortava
i compagni, fronteggiava i marosi. Invano invocava
l’Olimpio, che placasse la turba dei venti.
Accorse allora la cara Licorida portando in braccio
la figlia, pargoletta, e così si rivolse al sovrano:
«Nobile Pericle, per il terrore la Simonidea, tua sposa,
ha dato alla luce questa infelice ed è presto perita».
Si sciolsero a Pericle le ginocchia e il cuore; levate
le palme al cielo lanciò un lamento e così pregò gli alti numi:
«Ahimè, sventurato! Davvero non hanno mai fine
il travaglio e le pene, che ora trascinano me e i miei affetti
più cari! Ecco, Taisa dai riccioli belli discende volando
nell’Ade: dolenti la piangono la dolce bambina e il caro sposo.
Zeus e voi numi tutti, fate che cresca, questa mia figlia,
così come Taisa fu, giovane distinta fra le altre, e un
giorno dica qualcuno: “È molto più bella di sua madre!”.
Porti ella nobili pretendenti, goda in cuore il padre!».
Dopo aver detto così, mise in braccio alla fida nutrice
la figlia sua e riprese il timone contro la furia dei flutti.
Neppure così si placò il dio che addensa le nubi, ma suscitò
Borea e un tremendo uragano e con le nubi ravvolse
terra e mare. Come un vento impetuoso trascina
le fragili foglie e le sparpaglia qua e là, così l’Enosictono
con una grande onda sparpagliò i lunghi legni.
Vide questo il saggio nocchiero e così si rivolse al sovrano:
«Gettate la dolce sposa in mare, signore: non avanza la rapida nave
finché un morto è a bordo, ed è lontano ogni approdo».
Un tremendo dolore invase il nobile Pericle, che pur soffrendo
nel cuore cedette; fece portare una cassa
ricolma di molte ricchezze e, ivi posta la Simonidea, disse:
«Donna, io temo l’abisso profondo e il naufragio dei miei;
ma non tanto dolore avrò per i compagni quanto
per te, che qualche maroso trascinerà a fondo o su lidi
stranieri, giusta sepoltura togliendoti. Dirà forse qualcuno
che ti vedrà morta: “Ecco la sposa di Pericle, ch’era il più forte
a combattere tra i nobili pretendenti!”»
Disse così il nobile Pericle e, gettata la cassa, vagò
sull’onda dura. Spesso il suo cuore intravide la morte;
ma quando Aurora dai riccioli belli portò il nuovo giorno
il vento cessò: aguzzando la vista egli scorse vicino la terra.

Giornata II, Novella 9

Postumo Lionato, da messer Giacomo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie Innozene sia uccisa; ella scampa e in abito d’uomo serve un ambasciadore romano: ritrova lo ‘ngannatore e Postumo in Bretanniadove, lo ‘ngannatore punito, ripreso abito femminile e ritrovati i fratelli, col marito riappacificossi e con il padre.

Avendo Elissa con la sua compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona e nel viso più che altra piacevole e ridente, sopra sé recatasi, cominciò:

– Cimbelino, prencipe di Bretannia, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli in sua vecchiezza ligato non si fosse ad una assai cruda reina; il quale in tutto lo spazio della sua vita ebbe tre figliuoli, ma li maggiori due venendogli portati via, una giovinetta sola gli restò.

Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Postumo Lionato, uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa.

In cotal guisa adunque amando l’un l’altro, niuna altra cosa tanto disiderando i giovani quanto di maritarsi, avvenne poi che il fecero segretamente. La qual cosa il padre scoprendo e adirandosene fortemente, prese partito di farlo esiliare.

Giunse in Roma Postumo presso una certa sua brigata, e avendo una sera fra l’altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando sovvenne loro una giovenil tenzone.

Era tra questi un giovane chiamato Giacomo, il quale tosto smanioso si fece di saper per che si fosse disputato: e cominciò Lionato ad affermare di aver per moglie una donna la più compiuta di tutte quelle virtù che donna dee avere, e niuna altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cagione disse che in gioventù ebbe a scontrarsi con un tale che di questo dubitava.

Di questa loda che Lionato aveva data alla sua donna cominciò Giacomo a far le maggior risa del mondo, e disse: «Postumo, io non dubito punto che tu non ti creda dir vero, ma per quello che a me paia, tu hai poco riguardato alla natura delle cose, per ciò che, se riguardato v’avessi, non ti sento di sì grosso ingegno, che tu non avessi in quella cognosciute cose che ti farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E dicoti così, che, se io fossi presso a questa tua così santissima donna, io mi crederei, poco più lungiamente conversando con ella che or con te, recarla a quello che io ho già di altre recate».

Al quale Postumo rispose e disse: «In nessun modo avrei cagione di dubitar della mia sposa, ch’ella è davvero un’angelica criatura; e io spero che Iddio mi serbi sempre questa grazia che mi ha conceduta».

Allora disse Giacomo: «Se a tal punto sei persuaso che tua moglie non sia di carne e d’ossa e femina come son l’altre, metti il tuo diamante contro al mio patrimonio, e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di qui avrò della tua donna fatta mia volontà e tu avrai pruova di ciò che ho ragionato».

Postumo turbato rispose: «Acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna, ti prometto sopra la mia fede il mio diamante se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere, e sono pronto ad obligarmi a te con uno scritto di mia mano».

Fatta la obligagione, Postumo rimase e Giacomo quanto più tosto poté se ne andò in Bretannia.

Bibliografia:

W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019

Omero, Odissea, a cura di G. Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 2003

Omero, Iliade, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Milano, 2012

G. Boccaccio, Decameron II,9 e IV,1, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 2014