Archivi categoria: La Torino di Primo Levi

Porta Nuova – barbone

Citato in
Agenda, 1985, AP, II: 778-779

Passo
[…]
In una notte come questa
C’è un vecchietto mezzo demente
Che a suo tempo era un bravo fresatore,
Ma il suo tempo non era il nostro tempo
E adesso dorme a Porta Nuova e beve.
[…]

Fonte: https://i1.wp.com/roma.gaiaitalia.com/wp-content/uploads/2019/04/Roma-26-Clochard.jpg?fit=883%2C470&ssl=1

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Risalente al gennaio 1985, è certamente un’altra delle ‘poesie urbane’ di Levi. Appartiene ad una stagione poetica diversa, quella di Altre poesie, e mostra infatti una datazione relativamente tarda che risale agli ultimi anni di vita di Levi.

La particolarità principale di questa poesia sta nel fatto che è un agglomerato di strofe che riassumono la vita di vari abitanti della città e del mondo intero. Lo sguardo del poeta attraversa la notte e ricerca nel fitto delle sue trame delle storie da raccontare in versi, immaginandola, ipotizzandole, lasciandone memoria ai posteri. Non è infatti presente un contesto di fondo unitario, in quanto le parole del poeta si muovono tra tradizione e modernità, tra stato d’animo e posizione fisica, tra momento di vita ed esistenza in generale. È una sorte di ode agli infiniti respiri che la sensibilità del poeta è in grado di captare (e inoculare nei suoi versi) pensando ad un dato momento della giornata, forse quello più magico ed evocativo, soffuso, confuso nel buio: è l’«ora incerta» in cui si muove il fare poetico della produzione di Levi. In particolare, la struttura anaforica (poiché il primo verso di ogni strofa è uguale, e recita «in una notte come questa») rappresenta lo snodo che conduce ai diversi soggetti descritti, ai quali punta lo sguardo del poeta.

È presente in particolare un rimando fisico ben specifico: quello alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova, che compare in molti altri punti della sua opera (essendo una sorta di porto franco, uno dei cuori pulsanti della città, in quanto sua finestra di collegamento diretto con il territorio circostante). Levi la conosceva assai bene già prima della deportazione: vi si recava per lasciare la città e partire alla volta delle (vicine) mete per andare a lavorare, o raggiungere la montagna.

Troviamo, in questa poesia, un rimando ad una singola persona che però (come altre in questa lirica) raffigura una condizione esistenziale generale, comune a diversi individui. Anche in questo caso, è la voce di una minoranza assai ristretta: si tratta di un barbone che passa la notte alla stazione, non avendo un posto migliore in cui dormire. Anche questa è (tristemente ancora oggi) una presenza fissa in una città metropolitana del calibro di Torino, e, in un certo senso, ne rappresenta il rovescio della medaglia: così come in una grande città ci sono molte persone che viaggiano, lavorano, vivono, si divertono, ci sono anche quelle che non sono riuscite a inserirsi tanto pacificamente nel sistema, scavando la loro nicchia. L’uomo, infatti, era «a suo tempo era un bravo fresatore»: un artigiano, un uomo che aveva un mestiere che Levi conosceva bene e che stimava fortemente, in quanto era anch’esso un’occupazione che richiedeva di dominare la materia. Nei tempi moderni di vertiginosa evoluzione tecnologica, però, i mestieri di una volta non riescono più a sopravvivere: in questa strofa centrale la parola «tempo», che compare ben tre volte. Levi scrive infatti che «il suo tempo non era il nostro tempo»: questa affermazione è incastonata nell’avversativa su cui si reggono i quattro versi in questione. è molto rappresentativo questo spirito siccome sottolinea la differenza epocale tra le situazioni a cui si allude: se prima il «bravo fresatore» poteva permettersi un lavoro, eccellere e guadagnare abbastanza per poter vivere dignitosamente, ora, poiché l’evoluzione tecnologica ha spazzato via numerosi posti di lavoro meccanizzando il processo di produzione, «dorme a Porta Nuova e beve».

È un altro quadro desolante, che insieme alla povertà e alla perdita della propria residenza (una questione di «pelle», come spiega nell’articolo dell’Altrui mestiere dedicato alla sua casa in corso Re Umberto) aggiunge anche l’alcolismo, altra piaga squisitamente moderna. Il «bravo fresatore» è infatti ora un «vecchietto mezzo demente»: è profondamente sconfitto dalla vita, è un vinto travolto dalla marea della modernità, dal potere imperante del tempo che non lascia spazio a chi lo rifiuta e non lo asseconda, non riuscendo a tenere il suo veloce passo.

Corso Matteotti

Citato in
Agenda, 1984, AP, II: 778-779

Passo
[…]
In una notte come questa
C’è un travestito in corso Matteotti
Che donerebbe un polmone od un rene
Per incavarsi e diventare femmina.
[…]

Fonte: facebook.com/photo?fbid=4065029400204014&set=gm.1132237867139860

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Risalente al gennaio 1985, è certamente un’altra delle “poesie urbane” di Levi. Appartiene ad una stagione poetica diversa, quella di “altre poesie”, e infatti a una datazione relativamente tarda, verso gli ultimi anni di vita di Levi.

La particolarità principale di questa poesia sta nel fatto che è un agglomerato di strofe che riassumono la vita di vari abitanti della città e del mondo intero. Lo sguardo del poeta attraversa la notte e ricerca nel fitto delle sue trame delle storie da raccontare in versi, immaginandola, ipotizzandole, lasciandone memoria ai posteri. Non è infatti presente un contesto di fondo unitario, in quanto le parole del poeta si muovono tra tradizione e modernità, tra stato d’animo e posizione fisica, tra momento di vita ed esistenza in generale. È una sorte di ode agli infiniti respiri che la sensibilità del poeta è in grado di captare (e inoculare nei suoi versi) pensando ad un dato momento della giornata, forse quello più magico ed evocativo, soffuso, confuso nel buio: è l’“ora incerta” in cui si muove il fare poetico della produzione di Levi. In particolare, la struttura anaforica (poiché il primo verso di ogni strofa è uguale, e recita “in una notte come questa”) rappresenta lo snodo che conduce ai diversi soggetti descritti, ai quali punta lo sguardo del poeta.

È presente in particolare un rimando fisico ben specifico: quello a Corso Matteotti, non troppo lontano da corso Re Umberto, dove Levi immagina la presenza di un travestito che passeggia trascorrendo la propria vita, tormentato dai propri pensieri: “donerebbe un polmone od un rene / Per incavarsi e diventare femmina”. È una delle preoccupazioni più diffuse tra i transessuali e transgender: la maledizione della natura che li ha costretti in un corpo in cui non si sentono a proprio agio, che vorrebbero cambiare nelle sue parti più costitutive per poter finalmente realizzare se stessi ogni giorno e sentire finalmente che la propria anima si trova a casa.

È molto singolare che Levi, ritroso nei confronti del sesso e della sessualità, scelga di dedicare una strofa a questo malessere; tuttavia, ciò non stupisce più di tanto, in quanto il pensiero va subito al mito di Tiresia, l’indovino tebano che per magia era stato tramutato da uomo a donna e poi di nuovo da donna a uomo. Una figura affatto aliena dall’immaginario di Levi: nella chiara stella dedica un capitolo a questa figura mitologica, e confessa di sentire una comunanza non da poco: così come Tiresia aveva cambiato corpo durante la sua vita, egli stesso aveva sperimentato conturbante mistero della metamorfosi. Aveva infatti provato diversi mestieri, in quanto prima fu chimico, poi scrittore perché testimone, testimone perché deportato, e deportato perché ebreo. Sta proprio qui la vicinanza con il travestito citato nella strofa in questione: come lui e come ogni altro essere naturale, la natura obbliga i corpi a mutare, a volte spietatamente, oppure li lascia imprigionati per tutta la loro vita in una forma che non è per loro opportuna. Ben conscio di quale peso sia sperimentare la conseguenza della metamorfosi direttamente sulla propria pelle, Levi inserisce il problema esistenziale del travestito nella sua enumerazione e si fa suo araldo, includendolo nella rappresentativa disamina che traccia un profilo muovendosi dal particolare all’universale, dalle singole esistenze che, nel loro insieme, formano la multiformità dei casi della vita.

Via Cigna

Citato in
Ad ora incerta, 1973, AOI, II: 705

Passo
In questa città non c’è via più frusta.
È nebbia e notte; le ombre sui marciapiedi
Che il chiaro dei fanali attraversa
Come se fossero intrise di nulla, grumi
Di nulla, sono pure i nostri simili.
Forse non esiste più il sole.
Forse sarà buio sempre: eppure
In altre notti ridevano le Pleiadi.
Forse è questa l’eternità che ci attende:
Non il grembo del Padre, ma frizione,
Freno, frizione, ingranare la prima.
Forse l’eternità sono i semafori.
Forse era meglio spendere la vita
In una sola notte, come il fuco.

Fonte: facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2353903314894444

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Risalente al febbraio 1973, è forse una tra le più singolari poesie di Levi. Ha un forte valore geocritico, in quanto è dedicata interamente ad una via di Torino: via Francesco Cigna, una delle più importanti e più lunghe, che attraversano la città dividendola in molti quadrati geometrici quasi perfetti.

In particolare, via Cigna è incredibilmente trafficata, oggi come allora: è “frusta” ed è il simbolo della modernità industriale della città, che Levi vede rispecchiata nel traffico che ogni giorno si genera sulle sue strade. Non è dunque, nonostante il contesto poetico, la descrizione di un quadro idilliaco: anzi, il poeta scrive che la via “è nebbia e notte”, che l’unica traccia di luce proviene dai fasci elettrici dei fari delle auto mobili che la attraversano, o dei semafori che ne scandiscono il caotico passaggio. Sono proprio questi “fanali” l’unica traccia di “chiaro”: illuminano i marciapiedi (elemento fondamentale della città, come scrive anche in un articolo dell’Altrui mestiere), e con essi le dantesche ombre che li popolano, anche a tarda notte.

Compare a quest’altezza della poesia il punto più desolante: nella comparativa ipotetica al quarto verso, compare la terrificante parola “nulla”, che priva della propria personalità ogni qualsivoglia presenza descritta in questo giro di versi. Quelli che dovrebbero essere i nostri “simili”, pur rimanendo tali, sono qui descritti come “grumi / Di nulla”, come spettrali presenze che formicolano nella città durante la notte. È infatti scomparso ogni quadro che possa far pensare ad una poesia a sfondo arcadico o idilliaco, e l’incertezza inizia ora a regnare sovrana, spazzando via ciò che invece sembra essere sicuro al di fuori di ogni dubbio: “Forse non esiste più il sole. / Forse sarà buio sempre”, scrive Levi abbandonandosi ad un quadro eccessivamente grigio, cupo, quanto mai distante dalla bellezza naturale di un paesaggio o di un quadro naturalistico (come quelli che tanto gli piaceva visitare e vivere, nelle oasi di natura incontaminata che conosceva).

Ci troviamo qui agli antipodi: nemmeno ci sono più le stelle in cielo, quelle che guidavano i marinai nella navigazione tantissimo tempo fa. Sono sparite le Pleiadi, le quali non ridono più, cioè non formano più costellazioni nel cielo; non che siano sparite del tutto, ma certo non sono più visibili ad occhio nudo dall’uomo a causa della coltre di inquinamento luminoso che copre la città.

Sparisce infatti nel verso successivo ogni qualsivoglia traccia di relazione panica con l’universo: non c’è più un “grembo del Padre” in cui redimersi, cioè un’opportunità di divenire un tutt’uno con la Terra su cui viviamo e sentirci parte di essa, bensì soltanto la modernità imperante: “frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “Forse è questa l’eternità che ci attende”. Non è un quadro disperato, però di certo non è tra i più rose: forse esaurito dal soffocante traffico che tutti i giorni doveva attraversare per spostarsi, o per recarsi al lavoro, Levi non riesce a pensare ad altro se non alla snervante attesa nella colonna di veicoli in cui tutti i giorni si trova imbottigliato. Il pensiero è tanto forte da lasciarlo con un amaro pensiero che, non casualmente, guarda proprio a quell’ormai lontano mondo naturale sepolto sotto al cemento e all’asfalto: piuttosto di aspettare così a lungo per raggiungere la propria meta, “Forse era meglio spendere la vita / In una sola notte, come il fuco”.

Corso Re Umberto 75

Citato in
La mia casa, 1982, poi in AM, II: 803-806

Passo
Abito da sempre (con involontarie interruzioni) nella casa in cui sono nato: il mio modo di abitare non è stato quindi oggetto di una scelta. […] La mia casa si caratterizza per la sua assenza di caratterizzazione. Assomiglia a molte altre case quasi signorili del primo Nove­ cento, costruite in mattoni poco prima dell’avvento irresistibile del cemento armato; è quasi priva di decorazioni, se si eccettuino alcune timide reminiscenze di Liberty nei fregi che sormontano le finestre e nelle porte in legno che dànno sulle scale. È disadorna e funzionale, inespressiva e solida: lo ha dimostrato durante l’ultimo conflitto, in cui ha sopportato tutti i bombardamenti cavandosela con qualche danno ai serramenti, e qualche screpolatura che porta tuttora con l’orgoglio con cui un veterano porta le cicatrici. Non ha ambizioni, è una macchina per abitare, possiede quasi tutto ciò che è essenziale per vivere, e quasi nulla di quanto è superfluo.

Con questa casa, e con l’alloggio in cui abito, ho un rapporto inavvertito ma profondo, come si ha con le persone con cui si è convissuto a lungo […].

Fonte: http://www.atlanteditorino.it/approfondimenti/ippocastano.html

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Questa è una delle parti centrali della Torino di Primo Levi: è il punto in cui iniziò e finì la sua vita, dove crebbe e visse ad eccezione dei periodi di lavoro fuori Torino, e ovviamente dell’oscura e vorticosa parentesi di Auschwitz. L’edificio è tanto importante che Levi vi dedica l’articolo iniziale dell’Altrui mestiere (pubblicato nel 1985), una delle sue più sentite e sincere prove di scrittura che racchiudono in sé tutta la bellezza del luogo (che sta, qui come nel detto, negli occhi di chi guarda).

Levi è chiaro: ammette sin da subito di sentirsi fortemente legato a quelle mura, tanto solide da resistere addirittura alla formidabile tempesta della Seconda Guerra Mondiale, e di sentirsi pienamente a proprio agio: ci sono, in particolare, tre similitudini di natura biologica che testimoniano questo legame. Nelle prime righe Levi scrive di sentirsi come «certi molluschi, ad esempio le patelle, che dopo un breve stadio larvale in cui nuotano liberamente, si fissano ad uno scoglio, secernono un guscio e non si muovono più per tutta la vita»: ecco il suo occhio entomologico che ritrova, nella natura delle cose, un correlativo in cui rispecchiarsi. In seguito, passa a dire che, se vi fosse separato (come tristemente gli toccò in sorte), si sentirebbe «come una pianta che venga trapiantata in un terreno a cui non è avvezza»: il metaforismo botanico di questa citazione richiama lo stesso di Cromo, nel Sistema periodico, dove questo paragone ricorre per indicare la stesura di Se questo è un uomo, quando Levi sperimenta appieno il potere catarticamente curativo della scrittura, grazie alla quale può esorcizzare i fantasmi del Lager. La terza similitudine si trova invece alla fine: «Abito a casa mia come abito all’interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia». In queste parole, Levi suggella il sodalizio con uno dei suoi luoghi preferiti, il migliore per essere se stesso, che lo conosceva da tutta una vita, della quale fu costante punto di riferimento.