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A storm inside

Jasmine Gianfreda, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Ariel, Prospero, un’imminente partenza e una violenta tempesta.

   *

Prospero aveva iniziato a studiare la sua Arte quando aveva a malapena vent’anni, quand’era ancora un giovane futuro Duca di Milano taciturno e molto più interessato alle lettere, alla filosofia e alla scienza che non alla vita mondana e agli intrighi di corte; l’esatto opposto di Antonio, il suo sanguigno, impetuoso e ambizioso fratello. Non era altro che un giovane assetato di conoscenza, il cui animo non aveva potuto far altro che cedere d’innanzi al fascino del sovrannaturale e dell’esoterismo, dedicandosi animo e corpo allo studio della magia naturale e di tutte le pratiche rituali ad essa collegate, andando a scavare e frugare fra gli insegnamenti più svariati alla ricerca del vero sapere. Era dunque dell’opinione che ora avesse perfettamente senso concludere quella lunga fase della sua vita in modo repentino.

Il silenzio in cui era avvolta la sua piccola stanza aveva qualcosa di sacrale e ineluttabile, infranto solo dal suono delle pagine che venivano strappate dalle sue mani. Era ormai arrivato a metà del secondo libro, quando uno spiffero improvviso lo colse alle spalle, solleticandogli i capelli, sparpagliando parte delle pagine che gli si trovavano di fronte e interrompendo il suo rituale. Prospero lasciò andare la pagina, attaccata ancora per metà al dorso del libro, per poi passarsi velocemente una mano sugli occhi stanchi e sulla fronte tesa.

“Ariel”, disse, “so che sei tu”.

Un fruscio distinto risuonò alla sua destra per qualche istante, per poi espandersi fino ad uno degli angoli della cella e dissiparsi con la velocità con cui era comparso, lasciando posto alla figura di Ariel, appollaiato sullo schienale dell’unica sedia in possesso di Prospero.

“Salute a te”, gli disse lo spirito, piantando i suoi grandi occhi madreperlacei sui libri sparsi davanti a quello che, per ancora un giorno, era il suo padrone. ”Perché tanto accanimento? Credevo amassi i tuoi libri”.

Prospero sospirò, sfiorando la pagina, che aveva strappato solo a metà, con la punta delle dita. “E’ così. Indubbiamente”, commentò infine, afferrandola e finendo di separarla dal resto del libro, “Ed è proprio per questo che sto facendo ciò. In questo modo la separazione sarà più facile, quando dovrò rinunciare ai miei studi una volta per tutte”.

Ariel lo guardò in silenzio mentre strappava alcune altre pagine con una lentezza estenuante e quasi dolorosa. Fu solo quando la mano dell’uomo si allungò verso un altro libro che lo spirito fece udire di nuovo quella sua voce inumana, che sembrava sciogliersi nell’aria ad ogni parola. “Che cosa hai intenzione di fare, ora che hai riavuto il tuo ducato?”, domandò in un soffio, ancora intento a fissare lo sguardo su quel mare di carte che si allargava fra di loro.

Prospero sembrò soppesare la domanda per qualche secondo, prendendo in mano il libro, rigirandolo, aprendolo e richiudendolo; poi, con un gesto di studiata naturalezza, alzò le spalle e picchiettò un dito sulle pagine ingiallite e macchiate. “Ancora non lo so. Non che la cosa sia di così grande importanza, dopotutto: ciò che conta davvero è che Miranda ora potrà essere felice al fianco del suo principe, senza contare che avrà finalmente l’opportunità di vivere come si addice ad una fanciulla del suo rango. Per quanto riguarda me, mi basta che giustizia sia stata fatta”, il legittimo Duca di Milano piegò la bocca in un mezzo sorriso che, in verità, assomigliava di più ad una smorfia, “Dopotutto, ormai ho quasi cinquantacinque anni. Non penso mi rimanga molto da vivere”.

Lo sguardo di Ariel saettò per un secondo nella sua direzione, le labbra si strinsero in una linea sottile e arruffando le piume che gli ricoprivano le spalle in un gesto inconscio, tornò a guardare le carte strappate a terra. Prospero credette di sentire l’aria farsi più fredda all’interno della stanza mentre un silenzio quasi palpabile calava su di loro, interrotto occasionalmente solo dallo sciabordio delle onde in lontananza e dalle grida degli ultimi gabbiani che ancora inseguivano il sole, in un vano tentativo di non vederlo tramontare.

“Quando avremo finito?”, domandò Ariel all’improvviso, cambiando repentinamente argomento e puntando gli occhi verso l’entrata, da cui era visibile un lembo di cielo rossastro. “Avevamo stabilito che per le sei di oggi sarei stato libero, eppure mi è stato dato ancora un altro compito”.

Prospero rimase interdetto per alcuni lunghi istanti, bloccandosi con una mano a mezz’aria in procinto di afferrare l’ennesima pagina. I suoi occhi si posarono, indagatori, sulla figura esile di Ariel, che era intanto sceso dalla sedia e si era fatto più vicino all’entrata, apparentemente rapito dallo spettacolo di quel tramonto che aveva già visto migliaia di volte; i suoi piedi, come spesso accadeva, sfioravano appena il terreno, ma la sua mano era aggrappata alla pietra levigata che faceva da ingresso, come se si stesse impedendo di scappare. C’era qualcosa di profondamente strano e incomprensibile in quella situazione, tanto che Prospero percorso da un leggero tremito, lasciò ricadere la mano, ancora bloccata in aria, lungo il fianco.

“Manca solo un giorno, Ariel. Non mi sembra di chiedere poi molto”, commentò, lapidario.

Ariel non si voltò verso di lui. “Questo non è altro che un continuo posticipare”, ribatté.

“Si può sapere cosa ti prende oggi?”, sbottò Prospero, chiudendo il libro, che aveva ancora in grembo, con un gesto secco e permettendo ad alcune scintille di irritazione di accendersi dentro di lui. “Mi pare proprio che tu sia ancora più volubile del solito. Hai atteso dodici anni per la tua libertà. Non credo proprio che sarà quest’unico giorno a fare la differenza. O la pensi forse diversamente?”.

Finalmente lo spirito si girò verso il suo interlocutore con uno scatto che fece volare alcuni dei pezzi di carta più vicini. “Come se oggi io fossi l’unico a comportarmi in modo volubile o contraddittorio”, Ariel guardò in basso per un paio di secondi con le labbra tese in una linea sottile, “Ho atteso per dodici anni, hai ragione. Dodici anni in cui tu, a quanto pare, non hai fatto altro che sfruttarmi”.

Prospero sbatté per terra il libro, facendo sobbalzare Ariel, ma non fece alcun gesto d’alzarsi, né si mosse di un millimetro, rimanendosene semplicemente seduto per terra con i pugni stretti e la mascella contratta. Quando li alzò per piantarli in viso allo spirito, i suoi occhi erano accecati dalla rabbia. Ariel era riuscito a sconvolgere la sua calma con un’unica parola.

“Molto bene, allora”, replicò seccamente, continuando a fissare Ariel dritto negli occhi, “Capisco le tue ragioni, ma non temere: nel giro di poche ore, dopo che avrai garantito a mia figlia, alla sua nuova famiglia e a me un viaggio veloce e sicuro verso Napoli, ogni legame fra di noi sarà reciso per sempre. Quindi ora puoi anche sparire dalla mia vista, per quanto mi riguarda”.

Ariel rimase interdetto. Non era certo la reazione che si aspettava.

Prospero poteva chiaramente vedere il movimento frenetico delle iridi incolori dello spirito che rimbalzavano da un angolo all’altro del suo viso, passando dalla piega dura e inflessibile della bocca sino alla fronte corrugata e tesa, per poi fermarsi nei suoi occhi e congelarvisi. L’incantatore osservò con una certa sorpresa le labbra di Ariel schiudersi ed essere attraversate da un breve tremito di parole incapaci di farsi udire.

All’improvviso, l’aria si fece stranamente fredda e il rombo di un tuono risuonò ed echeggiò all’esterno della stanza, seguito dal picchiettare umido di gocce d’acqua sempre più abbondanti e rapide nella loro caduta. Il suono della pioggia echeggiava dentro al torace di Prospero, che stava ritrovando la calma perduta poco prima, stordendolo ed assordandolo mentre fissava le labbra di Ariel che continuavano a tremolare.

Prima ancora che Prospero potesse aprir bocca, Ariel si dissolse nell’aria umida e gelida, scomparendo.

*

Grosse nuvole cariche di pioggia oscuravano la luna da ore, ormai, riversando le gocce di pioggia fitte e pesanti sull’isola, affondando nel mare scuro; di tanto in tanto, un lampo saettava nel cielo, seguito dal brontolio di un tuono, che andava a interrompere il fragore della pioggia e si diffondeva per l’aria umida in un crescendo che arrivava a colpire le orecchie di tutti gli ospiti dell’isola, o quasi. Ferdinando era già addormentato, vinto da una stanchezza tale da donargli un sonno profondo e immune al fragore dei tuoni, ma gli occhi di Miranda rimanevano spalancati nel buio, la mente della ragazza troppo febbrilmente agitata per poterle concedere il riposo che ricercava.

Suo padre era ancora sveglio, lo poteva capire dalla luce che filtrava da sotto la rudimentale porta che separava la camera da letto dallo studio di Prospero. Era tutta la sera che non lo vedeva, si trovò a riflettere Miranda, lanciando uno sguardo preoccupato verso la porta; sapeva bene quanto suo padre fosse abituato a seppellirsi nei propri studi e nelle proprie mansioni, ma qualcosa le diceva che quella notte era diverso, che c’era qualcosa di sbagliato. Forse era il silenzio tombale che proveniva da quella stanza, forse quel temporale improvviso, forse la somma di tutto questo e degli avvenimenti della giornata appena trascorsa, non avrebbe saputo dirlo con esattezza.

La fanciulla si alzò lentamente in piedi, scavalcando gli uomini dormienti con agilità silenziosa e aprendo delicatamente la ruvida porta di legno, intenzionata a chiedere a suo padre di abbandonare qualsiasi cosa stesse facendo almeno per quella notte, o, per lo meno, di raccontarle cosa gli passasse per la testa, così da poter stare in compagnia, se proprio dovevano stare svegli, in quella strana notte di pioggia. Tutti i propositi di Miranda, tuttavia, vennero meno nel vedere suo padre, serio come non mai e interamente avvolto nel proprio mantello, che si apprestava ad uscire.

“Padre?”, lo chiamò in un sussurro, strizzando gli occhi in risposta alla luce delle candele ancora accese, “Dove pensate di andare con questo tempaccio? Rischiate un malanno, questo è sicuro”.

Prospero si girò con lentezza verso la figlia e le sorrise di un sorriso stanco e affezionato. “Ci sono molti errori per cui non ho ancora fatto ammenda, mia dolce figlia. Alcuni mi premono sulla coscienza e sul cuore più di altri. Ma ora torna a dormire, non badare a questo vecchio sciocco che credeva di poter trovare ogni verità nei suoi studi e che ha sempre preferito i dettami della ragione a ciò di cui aveva davvero bisogno e a ciò che la sua anima desiderava, rimanendo con nient’altro che polvere fra le dita”.

Miranda corrugò la fronte. “Temo di non capire”, disse.

“Te l’ho detto: non badare a me, ma torna a dormire”, ribadì Prospero, per poi alzarsi il cappuccio scuro sulla testa e uscire all’aperto, scomparendo in mezzo alla pioggia battente.

*

La notte era buia come non mai, con fredde gocce di pioggia che, riuscendo ad attraversare le fitte fronde degli alberi, arrivavano a colpire la figura incappucciata di Prospero, attraversandogli il mantello e penetrandogli fin dentro la pelle. Eppure, l’uomo andava avanti nella sua ricerca come se nulla di tutto questo lo toccasse, tendendo le orecchie, insieme ad ogni nervo del corpo per captare anche il più debole stormire di vento o la più fioca traccia di magia nell’aria.

Fu in vicinanza di un grosso albero che, finalmente, un sottile frusciare di foglie, riuscendo a superare il rumore della pioggia, attirò l’attenzione di Prospero e lo spinse fino alla fonte del suono. La mano intorpidita dal freddo del mago si appoggiò contro il tronco, tastandone la consistenza ruvida e bagnata mentre il suo sguardo si spostava verso una fronda particolarmente folta.

“Ariel, so che sei lì”, chiamò Prospero, aspettando una risposta che non giunse. “E so anche che ora che sai che sono qui non te andrai da quel ramo”.

Per alcuni secondi non si udì nulla al di fuori del temporale, poi una voce bassa e recalcitrante decise di farsi sentire. “E anche se fosse?”. “Ariel, scendi giù di lì”, gli disse Prospero con un tono cauto e fermo. “O almeno renditi visibile”.

Nel giro di pochi istanti un guizzo di blu apparve fra le foglie e la testa di Ariel si sollevò quel tanto che bastava per poter osservare Prospero da sopra la fronda, esponendo i grandi occhi madreperlacei dello spirito allo sguardo di Prospero, il quale se ne stava ancora immobile sotto alla pioggia. L’uomo allungò una mano, piegando le dita in un gesto che invitava il suo servitore a scendere a terra.

“No”, scosse la testa Ariel, stringendosi di più fra le foglie che attraversavano il suo corpo etereo e tornando a nascondere la testa, “Resto qui”.

“Ariel”, ripeté, allungando nuovamente una mano nella sua direzione, “Scendi, te ne prego”.

Ariel lo fissò per alcuni secondi, per poi scivolare giù per il tronco dell’albero in una corrente d’aria e rendendosi di nuovo visibile agli occhi di Prospero. L’uomo afferrò la mano nuovamente tangibile dello spirito prima che potesse allontanarsi un’altra volta, attirando su di sé lo sguardo confuso di Ariel, che, tuttavia, non cercò di ritrarsi dal contatto.

“Questa pioggia è colpa mia, Ariel?” domandò l’uomo in un soffio, stringendo inconsciamente la mano fresca e sottile che si trovava nella sua.

Lo spirito abbassò lo sguardo, mentre un fulmine attraversava il cielo, illuminando le due figure ritte sotto la pioggia. “Sì e no. Non lo so”, rispose Ariel con una nota tremante nella voce. “Non riesco a capire”.

“Cosa non riesci a capire, mio delicato Ariel?”

Il tuono risuonò.

“Questo. Tutto!”, esclamò Ariel, muovendo la mano libera verso di sé con gesti nervosi e abbozzati, per poi acquietarsi nuovamente. “Per me tutto era molto più semplice ventiquattro anni fa. Conoscevo la gioia, la tristezza, persino la rabbia e la paura, ma nulla di più. Noi spiriti degli elementi siamo così: troppo legati alla Natura e alla sua essenza per provare nulla di più complesso e porci domande su di esso. Anche io ero così, prima di Sycorax, che mi ha costretto a conoscere il disprezzo, l’odio, il desiderio di libertà. Ma quelle erano cose piuttosto facili da comprendere, dopotutto, mentre ora…”.

“Mentre ora…?”, lo incitò a continuare Prospero, sfiorandogli il mento e facendogli alzare la testa, permettendogli di stringergli la mano in una presa che assomigliava di più ad uno spasmo.

“Ora semplicemente non capisco, perché quello che mi si agita dentro non ha senso e sono confuso, e spaventato, e…”, Ariel si interruppe nuovamente, fissando Prospero con quei suoi occhi grandi e, come solo ora l’incantatore riusciva a notare con chiarezza, lucidi. “Io voglio essere libero. Lo voglio con ogni fibra del mio essere, con ogni soffio di vento e goccia di rugiada con cui la magia e la Natura mi hanno plasmato. La libertà è ciò per cui noi spiriti viviamo, ma, allo stesso tempo, ho paura, moltissima paura”.

“E di cosa?”

Ariel ci pensò su per alcuni istanti che a Prospero sembrarono eterni. “Del futuro. Di quello che può succedere, di quello che succederà ora. Di tutte le cose che provo e che non capisco, tutte quelle cose che prima del tuo arrivo sull’isola non pensavo neanche fosse possibile provare”. Il suo sguardo si fece vagamente vacuo, come se fosse alla ricerca di qualcosa che non poteva vedere, toccare, percepire. “Provo una sensazione così strana, di ansia, di gioia, di paura, di tristezza e di dolore. Perché non importa cosa io provi in questo momento: tu ora te ne tornerai fra gli altri uomini senza potermi più spiegare cos’è questo nodo nel mio petto, sparirai dalla mia vita come io dalla tua perché è quello che vuoi e che immagino sia giusto, ma…”

A Prospero si strinse la gola e, senza che potesse far nulla per fermarsi, la sua mano libera andò a posarsi sul viso di Ariel, accomodando la guancia di lui nel proprio palmo e lasciandogli scivolare i polpastrelli intorpiditi fra i capelli mentre cercava le parole. Ariel chiuse gli occhi e si rilassò quasi completamente, abbandonando il peso della propria testa nella mano dell’uomo di fronte a lui.

“Tu credi che io non ti voglia”, mormorò Prospero, facendosi più vicino, lasciando che Ariel gli poggiasse la fronte sulla spalla, “Credi che in questi anni ti abbia usato solo come uno strumento per raggiungere i mei fini e che liberarti libererà anche me”.

Ariel annuì contro la sua clavicola. “Mi sbaglio?”, chiese in un soffio che si diffuse intorno a loro e andò a smuovere i corti capelli sulla nuca di Prospero.

“Sì. Non sei mai stato più lontano dalla verità come in questo momento”, rispose questi, “Sei come un figlio per me, Ariel. E anche se mi si spezza il cuore, io ti concedo la libertà. Non perché liberando te, libererò me di un peso, ma perché è la cosa giusta da fare e perché ti meriti di vivere quella sensazione di gioia che dici di conoscere, ma che in realtà, per ora, conosci solo in parte”, disse Prospero con le lacrime agli occhi e stringendo forte a sé il corpo dello spirito scosso dai singhiozzi. Guardandosi intorno si domandò poi, distrattamente, da quanto la pioggia avesse smesso di cadere.

Bibliografia
William Shakespeare, La Tempesta, tr. it. di Agostino Lombardo, Feltrinelli, 2018

Italiano: la libertà di una lingua classica

Venerdì 18 ottobre 2019
Incontro al Circolo dei lettori con Gian Luigi Beccaria

La lingua italiana è nata e si è sviluppata fortemente ancorata al suo retroterra greco-latino, ma non necessariamente questo modello illustre ha costituito una costrizione o un ostacolo al suo evolversi; l’intervento di Gian Luigi Beccaria al Circolo dei lettori sviscera in una prospettiva storica la ricchezza, la fecondità e la libertà di quella che può essere definita, in tutti i sensi, una lingua classica. 

*

La lingua dei classici non ha costituito per l’italiano un impaccio, ma ha collaborato a mettere a disposizione una più libera e ricca varietà di registri, agendo anche come spinta al rinnovamento neologico sia nella forma che nel significato.

Rispetto alle altre lingue europee l’italiano contiene una straordinaria quantità di tratti greco-latini, che non hanno costituito una verniciatura di stantio, bensì un segno distintivo di nobiltà. Se le altre lingue sorelle hanno in molti casi adottato parole dal sapore più quotidiano e dimesso, l’italiano ha invece amato coloriture dotte e anticheggianti. Le opposizioni tra parole italiane dall’origine dotta e parole francesi più umili sono innumerevoli: basti pensare alla nostra cipria, che prende il nome dall’isola di Cipro mentre l’equivalente francese poudre può vantare un’origine molto meno nobile, oppure al piroscafo, chiamato più semplicemente dai francesi bateaux, o al nostro solenne fiammifero paragonato al più dimesso alumette.

Molte rivalità lessicali hanno rivolto il conflitto a favore della soluzione anticheggiante: il telescopio venne preferito al cannocchiale di Galileo, e il dotto Pietro Giordani, che nell’Ottocento suggeriva di utilizzare radici italiane per modellare nuovi termini scientifici, sostituendo grecismi come termometro e anemometro con coniazioni italianeggianti come segnacaldo, misuravento, non vide realizzato il suo desiderio.

Innumerevoli cultismi e latinismi sono entrati nell’uso medio-alto della nostra lingua, tanto incombenti da portare a un’esibizione del latino foneticamente non adattato (aurea medietas, est modus in rebus), che nel pomposo italiano avvocatesco conobbe il suo terreno più fertile. Negli scrittori la classicità ha poi ricoperto svariate funzioni: non solo ha steso una patina anticheggiante sul lessico e sulla sintassi, ma è diventata un ingrediente essenziale del ribollio espressionistico di tanti autori che hanno voluto intenzionalmente accostare l’alto e il basso, il sublime e l’antico con il dialettale, da Dante a Gadda a Michele Mari.

L’antico ha insomma costituito un elemento fondamentale della nostra tradizione letteraria e le ha fornito una gravità segreta che pescava dal passato, una scelta anticheggiante che sembra minore nella tradizione di altri paesi: l’italiano ha conservato più a lungo il senso robusto del periodo, l’onda lunga latineggiante e compatta che ricerca la simmetria, gli effetti retorici delle clausole medievali, il parallelismo delle rispondenze di concetti e di ritmi. Il latino ha arricchito sin dalle origini le risorse del volgare, e la prosa medievale nasce già ricca dell’ornatus ciceroniano, il cui impianto durerà fino ai prosatori dell’Ottocento.

In particolare è nell’ambito della poesia che in Italia si è guardato alla tradizione classica: Alfieri amava in maniera appassionata i costrutti con sapore latino e greco, si estasiava di fronte alle inversioni, alla posizione innaturale dell’aggettivo prima del nome. Eloquente è la sua annotazione autografa sul sonetto 162, “Ad alte cose io nato me sentiva”, e ancora di più lo è il modo in cui definisce l’ordine non marcato della frase: “fiacchissimo verso”.

Dovremmo parlare di un modello o piuttosto di una costrizione? Che tipo di libertà può avere una lingua che guarda costantemente all’indietro?

La realtà è che i modelli antichi non hanno mai stretto in ceppi la nostra lingua, ma al contrario le hanno dato vigorose spinte verso un progressivo miglioramento. La frequenza dei latinismi lessicali e sintattici non è causata dalla debolezza di una prosa neonata che si va formando e che ha bisogno di stampelle, ma dalla ricerca consapevole e libera di una guida forte. Non a caso i grecismi e i latinismi apportano una fortissima spinta alla neologia, non solo di forma ma anche di significato: il latino captivus passa dal significato di “prigioniero” a quello di “malvagio”, sotto l’influsso del cristianesimo; sul significato di tradire il cristianesimo opera poi un passaggio semantico notevole, da “consegnare” a “consegnare qualcosa al nemico con l’inganno” – ai tempi delle persecuzioni infatti i vescovi traditores consegnavano i libri sacri alle autorità.

L’impronta latina sul significato delle parole nei primi secoli della letteratura italiana è particolarmente evidente in quanto conferisce ai singoli termini una potenza etimologica che col tempo è andata lentamente svanendo: nella Commedia gli aggettivi molesto e mesto compaiono in situazioni di particolare drammaticità e il loro valore è notevolmente più connotato in senso gravoso rispetto a quello odierno, è più forte in quanto desunto direttamente dal latino. Il latinismo quindi non fornisce solo una patina di vetusto e arcaico, ma riporta la parola ad un significato potente originario, per forza di etimo, che viene sfruttato sapientemente dagli scrittori per conferire sfumature ai loro testi.

La ripresa neoclassica ottocentesca e il conseguente incremento dell’uso del latino costituiscono una spinta di ardimento innovativa, che sarà intensificata con i contributi di D’Annunzio e Carducci – quest’ultimo in particolare esprime la sua preferenza nei confronti dei latinismi anche nello schema accentuale dei termini da lui scelti, tendenzialmente proparossitoni (colubro, adamantino, cuculo).

Gli agganci alla classicità continuano ancora nella seconda metà del Novecento; proprio quando tutte le vie per segnare la distanza dal passato sono state attraversate gli echi del passato continuano ad affiorare, anche quando si dà l’addio al tono liricamente aulico non ci si riesce a staccare dall’ancoraggio all’antico. Un esempio lampante di questa persistenza è l’iperbato, figura nobile e anticheggiante che viene ripresa spesso nel secondo Novecento, proprio quando la poesia simula maggiormente il parlato e l’oralità. Gli autori del secolo scorso quando scendono verso il parlato non vogliono mostrare nessun sintomo di depressione stilistica, e corrono a mettersi al riparo di coperture anticheggianti: Sereni e Caproni preferiscono spesso una sintassi antilineare, che però non assume il significato di esposizione di antiquariato, bensì viene applicata all’interno dei loro andamenti più colloquiali, per innalzare il tenore di una sintassi che tende all’oralità.

Se il Novecento è caratterizzato da versi moderni che scrivono a tratti all’antica in una voluta ed esibita innaturalità, possiamo ravvisare in Leopardi l’ultimo ad aver scritto per arcaismi nel modo più naturale, ad aver saputo coniugare l’attualità e la spontaneità con il cultismo, ad aver espresso messaggi di contenuto nuovo tramite strumenti antichi. La libertà e l’antico in lui collimano, nella sua poesia si condensano tutta la tradizione antica e quella moderna e i classici si fanno davvero carne, non solamente sterili citazioni: i fuochi di Troia e le luci di Recanati diventano la stessa cosa, la sua luna domestica coincide con quella di Virgilio e di Omero.

Volgendo il capo ai predecessori Leopardi ha saputo raccogliere i frutti migliori, i cosiddetti “frutti freschi fuori di stagione”, come lui definiva gli arcaismi, pensando la letteratura italiana come una corrente dal suono familiare e insieme antico. In lui più di ogni altro la lingua dei classici non ha rappresentato una prigione o un freno, ma ha suscitato una continua libertà espressiva.

Linda Dellacroce

Una storia di redenzione

Gioele Roccia, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Winter’s Tale shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare II: Il racconto d’inverno e La Tempesta. Letterature comparate B, mod.1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il progetto di questa riscrittura parte dal lavoro della compagnia Inteattrabili basato sullo studio e sulla comprensione dei limiti. Da qui è nata l’idea di analisi introspettiva di Leonte e di quali sono i limiti che lo tormentano e le portano ad agire in quel modo.    

*

Ho deciso di scrivere queste poche parole per trovare nell’animo sollievo, e forse per far si che voi leggiate questo e mi capiate… credo che solo così potrete perdonare i gesti di un folle. Perché si, i miei gesti son stati follia, ma non di quella che muove l’uomo nel suo fare quotidiano, ma di quella che annebbia inesorabilmente la ragione e porta alla sofferenza, personale e collettiva. Non so cosa generò realmente in me quell’amore diventato malsano, avevo forse paura di perdere tutto ciò che c’era attorno a me. La gelosia bruciò tutto attorno a me.

Su tutti i pensier si pone il limite
della strana ragione detta amore.
Che poi silente si innesta in testa,
vorticano emozioni in un non dialogo
Vogliono giungere ad una decisione:
oscurar nel cuor l’angusta rabbia.

Fu così che da solo mi posi un limite, l’amore assunse strani colori verdi. La gelosia stava prendendo il suo posto. Se soli fossi stato più saggio e razionale avrei capito che le mie passioni mi stavano ingannando, ma forse non ho voluto vedere il vero. Ho lasciato che i dubbi oscurassero la mia mente e distruggessero quel dialogo interno fra le sfere emotive. In preda alla paura pensavo che il mio amore si fosse rivelato una menzogna, la paura divenne così dubbio e infine certezza. Fui accecato dal mio stesso pensiero.  Nella cecità e nel dolore, per cercar sollievo, decisi di agire mosso dalla rabbia: condannai ogni cosa intorno a me. Qualsiasi cosa che fosse da lei stata contaminata, precludendomi gli affetti e soffocandoli nell’ira distruttiva.

Ma mi chiedo, cosa mi dà rabbia?!
E’ quell’invalicabile limite
che mi impedisce di prender decisione?
Strano esser bloccato da te, Amore.
Dammi tempo e concedimi il dialogo.
Placa le paranoie che ho in testa.

Non ho ancora capito cosa crei in me rabbia, se il fatto di non saper agire e prender decisioni nei confronti di una giovine creatura o se sia solo l’odio che provo per lei a generare questo malessere. Forse non ero ancora completamente corrotto dalla mala passione, con l’io cercavo ancora di dialogare; cerco di capire perché ho fatto tutto ciò ma la rabbia è comunque ancora forte. O magari sono adirato con Amore? Per il suo avermi abbandonato e condannato, ed è lei a non permettermi di decidere? In futuro avrei solo ringraziato che mi avesse fatto esitare. Forse in un ultimo disperato grido per lei volevo ritrovare il senno, che pareva esser sigillato in altri mondi. Un’ultima preghiera vana rimane inesaudito e inizia così un viaggio in un abisso senza fondo.

E ancora corrono i pensieri in testa,
il poco controllo genera rabbia.
Ora nego il possibile dialogo…
E mi par di relegarmi nel limite,
Illuso rinnego i gesti d’Amore
Torno a pensar alla sciocca decisione.

Ho ormai raggiunto il limite, non controllo più me stesso e ciò che corre nel mio animo. La gelosia che era stata padrona delle mie passioni mi lascia in un senso di vuoto. Di rabbia. Ha cancellato la mia vita.  Non riesco a comprenderla e il solo pensare a questa rabbia accende in me una nera fiamma che brucia l’io e mi impedisce il dialogo. E’ un cane che si morde la coda, aizzandosi ancora di più contro sè stesso. Più cieco che mai non posso capire il disegno superiore di Amore e Provvidenza, tanto tolgono ma altrettanto regalano. L’unica cosa è inveire contro di lei per il blocco che mi ha causato; ripenso e trovo stupida la scelta di lasciare in vita una innocente creatura. Che di lei mi ricorderà sempre.

Ho ansia per una sola decisione?
Non so più cosa mi succede in testa.
Ho perduto speranza nell’amore,
piango, solo, sono in preda alla rabbia.
Ora trovo il mio più basso limite,
ma con chi posso instaurare un dialogo?

Mi sono finalmente accorto che nel buio più profondo si può vedere in alto la luce calda e accogliente della rinascita, è quando hai perso tutto che forse nell’ultimo atto di folle lucidità capisci cosa hai perso, e quanto hai sofferto. Mi è stata data la possibilità di vedere di nuovo. Inizio a capire i miei errori, l’ansia del passato bracca la sua prede con il fiato sul collo. La mia mente viaggia sregolata ma ora è più facile comprenderla, devo solo poter tornare a parlare con qualcuno del peso che grava su di me. Ho ancora il peso di quella scelta addosso, e deve esser cancellato.

Certo con l’io reinizio il dialogo
svelto troverò una decisione
per trovare e superare quel limite.
E così alleggerir la mia testa,
sopprimere ogni forma di rabbia
e consacrar la vita nell’Amore.

Ho, ora capito, dopo decenni che devo essere io il primo a perdonarmi, devo tornare a parlare con me comprendermi, compatirmi e trovare la strada della redenzione. Ora voglio cercare il modo per redimere il mio peccato… Bhe, forse è impossibile tornar puro. Però sono sicuro: devo impiegare la mia vita al bene e consacrarla nell’Amore delle persone, perché è solo donando amore che la propria vita ottiene gioia. Guardate il mio passato seminando dubbi ho raccolto solo sofferenza e morte, e per tutte le cose di cui mi son privato voglio donar vita a qualcosa di nuovo. Un giorno donando bene e gioia, Amore mi permetterà di tornar ad il esser suo fedele araldo.

Risorgo nella luce dell’Amore,
a tutti elargirò il mio dialogo.
Dottrina sublime annulla la rabbia
E in voi nascerà questa decisione.
Spinta dal fuoco come scintilla in testa
Ogni azione andrà a superare il limite.

E nell’amore per me stesso ed il prossimo che si è compiuta una rinascita. Certo è nata da una sofferenza che io ho creato, e che ho cercato di risanare. Voglio gridare al mondo l’importanza del fare del bene agli altri. Come insegnava un antico eremita ridente: solo il superamento della rabbia e dolore ci potrà portare in un posto migliore, questa è da molti definita sublime dottrina… Voglio che questa dottrina instilli in voi il dubbio, quello della scoperta e dell’elevazione sicchè un nuovo fuoco alimenti il vostro animo nella mente sopito, ogni nostro gesto sarà atto a conoscere i nostri limiti per infrangerli e superarli nelle gioia finale e nella condivisione comune.

Devo dire che però senza l’intervento divino, della magia o della provvidenza tutto ciò non sarebbe mai accaduto. Son stato forse l’uomo più soggetto a buona sorte, tutto ciò che perso mi è stato ridato. Solo nell’assenza dei miei affetti ho capito quanto in realtà loro erano importanti per me, ho così iniziato un lento cammino di redenzione. Questo è stato osservato e ammirato dai cieli, e le mie donne sono ora di nuovo con me. Ho un solo rimpianto, ma dedicherò la mia vita a distruggere con la parola quei dolori dell’animo che hanno portato via un angelo. Amore mi ha tolta una gioia della vita ma il ri-trovare tutti quegli affetti persi è come vederli di nuovo nascere, ogni nuova vita porta con sé novità. Altra conoscenza che mi permetterà di essere migliore per voi.

Pensa come il dialogo crei Amore
E come la rabbia ponga il limite
Per la decisione nata in testa.

Bibliografia
William Shakespeare, Winter’s Tale, Independently published, 2019

The Rhymes of Prince

Letizia Scozzi, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.  

La riscrittura tratta della vicenda di Pericle, principe di Tiro, e nasce dalla passione per la poesia in rima: in particolare di quella baciata, forse un po’ infantile è vero, semplice, ma proprio per questo rende tutta la sua bellezza e la sua emotività.

*

Prologo
Il primo a parlare è John Gower nel racconto
E la mia funzione è fare un resoconto;
Shakespeare mi ha richiamato dalla mia cenere
Per deliziare tutti, con questo genere.
Qui comincio a narrare,
Di un padre e di una figlia pare
Peccaminosi perché uniti
Da sentimenti proibiti.
Incesto si chiama il crimine
Causato dalla travolgente libidine.
Tutto questo è nascosto da un indovinello
Che se svelato, alla principessa porta un sanguinario anello.
Ma ora lascio a voi giudicare
Visto che la favola deve iniziare.

Atto I
Entra Pericle principe di Tiro,
Colui che ha visto dei suoi rivali il ritiro
Per la mano della figlia del re Antioco,
Desideroso di risolvere un enigma demoniaco.
Nessuno lo risolve tranne il nostro valoroso:
Ma l’esito di morte sarà comunque doloroso.
Per sfuggire al verdetto ritorna nella sua terra,
Ma non essendo sicuro, l’idea afferra
Di sfuggirle per un’altra località.
Nomina Elicano reggente della città
E si reca a Tarso, da Dionisa e Cleone
Per poi tornare in patria da leone.

Atto II
Una tempesta sorprende il protagonista,
Ma lei altruista,
Gli fa raggiungere le spiagge di Pentapoli,
In premio la figlia del re al vincitore degli scapoli.
Pericle ne approfitta
E trionfa senza sconfitta:
A lui viene così donata la principessa
La sua mano come promessa.
Ma facciamo un passo a ritroso:
Ricordate di Antioco e la figlia il legame amoroso?
La mano divina li ha puniti:
Con la morte li ha assaliti.
Il popolo vuole affidare ad Elicano la corona
Ma il consigliere rifiuta e l’idea abbandona
Solo se il patto viene rispettato,
cioè giunta la notizia della morte del re adorato
Allora prenderà il comando:
Manda una pattuglia per notizie buone sperando.

Atto III
A Pentapoli arriva la notizia della spedizione spinta
E Pericle si rimette in viaggio per Tiro con Taisa incinta.
Ma ahimè, un’altra tempesta è in agguato
Così non permette al duo di essere accontentato.
Nasce la creatura del grembo materno,
Però alla donna dona l’inverno.
Il re addolorato, getta in mare l’amata
Per calmare degli dei la collera armata.
Così Marina, è il nome della figlia del mare
E che Pericle porta a Tarso per salvare.
Il destino con Taisa è tuttavia premuroso
La sua cassa approda ad Efeso con fare misterioso;
Trovata dal vecchio mago Cerimone
Rivive grazie alla sua prodigiosa applicazione.
Una volta risvegliata, smarrita
Crede che il suo amato sia defunto: così ferita
Decide di rimanere ad Efeso e sacerdotessa diventare
Nel tempio di Diana per avanti andare.
Pericle lascia Marina a Cleone e Dionisa
E poi parte per Tiro che avvisa.

Atto IV
Il tempo scorre, non ci si accorge del suo sfuggire:
Marina, fanciulla così bella, invidiato è il suo apparire.
La figlia di Cleone e Dionisa è detta carina,
Ma la bellezza è cosa più di Marina.
Questo, più di tutti, Dionisa non lo accetta
E organizza la strategia perfetta.
Fatto chiamare Leonino, un suo servitore
Lo incarica di essere il suo uccisore.
Ma il suo piano fallisce,
Il valletto la sua azione non finisce
Perché la fanciulla viene rapita dai pirati
E portata a Mitilene al bordello degli affamati.
Poiché la giovinetta è assai virtuosa,
Mantiene la sua innocenza preziosa
Grazie all’arte del cantare, del suonare
Ma soprattutto del parlare.
Pericle finiti i suoi viaggi,
E dopo aver visto molti paesaggi,
Torna a Tarso per riprendere la sua erede.
Ma di una menzogna si fida e Pericle cede.
Così per il dolore afflitto,
Riprende la ricerca della figlia su un nuovo tragitto.

Atto V
Dopo varie traversate, ebbene,
La sorte porta il vecchio Pericle a Mitilene.
Marina che qui si trova,
Ha il titolo di colei che gli animi rinnova.
Così Lisimaco, sovrano di Mitilene, presenta
Marina a Pericle, così di rincuorarlo tenta.
Il principe di Tiro non vuole abusare della ragazza
E pertanto vuole raccontare la sua storia pazza.
Di conseguenza anche Marina espone le sue vicende
Ed è così che il legame padre e figlia si riprende.
La dea Diana appare a Pericle in sogno
E gli rivela il suo bisogno:
Lo invita a recarsi al suo tempio
Per dimostrargli di carità un esempio.
Infatti lì incontra la sua cara moglie
E con molto stupore lo accoglie.
Ora la famiglia è riunita
E la felicità è di nuovo sentita!

Epilogo
E di nuovo l’ultimo a parlare è colui che è stato il primo
E le conclusioni vi esprimo.
Le vicende di Pericle, Taisa e Marina avete vissuto
Con peripezie e ostacoli ma con un fine benvenuto.
Conosceste personaggi come Elicano e Cerimone,
Con lealtà e conoscenza, hanno contribuito alla soluzione.
La notizia del tradimento di Dionisa e Cleone fu divulgata
E in Pericle accese una vendetta affamata:
Così nel loro palazzo furono bruciati
E per l’eternità rimarranno dannati.
Allora lo spettacolo è compiuto
A voi ogni ringraziamento è dovuto.

Bibliografia
William Shakespeare, Pericles-Prince of Tyre (Pericle- Principe di Tiro), Bompiani, 2019

Ricorderò sempre quei momenti felici

Lucrezia Cimino, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Partendo da fatti realmente accaduti ho deciso di trasportare l’opera di Shakespeare in un’altra epoca per sottolinearne l’attualità e la forza emotiva. 

*

A nonna Agata,
ai tuoi insegnamenti e alle tue letture.

Giravo per la biblioteca in cerca di un libro ma non riuscivo a trovarlo, eppure era lì, doveva esserci, semplicemente ancora non l’avevo trovato.
Mi addentravo tra i corridoi ombrosi, una volta illuminati dai grandi lampadari che pendevano dal soffitto dando luce ad un mosaico di pagine vive e allo stesso tempo silenziose.
Come era stata bella quella biblioteca negli anni passati, prima delle bombe, della cenere, della desolazione.
Mi muovevo lentamente tra uno scaffale ribaltato e un masso caduto dal soffitto in quel luogo ormai freddo, bianco, solo, abbandonato. Camminavo e mi venivano in mente i racconti di mia nonna “Sai Federico, passavo molto tempo in biblioteca da ragazza, mi ci portava mio padre quando lavorava qui. Mi piaceva sfogliare quei grandi libroni pieni di polvere, mi sentivo parte di una storia più grande di me, mi sentivo parte di quel mondo passato che tanto mi affascinava e allora mi sedevo per terra, incrociavo le gambe e leggevo per ore. Una volta all’anno, poi, rileggevo un libro che mi piaceva tanto, un dramma di Shakespeare, il Pericle, te ne ho parlato, ti ricordi?”.
Oh, nonna, se solo fossi qui, se solo quegli inglesi non ci avessero bombardati, se solo tu e nonno fosse stati a casa con noi, quella sera, se solo…

Ero nel mio letto quella notte, come tutte le notti, come tutti. Ero nel mio letto e leggevo uno dei libri che mi avevi portato nonna, leggevo Moby Dick, me lo avevi regalato per il mio decimo compleanno “Così impari bene l’inglese, Federico, abbiamo fatto molta pratica insieme e penso che tu questo possa riuscire a leggerlo da solo”. Leggevo e ad un tratto sentii l’allarme bomba risuonare forte per le vie della città. Guardai fuori dalla finestra: le finestre iniziarono ad illuminarsi a momenti alterni, mi ricordavano le luci del nostro albero di Natale. Mia madre mi chiamò con voce tremante. Mi infilai le pantofole e una vestaglia e corsi verso la camera dei miei genitori. Li trovai in corridoio, stavano parlando, mio padre teneva stretta la mano di mia mamma, ricordo che se la portò vicino al cuore e poi la baciò dolcemente, mi guardò, si avvicinò a me e mi disse: “Federico, prenditi cura della mamma, io vado a cercare i nonni”. La mamma mi prese per un braccio e mi trascinò giù per le scale correndo, facendosi strada tra tutte le altre anime private dal sonno che come zombie cercavano di correre più velocemente possibile per raggiungere un luogo sicuro.
Nelle strade dominava il caos: l’allarme continuava a suonare forte e pungente, la gente urlava, i bambini piangevano, le mamme correvano stringendo al petto neonati spaventati.
Correndo passammo davanti alla mia scuola, al parco, al ristorante dove la domenica andavamo sempre a festeggiare dopo la messa e tutti quei luoghi, quei luoghi conosciuti e noti ai miei occhi, mi sembravano in quel momento così diversi, così distanti, come se non li avessi mai visti. Eravamo quasi arrivati al punto di ritrovo quando, in lontananza, sentimmo il rumore degli aerei, ci fermammo, dirigendo lo sguardo verso il cielo scuro ed ecco che vedemmo arrivare gli aerei del RAF: sganciavano bombe su di noi, sulle nostre case, sulla nostra città. Ci buttammo per terra in un vicolo buio, mia madre mi coperse il viso con il suo corpo continuando a ripetermi che sarebbe andato tutto bene, di non preoccuparmi, che presto sarebbe tutto finito. Avevo paura e stringevo le mani sulle orecchie per allontanare almeno un po’ quel terribile rumore, ma i miei occhi non potevano fare a meno di vedere la nostra città ardere indifesa sotto quelle fiamme rosse.

Ricordo di essermi svegliato con la testa appoggiata al petto di mia madre. Avevo gli occhi stanchi e pesanti. Ricordo ancora il suo viso, i suoi occhi dolci pieni di lacrime che mi guardavano amorevolmente, incapaci di darmi spiegazioni. Mi guardai in giro e tutto quel rumore, quel calore, quel rosso, non c’erano più. Era tutto silenzioso, terribilmente silenzioso. Dai tetti salivano al cielo alte colonne di fumo, l’aria era grigia e pesante.
“Mamma, dov’è papa?” le chiesi, con un filo di voce. “Papà sta bene, non ti preoccupare tesoro mio, arriverà presto”.
Passarono dei giorni difficili, eravamo tutti sotto choc per quel che era successo, ci avevano colpiti dritti al cuore e queste ferite sono dure da curare.
Papà era distrutto, non ferito, questo no, ma distrutto dalla perdita che quelle bombe gli avevano causato. Me lo dissero solo dopo qualche giorno: “Vedi Federico, l’altra sera nonno e nonna non sono venuti con noi, erano lontani dal nostro punto di ritrovo e sono andati a rifugiarsi vicino alla biblioteca. Ecco Fede, la biblioteca ora non c’è più”. Mia madre scoppiò a piangere e a malapena riuscì a finire la frase. Ero un bambino sveglio, capii subito cosa volesse dire.

Così, ripensando a quella notte, giravo nella biblioteca, o per meglio dire, in quel che ne restava. Cercavo quel libro di cui tanto mi avevi parlato nonna, volevi tanto che lo leggessi ma io avevo sempre preferito altro e così ti promettevo che sì, che un giorno l’avrei letto, “tanto c’è tempo”, te lo dicevo sempre. Mi tormentavo di domande mentre con la mia torcia in mano rovistavo tra le macerie e cercavo di ricordare le tue parole.
“Sai Federico, la prima volta in cui ho letto il Pericle fu per il mio sedicesimo compleanno, me lo aveva regalato il mio papà. Ci eravamo appena trasferiti in Italia da Bristol perché mio padre aveva trovato un lavoro qui a Torino. Insieme al pacchetto c’era un bigliettino: Cara Agata, spero che questo libro possa emozionarti quanto ha emozionato me, che possa insegnarti ad apprezzare l’amore nelle sue più svariate forme, che possa insegnarti a non perdere mai la speranza perché un giorno, chissà, potresti sempre ritrovare quello che da tempo temevi di aver perduto. Con affetto, il tuo papà. Ho sempre amato questo libro, il momento dell’incontro tra Pericle e Marina è uno dei miei preferiti di sempre, mi ricorda un po’ la storia di me e di mio padre, tornato a casa dopo molti anni, avendomi lasciata molto piccola sola con mia madre. Ecco vedi, mi porto sempre questo foglietto dietro con le parole che mio padre scrisse nella prima pagina del libro:

Call’d Marina for I was born at sea.
At sea! what mother.
My mother was the daughter of a king;
Who died the minute I was born,
As my good nurse Lychorida hath oft
Deliver’d weeping.
Oh, stop there a little!
This is the rarest dream that e’er dull sleep
Did mock sad fools withal: this cannot be:
My daughter’s buried.

Per giorni sono tornato dentro a quella biblioteca distrutta, stavo lì dalle prime luci del mattino fino alle ultime della sera per trovare quel libro che per te era stato così importante e che io, stupidamente, egoisticamente, non avevo mai voluto leggere. Mia madre era molto preoccupata “E se dovesse crollare? Non è sicuro Federico, ti prego non ci tornare più, non possiamo perdere anche te”. “Sì mamma, va bene mamma”. Non ero mai stato un bambino molto obbediente ma non volevo più vedere soffrire la mamma e non ci tornai più.

Crebbi e me ne andai da Torino per fare degli studi in Inghilterra, lì avevano da poco aperto un’ottima scuola di legge e di stare in Italia, dopo la morte dei miei genitori, proprio non ne avevo più voglia.
Ero arrivato da poco a Londra quando, camminando per strada in cerca di un ufficio postale, vidi un cartellone: “Pericles, Prynce of Tyre. 6th September 1958. Shakespeare Memorial Theatre, Stratford”. Mi tolsi gli occhiali, passai le lenti tra le mani e il bordo della camicia per pulirli, li indossai di nuovo e riguardai il cartellone: Pericle, l’eroe di mia nonna, rappresentato qui, domani.
Non ci potevo credere: erano passati quindici anni dall’ultima volta in cui avevo pensato a quel libro. Eccitato corsi al teatro per comprare il mio biglietto e tornando a casa mi sembrava di volare, di camminare due metri sopra terra. Passai il pomeriggio in un bar a bere e ascoltare le storie degli altri, come uno spettatore invisibile ai loro occhi.
La mattina dopo mi svegliai molto presto, comprai una copia del The Guardian nell’edicola sotto il mio appartamento e con il giornale sottobraccio decisi di recarmi in biblioteca in cerca del mio libro, dopo tanto tempo non era un caso quell’annuncio: dovevo leggerlo.
“Excuse me, I’m looking for a book.” “Yes, sir. What’s the title?” “Pericles, by William Shakespeare. Can I borrow it?”.
Uscii dalla biblioteca soddisfatto per il mio inglese e per la riuscita della mia visita alla biblioteca. Mi sedetti su una panchina nel parco di fronte alla biblioteca: tenevo il libro tra le mani con dolcezza e delicatezza, come se fosse lui stesso, nella sua forma rigida e rettangolare, ciò che di più dolce e caro mi restava di mia nonna. Rimasi a contemplare quella copertina per ore e venni destato dal suono del campanile che segnava le cinque: era ora di andare.
Con il libro in mano andai verso il teatro, entrai, mi sedetti al mio posto e aspettai, osservando ogni centimetro di quel luogo, ogni dettaglio della sceneggiatura, dei vestiti. Rimasi lì seduto in silenzio a godere di quello spettacolo senza perdermene neanche un secondo, mi sembrava di non sbattere neanche le palpebre per paura di lasciarmi sfuggire qualcosa.
Finita la rappresentazione il teatro, tornato rumoroso dopo il silenzio attento della platea nel corso del dramma, iniziava a svuotarsi lentamente e io, io non riuscivo a trovare la forza di alzarmi dalla mia poltrona. Fui costretto ad alzarmi qualche minuto dopo per la gentile richiesta di un giovanetto dai capelli rossi, così me ne andai e camminai tutta la sera per la città senza meta.

“Nonna, io da grande voglio fare lo scrittore, e non uno scrittore qualunque, voglio essere importante come questi che ci sono qui, come questi sugli scaffali che tu ami tanto. Posso farlo, vero nonna?”.
Quante volte te l’ho detto non lo so, neanche riesco a ricordarmelo; però era vero, nonna, volevo diventare uno scrittore e lo sono diventato, per te.

Tornato a casa dopo lo spettacolo, quella sera, ero in preda a sentimenti contrastanti, mai provati prima: ero euforico e allo stesso tempo triste, ero vivo e allo stesso tempo mi sentivo distante dal mio corpo, ero io e non ero nessuno.
Lessi con eccitazione il libro, lo divorai in poco più di un’ora, lo posai sul comodino e mi addormentai. Ricordo di aver fatto dei sogni strani: io ero capitano di una nave che naufragava e proprio quando stavo per annegare, caduto in acqua dopo la forte tempesta, ecco che magicamente mi ritrovavo su un’isola, a sposare una donna che non avevo mai conosciuto, a cercare una figlia che non avevo mai avuto. Mi svegliai sudato, il mio petto si muoveva rapidamente, avevo la bocca asciutta e le mani bagnate. Mi alzai, bevvi un bicchiere d’acqua e mi sedetti sulla poltrona del soggiorno.
Quanta potenza questo libro, quanta passione, quanto dolore, quanta speranza, quanta vita… Quante cose mi ero perso negli anni, quante cose che tu nonna avevi cercato di insegnarmi ma che io, testardo, non ascoltavo, convinto di poter conoscere tutto leggendo altre cose, pensando che il passato, che una storia così lontana, non potesse insegnarmi niente.
Mi vestii, presi un caffè in un bar vicino a casa e andai a comprare carta, inchiostro e bianchetto liquido per la mia macchina da scrivere e rincasai.
Scrissi per vari giorni, fermandomi a stento per mangiare, bere e dormire qualche ora, la maggior parte delle quali appoggiato sulla scrivania con la testa sul braccio destro e la mano appoggiata alla tastiera. Scrissi come non avevo mai fatto, scrissi come non facevo da tempo, ispirato e guidato da un qualcosa più grande di me. Scrissi per giorni, nonna, scrissi per te, per me, per quello che questo libro era riuscito a fare: collegarci anche se eravamo così lontani, riunirci da luoghi distanti, farci vivere ancora per un po’ nello stesso momento.

Bibliografia
William Shakespeare, Pericle, Principe di Tiro, tr. it. di Alessandro Serpieri, Garzanti, Milano, 2016

Il dono di Marina

Alice Moretto, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod.1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Accettare la verità quando da essa si vorrebbe fuggire, imparare a guardare il mondo da una diversa prospettiva. Queste le più grandi sfide che l’instancabile Pericle, alla fine, deve superare.

*

Con le mani appoggiate sul legno freddo e duro della poppa della mia nave, scrutavo l’orizzonte ancora scuro, si scorgeva solo una tenue luce, che indicava l’alba imminente. Chiusi gli occhi e inspirai a fondo, nel tentativo di calmare il tremolio che sentivo nel petto. A poche ore da quel momento avrei finalmente potuto conoscere mia figlia Marina, affidata ai fedeli Cleone e Dionisa, sovrani di Tarso, tanto tempo addietro.
Mi abbandonai ai pensieri e iniziai a ricordare la notte in cui nacque Marina.
Io e la mia amata moglie Taisa, figlia di Re Simonide, ci eravamo da poco imbarcati in direzione della mia terra madre, Tiro, poiché io dovevo tornare a ricoprire la mia carica di sovrano dopo un lungo periodo di assenza.
La tempesta ci investì senza preavviso e senza pietà, il vento e la pioggia sferzavano la nave e i marinai con la forza di fruste e rasoi, e il cielo tuonava con rabbia inaudita.
Quella notte la furia degli Dei sembrava provocata da un dolore intimo e profondo. A causa di questa furia la mia dolce Taisa, già incinta, entrò in travaglio e diede alla luce una bambina, chiamata Marina poiché nata tra le onde del mare.
La gioia più grande fu accompagnata dal più grande dolore: Taisa morì dopo il parto. Sollecitato dai miei marinai, fui costretto ad abbandonare il suo corpo al mare.
Il peso della vita mi crollò addosso come un forte macigno che ruzzola giù dal fianco di una montagna. Le poche forze che mi erano rimaste le ricavavo dal viso sereno della mia dolce, piccola Marina. Mentre la guardavo, ricordai una vecchia leggenda che circolava tra gli uomini di mare. La leggenda recitava che i nati sotto il segno della tempesta e delle grandi onde, sono portatori di male in questo mondo, poiché nascono dall’ira e dalla paura. Sorrisi ricordando le parole dei marinai e continuai a guardare il viso della piccola, convinto che una creatura così pura non potesse portare che bontà e amore.
Quando la tempesta si placò, fui costretto a lasciare la mia amata figlia ancora in fasce a Tarso, per paura delle conseguenze di una traversata in mare tanto lunga.

Ridestandomi dal torpore dei ricordi lontani, che mi avevano gelato il cuore in un dolore ormai tanto famigliare, scorsi il profilo della terra di Tarso e il mio cuore iniziò nuovamente a tremare al pensiero di essere tanto vicino alla mia Marina.

L’accoglienza di Dionisa e Cleone fu diversa da ciò che mi aspettavo. Nei loro occhi c’era una luce differente da quella che ricordavo, ma, preso dai miei sentimenti, non me ne curai.
Quando chiesi loro di condurmi da Marina, il loro volto mutò. Si fece duro, addolorato e arrabbiato al tempo stesso. Iniziai a provare emozioni confuse.
Mi condussero in una bella sala del loro palazzo, adibita ad accogliere ospiti e intrattenere conversazioni. I sovrani di Tarso mi fecero accomodare, poi si accomodarono di fronte a me.
Trovai il loro comportamento bizzarro, non mi spiegavo perché dover intrattenere una conversazione prima ancora di farmi vedere mia figlia, ne avremmo avuto l’occasione a tempo debito.
Non appena Dionisa iniziò a parlare, iniziai a capire i motivi del loro strano comportamento dal momento del mio arrivo. “Pericle,” mi disse, “Marina non è qui.” Un dolore lancinante mi pervase il petto. Cleone colse i segni della mia agitazione e mi interruppe prima che potessi dire qualsiasi cosa: “Pericle, la storia che sto per raccontarti non ti aggraderà, ti chiedo però di credermi perché non c’è menzogna nelle mie parole né cattiveria nelle mie intenzioni. Io e mia moglie Dionisa abbiamo cresciuto Marina come si conviene a una principessa, educandola alla pari della nostra dolce figliola nelle arti e nelle buone maniere. Per tanti anni l’abbiamo ritenuta una bambina gentile, affettuosa e sincera. Abbiamo faticato e tardato a vedere la verità anche di fronte all’evidenza. Durante gli anni sono accaduti episodi insoliti a palazzo. Abbiamo recluso e allontanato molti servi, poiché abbiamo sempre creduto alle parole di Marina che li accusava di piccoli furti o ingiustizie. Abbiamo creduto alle parole di Marina persino quando ha accusato la sua povera nutrice, Licorida,” Cleone si interruppe, la voce spezzata dall’emozione, poi riprese a parlare. “oh, povera Licorida, che destino infausto le hanno riservato gli Dei, giustiziata per un atto da lei mai commesso!” Cleone interruppe nuovamente il racconto, il senso di colpa che gli attanagliava lo sguardo. Si passò una mano sul volto e riprese: “come dicevo, abbiamo creduto a tua figlia Marina anche nel momento in cui ha accusato Licorida di un atto così increscioso che non riesco a farne parola. Licorida ha perso la vita a causa delle parole di Marina.” Una sensazione di calore iniziò a farsi largo nel mio stomaco, mi imposi di stare calmo e dissi, tagliando le parole tra i denti: “state dando della bugiarda a Marina, figlia di Taisa da Pentapoli e Pericle da Tiro?” mi resi conto di essermi alzato in piedi solamente quando Dionisa mi chiese di sedermi. “per favore, grande Pericle,” mi disse, “ascolta ciò che dobbiamo dirti.” Mi sedetti, dopodiché Cleone riprese a parlare: “la prima ad accorgersi che Marina spesso proferiva il falso è stata la nostra dolce figlia, che è stata punita severamente, poiché io e mia moglie abbiamo per lungo tempo creduto che fosse vittima di gelosia nei confronti delle meravigliose doti di Marina. Marina infatti, sa cucire molto bene e sa cantare, ma la sua più grande dote è quella di raccontare storie. Le racconta così bene da ipnotizzare gli ascoltatori, facendoli allontanare dalla realtà. Da quando ha iniziato a parlare abbiamo creduto che avesse il dono della Parola. Ci siamo accorti troppo tardi, purtroppo, che utilizza questo grande dono in segno del male, per esaudire i suoi capricci e i suoi desideri, manipolando la realtà al fine di raggiungere i suoi scopi.”
Quando Cleone smise di parlare, sentivo la rabbia che mi esplodeva da ogni parte del corpo. Dal petto, dalla pancia, dalla bocca e persino dalle dita. “Esigo sapere dove si trova mia figlia, vili bugiardi!” esplosi, ero nuovamente scattato in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi e la mascella serrata. Dionisa si ritrasse sulla sedia, spaventata dalla mia reazione. Cleone al contrario si alzò e guardandomi negli occhi, come se volesse farmi capire che non aveva paura della mia ira, ripose: “Nel momento in cui abbiamo appreso la sua natura, abbiamo deciso di tenerla in prigione fino al momento in cui saresti arrivato. Marina è allora scappata, corrompendo un gruppo di pirati e imbarcandosi con loro. Stando alle ultime notizie che ci sono giunte si trova ora a Mitilene.”
Di ciò che feci dopo l’incontro con Cleone e Dionisa mi rimangono solamente ricordi confusi. Ricordo però chiaramente ciò che provai: rabbia, per non aver trovato mia figlia dalle persone a cui avevo affidato la sua vita. Rabbia, nei confronti dei sovrani di Tarso di cui mi fidavo e che mi avevano tradito e proferito menzogne.
Cercavo di scacciare il pensiero di quella vecchia leggenda di marinai che mi raccontarono tempo addietro e mi concentrai sul ricordo sbiadito del dolce viso di Marina.

Mi diressi verso Mitilene senza esitare, risoluto più che mai a ritrovare mia figlia. Durante il viaggio da Tarso a Mitilene la rabbia lasciò spazio al dolore e alla delusione, le speranze di trovare la mia bambina perduta erano poche e io sentivo il peso della solitudine.
Il dolore era così incombente che mi rifugiai dentro me stesso, smettendo di parlare e chiudendo qualsiasi tipo di comunicazione. Mi curavo così poco di tutto ciò che non fosse la mia sofferenza che mi vestii di un saio e mi lasciai crescere barba e capelli.

Arrivato a Mitilene incontrai il suo governatore, Lisimaco, a cui chiesi se conoscesse una giovane donna di nome Marina, arrivata da qualche tempo in città. Egli mi indirizzò presso un bordello, di cui, diceva, la padrona portava il nome di Marina. Stentavo a credere che una creatura pura come ero convinto potesse essere mia figlia avesse un simile ruolo, ma essendo quella l’unica fievole speranza che avevo mi diressi verso quel posto accompagnato dal gentile Lisimaco.
Nel momento esatto in cui vidi per la prima volta la giovane donna non ebbi alcun dubbio: era Marina. Mia figlia aveva le sembianze di sua madre Taisa alla sua età. La sofferenza provata fino a quel momento mi abbandonò, sostituita da gioia e gratitudine. Ricordo che mi tremavano le mani e mi si inumidirono gli occhi, un sorriso genuino mi pervase il volto.
Mi presi qualche momento per osservarla. Aveva gli stessi occhi azzurri della madre, gli stessi capelli corvini, le stesse mani eleganti e affusolate. Eppure qualcosa in lei era completamente diverso. I suoi occhi erano vitrei, non caldi e profondi come quelli della madre. L’espressione enigmatica ricordava una maschera che non lasciava trasparire l’orizzonte dei suoi pensieri.
“Oh, caro Lisimaco, quale piacere!” esclamò la ragazza quando vide il governatore, illuminandosi in un sorriso sorpreso. Si rivolgeva a lui come una donna innamorata, eppure non si scorgeva passione nel suo sguardo.
Lisimaco le rispose in tono cordiale e mi introdusse a lei. Marina mi guardò, studiò il mio volto stanco e il mio umile saio, come per calcolare quanto denaro avrei potuto fruttare alla sua attività. Mi parlò  in fretta, senza calore, menzionando qualcosa su qualcuna delle sue ragazze, prima di rivolgere nuovamente la sua attenzione a Lisimaco.
“Marina..” dissi, la voce ridotta a un sussurro. “Marina.. mia figlia. Ti ho trovata.”
Marina mi guardò, fissò il suo sguardo duro nei miei occhi, sospirò e scoppiò in una risata amara. “pensa che ironia” disse, “mi è stato raccontato tutta la vita che mio padre era un sovrano! Il grande principe di Tiro! E adesso un vecchio straccione viene a reclamarmi come figlia sua! Non credo che tu sia mio padre, anche se lo fossi, non ti riconoscerei come tale.”
Le sue parole furono taglienti quanto lame, più difficili da ascoltare della notizia della morte della mia amata.
“Marina, io mi chiamo Pericle, sono principe di Tiro. Sei stata partorita nel ventre del Mediterraneo, tra l’impetuosità di una tempesta. Durante la stessa tempesta tua madre ha perso la vita. Ti ho dovuta affidare ai sovrani di Tarso poiché eri ancora un’infante e non avresti avuto possibilità di superare un viaggio per mare.” Queste le uniche parole che riuscii a pronunciare, avvilito.
“Oh, padre! Padre! Quanto tempo ho aspettato questo momento, tutta la vita ho sperato di potermi rifugiare tra le tue braccia forti. Tante volte mi sono fatta raccontare dalla mia dolce nutrice Licordia la storia della notte in cui nacqui. Oh padre!” Marina si accasciò ai miei piedi, le mani a coprire il suo volto.
Le sue parole insinuarono dentro di me il seme del dubbio. La giovane donna aveva cambiato idea riconoscendomi come padre non appena avuta la conferma di essere figlia di un sovrano. Aveva inoltre nominato la nutrice, definendola dolce, eppure io conoscevo la storia della sua fine. Le parole di Cleone e Dionisa mi tornarono nitide in mente e decisi di chiedere a Marina come fosse arrivata a Militene.
“Oh, padre,” disse Marina “sapessi come mi trattavano a Tarso! Dionisa e suo marito Cleone hanno cercato di uccidermi, essendo la donna invidiosa delle mie innumerevoli doti. Fortunatamente, riuscii a scappare prima che ciò accadesse.”
Nel mio cuore era subentrata la conferma più dolorosa. Mi resi conto che Marina era figlia della tempesta e come tale era venuta al mondo per recare dolore e frustrazione. Utilizzava il suo dono prestigioso per ottenere un tornaconto personale, senza mai pensare al bene del prossimo. Era molto abile e avrebbe ingannato e raggirato tante anime nella sua vita, ma agli occhi di suo padre, il suo intento appariva cristallino.
“Marina, io ti conosco. Della tua buona madre e del tuo saggio padre non hai ereditato nulla, sei figlia della tempesta e come tale porti dentro l’avidità e la crudeltà del mare arrabbiato. Io qui ti saluto e con immenso rammarico ti volto le spalle.” Furono le parole più dolorose della mia vita, eppure le pronunciai con la consapevolezza della verità sulle spalle.
Tornai alla mia imbarcazione, pronto a salpare e lasciarmi per sempre alle spalle Mitilene e la tanto ricercata Marina.
Marina mi seguì fino al porto, a tratti implorandomi a tratti maledicendomi. Sapevo in cuor mio che aveva visto in me la possibilità di avere una vita più ricca e dignitosa, non aveva riconosciuto un padre. Salii sulla nave addolorato e deluso, ma convinto della mia posizione.

La ragazza continuò a correre anche nel momento il cui la nave fu salpata. Continuò a correre persino quando non c’era più terra sotto i suoi piedi e cadde, inghiottita dal blu del mare.
Fu l’ultima volta che vidi Marina, figlia mia quanto figlia della tempesta. In quel momento capii che non poteva essere in alcun altro modo, lei era tornata al suo elemento e non avrebbe più potuto ferire nessuno.

Volsi gli occhi all’orizzonte, più stanco e addolorato di quanto non fossi mai stato.
In quel momento ancora non sapevo che il mio viaggio mi avrebbe portato al tempio di Diana, dove avrei ritrovato il dono più prezioso: l’amore di Taisa.



Bibliografia:
William Shakespeare, Pricle, Principe di Tiro, Milano, Bompiani, 2019

Rami di quercia

Barbara Bo, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.   

Innogene, Guiderio, Arvirago, Antonio e Sebastiano si trovano in un giardino immaginario e simbolico, di carattere onirico, dove sono portati a riflettere sul rapporto fraterno dalla visione di due bambini.

*

Una rondine scendeva planando dolcemente verso il prato illuminato dal sole. All’ombra di una grossa quercia due bambini si riposavano appoggiati alle radici come tra le braccia affettuose di una madre; parole gentili sussurrate attraverso le foglie risvegliavano le risa dei bambini. Innogene si avvicinò attirata dal campanellio lieve ma, più gli andava incontro, più l’albero risultava lontano, irraggiungibile; si voltò verso i fratelli: “Guiderio! Arvirago! Venite a vedere!”.

Mentre i due giovani si avvicinavano il suono si insinuò dentro di loro dove trovò il ricordo di sé stesso e riportò alla mente un tremore incontrollato e la richiesta esigente di un sospiro. Sorridendo, Guiderio affermò: “Sono fratelli! Se anche non avessero gli stessi capelli del colore del grano, se anche nei loro occhi non ci fosse memoria del medesimo bacio materno e dello stesso sorriso paterno, si riconoscerebbe comunque che quelle risa nascono dalla necessità di tutti i fratelli di volersi bene, tanto che paia non conoscano nient’altro.”

“Forse uno dei due ride, sì, ma solo per nascondere le sue vere intenzioni” interruppe un uomo, detto Antonio, avvicinatosi, il capo chino, in volto un’espressione priva di tenerezza. “Non c’è nulla di più facile che ingannare un fratello che vive per dare fiducia: se mio fratello fosse disteso accanto a me sotto quell’albero, con ogni sorriso luminoso io tramerei un piano brillante, e, con l’ausilio del caso, arriverebbe il momento in cui il suo affetto diverrebbe il mio guadagno, e il mio inganno il suo difetto.”

Quelle gelide parole provocarono in Innogene un’emozione tale da farla tremare: “O crudele straniero! Come si può leggere sulle labbra di quell’angelo, che ora sta lì, correndo felice dietro al fratellino più piccolo, una simile oscurità d’animo? Il fanciullino non scappa per terrore, affatto, scappa per un gioco che gli insegna a vedere la differenza fra compagno e nemico.”

Un secondo uomo si avvicinò ad Antonio, ridendo alle parole della ragazza: “Compagno tu dici? A me sembra che la corsa intrapresa da quel bimbo non sia diversa da quella che intraprende un condannato a morte di fronte al boia. Fratello può essere anche colui che ti ispira ribrezzo: non si combatte con lui per primo per l’affetto dei genitori? Io, Sebastiano, non esiterei a uccidere mio fratello per il potere, e così potrebbe fare quel pargoletto in futuro. Certo, ora corre e gioisce, ma le risa svaniscono quando devono affrontare il passare del tempo come un disegno sulla sabbia al vento”.

Arvirago rispose infervorato: “Cosa significa potere? Potente è la malattia che consuma il corpo, potente è la tempesta che distrugge la foresta. Ma entrambe hanno fine, sono contingenti, sono destinate alla sconfitta. Il legame fraterno, invece, non può terminare, esso è, per sua stessa natura, punto di partenza assoluto perché nasce con il primo respiro di una persona ed è quindi indissolubilmente legato alla vita.”

Le parole di Arvirago furono interrotte da un leggero tonfo e dal pianto cristallino di uno dei due bimbi che, dopo essere caduto a terra, si abbracciava il ginocchio offeso, singhiozzando dolcemente. Il fratello gli corse incontro e gli si sedette vicino: agli angoli degli occhi gli luccicavano delle lacrime che minacciavano di cadere, ma gli angoli della bocca erano rivolti verso l’alto in un sorriso di conforto.

Innogene rispose guardando la quercia perché la vista dei suoi interlocutori non reggeva il confronto con la tenerezza dell’abbraccio sotto la quercia: “Non si può fingere quel dispiacere. Un ginocchio sbucciato significa sia un graffio nella carne sia uno strattone per chi, come quel bambino che ora stringe e cerca di consolare il fratellino, sente nel sangue il dovere di proteggere più forte di qualunque altro istinto. È un obbligo che proviene da una promessa fra una madre e la natura: ella con il dolore del parto si assicura che il suo bambino sarà nel mondo amato da qualcuno e in cambio la natura lascia la stessa impronta sui figli dello stesso seno.” Si girò verso Arvirago e Guiderio. “Per questo un fratello è capace di riconoscerne un altro senza il bisogno di alcuna prova: sotto la pelle io riconosco questi miei fratelli al di là di ogni travestimento, tant’è che se dovessi scordare i loro nomi, identificherei il loro dolore come mio.”

I tre si scambiarono a loro volta un abbraccio, ignorando gli altri due uomini che li fissavano con aria sprezzante. Sebastiano disse quasi ridendo: “Non sono figlio unico, ma l’unica persona che sento di dover proteggere sono io. Si nasce soli, e così si vive: non vi è nessuna somiglianza fra gli uomini, siamo tutti stranieri che viaggiano nel mondo, e se pensate che vi siano dei legami intrinsechi che permangono al di sopra di tutto, siete degli illusi che cercano di trovare una goccia di acqua dolce nel mare”.

Innogene, le cui convinzioni non erano affatto messe in dubbio da quelle parole ostili, rispose tranquilla: “Se tu avessi ragione, e i sentimenti fra quei due bambini fossero un’illusione, perché mai adesso uno starebbe cercando di consolare l’altro come se la sua vita dipendesse da questo? Con i sorrisi, con le smorfie volte a provocare il riso? E guarda come si prepara a raccontare una storia che potrà sicuramente distrarre dal dolore e risollevare l’umore! E ascolta come, non sentendo di aver fatto abbastanza decide di cantare questa filastrocca che ora non può far altro che scaldare anche il tuo cuore gelido!”

La voce angelica del fanciullo li avvolse, accompagnata dal vento che frusciava attraverso le foglie; il racconto cavalcava il vento e riempiva di meraviglia i presenti. Il bimbo cantava di due rami che, provenendo dallo stesso albero si misero a giocare e giocando crebbero grandi e forti, fino a staccarsi per girare il mondo. Il bambino tornò a ridere, complice la memoria labile propria della sua età, e intraprese un nuovo gioco con il fratello.

Antonio non riuscì ad accogliere il sentimento lieto che li circondava, forse perché risvegliava una mancanza dentro di sé. Invece che sorridere, si mostrò irritato e ancora sostenne: “Si potesse rappresentare meglio l’illusione rispetto a ciò che è davanti ai miei occhi! Canzoni, affetti, giochi, favole… Tutti esempi di ciò che gli sciocchi credono sia importante quando sono troppo deboli per inseguire il potere e controllare chi è così sciocco da non farlo. Chi pensa solo a sé, lasciandosi alle spalle anche i vincoli familiari, vedrà che niente di buono vale la pena di essere condiviso, se non per necessità o convenienza!” Fece allora un cenno a Sebastiano che annuiva concorde.

Innogene, che aveva perso nuovamente il sorriso, parlò in un impeto di compassione: “Il mio cuore piange per voi che non avete mai amato un fratello! Il fato non vi ha mai mostrato il vostro difetto? O forse, non potete capire per stoltezza di cuore o di mente? O forse ancora il vostro animo non è abbastanza nobile da conoscere un così nobile amore, e di questo mi dispiaccio e prego che possa cambiare.” Arvirago si mosse verso la sorella: “Innogene cara, non sprecare il tuo pianto per questi uomini che non riuscirebbero a riconoscere la verità neanche se fosse una montagna sul loro cammino, vieni, calmati. In quanto a voi, penso che mia sorella abbia ragione: il più umile degli schiavi giudica suo fratello come il più prezioso dei tesori se il suo animo è abbastanza virtuoso da consentirglielo. Voi, al contrario, siete consumati dall’egoismo e nulla potrà mai cambiare la vostra opinione. Forse un giorno incontrerete i vostri fratelli, e doverli affrontare vi costringerà a testimoniare le vostre vite corrotte dall’odio, più che inebriate dall’affetto. Arrivederci.” Così dicendo i due fratelli si voltarono e iniziarono a camminare.

Innogene, però, ebbe un ultimo atto di esitazione, si fermò e tornò sui suoi passi per dare un abbraccio ad Antonio e Sebastiano: “Vi regalo questo abbraccio in quanto nel mio cuore risuona la speranza che come un bosco, che in autunno cambia il suo colore, anche voi possiate un giorno cambiare. A presto.” Si ricongiunse quindi ai due uomini poco lontani, andandosene con loro.

I bambini si erano infine addormentati, le loro gambe intrecciate come radici della quercia che li ricopriva con
le sue foglie.

Bibliografia
W. Shakespeare, Cimbelino, in Id., Tutte le opere. IV – Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019.

W. Shakespeare, La tempesta, ibidem.

Ulysses-Pericles

Linda Dellacroce, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Pericle è naufragato a Pentapoli e nella desolazione della sua condizione un flusso di coscienza (sul modello dello stream of consciousness joyciano) lo porta a rivivere le scene terribili della notte passata. Sopraggiungono tre pescatori che lo informano dell’esistenza della corte del re Simonide e del torneo indetto per scegliere lo sposo della figlia; improvvisamente trovano impigliata nelle loro reti l’armatura che il padre di Pericle gli aveva lasciato in eredità prima di morire. 

*

Whooosh. Whiiiish. Giù e su giù e su poppa prua poppa prua, whoooshh. Il vento era proprio forte. Avrei potuto cadere da un momento all’altro e via di nuovo con un’altra onda, whooooshh. E c’erano anche delle altre persone con me, dove sono finiti tutti? Due persone. No, quanti erano? Forse tre. No due, ne vedo due, boh non so non so dove sono.

Pelliccia, Pezzalculo, hanno poi dei nomi strani, mamma mia che onde alte che c’erano. Le stelle non si vedevano più. Da piccolo mi piaceva guardare le stelle, cercavo sempre Orione. Che poi davvero sarà stata una cintura? La mia cintura se l’è mangiata la focena. Ah magari loro la trovano la focena, hanno una rete bella grossa, ma poi cosa me ne frega a me per me posso anche morire tanto a Tarso mica ci arrivo più, però sento delle voci boh avrò le allucinazioni whooosh whiiiiish whoooosh non ci sento più c’era troppo rumore con quelle onde.

Cos’è che dicono? Che le balene stanno sulla terraferma? Si mangiano le parrocchie? Io non me le mangerei le parrocchie devono essere indigeste con tutti quei mattoni e quei libri e quegli organi però gli organi hanno proprio un bel suono, ci assomiglia un po’ alle onde, erano assordanti come l’organo. Se voglio starmene qua devo pure trovarmi qualcosa da fare sto a sentire questi che dicono che mi sembra divertente stanno mettendo insieme i sacrestani con i pesci però anche di pesci stanotte mi sembrava di vederne tanti, in tutto quel whiiiish whoooosh, la focena che mi ha mangiato la cintura no però di balene manco sembravano pesci fatti d’acqua o era l’acqua sulla prua o era il mare sulla poppa o ero io dentro il mare? Non so adesso dicono dindondan come fanno le campane, e Simonide. Simone? No no ho sentito bene, boh chissà sarà il nome di un pesce. Mi sembra gente che di pesci ne ha visti tanti chissà quanti ne pescano in quelle reti, però io Simonide un pesce ecco io non lo chiamerei mai, tanto non ci puoi neanche parlare col pesce che senso ha dargli il nome.

Non ho ancora capito se parlano a metafore o cosa, cos’era già la metafora? Ah sì giusto, i capelli di grano, il mare di pece, che poi di solito mica è vero il mare non è così però ieri sera whiiiish whoooosh sembrava una metafora adatta. Questi qui poi Pelliccia Pezzalculo come si chiamano stanno dicendo cose sensate vedono solo i pesci tutto il giorno però c’hanno poi ragione che le balene sono anche sulla terra. Ma quasi quasi gli parlo tanto cosa mi cambia per stare qui a crepare solo posso crepare di fianco a loro magari mi buttano in mare insieme ai pesci così poi faccio whiiiish whooosh insieme alle onde e vado a riprendere la cintura.

Cos’è? Il mare è ubriaco? Sì può anche darsi visto che mi ha vomitato qui. Non sarò stato facile da digerire, mi è successa una volta la stessa cosa però avevo mangiato anche trenta pasticcini che buoni che erano ce n’era uno che me lo ricordo come fosse ieri aveva tutto quello che poteva esserci su un pasticcino era proprio un pasticcino al quadrato al cubo il pasticcino dell’Iperuranio dei pasticcini ne vorrei proprio uno adesso non so da quanto non mangio ho freddo ho fame aiutatemi.

Grazie del mantello è proprio caldo adesso sto già meglio cos’è? carne pesce sanguinaccio frittelle? Sono ospitali davvero tanto questi Pelliccia Pezzalculo e l’altro che non ha un nome ah forse è lui quello con il pesce che si chiama Simonide. Tornano in mare con le reti ma chissà che sperano di pigliare che il mare si è già mangiato tutto lui stanotte e ha vomitato gli scarti però questo qui adesso si è messo a chiamare il suo pesce ah no forse no, cos’è? Persepoli? Costantinopoli? Ah no Pentapoli. E il pesce che c’entra? Ah no è un re ora torna tutto ecco perché mi sembrava proprio strano che fosse il nome di un pesce bel nome Simonide anch’io mi chiamerei così se fossi un re. Simonide di Pentapoli e io sono Pericle di niente perché il mio regno chissà dov’è chissà se c’è ancora sarà sparito pure lui sotto tutto quel whiiiish whoooosh meglio per me che mi faccio amici sti pigliapesci che almeno loro sanno pescare sennò qua mi resta solo da mangiare la sabbia. Però ecco una visita a Simonide potrei anche farla quanto ci si mette a piedi? Mezza giornata? Deve essere poi grande sto regno per l’amor di Dio a me sembra una spiaggia senza nessuno invece ecco c’è pure un re sono stato fortunato nella sfortuna come si dice la speranza è l’ultima a morire. Cosa dice? Un’amabile figlia? Allora la forza nelle gambe posso pure trovarla per vedere la bella principessa sarà poi bella davvero ma sì tutte le principesse sono belle e faccio pure il torneo e la sposo così ritorno ad essere Pericle di qualcosa Pericle di Pentapoli mica male c’è pure l’allitterazione spero che lei si chiami Penelope così facciamo proprio una coppia perfetta sarebbe un nome perfetto Penelope come quella di Ulisse, così io sono Ulisse e lei Penelope e anche Ulisse ora che ci penso aveva viaggiato per mare ed era naufragato due tre volte anche di più boh chi si ricorda però alla fine a casa ci era tornato e Penelope c’era ancora magari vuoi vedere che non muoio? Speriamo proprio si chiami Penelope sennò non importa io nemmeno mi chiamo Ulisse ma sono Ulisse lo stesso. Oh ma quelli hanno preso un pesce bello grosso, vuoi vedere che è la focena che si è mangiata la mia cintura? Non le ho mai viste le focene non so manco che forma abbiano però ecco le squame di ferro devono essere belle dure da digerire non credo che ne mangerò mai una guarda come brilla al sole ci faranno i soldi con quella roba lì anche se non è che sembri proprio un pesce sembra un’armatura un’armatura sì ma è proprio quello che mi serve per vincere il torneo e tornare con la mia Penelope. Mi spiace per i pigliapesci che non potranno mangiarsi niente stasera però in compenso hanno il sanguinaccio io ho la corazza è quella di mio padre la riconosco, beato sia tu Pelliccia o Pezzalculo o come ti chiamavi che l’hai trovata in fondo al mare chissà se il mare di pece ha vomitato pure quella insieme a me dopo tutta l’indigestione e il whiiiish whoooosh di stanotte l’hanno portata via a lui e adesso la riportano a me questa sì che si chiama provvidenza. Così sembro davvero Ulisse che combatte contro la sorte, sorte avversa maledetta che non vuoi farmi trovare la mia Itaca ma il mare che mi ha odiato stanotte adesso mi ama e mi aiuta e cavalcherò il cavallo e sconfiggerò tutti e mangerò al banchetto tutti i sanguinacci che si mangeranno questi pigliapesci qui.

Le onde, le onde, le onde. Whiiiish Whoooosh. E un’altra onda ancora, ma ora mi rialzo.

L’affittacamere

Alessandro Maria Flavio, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il ragno indietreggiò, raggomitolandosi su se stesso, poi, quando la tela smise di vibrare, ne collegò i fili spezzati.

*

Il passo successivo andava pianificato con cura, lo suggeriva l’esperienza. Anni e anni di duro lavoro gli avevano consentito la creazione di un sistema complesso fatto di collaboratori, false promesse, strizzatine d’occhio provate e riprovate allo specchio, cavilli contrattuali sfuggiti a occhi ingenui. Ora, sotto la pioggia battente di un comunissimo mercoledì sera, si sentiva calmo e fiducioso. L’inquilino lo aveva accolto da signore: stretta di mano, “lei”, bicchiere di vino, casa linda. Si era aggirato nelle stanze con il suo timoroso accompagnatore, portandosi alla bocca il calice che reggeva con la mano a coppa. Niente di cui preoccuparsi, una macchia qui, una là. Non sono un decoratore, premetto, ma a occhio non credo ci voglia una fortuna. Avrebbe pensato a tutto lui, ma no, che grazie. Ci mancherebbe.

Salì in macchina e attivò i tergicristalli; tolse il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni e lo lanciò sul sedile del passeggero. L’acqua scorreva sul vetro dell’auto, vi fu un lampo. Il bagliore illuminò un oggetto che fino ad allora non aveva considerato, un cioccolatino dall’involucro violaceo. Lo recuperò con fatica dal fondo di un vano portamonete, lo mangiò e, mentre si sfaldava nella sua bocca, accese la luce sopra il cruscotto così da stirare l’involucro e leggere al suo interno: non hai amato troppo, ma hai scelto male.

Appena entrato in casa, si buttò sotto il getto caldo e vaporoso della doccia. Chiamerò il decoratore e pianificheremo uno spettacolo di tutto rispetto, ma prima devo individuare un dettaglio rilevante che lo metta all’angolo, ma quale, quale. Alzò la temperatura dell’acqua e rilassò i muscoli delle spalle, massaggiandosi il collo. Con la coda dell’occhio colse qualcosa nell’angolo della cabina, un ragno verdognolo zampettava all’interno della sua tela, avvicinandosi. Ehi dico a te, disse, deviando qualche goccia in direzione dell’animale con una manata. Vivi qui da settimane, ma la casa è mia. Non sarai mica velenoso! Il ragno indietreggiò, raggomitolandosi su se stesso, poi, quando la tela smise di vibrare, ne collegò i fili spezzati.

Ma certo, il fumo! Guarda come si è appannato lo specchio per il vapore, lo stesso si potrà dire delle pareti che, in alcune zone, illuminate come sono, sembrano gialle. Due volte sono andato, due volte il posacenere era stracolmo; dall’odore fuma in casa. Sentì lo scatto della serratura, piedi che strisciavano sullo zerbino: sua moglie. Ripose l’ombrello fradicio ai piedi dell’appendiabiti e sospirò, sollevata. Hai visto là fuori? Una tempesta! Come no, ero nell’altro appartamento fino a mezz’ora fa. E hai appiccato un incendio per riscaldarti. C’è fumo. Sia benedetto, tesoro. Chiuse la porta del bagno e si asciugò i capelli; alle sue spalle, il ragno tesseva.

Ordinarono del cibo indiano, nessuno voleva cucinare. Ascoltarono un giornalista di un’emittente locale dire che la pioggia non sarebbe cessata nemmeno l’indomani. Allerta rossa, rischio alluvione. Un’anziana fuori col cane, dopo esser scivolata sull’asfalto bagnato, era stata strozzata dal grosso animale che, correndo a cercare aiuto, l’aveva accalappiata col guinzaglio, portandola con sé per diversi metri. Vorrei farti conoscere quel mio nuovo collega di cui ti parlavo l’altro giorno, buffo come pochi. Oggi mi ha accompagnata a casa. Perché no, certo. Se hai bisogno di uno strappo comunque chiama. Mi annoio in casa da solo. Sarei anche venuta a piedi, ma passando in macchina mi ha vista e ha iniziato a seguirmi a passo d’uomo. Signorina, diceva, le si scioglie il trucco se continua così. Penseranno che le è successo qualcosa di grave. Signorina, ma che fa, ride?

La interruppe, facendole segno che voleva ascoltare le notizie. Inforcò un pezzo di pollo e lo immerse in una pozza di salsa piccante a margine del piatto. Pioggia, pioggia, pioggia, ancora pioggia. Prese il telefono e scrisse al decoratore: l’indomani lo avrebbe accompagnato all’appuntamento, senza entrare: il confronto doveva essere tra uno specialista e un principiante, nessun intermediario. Poi chiamò la domestica e le chiese di dare una pulita alla casa, sempre l’indomani.

Si svegliò di buon ora, ma il letto era vuoto. In cucina, arrotolato nell’impugnatura della sua tazza c’era un biglietto: cinema stasera? Scrisse un messaggio di scuse, non sapeva a che ora avrebbe finito con l’inquilino: l’appuntamento era in serata. Passò gran parte della giornata alla finestra, osservando la pioggia cadere nelle strade. La canaletta del giardino era allagata. Si puntò tre dita sullo sterno, lo sentiva oppresso. Calzò gli stivali di gomma, recuperò lo sturalavandini nell’armadio in dispensa e uscì sotto il diluvio. Lo strumento si rivelò inutile, fu necessario rimuovere fango e foglie a mano. Voleva farle una sorpresa: piombare in ufficio, caricarla in macchina, correre alla galleria d’arte di fianco al municipio, farle scegliere un quadro, comprarlo, e andare al cinema come da programma. Voleva anche dare un’occhiata al collega. Rientrò in casa e andò in bagno ad asciugarsi; alle sue spalle, il ragno tesseva.

Sotto l’appartamento, ripassò il canovaccio con il decoratore. I volti dei due uomini comparivano e scomparivano al ritmo meccanico dei tergicristalli, che la pioggia superava. Bene, vai.

L’inquilino gli mostrò le macchie individuate dal padrone di casa, una ad una, e chiese un preventivo. Il decoratore spiegò che, se avesse dato il bianco solo in quei punti, la differenza con il resto delle pareti sarebbe stata considerevole. Gli indicò una parete della camera da letto, per te è bianco questo? Crema, forse, ma bianco no di certo. Se avesse voluto gli avrebbe coperto solo le macchie, ma sarebbe stato evidente. Fare un lavoro del genere e presentarlo come proprio non gli avrebbe certo dato credito. Fece un passo verso il centro della stanza e osservò stringendo gli occhi la giuntura tra il soffitto e una parete adiacente. Fumi, vero? Guarda quella zona, è gialla. Fumando in stanza, c’era poco da stupirsi. Inoltre la clausola del suo contratto imponeva che la stanza venisse lasciata come era stata trovata, giusto? L’inquilino assentì. Effettivamente la zona individuata dal decoratore era gialla. E sia, allora. La ringrazio.

Si spartirono i soldi in auto, mentre cercava di raggiungere l’ufficio di sua moglie a una velocità ampiamente punibile per legge. Lasciò il decoratore all’incrocio a lui più comodo e proseguì. Per strada nemmeno un’anima, tombini e grondaie rigurgitavano acqua e detriti dalle bocche sdentate. Parcheggiò sul marciapiedi, giacca tesa sul capo salì le scale del palazzo. Venne fermato dall’usciere: chi era, chi cercava? Gli uffici erano semideserti, il personale addetto alle pulizie lustrava i pavimenti. Chiese di sua moglie e l’usciere riferì: uscita con quello nuovo. Non hai amato troppo, ma hai scelto male, pensò. Controllò il telefono e trovò un suo messaggio, diceva di far con calma, sarebbe andata al cinema comunque. Come poteva essere così sfacciata? Provò a chiamarla ma non rispose. Sbottonò il colletto della camicia e compose il numero di casa. Quando il telefono squillò, la domestica stava spolverando un mobile di fronte all’ingresso del bagno. La signorina? Oh, mi scusi, signora. È passata poco fa con un collega, pesavano cento chili l’uno gonfi d’acqua com’erano. Andati al cinema, quale non si sapeva; interruppe bruscamente la conversazione, la palpebra destra gli tremava. Portare l’amante in casa mentre il marito era assente, dargli la sua biancheria. La domestica stette in ascolto ancora qualche secondo; alle sue spalle, il ragno tesseva.

Passò la serata nell’unico bar aperto, quello della stazione. Aveva bevuto quanto mai in vita sua, ma prese piena coscienza del tasso alcolico che aveva in corpo solo quando si alzò per pagare. Alla cassa, malgrado biascicasse nomi e parole irripetibili, lo guardarono rispettosamente quando aprì il portafoglio e disse rivolto al titolare: non ho amato troppo, ma ho scelto male.

Avevano spento i lampioni. Sebbene a ogni passo rischiasse di rimanere vittima dei tipici ostacoli da marciapiede quali semafori, pali della luce, piastrelle sconnesse, fantasiosi escrementi, si reputava vicino al parcheggio delle auto quando, abbracciando una transenna o renna vista all’ultimo, il portafoglio schizzò via dalla sua tasca e con un glorioso ciaf si immerse in un tombino aperto. Si accucciò, raspando alla cieca nell’acqua torbida, sempre più in profondità, fece leva con le gambe e vi si catapultò dentro, nuotando a rana con gli arti superiori e finalmente, col fiato corto, sentì di averlo preso, ma era incastrato ora, non riusciva a tirare fuori il bacino, quasi l’ingresso si fosse rimpicciolito, strinse le labbra livide e spinse più che poté, senza successo. Le gambe rigide e storte dell’uomo si immobilizzarono di colpo, rami spezzati.

Pochi minuti più tardi, la domestica vide sua moglie scendere da un auto e salutare il collega. Al prossimo film, garantì lei, sarebbero stati in tre senz’altro. Lentamente, senza essere visto, un ragno aggirò la sottana della domestica e si dileguò nel buio sottoscala. Quanta polvere e quante ragnatele in questa casa, signora!

Tg interviste Italia S07E01, Stagione 7 prima puntata completa

Giuseppina Santoro, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura offre uno spunto per una rappresentazione teatrale sotto forma di intervista su stampo moderno e tecnologico anche attraverso l’uso del linguaggio e degli strumenti tecnologici del personaggio shakespeariano Pericle, principe di Tiro. Ricorrenti anche inserti tratti da Cibelino e dalla Tempesta.

*

Intervistatore
Buonasera cari telespettatori e benvenuti ad un’altra puntata del TG interviste. Oggi con noi in studio un ospite molto speciale; facciamo un caloroso applauso a Pericles il principe di Tiro.

[Applausi incontenibili accompagnati da fischi e schiamazzi accompagnano l’ingresso dell’uomo].

Pericle
Buonasera a tutti miei cari [Saluta il pubblico agitando la mano per aria].

Intervistatore
Buonasera Pericle. Come è andato il viaggio? Ti trovo in forma [Stringe la mano all’ospite].

Pericle
Sempre più è faticoso per me varcare il confine del mondo eterno e scendere nel mondo di voi mortali e nonostante le mie imprese eroiche per terra e per mare, il mio vecchio cuore mostra sempre più i segni dell’affanno. [Tossisce].

[I due si scambiano pacche sulle spalle. L’intervistatore gli fa cenno di accomodarsi alla postazione e consulta il block notes che tiene tra le mani].

Intervistatore
Pericle do you prefer to speak in English?

[L’ospite ride sotto i baffi].

Pericle
Negli anni il mio intelletto si è arricchito di idiomi, favorito anche dalle traduzioni della narrazione delle mie gesta. Ti è dunque consentito l’uso dell’italiano.

Intervistatore
Ti ringrazio, non me la cavo molto bene con le lingue. Inizio subito a porti la prima domanda: dopo la scoperta dell’incesto tra Antioco e sua figlia, quale è stata tua reazione?

Pericle
La prima volta che i miei occhi ebbero la possibilità di ammirare la bellezza di questa donna, ella mi apparve abbigliata come la Primavera, tanto bella da donare luce a tutte le creature che la circondavano. Gli dei, al momento della mia nascita, decisero di fare di me un uomo ed in quanto tale pregai loro affiche io potessi baciare tale bellezza sconfinata. La mia preghiera di certo non si fermò dinnanzi alla verità, seppur cruda e violenta questa colpì il mio cuore, io ero pronto a qualsiasi rischio. Al mio destino non fu data altra scelta se non quella della fuga così mi imbarcai ed affrontai il grande pericolo del mare. Presto il mio viaggio fu interrotto dalla tempesta, un vento impetuoso ruppe le vele dell’imbarcazione. Questa si distrusse e mi ritrovai tra tuoni e abissi. La potenza delle onde mi trascinò da costa in costa finché la Fortuna mi gettò sulla riva di Pentapoli e…

[L’intervistatore lo interrompe].

Intervistatore
Facendo confusione tra le scartoffie che ha in mano]. Bene bene stiamo perdendo le fila del discorso. Ecco la seconda domanda è questa: in che modo sei riuscito a superare le dure prove del Re Simonide e a prendere in sposa Taisa? Immagino ti sarai allenato per parecchio tempo per prevalere su ben cinque dei più forti cavalieri del tempo.

Pericle
La speranza fu la prima a guidarmi e la Fortuna l’ultima ad abbandonarmi. Questa mi permise di trovare un’armatura indistruttibile per mare; elmo, scudo, schinieri, pettorali e corazza. Mi sentii invincibile, e così fu. Sposai Taisa. La mia mente però celava ancora in segreto il ricordo della donna più bella di una dea dalla però fui costretto a fuggire. La Fortuna ancora una volta mi fu vicina, l’eros tra me e Taisa arse dopo una sola notte di fuoco.

Intervistatore
Mio caro Pericle, il primo amore non si scorda mai! Tutti i tuoi fan sono a conoscenza di ciò che viene dopo e, anche se sarà doloroso per te parlarne, e per questo abbiamo preparato dei fazzoletti proprio lì, ti chiedo di parlarci della perdita di tua moglie, seppur apparente.

[Pericle accenna un mesto sorriso, prende in mano preventivamente un fazzoletto e fa un grosso respiro. Lentamente ripercorre i ricordi].

Pericle
O Taisa, la donna della mia vita, l’unica per la quale fui “Puro e disposto a salire a le stelle” venne così strappata dalle mie braccia. Il tempo, fugace nemico, non fu dalla mia parte e non ci permise di vivere una vita serena.  Quanto dolore riporti alla mia memoria e quanta infelicità al mio vecchio cuore. [Toglie gli occhiali, si passa una mano sugli occhi e si soffia il naso]. Quell’orrida tempesta fu la causa non soltanto della morte di mia moglie ma anche della mia. Nulla più fu motivo di felicità per me e le parole di bocca non mi uscirono più. Conobbi un monaco che mi convinse a seguirlo e così feci. Il cappuccio della tonaca mi copriva il volto e gli occhi; vedevo buio come la mia amata sul fondo del mare…

[Il pubblico è in lacrime. L’intervistatore trattiene il respiro per non emozionarsi e si morde la lingua. Getta sotto la poltrona la lista delle domande preparatosi].

Intervistatore
Ti dispiacerebbe continuare a raccontare la storia, Pericle?

[Pericle si sistema sulla poltrona e accenna un freddo sorriso].

Pericle
La cassa nella quale si trovava Taisa galleggiò sul mare per tre giorni e tre notti finché non approdò sulle coste di un’isola. Ancora i miei pensieri sono incerti sul nome di questa, nel mediterraneo, tra Italia e Tunisia, ma chi aprì la cassa e riportò in vita mia moglie mi fu subito chiaro; Prospero il suo nome. Colui di cui vi parlo è il sommo mago; incantesimi, trucchi cui è impossibile disobbedire ed altre maleficenze del mestiere sono la sua specialità, egli è dotato perfino dalla capacità di evocare le anime. Panni e fuoco ci vollero per risvegliare la mia Taisa, aria, musica rozza e lamentosa, tanta. In questo modo Prospero riuscì a risvegliarla dal suo sonno mortale e di ciò io gli sarò eternamente riconoscente.

Intervistatore
Sono sicuro sia un tuo ottimo amico. Dunque dopo aver commosso l’intera sala facciamo tutti un grande applauso al nostro ospite [Applausi acclamanti]. Adesso posso finalmente dirtelo Pericle, fremo dalla voglia da quando sei entrato. Abbiamo preparato per te una sorpresa che ti lascerà a bocca aperta, te lo assicuro. Chiudi gli occhi e riaprili solo quando te lo dico io e, mi raccomando, non sbirciare!

[Pericle si copre gli occhi con le mani, una poltrona viene sistemata tra i due uomini e Marina viene fatta entrare in punta di piedi].

Intervistatore
Adesso puoi aprire gli occhi!

Pericle
For God’s sake! Long time no see! Vieni tra le braccia di tuo padre e mostrami la tua bellezza. Mia cara figlia, sangue del mio sangue, guardati, sei una donna ormai!

Marina
Caro padre troppo tempo è passato dall’ultimo nostro incontro nell’oltretomba.

Intervistatore
Quanta bellezza in studio! Quante emozioni ci regala questa famiglia! Marina chiedo a te adesso, spiegheresti al pubblico il significato del tuo nome?

Marina
Come immagino già sappiate la mia nascita avvenne in mare durante un naufragio nel quale mia madre perse la vita. Io riuscii a sopravvivere e mio padre [Stringe la mano del padre] mi diede in dono questo nome. Io appartengo al mare. Il mio nome nasconde delle caratteristiche del mio essere; sensuale, passionale, energica e sensibile son io.

Intervistatore
Riprendiamo adesso con momenti tragici e crudi mia cara, racconta al pubblico in che modo sei riuscita a non farti possedere in quel bordello nel quale ti mandò Dionisa, invidiosa della tua bellezza.

Marina
Oh quel posto, che orrore, che atrocità! Dell mia bellezza vollero approfittarsi e vendere il mio corpo a degli uomini! Rendo grazie agli Dei, a mia madre e a mio padre per avermi concesso l’abilità della danza e del canto. Cantai come un immortale e danzai simile a una dea sulle sue ammirate melodie. Queste arti ammutolirono chiunque io avessi dinanzi e nessuno mai ha osato poggiare dito sul mio corpo.

Pericle
Che ripugnanza, figlia mia!

Marina
E’ vero padre, ciò che non uccide fortifica ed io adesso mi sento invincibile.

Intervistatore
Accidenti io amo i happy ending! Concludiamo questa bellissima ed emozionante puntata del tg interviste con un’ultima domanda a te, Pericle. Ti chiedo di farci commuovere un’ultima volto con un altro tuo racconto ovvero quello dell’incontro con tua figlia e tua moglie…ah quasi dimenticavo, ragazzi dello staff, facciamo entrare l’altra sorpresa!

[Lo staff sistema un’altra poltrona e fa partire la sigla].

[Entra Taisa]

Intervistatore
Tale madre tale figlia. Buonasera Taisa sei splendida! Accomodati pure.

[Taisa abbraccia Marina e Pericle e si siede].

Pericle
Fu il giorno più bello della mia vita. Non potetti credere alle mie orecchie quando sentii quel canto proveniente dalla sua bocca. In un primo momento non capii bene chi io avessi dinnanzi, poi tutto mi fu chiaro. A partire dal suo nome, Marina, alla sua storia della nascita in mare compresi che la fanciulla che mi stava difronte era la mia amata figlia. Rinacqui. Come Taisa fu salvata dal mago anche io ripresi a respirare, il cuore rinsanì d’un colpo e le mie labbra, dopo tanto tempo, formarono un arco che rassomigliava ad un sorriso. Piansi. Piansi di gioia e di dolore. Si risvegliò in me la consapevolezza di ciò che ero, Re, e come tale ripresi a comportarmi.

Intervistatore
Che fortuna avervi avuto in studio oggi. È stato un enorme piacere per me. Vi chiedo di scattare una foto in ricordo di questo bel incontro da appendere alla “bacheca ospiti”. Venite, stringiamoci.

[Un ragazzo dello staff scatta la foto. L’intervistatore dà la mano agli ospiti e li abbraccia calorosamente].

Intervistatore
Arrivederci miei cari e buon ritorno, mi raccomando Pericle, attento al cuore, non ti affaticare! Sssssssigla!

[Escono].