Fil rouge: il filo rosso

Letizia Baldioli, prendendo ispirazione dalla storia di John Nash raccontata nel film A beautiful Mind, dà vita, partendo da ritagli di quotidiani e riviste, ad un evidence board proprio come quelli creati dagli investigatori nei vecchi film polizieschi per scovare il colpevole nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Delitto, caso, premeditazione, prove, povertà, sofferenza, sogni ed incubi, fede, ideale. Nove tappe, nove parole chiave. Il lettore di Delitto e castigo si trasforma in un vero viaggiatore pronto a seguire il percorso indicato per conoscere i segreti celati dietro l’omicidio delle due donne”.

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La mia idea per il lavoro di riscrittura è stata quella di realizzare un mood board / mappa concettuale che riprendesse tematiche, parole chiavi e immagini caratteristiche dell’opera Delitto e Castigo dell’autore russo Dostoevskij. Utilizzando ritagli di riviste e di quotidiani, ho realizzato una mappa o più propriamente un percorso come quelli creati per scovare il colpevole dagli investigatori nei vecchi film polizieschi. Ho deciso di impostare il lavoro in questo modo dopo aver rivisto uno dei miei film preferiti: A beautiful mind di Ron Howard. John Nash, talentuoso matematico interpretato da Russell Crowe, una volta contattato dal dipartimento di difesa degli Stati Uniti, viene incaricato di trovare il luogo in cui i Russi avrebbero dovuto innescare una bomba atomica contenuta in uno zaino. John Nash, dopo essere stato informato che i nemici avrebbero comunicato tra loro per mezzo di messaggi in codice inseriti in quotidiani e riviste del tempo, comincia ad analizzarle minuziosamente, a ritagliarle e ad appenderle alle pareti della sua stanza, creando un vero e proprio groviglio di informazioni, una ragnatela, una mappa di codici da decifrare per poi arrivare alla soluzione. La sua vita viene sconvolta ancora una volta quando scopre che la cospirazione, in verità, non esisteva, ma era unicamente frutto della sua mente, colpita da una grave forma di schizofrenia. Il mio mood board/mappa concettuale si trasforma allora in una “crazy wall” o in un “evidence board” ispirato a quello di John Nash. Il filo rosso che ho voluto inserire rappresenta il fil rouge del racconto, che collega concetti importanti tra loro, intorno ai quali si sviluppa l’opera dostoevskiana. Il nostro percorso inizia dal centro, dalla parola delitto. Come si può inferire dal titolo, l’opera si sviluppa attorno all’omicidio della vecchia usuraia, Alëna Ivànovna e della dolce sorella Lizaveta, per mano del giovane Rodiòn Romànovič Raskol’nikov. Se l’uccisione della prima venne premeditata per mesi, l’omicidio di Lizaveta avvenne per puro caso. La donna infatti non doveva essere uccisa, ma irruppe nell’abitazione della sorella proprio nel momento in cui Raskol’nikov si trovava ancora lì con la scure insanguinata tra le mani e la vecchia stesa a terra in una pozza di sangue.

Seconda tappa del nostro viaggio, il caso è un importante elemento tragico che, nell’opera, sembra proprio assecondare la buona riuscita del delitto. Raskol’nikov però decide di sfidarlo. Sfida il caso per tutto il tempo della narrazione come se volesse portarlo contro di sé. Il giovane concepisce le fantasie del delitto, frutto di una creatività negativa nata dal sonno della ragione che, come dice Goya, genera mostri, tra le quattro mura della sua stanza, facendo di sé stesso un eroe negativo. Un buco, così viene descritto il luogo in cui abitava, talmente piccolo, soffocante e claustrofobico da essere paragonato ad una vera e propria bara. Raskol’nikov ormai aveva deciso di sfidare i limiti dell’uomo, togliendo la vita e comportandosi come Dio. Premeditazione, ecco la nostra terza tappa. Proprio qui ho decido di inserire un’immagine che, in questo caso, diventa fortemente simbolica. L’opera in questione è l’Albero rosso di Mondrian. Tra il 1909 e il 1912, il pittore lavorò sul tema dell’albero, alla ricerca di nuove forme e nuovi accostamenti cromatici, giocando sui contrasti dei colori caldi e freddi. L’albero rosso creato da Mondrian diventa nel mio “evidence board” l’albero rosso sangue, simbolo del male e della corruzione. Raskol’nikov decise infatti di macchiare le sue mani e di sfidare i limiti, di essere un uomo straordinario e libero, usurpando il potere divino. Decide di uccidere per un motivo ben preciso e mettere fine all’esistenza.

Ed eccoci alla quarta tappa. L’omicidio era ormai compiuto, il colpevole era riuscito a fuggire dall’abitazione della donna senza farsi scovare, ma ora era tempo di fare i conti con le proprie azioni e di capire come e se dovesse distruggere le prove. Ogni assassino ha le sue tracce da nascondere, ma l’atteggiamento di Raskol’nikov nei loro confronti è senz’altro ambivalente. Decide in un primo momento di sfidare la sorte e presentarsi in commissariato con il calzino ancora sporco di sangue, dimostrandosi coraggioso, sicuro di sé; dall’altro diventa ossessionato dal fatto che qualcuno avesse potuto trovare una prova della sua colpevolezza, trasformandosi così in un uomo paranoico. Il voler continuamente nascondere e sviare le indagini e la sua volontà di far emergere le prove del delitto ci dice molto sul personaggio di Raskol’nikov, tormentato, secondo una mia interpretazione, sia da un costante senso di colpa, che lo porterà poi alla confessione, sia dalla paura, sensazione inizialmente estranea al protagonista ma che ora lo stava perseguitando.

Giunti alla quinta tappa ecco che ci troviamo di fronte alla parola povertà. Il ragazzo pietroburghese non aveva denaro, era povero. Tutto l’ambiente di Delitto e castigo è legato a questa condizione che diventa la vera cornice dell’opera. Essa è comune a molti personaggi come lo stesso Mermeladov e la sua famiglia. Raskol’nikov provava vergogna e fastidio per il fatto di essere povero. Analizzandolo attentamente, capiamo che in lui qualcosa non andava. Era un ipocondriaco, un malinconico. Ma con la sua condizione economica ci aveva fatto l’abitudine. Semplicemente non gli interessa più. Ed ecco che la domanda giunge spontanea. Uccide davvero solo per denaro? Qual è il vero motivo del delitto? Bisogna solo seguire il percorso.

È qui che subentra la sofferenza, una caratteristica importante nell’opera dell’autore russo. Raskol’nikov soffre proprio come Sonja. Ragazza credente e pura d’animo, è lei a rappresentare una figura tipica della tradizione russa ovvero quella del “jurodivyj”, personaggio che arriva al sacrificio totale di sé per amore del prossimo. Sonja è così. Si sacrifica per la sua famiglia tanto da prostituirsi per racimolare del denaro per i suoi fratelli. Lei e il giovane di Pietroburgo sono uniti nella sofferenza, nel dolore e nella corruzione, del delitto per lui, del mestiere da prostituta per lei. In questa sesta tappa ho deciso di riprendere e utilizzare immagini di attualità proprio per rappresentare l’idea di dolore e tragedia. Gli incendi, i disboscamenti, lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento delle acque sono simbolo della sofferenza del nostro pianeta e di conseguenza di quella di tutti noi. Raskol’nikov, capendo di essere un corrotto, soffre. Era diventato e si era comportato proprio come l’uomo che bastonava il povero cavallino nel sogno che aveva fatto.

Sogni e incubi rappresentano la settima tappa del viaggio. Non possiamo parlare di sogni senza parlare di Sigmund Freud. Secondo il padre della psicoanalisi, essi sono il modo in cui il nostro inconscio comunica con noi, mostrandoci i nostri desideri più segreti e ciò che non riusciamo ad accettare. E proprio perché non riusciamo ad accettarle, la nostra mente le camuffa, le censura, e alla fine crea storie e immagini insensate. Il sogno in questo caso rappresenta la proiezione della coscienza di Raskol’nikov, una coscienza che nasce in negativo con il delitto. Sono due le opere d’arte che ho voluto inserire nel mio “crazy wall” a proposito dei sogni, o meglio dire, incubi.  La prima a sinistra di Pablo Picasso, il Ratto delle sabine del 1962 e la seconda di Franz Marc, intitolata I piccoli cavalli gialli, realizzata nel 1912. Entrambe riprendono la figura del cavallo, sognata da Raskol’nikov prima che mettesse in atto il suo piano diabolico. Molto più rappresentativa è sicuramente quella di Picasso. I colori, o sarebbe meglio dire i non colori, il bianco e il nero, trasmettono paura. Non è il pugnale, non è la criniera che ondeggia come lingue di fuoco a incutere terrore la ma testa dello stesso cavallo che nel sogno del giovane rappresentava la vecchia usuraia, o forse, lo stesso Raskol’nikov.

Ma ecco che grazie a quella sofferenza il giovane raggiunge la salvezza, una salvezza interiore. La verità viene sempre a galla. Il giovane decide finalmente di confessare il suo delitto alla ragazza. Proprio grazie a lei e alla lettura del vangelo Raskol’nikov capisce che un Dio, non solo fatto di castigo ma, anche di amore e perdono esisteva davvero. Ecco allora la nostra penultima tappa: la fede. Ho voluto in questo caso far sì che la creazione di Adamo di Michelangelo rappresentasse, in modo simbolico, il momento in cui il ragazzo decise finalmente di accogliere un nuovo Dio nella sua vita.

Il nostro viaggio che si conclude con la parola ideale. Ecco svelato il mistero. Raskol’nikov uccise la vecchia usuraia unicamente per un suo ideale. Era convinto, come aveva scritto nel suo articolo, che al mondo esistessero due tipologie di uomini: gli uomini ordinari e quelli straordinari. I primi sottoposti e leggi divine e civili, vivono come schiavi ma pur sempre felici, i secondi regole e limiti non ne hanno. La loro morale viene abbattuta dalla coscienza. Sono uomini legittimati a uccidere nel presente per la creazione di un futuro migliore. Napoleone, secondo Raskol’nikov era uno di questi. Emblema del super uomo, decide di uccidere solo per affermare la sua superiorità e le sue idee. Si comporta come Dio, non è schiavo ed è felice. Ma Raskol’nikov non è Napoleone. Non trova felicità nel delitto, anzi. Il suo ideale crolla appena compiuto il fatto ed ecco che inizia il suo castigo. Tutto è nelle mani dell’uomo secondo il nostro protagonista, un pensiero apparentemente rassicurante ma angoscioso. La libertà non è soltanto qualcosa di positivo, non essendoci limiti il male è dietro l’angolo.

La speranza dell’amore

Alice Nesta, in questo suo secondo racconto breve, ha voluto dare descrivere un momento di gioia e di speranza contrastando l’atmosfera di soffocamento e chiusura del romanzo di Dostoeskij Delitto e castigo, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato.”

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Razumichin ogni tanto si fermava a riflettere su quanto fosse cambiata la sua vita nell’ultimo anno.

Sapeva perfettamente che la casualità e il destino erano due concetti che si sfioravano, forse volevano dire la stessa cosa, ma non aveva mai capito esattamente secondo quale criterio si insinuassero nella vita degli uomini e ne modificassero le sorti. C’erano stati momenti in cui l’idea che il futuro fosse solo un’insieme di cose indefinite, che l’essere umano non poteva controllare, gli aveva messo paura e si era chiesto se forse l’idea di destino e casualità non fossero state inventate dall’uomo stesso per giustificare le cose che succedevano al di fuori del suo controllo.

Non sapeva quale legge governasse l’universo, ma di una cosa era sempre stato certo: dalla prima volta che aveva visto la sua futura moglie si era irrevocabilmente innamorato di lei.

Ricordava il giorno in cui era entrato nell’appartamento dell’amico Raskolnikov e l’aveva vista seduta lì, impaurita e incerta su come comportarsi mentre il fratello discuteva con la madre.

Per quanto si leggesse la stanchezza sul suo volto, per quanto sembrasse piccola seduta su quella sedia cigolante, per quanto potesse rimanere in silenzio ad osservare gli altri due litigare, Razumichin aveva percepito una forza e una sicurezza quando l’aveva guardata negli occhi che l’avevano atterrito.

Dal momento in cui quegli occhi si erano incastrati nei suoi, aveva sentito la terra mancargli sotto i piedi, come se la gravità dipendesse dalla presenza di Dunja nella stanza e non dalle leggi della fisica che governavano il mondo. Da allora le era sempre stato affianco.

Razumichin era consapevole che Dunja avesse dovuto affrontare tanti dolori nella propria vita; lei ne parlava poco e malvolentieri. Lui non voleva vedere il suo volto delicato rabbuiarsi e aveva imparato a non chiederle mai troppo del suo passato e di tutto quello che aveva sopportato prima di conoscerlo. Portava tanti dolori nel cuore, Razumichin lo sapeva, ma questo non lo aveva mai fermato dall’amarla incondizionatamente.

Il giorno in cui avevano arrestato Raskolnicov per l’omicidio di due donne, Dunja aveva passato tutta la giornata con la madre e non aveva versato una sola lacrima. Era rimasta al fianco della madre per darle forza fino a quando non si era fatta sera e si era addormentata. Solo a quel punto Dunja era andata da lui, si era appoggiata alla sua spalla, lui l’aveva abbracciata e lei era scoppiata in un pianto silenzioso. Non si erano detti niente, non c’erano parole che avrebbero potuto migliorare quella situazione. Avevano passato la notte così, finchè non si erano addormentati entrambi sfiniti e stanchi.

Da quella sera non si erano più separati. Razumichin, qualche settimana dopo, le aveva chiesto la mano e Dunja gli aveva chiesto perché mai la amasse, lui era un uomo buono e di bell’aspetto, poteva sicuramente aspirare a qualcuna migliore di lei. Razumichin non poteva credere che lei potesse pensare una cosa del genere. L’aveva guardata e le aveva detto che lei era il suo mondo e lui le gravitava intorno come fosse la Luna per la Terra. La forza dell’amore che provava lo portava a guardarla e ad innamorarsi ogni giorno un po’ di più. Dunja aveva sorriso e gli aveva accarezzato il viso con la mano fredda. Ricordava perfettamente la sensazione di quella carezza sulla guancia, se si concentrava poteva sentire la mano morbida di lei sfiorargli la pelle dove la barba stava ricrescendo.

All’università aveva studiato tanti filosofi e letterati che parlavano di amore, di quel sentimento tanto forte da portare un uomo a fare qualsiasi cosa, persino a fare guerre o a percorrere tutti i regni ultraterreni pur di rivedere anche per pochi attimi la donna che amava. Un sentimento così astratto e sconfinato che nessuno sembrava riuscire a descriverlo davvero, come se non esistessero delle parole per delineare quello che voleva dire amare una persona al di fuori di se stessi.

Razumichin non aveva mai compreso a pieno quel sentimento finchè non aveva conosciuto Dunja.

Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato. I raggi di luce contornavano perfettamente la sagoma di Dunja dandole un aspetto angelico. La sua pelle bianca risaltava così tanto che sembrava brillare di luce propria, il vestito bianco le avvolgeva il corpo in modo delicato e il velo le gettava un ombra seria sul viso.

Mentre camminava verso di lui guardava dritto davanti a sè. Il suo passo era sicuro.

Al suo fianco camminava sua madre che aveva gli occhi lucidi per la commozione e per la gioia di porter accompagnare sua figlia all’altare. Questo matrimonio aveva reso la madre di Dunja estremamente felice, era la prima cosa bella dopo un lungo periodo di sofferenza e le si leggeva negli occhi che era orgogliosa di quanto forte fosse sua figlia. Ma era anche consapevole che avrebbe dovuto essere il fratello ad accompagnarla all’altare, e questo aveva amareggiato profondamente quella donna che faceva di tutto per non crollare sotto il peso del dolore.

Nella chiesa angusta c’erano poche persone, ma Razumichin avrebbe avuto occhi solo per Dunja anche se si fossero trovati in mezzo ad una folla di centinaia di persone. Sentiva il cuore battere all’impazzata nel petto. Era impazziente di averla davanti e di prometterle che l’avrebbe amata in eterno, che avrebbe asciugato ogni sua lacrima e che avrebbe condiviso con lei ogni gioia che la vita gli avrebbe donato.

Quando le due donne finalmente giunsero all’altare, la madre di Dunja porse a Razumichin la mano della figlia. Lui le sorrise gentilmente e strinse tra le sue mani ruvide quella della sua sposa. Dunja salì sull’altare e si mise davanti a lui. La stava ancora tenendo per mano e per nessun motivo al mondo l’avvrebbe lasciata.

Lei gli sorrise e ricambiò quella stretta. Quello era il suo modo per fargli capire che anche lei era impaziente di iniziare finalmente la loro vita insieme e di prendersi cura l’uno dell’altra.

In quel momento Razumichin capì che per quanti dolori possano esserci nella vita, l’amore è tutto quello che serve ad un essere umano per essere definito tale. Quel giorno comprese il senso di tutte le poesie degli scrittori e i pensieri dei filosofi che aveva letto all’università e che gli erano sembrate solo fantasticherie.

Continuando a stringere la mano di Dunja capì che da quel momento in poi si sarebbero scelti l’un l’altro ogni giorno della loro vita, e improvvisamente il futuro non gli fece più paura.

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Bibliografia:

Delitto e castigo, Fedor Dostoevskij

La coscienza del male

Alice Nesta, in questo suo racconto breve, vuole evidenziare come la coscienza del male possa venire a galla creando un clima di crescente inquietudine rivisitando la scena IV dell’atto terzo di Macbeth, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Tutto sembrava andare avanti senza che nessuno si fosse accorto di quello che era successo, ma la verità mostruosa che Macbeth celava in fondo alla sua anima stava diventando estenuante.”

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Il banchetto era stato allestito nella sala principale del castello, una delle più ampie e sfarzose per riuscire ad ospitare comodamente tutti gli ospiti. Grandi tavoli di legno massello erano stati apparecchiati con pesanti tovaglie di un intenso color porpora e disposti a ferrro di cavallo. I candelabri erano stati appoggiati su ogni tavolo e la cera di alcune candele era colata lungo i bordi facendo affievolire la fiamma e creando una luce soffusa che gettava delle ombre inquietanti sulle pareti di pietra della sala.

Le grandi finestre ai lati del salone si affacciavano sulla notte che era ormai calata. Il buio avvolgeva i bastioni, insinuandosi lungo i muri in contorti giochi di luce, mentre il riverbero dei tuoni e della pioggia che batteva sui vetri si estendeva per i corridoi poco illuminati del castello.

Appena furono entrati i musicisti di corte iniziarono a suonare piano per creare un’atmosfera più conviviale, ma l’effetto del flauto e degli strumenti a corda richiamava un’atmosfera tutt’altro che piacevole. La musica, infatti, rimbombava nell’ampio spazio creando un suono ricorrente e tetro che sembrava accompagnare il ritmo angosciante della pioggia che batteva costante sui vetri delle finestre. 

Una volta che tutti presero posto, il re ordinò che fosse servita la cena. Alcuni servi iniziarono a girare intorno al tavolo con brocche di vino pronti a riempire il calice a chi lo desiderava. Vennero appoggiati sulla tavola grandi vassoi ricchi di carne al sangue proveniente dagli animali cacciati quel pomeriggio stesso.

Macbeth, dalla sua posizione centrale, riusciva ad osservare tutti gli invitati, vedeva come si gustavano il vino, muovendo concitati i calici e facendo cadere alcune gocce che macchiavano il drappo porpora che copriva il tavolo. Masticavano sgraziatamente la carne succosa e conversavano fra di loro parlando di cose frivole e di poca importanza. Tutto di quella cena gli sembrava tremendamente grezzo e fastidioso, persino il rumore delle posate che sbattevano contro i piatti lo irritava, tanto che aveva a mala pena toccato il cibo che gli era stato messo davanti.

All’improvviso una delle finestre si spalancò sbattendo contro la parete. Un vento gelido entrò con violenza facendo vacillare pericolosamente il fuoco delle candele. Nella stanza calò il silenzio, come se tutti avessero percepito un brivido di terrore percorrergli la spina dorsale. Il rumore di un tuono rimbombò nel salone e la pioggia, spinta con violenza dal vento, bagnò il pavimento creando una pozza d’acqua vicino ad una delle colonne.

Macbeth fu assalito da una sensazione di panico che sostituì il rozzo fastidio che aveva provato fino a quel momento. Strinse gli occhi per mettere meglio a fuoco le persone intorno a lui poichè solo un paio di candele erano rimaste accese. Cercava con lo sguardo le guardie per ordinare loro di richiudere immediatamente la finestra, ma quando i suoi occhi si furono abituati al buio, si rese conto che attorno a lui noi vi era più nessuno. Le sedie erano vuote e ben sistemate, come se non fossero mai state spostate per sedersi.

Non c’era segno di alcun banchetto.

Il tavolo era privo di qualsiasi pietanza, i vassoi con la carne fresca che odorava di sangue erano scomparsi insieme ai calici ridondanti di vino. Era rimasto da solo.

Incredulo e con le mani tremanti per la paura si alzò dalla sedia, ma qualcosa, una forza di cui non conosceva la provenienza, lo spinse di nuovo a sedere faccendolo sbattere con violenza contro lo schienale e mozzandogli il respiro in gola.

Quando alzò lo sguardo un sentimento di primitivo terrore gli impedì di muoversi ancora: il fantasma di Banquo, il suo fidato compagno d’armi nonché amico e consigliere, era davanti a lui.

Lo spettro aveva i lineamenti deformati dal dolore, la bocca spalancata in modo disumano come se un urlo gli fosse rimasto bloccato al fondo della gola. La pelle del viso sembrava aver perso ogni tipo di consistenza e aderiva al cranio come un guanto, rendendo quell’essere scheletrico e terrificante. Gli occhi vuoti e senza pupille apparivano così profondi da aver aperto nel petto di Macbeth una voragine di paura.

Non riusciva più a muoversi. Quegli occhi lo avevano inchiodato al pavimento come se alle sue caviglie fossero state legate delle pesanti catene.

Il viso era sporco di terra e di sangue, mentre il collo era segnato da un profondo squarcio purulento da cui continuava a sgorgare sangue che si riversava denso sull’abito sgualcito fino a cadere in pesanti gocce rosso scuro sul pavimento.

Lo spettro, con una lentazza straziante, mosse il braccio coperto da lembi di stoffa sporchi e sanguinanti, schiuse le dita dinoccolate che fino a quel momento aveva tenuto strette in una morsa gelata intorno all’elsa della sua spada. Con un dito indicò le mani di Macbeth.

Facendo questo movimento la spada scivolò da quella mano scheletrica e cominciò a cadere verso il pavimento nella pozza di sangue che si era creata ai piedi di quell’essere spaventoso.

Mentre la spada cadeva, il tempo sembrò rallentare. Lo spettro aprì ancora di più la bocca che a quel punto si era allargata così tanto da strappare dei lembi di pelle ai lati delle labbra.

Un’unica parola venne pronunciata da quella figura inquietante: “colpevole”.

Macbeth a quel punto si guardò le mani tremanti che lo spettro aveva indicato con quel suo dito putrefatto e le trovò gocciolanti di sangue fresco, come se quel liquido appiccicoso fosse stato appena versato.

La spada cadde finalmente a terra e il tintinnio del metallo sul pavimento di pietra rimbombò in quel silenzio assordante che aveva riempito la sala fino a quel momento. Un suono che esplose nelle orecchie di Macbeth. Chiuse gli occhi contraendo i muscoli del viso infastidito da quel rumore insistente. Trovò finalmente il coraggio di schiudere le labbra per urlare ma nessun tipo di parola venne emessa dalla sua bocca. Alle sue orecchie arrivava solo quel suono ridondante del ferro della spada che toccava il pavimento.

Quando il rumore cessò, riaprì gli occhi. Quell’essere terrificante era scomparso. Ora, davanti a lui, c’era il viso pallido e sottile di sua moglie che lo fissava con uno sguardo che celava preoccupazione e crescente fastidio. Le luci delle candele gettavano sul suo volto un’ombra grave, quasi lugubre.

Intorno a lui il banchetto continuava indisturbato, i convitati mangiavano e parlavano fra di loro creando un brusio continuo e insopportabile.

Tutto sembrava andare avanti senza che nessuno si fosse accorto di quello che era successo, ma la verità mostruosa che Macbeth celava in fondo alla sua anima stava diventando estenuante.

Lui sapeva che quello era solo l’inizio. La paura lo assalì ancora.

In quel momento un tuono ruggì fuori nella notte e risuonò ovattato nella sala. Un colpo di vento spalancò la finestra facendola sbattere contro la parete di pietra. L’aria gelida entrò portando con se alcune gocce di pioggia. Molti nella sala urlarono per lo spavento.

Il terrore che lo spirito orrendo di Banquo si ripresentasse strinse in una morsa glaciale Macbeth. Rivedeva il collo squarciato, il sangue, gli occhi vuoti, la bocca allargata in modo raccapricciante…risentiva quel sussurro che lo aveva accusato.

Un urlo di pura e primitiva paura gli uscì dalle labbra. Un urlo che aveva tratenuto in fondo alla gola per giorni. Un urlo che suonava vuoto tutte le volte che provava ad aprire la bocca per liberarsene. Un grido così spaventoso che tutti nella sala si girarono a guardarlo e il silenzio calò tra i partecipanti al banchetto.

Quando si rese conto che l’essere terrificante non si sarebbe presentato, ma che davanti a lui c’erano solo gli gli occhi degli invitati che lo fissavano increduli, capì che la follia lo aveva definitivamente raggiunto e che oramai se ne erano accorti tutti.

Tutta l’oscurità che aveva percepito durante quella giornata di agonia e terrore era finalmente venuta a prenderlo.

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Bibliografia:

Macbeth, William Shakespeare

Riscoprendo me stesso: terapia attraverso la parola

Laura Margaria rielabora l’idea letteraria della coscienza, riscoprendo se stessa attraverso la terapia narrativa, nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Le sentivo da tutta la vita, erano voci distanti e da piccolo pensavano tutti che avessi soltanto una grande fantasia o che semplicemente amplificassi le favole della Disney, dove Pinocchio vede il suo grillo che gli spiega cos’è giusto e cos’è sbagliato, perché alla fine tutti sentono una voce nella testa e non è altro che la propria coscienza.”

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Le sentivo da tutta la vita, erano voci distanti e da piccolo pensavano tutti che avessi soltanto una grande fantasia o che semplicemente amplificassi le favole della Disney, dove Pinocchio vede il suo grillo che gli spiega cos’è giusto e cos’è sbagliato, perché alla fine tutti sentono una voce nella testa e non è altro che la propria coscienza. Quando provavo a spiegargli che era diverso non ascoltavano. Effettivamente sentivo una personcina nella mia mente che mi gridava cosa fare, ma la sentivo anche discutere con altri, li sentivo litigare, parlare con termini che neanche io avevo mai sentito. Sembrava di assistere ad uno di quei programmi di polemiche in televisione dove le persone si parlano addosso sputando verità e menzogne, senza neanche riconoscere le une dalle altre. Però gli adulti mi rispondevano: “Il tuo grillo parlante sta protestando molto? Hai forse fatto qualcosa di sbagliato?”. A tredici anni hanno iniziato a capire che forse avrebbero dovuto ascoltarmi un po’ più e mi portarono da uno psicologo. Da lui per la prima volta ho sentito il termine ‘Disturbo dissociativo dell’identità’. Queste parole complicate a cui ancora non associavo un significato preciso spiegavano tutto: i miei sbalzi d’umore improvvisi, le mie proteste di bambino, il fatto che molte volte i miei genitori stessi non mi riconoscessero, anche i miei vuoti di memoria diagnosticati come ‘amnesie dissociative’.

Ho dovuto affrontare l’ipnosi per arrivare a conoscere tutte le altre persone che abitavano nella mia mente, il dottore li chiamava “alter” e tra tutti ho riconosciuto le due voci che principalmente mi avevano accompagnato da tutta la vita, diversi come le due facce della stessa medaglia. Uno mi incitava a dire tutto ciò che pensavo, ad essere sincero, riteneva necessaria la coincidenza tra il cuore e le parole, non importava quanto la verità fosse dura da affrontare; l’altro invece mi incitava ai sotterfugi, alle piccole bugie una dietro l’altra che di certo non avrebbero fatto male a nessuno, si preoccupava che io avessi tutto ciò che desideravo e mi consigliava come fare per arrivare ad ottenerlo, anche se ciò significava affondare altre persone. La mia vita è sempre stata un bilancio tra queste due personalità, talvolta richiamavo gli altri per aver mentito e li ferivo anche nei sentimenti pur di non passare altro tempo con dei bugiardi; altre volte invece ero il primo a mentire, fingevo di stare male soltanto per arrivare ad un misero scopo. Certi giorni loro stessi uscivano dalla testa e iniziavano ad agire come più preferivano scombinando la mia vita e io dovevo raccogliere i pezzi di ciò che avevano distrutto senza neanche ricordare cosa il mio stesso corpo avesse combinato. Avevo tante vocine nella testa ma non ho mai sviluppato quella del mio grillo parlante o forse anche se esisteva non gridava abbastanza forte da farsi sentire e più crescevo più passavo la vita a scegliere tra uno o l’altro dei consigli senza mai sapere cosa fosse giusto o sbagliato. In balia di una vita che forse non potevo neanche definire mia.

Sono seguito da specialisti ormai da tre anni, il dottore mi ha chiesto di iniziare a scrivere queste pagine per prendere più coscienza della mia situazione, vuole che io descriva le mie esperienze per aiutarlo a comprendere meglio i miei sintomi. Inoltre, queste pagine potrebbero aiutarlo ad identificare quelli che chiamano ‘trigger’ ossia qualsiasi cosa possa riportarmi ad un evento traumatico e stimolare in me un cambio di personalità. Devo annotare tutte le situazioni stressanti che mi si pongono davanti e descrivere ogni cosa.

Dottore deve sapere che oggi è successo davvero qualcosa di strano ed è per questo motivo che mi ritrovo per la prima volta a volerla annotare. Oggi dopo le lezioni il mio compagno di classe Oscar si è avvicinato e mi ha chiesto un consiglio riguardante una poesia. Inizialmente non voleva dirmi per chi fosse stata scritta, ma ha ceduto al suo entusiasmo e mi ha rivelato il nome di Clara. Mi sono domandato se sapesse della relazione che io e lei avevamo, mi sono chiesto se fossi io a dovermi sentire di troppo in quel gesto d’amore tanto romantico. Ho accettato più per curiosità che per amicizia e appena il mio compagno ha finito di recitare quella poesia le vocine nella mia testa si sono scatenate: “Non è che uno sciocco adulatore, che neanche riesce ad esaltare la sua amata. Inoltre, come si permette di dedicare una poesia alla nostra Clara, digli che non ha speranze, che lei ha promesso a noi il suo cuore e la sua parola sincera è la nostra più grande garanzia. Dovrebbe provare a resistere alla tentazione di scrivere se questo è il risultato. Dovresti proprio dirgli di rinunciare e gettarla direttamente nel gabinetto, non è certo una poesia d’amore adatta!” urlava uno, mentre l’altro ribatteva “Non essere ingenuo, digli che è meravigliosa, ammira la sua scrittura e quando la reciterà davanti a Clara sarà lei stessa a sfigurarlo, non dovrai più temere che lei lo scelga, sarai tu la sua unica opzione. Fingi di aver sentito un capolavoro, poi andrai a consolarlo quando lei gli volterà le spalle. Lui sarà ancora tuo amico e Clara sarà solo tua. Perché dovrebbe sospettare della tua parola?“.

Sembrava una scelta banale, non fosse stata per lei che veniva inserita in quella mia decisione, qualsiasi mia scelta avrebbe influito su di lei, che per miracolo mi era rimasta accanto nonostante la mia malattia, lei che avrebbe potuto abbandonarmi come tanti altri ma ha scelto di restare. L’unica certezza in quella situazione era che, come al solito, mi ritrovavo schiacciato tra due persone senza sapere chi ascoltare. Avrei potuto dare retta al primo: dirgli la verità e così ferire i suoi sentimenti; al contrario se avessi ascoltato la seconda voce non mi sarei neanche dovuto preoccupare della risposta di Clara, si ritrovava già con troppi pretendenti e toglierne uno dalla lista mi avrebbe avvantaggiato. Hanno iniziato a discutere e in un secondo mi è sembrato di sentire qualcun altro in mezzo a quella loro discussione, sembrava la prima parola di un bambino, inaspettata e straordinaria ma allo stesso tempo leggera come un gesto abituale. Quella piccola voce aveva detto soltanto “No”. E io trascinato da quella sensazione nuova avevo ripetuto lo stesso monosillabo ad alta voce. Oscar mi guardava come se dalle mie labbra pendesse la sorte della sua vita, non capiva come mai gli stessi dicendo di no. Tuttavia, in quel momento non importava ciò che succedeva al di fuori della mia testa, ero sicuro fosse qualcosa di nuovo, che fosse qualcuno di nuovo e per un attimo ho pregato, ma non mi ha risposto. Quale dei due non avrei dovuto ascoltare?  Perché aveva smesso di parlare? Perché non aveva mai parlato prima?

Ero di nuovo in balia di quei due e ancora una volta ho ceduto alla più suadente delle due voci, al che ho risposto ad Oscar: “Mi piacciono, sono veramente dei bei versi, dovresti correre da lei e dirle tutto, vedrai come sarà felice”.

Proprio mentre iniziavo a camminare verso casa l’ho sentito di nuovo, questa volta però era più tenace, il bambino aveva imparato a parlare e non voleva smettere: “Tu vorresti che ti mentissero?“. Mi sono ritrovato a pensare alle mie azioni come se influissero davvero su di me, come se una mia scelta potesse realmente cambiare la mia storia. Se fossi stato nei panni di Oscar avrei voluto una verità dolorosa o una menzogna? Forse la risposta stava proprio in mezzo a questi due estremi. Dottore magari mi correggerà, mi dirà che sono un illuso però io ho pensato che fosse il mio grillo parlante. Aveva detto solo una frase però aveva zittito ogni altra voce e gli uomini che mi guidavano da tutta la vita non avevano più il coraggio di rispondere a quel bambino.

Scorrendo tra i vari pensieri sono arrivato a casa, la testa era pesante; tuttavia, sembrava una stanza vuota dove l’eco di quella voce nuova risuonava inesorabile e non mi lasciava riposare. Scrivo queste pagine per capire bene di che si tratta, per sperare che lei dottore legga dentro di me e capisca quel che ho in questa testa.

Ho chiesto a mio padre come potesse spiegare quella pesantezza, quel vuoto che ti ingloba ma non ti ferisce, quella paura di aver fatto la cosa sbagliata. Ma non c’è stata una vera e propria risposta, come per tutta la mia vita non è mai stato bravo a leggermi e a capirmi. Al momento della buonanotte è entrato in camera mia dicendo: “Stavo pensavo a ciò che mi hai chiesto prima, non sono in grado di spiegare sentimenti del genere io. Perché non ti affidi a Shakespeare?”. Dopodiché ha allungato verso di me un libro con la copertina rigida e sopra riportato in grassetto ed in oro “Macbeth”.

Memorie Familiari

Gabriele Torres, in questo suo racconto breve, vuole approfondire il concetto di un meccanismo della coscienza alquanto peculiare: l’amnesia dissociativa causata da esperienze traumatiche, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Tutto mi sembrava così surreale, non poteva essere andata veramente così, ma ad un tratto vidi quello che confermò le mie colpe”

*

In quel periodo facevo un sogno ricorrente.
Mi attirava verso di lui, sembrava predire il mio futuro. Mi sentivo come il coraggioso Odisseo mentre udiva il canto delle sirene. Percepivo una cosa crescere dentro di me che mi spingeva a compiere il fatto.
Pazzo, penserà lei, dottore, ma è questo quello che sono? I pazzi non ragionano, io, invece, ero ben cosciente di quello che volevo.
Dove mi trovo lo so per certo, ma credo di non comprenderne il motivo. La avverto, non stia così vicino, sono un tipo nervoso.
Credo che debba sapere come sono arrivato qui, così presterà molta attenzione la prossima volta, sempre se non scapperà come tutti gli altri.
Mi svegliai in una capanna di legno, come quelle che si vedono di tanto in tanto nei film. Non era in ottimo stato, c’erano molti spifferi e il pavimento mancava di qualche asse di legno. Il camino e una coperta logora mi tenevano abbastanza al caldo. Non ricordo come io sia arrivato in quel posto e nemmeno che giorno fosse.
Un uomo possente, dalla faccia buona e con una folta barba, se ne stava seduto vicino al camino, intento a intagliare una statuetta, che a prima vista mi sembrò raffigurare un lupo.
Il mio risveglio deve averlo distratto, perché si fece scappare il coltellino dalle mani provocandosi un taglietto al pollice. «Ben svegliato», mi disse succhiandosi il sangue dalla ferita, «spero che non ti prenda un malanno, sai, con questo freddo; il mio nome è Russell».
«Dove mi trovo? Come sono finito in questo posto?», dissi mormorando. Non doveva avermi capito, perché mi lanciò un’occhiata confusa.
«Non mangi da tanto, devi avere fame, prendi pure pane e formaggio, li ho presi ieri in città». Annuii.
Dovevo essermi tagliato la lingua in qualche modo, perché notai un retrogusto ferroso. «Mi chiamo Kurt», dissi strappando un boccone di pane.
«Ci troviamo nel bel mezzo del bosco, ti ho trovato svenuto nella neve, per poco non ci rimanevi secco, chissà come sei finito qui».
«La ringrazio, mia moglie sarà molto preoccupata», percepii un’aria tranquilla, diversa rispetto alla tensione di un secondo prima.
«Ha una moglie? Deve essere molto in ansia; hai dormito per tutto il giorno».
«Si chiama Wendy, abbiamo una bambina piccola, spero non le stia creando troppi problemi»
Ritornato alla sua statuetta sembrò farsi più curioso, «Wendy, che bel nome, mia figlia si chiamava così».
«Si chiamava? Le è successo qualcosa?»
Il volto di Russell sembrò prendere un’espressione cupa, «Un incidente».
Non aggiunse altro.
L’atmosfera si era fatta di colpo pesante. Una folata di vento entrava dagli spifferi delle vecchie finestre, «Hai bisogno di un’altra coperta?», le mie mani cominciavano a tremare, decisi di accettare.
«Quindi, come sei finito nel bel mezzo del nulla?», riprese Russell spezzando il silenzio imbarazzante.
La mia sicurezza cominciò a vacillare, «Ho ricordi molto vaghi; non ricordo perché mi sono addentrato nel bosco, l’ultima cosa di cui sono sicuro è di essere uscito di casa, poi…tutto nero».
«Beh allora vedrò di accompagnarti al più presto; a proposito, dove hai detto di abitare?», il mio ospite si stava facendo curioso, ma io non sapevo rispondere alle sue domande.
«Vicino al mare, è l’unica cosa che ricordo, d’estate ci andavo insieme a Wendy e al nostro cane Ros. Ma da quando è nata la bambina e Ros è morto non siamo più andati».
«Davvero non ricordi altro?» la faccia dell’uomo si fece più cupa, dentro di lui, forse, pensava che qualcosa non andasse, e a lungo andare non aveva torto.
Continuai a mangiare, Russell mi osservava un po’ sospettoso, ma dopo un po’ parve perdere interesse.
«Sai, andavamo spesso al lago tutti insieme» riprese l’uomo, «A Wendy piaceva tanto, si divertiva come una matta, correva di qua e di là senza nessun pensiero, pensa che una volta, quando c’era anche mia moglie, cadde in acqua e tornò da noi zuppa fino alla punta dei piedi, che risate». Il suo volto si era fatto nostalgico, a tal punto da far scendere una lacrima sulle sue guance massicce.
«E adesso, cosa resta…il nulla». La nostalgia che arieggiava per la stanza si trasformò molto velocemente in malinconia e tristezza.
«Mi dispiace tanto…posso chiederti com’è successo?»
Asciugandosi la lacrima con la manica del suo pesante maglione cominciò a raccontare «Ripensandoci, sembrava proprio un bel giorno, uno di quelli in cui sei spensierato, da stare sdraiato al sole bevendo qualcosa. Viaggiavamo verso l’oceano; sai, Wendy non l’aveva mai visto e mi chiedeva da giorni di portarla, saremmo rimasti lì qualche giorno, quindi avevo la macchina carica di tutte le provviste», mentre raccontava vedevo i suoi occhi diventare lucidi, «Ero tornato la sera prima da una battuta di caccia, quindi mi sentivo un po’ stanco, ma era il suo compleanno e non so quante volte me l’avesse chiesto, quindi decisi di accontentarla e di portarla comunque il giorno dopo. Mentre eravamo per strada…», si interruppe per asciugarsi ancora le lacrime, «Una macchina che arrivava dall’altra corsia ci ha incrociati, erano in quattro, sembravano tutti ubriachi, anche il guidatore. Mi vennero addosso. Nel giro di qualche secondo i freni della mia macchina si sono bloccati e siamo precipitati nel burrone. Al mio risveglio, trovai mia moglie e mia figlia morte, nessuna traccia dei soccorsi».
«Mi dispiace». Questa è l’unica cosa che riuscì a dire, l’aria si era fatta pesante come un macigno.
«Proprio crudele la vita, la mia piccola se ne è andata troppo presto, non ha nemmeno visto l’oceano» riprese Russell asciugando ancora le lacrime. «Delle volte è come se nulla avesse più senso. Sai, senza loro…delle volte ho pensato alla via più semplice, ma in quei momenti ricordo quello che diceva mia moglie e subito mi pento; uccidersi sarebbe come fare del male alla sua memoria; a proposito, lei si chiamava Alice».
Volevo dire qualcosa, ma le parole sembravano morirmi in bocca. Sentì un’ondata di calore crescente, e un lamento, quasi come un pianto, veniva dall’altra stanza. «Lo senti anche tu, Russell?», i suoi occhi pieni di lacrime si curvarono in un’espressione confusa, «Sento cosa?».
«Non senti anche tu questo rumore?»,
«No, non sento nulla, sarà qualche animale rimasto fuori in mezzo alla neve».
Ero sicuro che non fosse così, ma non ci feci caso.
«Kurt, da quanto state insieme, tu e Wendy?» disse Russell spezzando ancora una volta l’atmosfera pesante della stanza.
«Da dieci anni, più o meno; ricordo ancora il nostro primo bacio, è stato bellissimo, da quel giorno la mia vita è cambiata, in meglio ovviamente. Prima di incontrarla ero un tipo molto nervoso, ma stare con lei mi ha cambiato profondamente».
«Se posso chiedere…come vi siete conosciuti?»
«Ho un negozio di strumenti musicali, lei era una mia cliente. Un giorno mi sono fatto coraggio e le ho chiesto di uscire. Mi sentivo come un adolescente al suo primo appuntamento».
Un rumore, ora più simile ad un flauto continuava a crescere; «Un flauto?», stavo pensando a voce alta.
«Un flauto? Che flauto?» chiese Russell confuso.
«Non lo senti anche tu? Il suono di un flauto…l’avrò solo immaginato, sai, Wendy suona il flauto. Lei è una musicista, suona per l’orchestra di…Boston. Ecco ora ricordo! Io abito a Boston!». Quell’euforia deve avermi dato alla testa, mi sentivo strano, il flauto non si fermava, continuava a suonare e il suo volume aumentava ogni secondo che passava.
Sembrava vero, come se lei stesse suonando accanto a me in quel momento.
Chiesi di andare in bagno, il sapore di sangue e formaggio che avevo in bocca si sostituì con un gusto di vomito improvviso. Cominciai a stare ancora peggio, il flauto si faceva sempre più forte e a questo ora si aggiungeva lo strano pianto che avevo sentito prima. Non credevo potesse peggiorare, stavo cominciando ad impazzire.
I rumori si fermarono improvvisamente…o almeno, per il momento sembrava così.
Dopo aver vomitato, uscii dal bagno, l’uomo pareva preoccupato per la mia salute «Vuoi che ti porti in ospedale?», dissentii, volevo solamente tornare a casa per il momento.
«Tranquillo, mi passerà, sono sicuro che Wendy mi saprà dare un’aggiustata»; gli chiesi, dunque, di riportarmi a casa. La macchina era molto grande, un classico modello americano, pensai. I copertoni erano grandi quasi come metà del mio corpo e la tappezzeria, se pur l’esterno lasciasse un po’ a desiderare, appariva lucida, come se fosse stata rinnovata da poco.
«Ti piace?» chiese Russell quasi in cerca di una mia approvazione. Annuii solamente, non volevo dare un mio parere, non avevo le forze per affrontare un classico discorso su motori e cose del genere.
Acceso il motore, Russell accese la radio, lo facevo più un tipo da black metal; invece, sintonizzò il segnale con una stazione di musica classica. Se non fosse stato per il forte mal di testa che mi tormentava, sarei scoppiato a ridere.
«Dunque, hai ricordato dove abiti?» domandò accendendo il motore.
«Non ricordo perfettamente la via, ma dovrei abitare vicino al mare. La mattina, mentre bevo il mio tè, mi affaccio dalla finestra del mio salotto, dove guardo i bambini giocare al parco. C’è un’insegna davanti l’entrata…ma cosa c’era scritto…ah ecco! Victory Road! Abito vicino al parco di Victory Road. È li che qualche volta porto Judy a fare una passeggiata».
Russell mise in moto e cominciò a percorrere la larga strada.
Fu un viaggio abbastanza silenzioso, nessuno dei due sapeva più cosa dire e, probabilmente, visto il mio evidente malessere, Russell credeva di disturbarmi parlando.
Il paesaggio, ai lati della strada grigia e poco asfaltata, appariva molto vario. Da numerosi boschi, si passava a lunghe distese di verde, fiumi e paesaggi naturalistici spettacolari, qualche monumento strano vicino ai paesi della provincia e molti autostoppisti. Non ci fermammo a nessuna stazione di servizio, il viaggio durò un paio di ore. Pensavo a come potessi essere arrivato fino a casa di Russell, ma soprattutto, perché mi ero avventurato da solo nel bosco.
Arrivammo a Boston, Russell diceva di aver lavorato in una falegnameria qui in città, ma che poi l’aria frenetica e inquinata lo avevano portato ad allontanarsi e a trasferirsi nella capanna assieme alla sua famiglia. Fortunatamente, diceva, Alice lo supportava in ogni sua decisione, anche la più strana e folle.
«La mia casa non era così prima» disse Russell ricordando ancora i momenti passati, «Non era così malconcia, fuori era pieno di fiori di tutti i tipi, Alice si occupava di curarli tutti i giorni. Poi, ho mandato tutto in malora da quando Alice e Wendy sono morte».
Qualche minuto dopo, arrivammo al parco di Victory Road. I ricordi cominciavano a riaffiorare, i pomeriggi con mia moglie e mia figlia al parco, il nostro cane che giocava felice in giro. Riuscivo quasi a sentirle ridere.
«Parco di Victory Road, eccoci qua. Riesci a vedere la tua casa da qui?» disse Russell interrompendo il flusso dei ricordi.
«Scendo dalla macchina, magari riesco a vedere meglio», dopo essermi sgranchito le gambe cominciai a fare un giro cercando di ricordare la veduta esatta dalla mia casa. Arrivato al cartello “Parco di Victory Road – ingresso ovest”, riuscii finalmente a trovare la finestra del mio appartamento. «Eccola là! È quel palazzo rosso, la finestra che dà sul mio salotto dovrebbe essere l’ultima a sinistra del terzo piano».
«Bene dunque!», esclamò l’uomo mettendo in moto l’auto, «Andiamo subito, così potrai finalmente riabbracciare la tua famiglia!».
Salii in macchina in fretta e furia, non vedevo l’ora di tornare a casa, di abbracciare Wendy e Judy.
Arrivai alla porta. Suonai al campanello. Nessuno rispose.
«Che strano…manco da casa da giorni e non c’è nessuno ad aspettarmi». Magari, pensai, Wendy è andata a comprare qualcosa per la bambina e tornerà a breve.
Suonai in portineria, dove trovai Saul, il custode. Aprii la porta ed entrai, mi salutò come al solito, con un cenno della testa.
Presa la chiave, salii in fretta per le scale, non avevo alcuna voglia di aspettare che l’ascensore si liberasse. Arrivai al terzo piano con il fiatone, ma non importava, la mia famiglia era solo ad una porta di distanza.
Avvicinai la mia mano per aprirla. I rumori, che fino a quel momento sembravano scomparsi, ripresero con l’intensità di cento motori a scoppio. Toccare la porta della mia casa, aveva come risvegliato quegli orribili fastidi, e adesso sembravano più reali che mai. Il perché di quella sorta di allucinazioni, non lo scoprì fino a quando non spalancai la porta.
Visione di morte e una puzza insopportabile apparvero davanti ai miei occhi. Non riuscii a trattenere le lacrime…erano loro.
Wendy e Judy giacevano senza vita in salotto, massacrate. Erano diventate irriconoscibili.
«Ma cosa…» esclamò Russell impaurito dalla scena.
Ero davanti alla sala tinta di rosso, come paralizzato, i loro capelli strappati, i volti scavati dai colpi ricevuti. «Wendy, Judy, chi vi ha fatto questo?» provavo un’enorme sensazione di vuoto.
I rumori, sempre più forti, cominciarono a tramutarsi in voci, «È tutta colpa tua!», la voce era quella di mia moglie, ne sono sicuro.
«Wendy, sei tu? Chi vi ha fatto questo!».
Il pianto continuava a martellarmi nella testa, non avevo mai provato una cosa del genere. Un castigo portato dalla morte, questo era. La voce che mi accusava di quelle colpe sembrò prendere forma, e presto prese le sembianze di Wendy.
«Sei stato tu!» riprese lo spirito mentre cominciava a piangere, «Ma come, hai dimenticato quello che ci hai fatto? Avevi promesso di proteggerci per sempre, e alla fine, è stata proprio la tua la mano che ci ha fatto del male».
Rimasi impietrito, non riuscivo a credere a cosa stesse succedendo. I miei occhi cominciarono a riempirsi di lacrime.
«Hai ucciso prima tua figlia e poi me», riprese Wendy.
Tutto mi sembrava così surreale, non poteva essere andata veramente così, ma ad un tratto vidi quello che confermò le mie colpe. Un giocattolo, la trottola di mia figlia, stava ai piedi dei due cadaveri insanguinati. Fu a quel punto che la mia memoria riprese a funzionare correttamente.
«Sono stato io», ripresi girandomi verso Russell, che appariva sconvolto da quello che vedeva. «Le ho uccise colpendole con quel giocattolo. Poi sono scappato via, per nascondermi, e sono finito nel bosco».
Russell mi guardava con gli occhi iniettati di sangue «Come hai potuto! Mi hai mentito per tutto questo tempo!».
«No, non ti ho mentito, amo la mia famiglia, ma ho avuto i miei motivi, i miei sogni».
«I tuoi sogni? Ma cosa dici! Sei un malato! Tu mi hai mentito e hai cercato di ingannarmi con la storia dell’amnesia, e io ti ho creduto pure, credevo che fossi una brava persona». Non cercai nemmeno di fermarlo, il suo ragionamento aveva senso, dopotutto. Fingevo di non ricordare, alla fine era meglio che credesse così, non avrebbe mai capito le mie ragioni. Era in preda alla rabbia più assoluta. Si avvicinò a me e cominciò a picchiarmi.
Saul arrivò alla porta, non era solo. Mandò qualcuno a chiamare la polizia mentre cercava di separare il bestione da me.
Russell finalmente si fermò, non avevo mai visto uno sguardo così colmo di odio. Cominciò a raccontare il fatto. Io rimanevo lì a guardare il vuoto con la faccia insanguinata. Non provavo nulla.
Poco dopo arrivarono due poliziotti, diedi un ultimo sguardo ai corpi, sorrisi, poi mi portarono via.
Perché quella faccia dottore, crede anche lei che io sia pazzo?
Non è così. Io ho visto, ho sognato tutto quello che potevo fare.
Perché allora sprecare la mia opportunità. Avevo così tanto potere su di loro, perché non dimostrarlo allora, perché non dimostrare che ero superiore. Suvvia, perché mi guarda così? Non mi capisce?

*

Coscienza e disturbi del comportamento alimentare: come ho fatto amicizia con la mia coscienza

Federica Martire racconta il difficile percorso di guarigione da un disturbo del comportamento alimentare nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro, Prof.ssa Chiara Lombardi (2022-2023)

“Nel corso di quei mesi fotografavo continuamente il mio corpo come se fosse una medaglia da esibire ogni volta che uscivo di casa. Le mie mani sottili, il mio seno piccolo, lo spazio tra le mie gambe erano per me il trofeo che ritiravo ogni mattina quando mi guardavo allo specchio, per aver mangiato poco il giorno precedente.  Avere il controllo su me stessa mi faceva sentire invincibile, amavo quello che la mia malattia mi stava togliendo e invece di battermi contro di lei assecondavo ogni sua richiesta”.

*

Sono le sei e cinquanta, mi alzo dal letto e scorro le notifiche sul mio IPhone.

Cammino verso il bagno e guardo il mio viso attraverso il riflesso dello specchio. Mi guardo negli occhi e sto in silenzio ma è come se non lo fossi.

Osservo le mie mani e i tagli sui polpastrelli, mi guardo di nuovo negli occhi. 

È inverno e stanotte faceva così freddo che non sono riuscita a dormire, sebbene avessi ben tre coperte.

Prendo coraggio e sollevo la maglia, ho i brividi. Guardo il mio corpo allo specchio e sto in silenzio, poi osservo nuovamente le mie piccole mani. Sono zitta ma sento un fastidio incessante; mi guardo allora intorno, ma non c’è nessuno.

Osservo il mio addome allo specchio, ho gli occhi semilucidi e sto tremando. “Domani andrà meglio” mi ripeto ogni giorno.

Abbasso la maglia e guardo di nuovo le mie mani, poi i miei occhi allo specchio. Le stesse mani che mi fanno sentire vittima e colpevole di un destino che non sento mio.

Le mani con cui la sera prima ho mangiato un pezzo di quel delizioso e morbidissimo pane che ha fatto mia nonna per convincermi a mangiare di più.

Le mani con cui ogni mattina, facendo attenzione a non farmi sentire, prendo la bilancia nella speranza di pesare di meno.

Le stesse mani con cui asciugo le mie lacrime quando piango così tanto che non riesco nemmeno a respirare.

Le guardo come se fossero piene di sangue, come se avessi appena commesso un omicidio,

“Forse l’ho fatto davvero” mi dico, ma la vittima sono sempre io.

Esco dal bagno e mi vesto, tra poco sarà il mio compleanno e solo per oggi non farò colazione perché devo mettermi quel vestito rosa che mi piace tanto e ho paura che si veda il segno della pancia.

Incontro mio papà in sala, mi dà il buongiorno ma leggo nei suoi occhi parole che non avrà mai il coraggio di dirmi. Le stesse parole che invece mia mamma mi ripete in continuazione ma che la mia testa sembra non voler ascoltare.

Sento di nuovo una voce, ma intorno a me non c’è nessuno. Non mi è mai successo e sono spaventata.

Mi sento come se avessi accolto dentro di me un ospite indesiderato, come se qualcuno fosse entrato nella mia stanza e avesse iniziato ad usare i miei vestiti, il mio spazzolino per lavarsi i denti e i miei libri per studiare. “Non sono io” mi ripeto mentre cerco di seguire la lezione di filosofia, ma non ne sono sicura.

Torno a casa e trovo mia sorella ad accogliermi seduta a tavola che mi chiede com’è andata la giornata.

La sala da pranzo è da mesi il mio campo di battaglia dove chi lotta sono i miei desideri e la mia speranza di tornare a vivere, contro una voce dentro la mia testa che mi intima di non mangiare ciò che desidero.

Sento la pancia brontolare, da mesi dice quello che io non ho la forza di dire, emette suoni di protesta e di aiuto ma non trova mai nessuno pronta a sostenerla. Per anni il mio stomaco è stato il mio secondo cuore quando quest’ultimo era così debole da non sentire più le mie sofferenze.

Mangio una fetta di carne senza olio, dico a mia mamma che sono piena perché ho fatto merenda a scuola. Non è vero e lei lo sa bene.

Mi rifugio nella mia stanza e leggo per la terza volta il mio romanzo preferito: L’insostenibile leggerezza dell’essere. Mi rifugio nelle parole di Milan Kundera che mi permettono di accettare, anche se per poco, il mio dolore e di non sentirmi rea della mia situazione fisica e mentale.

“Che cos’è positiva, la leggerezza o la pesantezza?” mi chiede questo romanzo ed io che sento la mia anima estremamente pesante, desidero solo essere leggera.

Esattamente come dice Michela Marzano in Volevo essere una farfalla “Mi ero convinta che se fossi riuscita a diventare leggera come una farfalla, tutto sarebbe andato a posto. Sarei divenuta forte, indipendente e libera e non avrei mai più avuto bisogno di nessuno”

Nell’attesa di stare meglio spengo la luce e mi rifugio sotto le coperte. Vorrei dormire, sento la testa pesante ma non riesco nemmeno a chiudere gli occhi.

Sento ancora quella voce.

VITA
Cosa hai mangiato oggi?”

FEDERICA
Un caffè macchiato e una fetta di carne.

VITA
Come un caffè macchiato? Sai che ti fa ingrassare.

Non riesco a capire come farla smettere, non riesco ad ascoltare i miei veri pensieri.

FEDERICA
Ho perso ancora un chilo e mezzo questa settimana. Solo un mese fa pesavo nove chili in più di adesso, credo che vada bene così.

VITA
Hai visto stamattina la tua pancia, era enorme. Sai perché stamattina tutti ti guardavano in classe? Perché quel jeans era troppo stretto e ti segnava sulle cosce.

Non sapevo con chi stessi parlando, intorno a me c’era silenzio; eppure, i miei pensieri mi parlavano.

Sono le 18 e 50 e ho l’appuntamento con la mia psicologa. Quella sera sono rimasta in silenzio fino a quando mi ha chiesto di andare via, perché era scaduto il tempo a mia disposizione.

“Ultimamente sembra che il tempo non passi mai” le ho detto quando mi ha fatto notare che l’orologio segnava le 20.00. Mi guardava con lo stesso sguardo severo che aveva ormai da settimane; durante i nostri incontri facevo fatica anche solo a dirle “ciao”, quando entravo nella stanza, figuriamoci se le avrei mai parlato di come mi sentissi. 

Torno a casa e mi siedo a tavola, sono da sola perché i miei genitori sono fuori città e mia sorella è agli allenamenti di pallavolo.

FEDERICA
Vorrei mangiare un bel piatto di pasta al pesto, non lo mangio da così tanto che non ricordo nemmeno il gusto.

VITA
Non puoi, non lo meriti come non meriti ogni cosa della tua vita
Non meriti di essere amata da tua madre che ogni giorno ti sprona a stare meglio
Nemmeno da tuo padre che soffre in silenzio per te
Non meriti l’amore di Giulia che cerca di assecondarti in ogni tua richiesta
Non meriti l’amore dei tuoi nonni
La gioia di vivere delle tue amiche
I loro progetti per il futuro
Non meriti nemmeno quel voto alto per il quale hai tanto studiato
Sarà stato un caso

Improvvisamente mi agito, mi manca il respiro e inizio a sudare. Mi siedo a terra, conto lentamente fino a dieci. Piango. Mi sento sola come mai non lo sono mai stata in tutta la mia vita.
Prendo il telefono, vado su Spotify e seleziono “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli.
Penso a quando mia mamma me la cantava da piccola. Mi siedo sul divano e mi addormento.

La prima volta che mi è venuto un attacco di panico è stato a causa di quella voce che si agitava nella mia testa e non smetteva di incolparmi con parole di fuoco.
Non mi diceva “non sei abbastanza” “non ce la farai” “fallirai”, si limitava a dirmi che la causa del mio dolore ero io stessa e che non ne sarei mai guarita.

La mattina seguente mi sono svegliata, avevo gli occhi gonfi e il mascara su tutto il viso, mi sono svestita e dopo essermi guardata allo specchio ho risentito quelle parole suonare nella mia testa.

Prendo il telefono, ascolto la stessa canzone che la sera prima mi aveva permesso di addormentarmi, e, finalmente, per la prima volta dopo mesi, sento solo silenzio.

È stato questo il momento in cui ho visto per la prima volta una variazione di colore sulla tavolozza della mia vita che fino a quel momento comprendeva solo il bianco e il nero.
Ho visto uno spiraglio di luce gialla, arancione, azzurra nella mia vita alla quale mi sono aggrappata con le poche forze che avevo.

Da quella mattina, grazie a quella canzone ho finalmente capito cosa Milan Kundera intendesse per “leggerezza”, non superficialità ma semplicemente VITA. Lo stesso nome che per anni ho dato alla voce della mia coscienza che parlava per me, che non mi permetteva di ridere, piangere, urlare, ballare, cantare quando mi andava.

Quella mattina grazie a quella canzone ho capito che non era necessario metterla a tacere e che probabilmente sarebbe impossibile farlo, ma che dovevo semplicemente accoglierla e ascoltarla come se fosse la mia canzone preferita che non avrei mai interrotto sul “Quando sei qui con me…”.

Da quella mattina, e ancora adesso, parlo con quella voce e la ringrazio perché mi permette di vedere la mia vita da un punto di vista differente, perché mi permette di vedere le mille sfumature che ci possono essere tra il bianco e il nero, anche se a volte può ferirmi.
Quello che una volta recepivo come un “Non puoi, non te lo meriti, non starai mai bene” oggi è uno stimolo per dimostrare a me stessa che posso fare qualunque cosa io voglia.

Oggi quando mi guardo allo specchio non sento più la voce della mia coscienza che mi fa credere che se il mio corpo e la mia anima fossero diversi, potrei essere più felice. Non sento silenzio, ma un incredibile frastuono che mi ricorda che sono viva e credo che sia la cosa più bella che possa esserci al mondo.

*

Bibliografia:

  • W. Shakespeare, Macbeth, a cura di Guido Bulla, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 2008.

Atopos

Gianni Demo rappresenta, attraverso un calligramma ispirato all’opera di Apollinaire, la similitudine tra Socrate e le statuette di satiri, rintracciata da Alcibiade nel Simposio di Platone. Il testo è stato sviluppato nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate B, mod. 1, 2021/2022, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Secondo me un calligramma è un insieme di segno, disegno e pensiero. Esso rappresenta la via più breve per esprimere un concetto in termini materiali e per costringere l’occhio ad accettare una visione globale della parola scritta”. G. Apollinaire.             

Il nucleo del discorso di Diotima è il “prezioso contenuto” di questo Socrate-Sileno. In calce, le parole di Alcibiade.

*

La strana verità su mia sorella Matilde

Silvia Barbieri immagina un’avventura alla Lady Chatterley vissuta attraverso la magia del Sogno di Shakespeare e di Peter Pan di Barrie. Il lavoro è stato sviluppato nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Disse che stava camminando nel bosco quando le era parso di vedere qualcosa muoversi tra le felci e incuriosita aveva seguito quel movimento. Sperava in una volpe o un cucciolo di capriolo e invece ne era uscito un ragazzo. Il più bel ragazzo che avesse mai visto, a suo dire”.

*

Cara mamma,

A lungo ho mantenuto questo segreto per paura che nessuno mi avrebbe creduto. Sono pronta a raccontarti come andarono veramente le cose quando Matilde ed io raggiungemmo i nonni in campagna. Non è vero che non mi ricordavo nulla. Io ero presente quando lei… ma tu devi credermi mamma, o questo mio doloroso sforzo per ricordare, per tornare a quei giorni, non varrà nulla.

Sai bene che Matilde non si era dimostrata per nulla entusiasta di lasciare Torino per passare l’estate dai nonni, mentre i suoi amici si organizzavano per trascorrere insieme i giorni di vacanza, ma aveva rapidamente cambiato espressione quando finalmente arrivammo alla fattoria. Nostra nonna ci venne incontro sorridente uscendo da casa sua e questo bastò a farle cambiare umore.

In campagna c’erano molti lavori da fare e, da quando il nonno era stato male, erano aumentati a dismisura. Per questo ci svegliavamo presto tutte le mattine per raccogliere grandi quantità di frutta e ortaggi che la nonna avrebbe rivenduto al mercato del paese.

Ti ricordi l’orto dei nonni come era enorme ma ben curato, i rettangoli di terra erano precisi e altrettanto precise erano disposte le diverse piante. Tutt’attorno al perimetro erano cresciuti i cespugli di fiori colorati e profumatissimi che avevamo piantato insieme quando eravamo bambine.

Al termine di una delle prime giornate, esauste dal lavoro faticoso, dal caldo umido e asfissiante e dallo sciame di zanzare che ci avevano massacrate, ci stendemmo all’ombra del ciliegio più grande della fattoria, per rianimarci prima della cena.

Sdraiata a terra con le palpebre appesantite, mentre guardavo le nuvole spostarsi rapidamente, pensai a come eravamo cambiate, mia sorella ed io, rispetto a quando aiutavamo i nonni da bambine. Allora tutto ci sembrava un gioco e nulla era mai troppo faticoso o stancante, anzi ogni giorno era una nuova avventura.

Il boschetto lì accanto era così silenzioso eppure così vivo, luogo ricco di avventure che insieme a Matilde e agli altri cugini ci immaginavamo da bambini. Senza nemmeno rendermene conto scivolai in un sonno profondo, intontita dalla stanchezza.

Un frullare di ali mi riportò alla realtà. Non sapevo quanto tempo era passato da quando mi ero assopita e guardando l’orologio mi resi conto che erano trascorsi appena dieci minuti.

Una gallina beccava a terra poco lontano da dove mi trovavo io, mentre di mia sorella non c’era alcuna traccia. Provai a chiamarla ma non ottenni alcuna risposta, a parte la gallina che si allontanò zampettando.

Entrai in casa e sul tavolo trovai un bigliettino scritto a mano dalla nonna, in cui diceva di essere andata da qualcuna delle sue amiche a portare un cesto di verdura fresca per la cena. Chiamai Matilde ma non era nemmeno in casa.

Così mi rinfilai le scarpe e cominciai a guardare un po’ ovunque, chiamando mia sorella a gran voce, senza ottenere risposta. Guardai il bosco, che se ne stava quieto davanti a me, con le sue porte sempre spalancate che mi invitavano ad entrare, a scoprire i suoi segreti, i suoi luoghi nascosti.

Mi avviai tra gli alti alberi di castagni e robinie. L’erba cresceva rada sul terreno a causa della poca luce che riusciva a penetrare tra le fronde. L’aria era calda, impregnata di umidità e satura dell’odore del legno e della terra bagnata.

Mi incamminai seguendo uno stretto sentiero tracciato da qualche animale selvatico che abitudinariamente batteva quel tratto di bosco, forse un capriolo o qualche cinghiale.

Mi guardavo attorno chiamando mia sorella, ma più mi inoltravo nel cuore della natura, più l’ambiente attorno si faceva scuro, quasi ostile. Mi intimoriva l’idea di rompere quel silenzio che aveva un che di sacro, al punto che non osavo più urlare il nome di Matilde, per paura che la natura si rivoltasse contro di me. Cominciai a guardarmi intorno con circospezione sempre maggiore, con la crescente e inquietante sensazione che migliaia di occhi fossero puntati su di me, unica creatura umana così stonante in quell’ambiente verde e naturale. Eppure per quanto sforzassi la vista alla ricerca di una qualsiasi creatura vivente in mezzo a tutto quel fogliame, non mi riuscì di trovare alcunché. Fu proprio mentre mi guardavo attorno che non feci caso ad una grossa e nodosa radice in mezzo al sentiero che mi fece inciampare e cadere bocconi.

Appena mi ripresi dalla caduta, riaprendo gli occhi vidi davanti a me un paio di scarponcini da battaglia che ben conoscevo. Mia sorella Matilde mi guardava dall’alto in basso con aria interrogativa. Mi chiese se stavo bene e io mi tirai in piedi. La guardai fissa negli occhi, sembrava strana. Aveva uno sguardo stralunato, come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno.

Le chiesi dov’era stata, le dissi che l’avevo cercata in lungo e in largo e non avendo ricevuto risposta mi ero preoccupata. E Matilde, con il suo sguardo perso nel vuoto, mi disse che si era solo allontanata per fare due passi. Le chiesi se era tutto, se non ci fosse dell’altro. Negò e io, lì per lì, non feci troppe domande, ero solo contenta di non essere più sola e di averla ritrovata.

Durante il viaggio di ritorno e durante la cena nessuna delle due accennò più all’accaduto, ma una volta a letto, con la protezione del buio notturno, Matilde mi disse che nel bosco aveva incontrato un ragazzo.

Le chiesi se avesse voglia di raccontarmi cosa fosse successo e distesa nell’oscurità prese a raccontare.

Disse che stava camminando nel bosco quando le era parso di vedere qualcosa muoversi tra le felci e incuriosita aveva seguito quel movimento. Sperava in una volpe o un cucciolo di capriolo e invece ne era uscito un ragazzo. Il più bel ragazzo che avesse mai visto, a suo dire. Disse che non sapeva molto di lui, ma che si era dimostrato estremamente gentile e che le aveva raccontato un sacco di storielle sugli abitanti dei boschi.

Secondo Zeno, questo era il nome del ragazzo, appena calava la notte, fate e folletti sbucavano gioiosi dalle corolle dei fiori, dai nidi degli uccelli, dagli incavi degli alberi per mettersi a danzare e a preparare succulente pozioni magiche da somministrare a tutti gli uomini o donne che osassero cacciare un animale, tagliare un albero, appiccare un fuoco o persino cogliere un fiore, animando l’intero sottobosco. Per quanto fosse tutto estremamente meraviglioso, Matilde disse che non ci credeva e che fate e folletti esistono solo nelle fiabe di magia. Tuttavia era rimasta stregata dal ragazzo, lo si percepiva dal modo in cui ne parlava. Disse che portava solo un paio di calzoni leggeri e camminava per il bosco a piedi nudi. Aveva folti capelli scuri e due occhi di un verde intenso che parevano sondarti l’anima.

Matilde disse che non aveva mai incontrato un ragazzo del genere e quando gli chiese da dove veniva, Zeno rispose che viveva dall’altra parte del bosco. E poi così come era apparso se n’era andato, tornando a confondersi con l’ambiente circostante. Fu allora che io feci la mia apparizione, inciampando e cadendo a terra.

Quella sera lasciai che la confessione di Matilde restasse sospesa nell’aria, senza che avesse un vero e proprio posto nella realtà: pareva un racconto così irreale e ben presto entrambe scivolammo nel sonno e l’inquietudine che mi era cresciuta nel petto durante la sua confessione parve acquietarsi un poco durante la notte.

Il mattino seguente mi svegliai con un forte mal di testa. Matilde era già scesa e mi stava aspettando con la nonna per fare colazione. Mi chiesero se avessi dormito bene. Risposi di sì, ma in verità avevo sognato per tutta la notte quel ragazzo misterioso il cui viso a me sconosciuto si fondeva e mescolava con quello di mia sorella e di fate arcigne che spremevano succhi velenosi da fiori coloratissimi sugli occhi di mia nonna e mio nonno, che finivano per non riconoscermi più e cacciarmi di casa.

Tentai di scacciare il pensiero dalla mente, liquidandolo come un sogno bizzarro dettato da una mente facilmente impressionabile e, come il giorno prima, presa dai lavori della campagna non ci pensai più.

Al crepuscolo però, mentre mia sorella era in casa con la nonna, uscii e mi avviai verso il bosco.  Nonostante il timore che quel luogo aveva cominciato ad incutermi, volevo vedere anche io quel ragazzo. Con passo spedito mi inoltrai verso il cuore del bosco e seguendo il sentiero oltrepassai uno stretto corso d’acqua, oltre il quale si aprì una radura, al cui centro stava una piccola casetta di legno, circondata da alcune gabbie per l’allevamento di fagiani. Allora di fagiani non c’era alcuna traccia, ma la casetta sembrava ben tenuta e gli alberi attorno disposti in forma circolare non facevano che accentuare la desolazione del luogo.

Mi avvicinai e spinsi leggermente in avanti la porta per dare un’occhiata all’interno. Non c’era nulla di particolare, solo un tavolo e alcune sedie di legno, un piccolo focolare spento e alcuni utensili appesi alle pareti. C’era anche un piccolo baule sul quale era posato un flauto di Pan. Fu allora che mi resi conto dello strano ed inquietante silenzio che era calato tutto attorno, della calma irreale che si stava impadronendo della natura circostante. Spalancai la porta e mi fiondai al di fuori, correndo a gambe levate verso casa, senza nemmeno rendermi conto che si era fatto buio e che migliaia di occhietti erano spuntati tra le foglie degli arbusti, scintillanti alla luce della luna.

Allarmata più che mai chiesi a mia sorella se conosceva la casetta dei fagiani nel bosco, ma il suo sguardo interrogativo lasciò intendere che non sapesse di cosa stessi parlando. Di nuovo evitai di proseguire il discorso e la presenza del nonno a cena contribuì tranquillizzarmi.

Matilde, che per tutto il giorno era sembrata piuttosto spensierata, sentendo che mi rigiravo nel letto, mi chiese se ero stata nel bosco. Non fui in grado di mentire, del resto le avevo chiesto io della casetta dei fagiani. Ma la verità era che non le interessava granché della mia risposta, si trattava solo di un modo per tornare a parlare di Zeno e compresi che i due si erano visti di nuovo, ma quando era successo? Non mi sembrava di averla mai vista allontanarsi. Glielo domandai ma lei proseguì a parlare di Zeno. Lo faceva in modo appassionato, descriveva i suoi movimenti e il suo aspetto come parlerebbe una Giulietta del suo Romeo. Iniziai a preoccuparmi.

Il bosco non mi piaceva più, da luogo edenico, idilliaco era diventato un labirinto infernale, pieno di creature altrettanto strane ed invisibili che parevano avere il solo intento di farti ammattire.

Le proposi di invitare Zeno a casa il giorno seguente, cosicché potessi vederlo e finalmente porre fine a quel vortice di perturbanti sensazioni. 

Per tutto il giorno successivo Matilde non fece alcun cenno alla conversazione avuta la sera precedente. Si comportò in modo del tutto naturale e la giornata proseguì come se nulla fosse mai accaduto. Quel giorno lo dedicammo alla raccolta dei frutti di bosco. Matilde attirò la mia attenzione invitandomi a seguirla, mentre la nonna era rientrata a sistemare alcune cassette cariche di frutta. Una dolce melodia risuonava nell’aria. Mi chiese di fidarmi di lei e di non avere paura, anche se le sue parole, anziché rassicurarmi, non fecero altro che agitarmi ancora di più. Aveva una strana luce negli occhi, tuttavia mi lasciai guidare dal lei e, giunte appena oltre il piccolo ruscello, vidi il ragazzo che accovacciato a terra suonava il flauto a una decina di pulcini di fagiano straordinariamente attenti. Un’espressione sgomenta dovette dipingersi sul mio volto perché quando Matilde attirò l’attenzione del ragazzo, la prima cosa che mi domandò fu se stavo bene.

In effetti Zeno aveva un aspetto magnifico, il fisico asciutto e scattante, i boccoli scuri che gli incorniciavano il volto pallido, spruzzato di efelidi e lo sguardo vigile e intenso contribuivano ad accentuare la sua bellezza e al contempo la sua stranezza. Per quanto esteriormente bello possedeva un’aura bizzarra, al limite dell’inquietante, come se non appartenesse a questo mondo. Davanti a lui persi la parola, non fui in grado di dire nulla.

Lui si presentò e disse immediatamente di essersi innamorato di Matilde.

Io li guardai entrambi, incredula. Mia sorella arrossì un poco, come se non si aspettasse quella pubblica dichiarazione. Appena ritrovai la voce dissi che potevamo tornare verso la fattoria, che alla nonna avrebbe fatto piacere conoscerlo e lo avrebbe sicuramente accolto volentieri se intendeva stare con Matilde. I due si guardarono. Zeno rispose che lui stava bene alla casetta dei fagiani e non aveva intenzione di spingersi oltre al ruscello. Lo disse in modo feroce, come se la mia proposta l’avesse profondamente offeso. Rimasi sbigottita dalla sua reazione e ancora di più da quella impassibile di mia sorella, che assistette alla scena senza alcun intervento. La guardai, in cerca del suo appoggio, ma il suo sguardo era puntato su Zeno. I suoi dolci occhi azzurri erano tutti per lui.

Non avevo mai visto Matilde così persa, come se fosse sotto l’effetto di un potente incantesimo. In quel momento mi tornarono in mente le storie delle creature del sottobosco, le fate e i folletti che spremono pozioni sugli occhi degli esseri umani. Zeno le aveva raccontato solo un mucchio di favole oppure le aveva fatto realmente una magia? Non avrei saputo rispondere con certezza. Matilde sembrava far parte di un altro mondo, che le aveva fatto perdere completamente il contatto con il nostro. Cosa le era successo? Dov’era finita la sua testardaggine e il suo carattere forte e deciso? Quella ragazza sembrava Matilde, aveva il suo viso, i suoi capelli, portava i suoi vestiti. Ma dentro quell’involucro non si agitava l’anima irrequieta di mia sorella. Ella doveva trovarsi lontana da quel bosco, la mente assopita, assuefatta. Cercai di avvicinarmi a lei, di scuoterla e riportarla alla realtà, le dissi che la nonna probabilmente ci stava cercando, ma Zeno s’intromise e strattonando Matilde verso di sé la allontanò ancora di più da me. Mi disse che ormai era sua e non potevo più riportarla indietro. Matilde sarebbe rimasta nel bosco con lui perché era quello il loro rifugio. Fu allora che cominciai a percepire la natura circostante muoversi, diventare sempre più viva e frenetica. A migliaia spuntarono dai bassi cespugli circostanti fate e folletti non più grandi di una pannocchia, ognuno dei quali mi guardava con i loro occhietti neri e vispi, carichi di risentimento per essermi opposta alla volontà di Zeno. Mi si attorcigliarono le viscere e mi si gelò il sangue nelle vene. Non avevo la minima idea di cosa fare, come comportarmi. Avrei voluto urlare, ma ero fin troppo consapevole del fatto che non sarebbe servito a nulla. Matilde restò impassibile, gli occhi sempre puntati verso Zeno, un ghigno maledetto si fece largo sul suo volto. Non avevo armi contro di lui, non avevo modo di oppormi alla volontà di quello spirito del bosco, non nel suo ambiente. Così un passo dopo l’altro, mentre lo sciame di creature fatate si schiantava rapidamente su di me, indietreggiai, mantenendo lo sguardo su Matilde e Zeno che scomparvero dietro la massa di fate e folletti, fino a confondersi con la natura circostante. Prima di cadere a terra e perdere conoscenza, sentii chiaramente la voce di Zeno ridere di gusto ed esclamare: “Chi entra nel bosco non torna più indietro e la sua anima mi apparterrà per sempre.”

Quando mi svegliai ero nel mio letto, nella camera al piano superiore della fattoria. Appena presi coscienza di dove mi trovavo mi voltai di scatto verso il letto di Matilde. Era vuoto. Scoppiai a piangere, mentre nella mente le mostruose immagini del giorno prima cominciavano a riaffiorare.

Fu la nonna a raccontarmi come mi avevano trovato e come avessero cercato per ore mia sorella. Ma di Matilde non c’era alcuna traccia. Era sparita nel nulla e con lei anche quello strano ragazzo, spariti come spariscono i personaggi di un libro appena terminato: non li dimenticherai mai ma non potrai mai vederli davvero.

Come ben sai, mamma, le ricerche proseguirono per molto tempo dopo, senza averne mai ottenuto nulla. So che per te sarà un duro colpo e che non mi crederai. Lo fu anche per me, soprattutto quando, con un’immensa forza di volontà e coraggio mi spinsi nuovamente nel folto del bosco e raggiunta la radura non trovai alcuna traccia della casetta, né dei fagiani. Solamente un cerchio perfetto di funghi bianchi…

Ho sempre sperato che Matilde, ovunque sia andata a finire, si trovi in un posto meraviglioso, dove vivere avventure fantastiche. A volte ho l’impressione di ritrovare un po’ di lei quando leggo un libro che mi appassiona e così mi sembra di riaverla, anche se per poco, accanto a me.

Bibliografia

D. H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterley, a cura di Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, Milano, 2013

W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, a cura di Fernando Cioni, BUR, 2021

J. M. Barrie, Peter Pan, a cura di Aurelia Scorsone, BUR, 2020

Il blog degli studenti di Culture e Letterature Comparate di Torino