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La cena fatale

Dramma in tre atti
di
Giacomo Baldi; Giulia Berardi; Alessandro Castiglione;
Lucile Daubercies; Letizia Grippi; Nzumba Marta Luamba e Marie Perreau

Materia del dramma: Il giorno del compleanno di Orgone, Dorina e Lady Macbeth si incontrano per confidarsi l’una con l’altra e per deplorare Tartufo. Organizzano, ma senza realizzarlo, un piano machiavellico per eliminare il promesso di Marianna, proprio poco prima che si svolga la cena di compleanno di Orgone, a cui tutti i personaggi sono invitati. Tuttavia, alla felice occasione, Tartufo non si presenta e quando i personaggi iniziano a preoccuparsi di questa assenza, vengono a sapere, grazie a un vaticinio, che Tartufo è stato ucciso. Si scoprirà allora che ogni personaggio ha un potenziale movente e che tutti hanno una buona ragione per odiare il Tartufo, il bugiardo. Macbeth e Lady Macbeth arriveranno ad accusarsi a vicenda, nell’incapacità di comunicare e di fidarsi l’uno dell’altra. Nell’Epilogo, Tartufo stesso, impossessatosi del corpo della strega, sembrerà voler rivelare il vero colpevole, ma l’amara scoperta dei personaggi è che gli unici imputati di questo dramma sono l’umano e la sua coscienza.

*Di quest’opera, composta a più mani, Lucile Daubercies e Marie Perreau hanno scritto Atto I, Scena i; Giacomo Baldi e Giulia Berardi hanno scritto Atto II, Scena ii; Alessandro Castiglione ha scritto Atto II, Scena ii e Nzumba Marta Luamba ha scritto l’Epilogo. Tutte le canzoni sono state scritte e composte da Letizia Grippi.

*

Dramatis personae

Alceste, l’invitato

Dorina, la giovane

Orgone, il festeggiato

La Strega, la medium

Macbeth, l’invitato

Tartufo, l’ospite

Lady Macbeth, la confidente

Atto I

Scena i

[A casa di Lady Macbeth]

Entrano i cantanti

[Chorus x2]

The wind’s gone down, I wonder why
it didn’t take my sins away,
The morning rain clouds up my window
but the memories remain,
And even if I could erase them all
time will judge my broken soul,
It will remind me,
that it’s all so bad, it’s all so bad

Escono i cantanti
Entra Dorina.
Lady Macbeth è in scena, sola.

DORINA                              (Irritata) Pffff!

LADY MACBETH              Che sta succedendo?

DORINA                        Roooooh.

LADY MACBETH             (Esasperata) Perché ti stai lamentando mentre non è ancora sorto il sole? Dai, dimmi!

DORINA                                Oh Lady Macbeth, si tratta di Orgone. O no, piuttosto di Tartufo. No, in realtà, di entrambi.

LADY MACBETH            (Con uno sguardo di incomprensione) Dimmi di più…  

DORINA                  Non posso più sopportarli. Stavo per parlare con Marianna del compleanno, quando Orgone è arrivato perché doveva ASSOLUTAMENTE parlare con lei. Mi ha comandato di partire, ma mi conosci. (Ride sguaiatamente). Ho lasciato il mio cellulare sulla tavola, e ho registrato la loro conversazione…

LADY MACBETH              Ah…

DORINA                           …Come dire… è stato orribilmente cattivo con lei, come se fosse niente. Sai cosa vuol fare? Cosa vuole sottoporre a quella poverina Marianna. Nel 2022?!

LADY MACBETH            (sarcastica) Lasciami pensare un’attimo….Vuole cancellare il suo accesso a Instagram?

DORINA                          Purée, mais non voyons ! Orgone la vuole sposare con Tartufo! Povera fanciulla… Tartufo.  Tartufo! Il Tartufo! Il famoso Tartufo! Ti ho già parlato di Tartufo. Il me sort par le yeux. Orgone prova per lui un’ammirazione irrazionale. Parla solo di lui, ha occhi solo per lui, gli altri sono invisibili e non hanno nemmeno la minima importanza. L’unica cosa alla quale pensa è sposare la propria figlia con questa brutta bestia.

LADY MACBETH              E Marianna invece, che ne pensa di sposarlo?

DORINA                          (con ironia) Oh, ovviamente è entusiasta! Ha persino pianto lacrime di gioia quando suo padre ha annunciato questa notizia. (Improvvisamente seria) Lady, sul serio?

LADY MACBETH         Come sul serio? Sono sempre seria Dorina te lo chiedo, che ne pensa lei di quest’unione?

DORINA                             Ma non ti rendi conto? Un falso devoto come lui! Lei l’ha ben capito e preferirebbe morire piuttosto che sposare un tale uomo.

LADY MACBETH         Perché una parola così forte per descriverlo?

DORINA                 Stiamo parlando di un bugiardo. Il ment comme il respire.

LADY MACBETH          Che esagerazione, cara Dorina.

DORINA                                    (cercando di rimanere calma) Dici? Andava tutti giorni a “pregare” in chiesa. Lui e la sua ipocrisia. Alla fine, questo manipolatore cercava di prendere i soldi di Orgone. Com’è possibile essere così naivo? C’è l’hai la risposta tu? Je me fais un sang d’encre pour Marianna

LADY MACBETH       Strano…Ma sai, molte sono le persone facilmente influenzabili. Sai, quando l’affetto si mescola alla ragione… è difficile resistere.

DORINA                                Mais c’est un menteur ! Un hypocrite ! Un charlatan ! Un escroc ! Un fallacieux et un tricheur! Il più grande ipocrita che il mondo abbia mai conosciuto.

LADY MACBETH                      (illuminata da un’idea) Mmmm… A questo punto, ragazza, ti direi di agire.

DORINA                                        (con aria pensierosa) Non so cosa fare. Provo sempre ad essere neutra però mi sembra proprio impensabile lasciare che un simile comportamento venga attuato ai danni di Marianna.

[Lady Macbeth finge di pensare]

DORINA                       Sì? Hai qualche idea?

LADY MACBETH    Sto pensando. Infatti, se quest’uomo ti sembra bugiardo… Consideriamo che l’ipocrisia è un vizio terribile dell’essere umano. Sicuramente uno dei peggiori.

DORINA                     Non “mi sembra”! Lo è! Non sono l’unica a vedere in lui vizi terribili.

LADY MACBETH         Sai?

DORINA                       Cosa?

LADY MACBETH                   (con una certa determinazione) In questo caso devi agire.

DORINA                       Mi piacerebbe, e… Dovrei agire… Sì. Devo farlo. Ma come fare? Che fare contro la follia di qualcuno? Contro la sua passione? La sua persuasione?

LADY MACBETH      Contro la manipolazione è molto difficile lottare.

[Dorina sospira mostrando il suo sconforto]

LADY MACBETH         Però la causa non è persa, non disperare. Una soluzione   c’è. Una sola…E definitiva.

DORINA                                     (con una luce di speranza negli occhi) Sapresti indicarmela, tu, in questa situazione?

LADY MACBETH          Ovviamente. Ho un’idea, però…devi fidarti di me.

DORINA                      Ti prego, Lady, dimmi: a cosa pensi?? Che in questa situazione precisa mi sembra difficile trovare così facilmente una risposta.

LADY MACBETH          Ascoltami, questo matrimonio, nessuno lo vuole vero?

DORINA                    Tranne…

LADY MACBETH               (eccitata, interrompe Dorina) ORGONE!

DORINA                                (rimane interdetta, mentre stava per prendere parola) Mmm sì. Esatto.

LADY MACBETH          Penso di averlo capito. Allora il problema deve essere sostituito.

DORINA                      Non riesco a capire il fondo del tuo pensiero.

LADY MACBETH          Lo devi eliminare.

DORINA                      Eliminare?

LADY MACBETH          Lo devi cancellare, se preferisci…

DORINA                      Cancellare?

LADY MACBETH                           (iniziando a perdere la pazienza)  Dai, farlo sparire !

DORINA                      In che senso?

LADY MACBETH          Ti prego, dimmi che mi stai prendendo in giro?

DORINA                       In che modo: “farlo sparire”?

LADY MACBETH       Mi hai capito, Dorina. Ti sto dicendo di uccidere quest’uomo.

DORINA                             Ucciderlo? Tu es folle?

LADY MACBETH       Pensa alla vita, alla vita che potrebbe avere la tua amica.

DORINA                      Ma ti rendi conto? Prendere la sua anima umana? Non potrei mai.

LADY MACBETH         Un’anima così brutta? Sei un paradosso vivente… Che grande perdita per l’umanità.

DORINA                     Ma, è troppo radicale. Sarei io in questo caso ad essere toccata dalla follia e dalla passione.

LADY MACBETH                (convinta) No, no, no! Al contrario …

DORINA                      Tengo alla mia libertà. Non posso nemmeno pensare all’idea di sentirmi in colpa di qualcosa del genere. Tengo alla mia innocenza. Alla mia purezza. Non vorrei avere un’anima macchiata di sangue.

LADY MACBETH        Ma che colpa? Se nessuno lo sa? Fingi un banale incidente. Non sarai mai giudicata come responsabile della sua morte. Figurati, non ti sto dicendo di filmare la scena e di diffonderla sui social. Un mezzo per ucciderlo in discrezione si trova facilmente.

DORINA                     Ma io lo saprei… Non voglio dover passare la fine dei miei giorni accompagnata da questi mostri che sono i rimpianti.

LADY MACBETH      E quindi? Va bene… Lascia andare. Lascia questa ragazza sposare un demonio, e Orgone continuare a essere accecato da quest’ultimo.

DORINA                       E allora? Io impazzirei, Lady…

LADY MACBETH            Hai la possibilità di creare un nuovo destino Dorina. La possibilità di salvare una giovane ragazza dallo spendere un’intera vita con l’incarnazione del vizio e del male. Hai la possibilità di rendere qualcuno felice. Hai la possibilità di cancellare da questa terra una persona che l’inquina ogni giorno.

DORINA                             (con un’aria disperata) Lady, basta per favore.

LADY MACBETH            Ci devi pensare. Io e te, unite da un segreto. Saremo unite per sempre dal bene che abbiamo compiuto.

DORINA                      Che bello. Unite… Ma ti senti? Unite dalla morte?

LADY MACBETH          Ascoltami. Cosa cambia, alla fine, se nessuno non sa mai la verità? Voglio dire? Nascondi questo in una profonda parte di te, della tua anima. Per sempre. Un giorno avrai dimenticato, e questo segreto non esisterà più su questa terra. Fallo vivere in te per un po’, e poi sparirà. Un atto non definisce una persona. Sarai sempre Dorina, avrai sempre lo stesso ruolo. Lo stesso corpo e la stessa apparenza. La società ti vedrà sempre con gli stessi occhi. Chi, vedendo il tuo dolce volto, potrebbe immaginarti assassina? Chi sarebbe interessato dal fatto di conoscerti abbastanza per scoprire che hai ammazzato qualcuno?

DORINA                     Ma nella mia mente… Non potrò più continuare a vivere.

LADY MACBETH        Quindi mi stai dicendo che nessun’altra cosa ha d’importanza che i tuoi propri sentimenti? Non funziona così, sai. L’essere umano è dotato di uno spirito, e per fortuna, quest’ultimo non può conoscere davvero solo che il proprio. L’unica cosa che devi fare è agire in un modo tale che nessuno lo possa vedere vedere. Non lasciare trasparire un raggio del tuo senso di colpa.

[Dorina rimane in silenzio.
Non sa cosa rispondere. Si mostra preoccupata]

LADY MACBETH          Si à la fin personne ne le sait ? Perché non addattare la tua propria visione, a quella della società? Se nessuno lo sa, tu nemmeno non lo sai?

DORINA                                           (diventando dubbiosa) Lady Macbeth, davvero, mi sento in colpa a essere in dubbio.

LADY MACBETH            Allora accetti?! Fallo!  Non concentrarti sulle conseguenze. Non pensare alla tua colpa dopo averlo fatto. Quella, dalla tua anima, sparirà. Fingendo la tua innocenza, rimarrai innocente.

DORINA                      Ci penso. Ma ora sento già questa terrore e questa… questa.. Cette Culpabilité. Avec un grand C.

LADY MACBETH         Hai dei destini fra le mani Dorina. Io sono al tuo fianco. Ti aiuterò con questi sentimenti che sono, nella mia percezione, in questo caso, irrazionali: non si tratta di fare qualcosa di male, si tratta di bene, in questo caso.

DORINA                                         (preoccupata) Mi aiuti?

LADY MACBETH                    (sorpresa) Accetti?

DORINA                      Sento che devo agire.

lady macbeth                   (con un’aria soddisfatta) Ti fa arrabbiare. Quest’uomo ti fa arrabbiare. Si vede, e mi sembra legittimo. Il suo comportamento è bruttissimo e immorale. Alla fine, lottare contro l’immoralità, è giustificato no?

DORINA                     Lottare contro l’immoralità, essendo immorale?

LADY MACBETH              Allora, ascoltami bene. Non dobbiamo perdere troppo tempo, prima che Orgone prenda una decisione deplorevole.

DORINA                      Dimmi?

LADY MACBETH             Ce soir, tu dois l’assassiner. Prima della cena. Ci dobbiamo organizzare. Lui non vi deve giungere questa sera alla cena. Non deve rovinare un altro momento. E per te, il più presto sarà il meglio. Lo scopo è di agire prima di pensare troppo, e di cambiare idea.

DORINA                      Mais, ça ne va pas ? Questa sera è troppo presto per me. Devo preparare la mia mente.

LADY MACBETH           Più aspetterai, più quest’azione peserà dentro di te….

DORINA                                           (interrota da LadyMacbeth) Ma…

LADY MACBETH             …Più quest’ultima darà importanza a questo gesto.

DORINA                      Tu as raison. Ce qui est fait n’est plus à faire.

LADY MACBETH           Quindi direi di riflettere.

DORINA                      A proposito di cosa?

LADY MACBETH              Je ne te pensais pas si stupide, Dorine! Dobbiamo riflettere a un modo chiaro per procedere. Questi vizi meritano qualche dolore…

DORINA                      Forse hai ragione.

LADY MACBETH         Ce soir, une étoile supplémentaire viendra rejoindre le ciel. Mais celle-ci ne brillera pas. Et ne brillera jamais. Il ne le mérite pas. Diventerà un ricordo. Un sogno brutto appartenant au passé.

DORINA                      Un sogno brutto, di cui, ogni notte sognerò.

LADY MACBETH          Un sogno. Solo un sogno. Intangible.

DORINA                      Nous devons le faire. Non possiamo più tornare indietro. Questo vizioso non merita di esistere.

LADY MACBETH              Dai! Deve rimanere un brutto ricordo!

DORINA                      Faisons-le ! Tuons-le ! Nella famiglia, tutti sperano di vederlo morto. Tutti si augurano di non vederlo, mai. Plus jamais.

LADY MACBETH           Brava Dorina, sono contenta di sentirti così ragionevole. Ora, mi devo truccare. Bisogna che mi camuffi un po’ per affrontare questa giornata che mi sembra piena, dati gli eventi che ci aspettano.

Lady Macbeth esce e se ne va
con un passo rapido e sicuro di sé.
Dorina rimane sola nella stanza.

DORINA                                  (parlando tra sé e sè)  Dorina, Dorina, stai calma. Lo uccidi, e lui diventa un sogno. Lo sai. Lady Macbeth te l’ha detto. Le devi credere. Non avere paura. Si tratta solo di un sogno. Suis-je moi-même en train de rêver ? Sono in un sogno. Sono in un incubo. Ucciderò? Non ucciderò nessuno. Mi devo svegliare. Mi devo svegliare…

Entrano i cantanti

[Chorus x2]

The wind’s gone down, I wonder why
it didn’t take my sins away,
The morning rain clouds up my window
but the memories remain,
And even if I could erase them all
time will judge my broken soul,
It will remind me,
that it’s all so bad, it’s all so bad

[Verse 2-Tartuffe]

Amen brothers, it’s time to pray,
let’s praise the Lord for his gifts and words that never lead us astray,
Mais oui, je vous confesse,
it wasn’t easy to preach without a roof above my head
but then I guess,
the Lord saw it all and gave me shelter,
that’s why I can’t give back all of the things that made me better.
What? You really think that I don’t have morality?
The Heavens gave me sanctity and you’re questioning is valency,
just think about it,
how can I be here today?
After defrauding a man if it wasn’t for Godness’ sake
and let’s say,
that all I did I did it for love
that yes I have sinned but look now how far have I come
and it’s on,
it’s not my fault that people are gullible,
they start to trust a stranger and then try to make him culpable
but overall,
Orgone you bathe in hypocrisy,
you first want me in your house
just to then kick me out of it,
and why is it?
Yes I tried to seduce your wife,
but you gave me permission to stay with her at all times
and I tried,
to stay away as much as I could
I tried to be a good guest and just preach The Word as I should,
and you know,
I would’ve kept on doing it if you hadn’t kick me out,
should I refresh your memory you made me owner of this house.
So now, let’s leave the past in the past
and don’t you worry Orgone
I’m sending the King your regards.

Escono i cantanti

Atto II

Scena i

 [Casa di Orgone. Sala da pranzo.
I personaggi sono seduti al tavolo per festeggiare il compleanno di Orgone]

MACBETH                    Secondo te cosa si mangia stasera, Alceste?

ALCESTE                     Pare uova al tartufo, risotto al tartufo, arrosto tartufato…

ORGONE                      (Avendo sentito) Molto spiritoso! È già tanto se ho accettato di invitare quel criminale al mio compleanno.

ALCESTE                     Hai fatto bene, è stata una scelta matura.

MACBETH                    Spero tu non abbia invitato nessun fantasma

ALCESTE                     (Fa un cenno con la testa verso la strega) No, però ha invitato una strega. Dopo le vicende tra Orgone e Tartufo, il nostro caro festeggiato ha avvicinato ogni tipo di indovino o santone: forse per paura di ricadere in altri inganni. Insomma, è passato dalla padella alla brace, secondo me.

MACBETH                    Ah non me lo dire, sono un esperto in materia. Ne avuto ho abbastanza di queste ambigue figure.

LADY MACBETH        Già… ma, hey, tornando a Tartufo: non si è fatto ancora vivo.

DORINA                     Strano! Di solito è il primo a sedersi a tavola e l’ultimo ad andarsene!

ALCESTE                     Ah pover’uomo!

MACBETH                    Oggi sei molto simpatico per essere un misantropo!

ALCESTE                     E tu molto chiacchierone per essere un morto.

MACBETH                    Sto iniziando a preoccuparmi, è già un’ora che lo aspettiamo… sarà meglio chiamarlo.

STREGA                       Non ce n’è bisogno, parla, domanda, ti risponderò

MACBETH                    Parla fattucchiera dov’è Tartufo?

STREGA                       Tre volte il gatto tigre ha miagolato
Tre e una il topolino ha squittito. E l’arpietto ha gridato: “È l’ora, è l’ora”. Un fiume rubino è sgorgato dalle pendici del suo colle. Una famiglia rispettata viene colpita da un terribile morbo. Il padre nasconde un passato rancoroso, il fratello fugge lontano e il nonno ringiovanisce per un momento. Questa sera Tartufo mangerà al banchetto dell’inferno.

ORGONE                      Finalmente una buona notizia!

ALCESTE                     Orgone ma ti sembra il caso?

DORINA                       Oh pover’uomo!       

MACBETH                    Rimani, incompiuta parlatrice, dicci di più. Chi ha ucciso Tartufo?

STREGA                       Di raccontare ancora non c’è bisogno. Non così felice, eppure più felice, il falso devoto inganna, ma è sincero.
L’assassino oggi parlerà e ha parlato.

ALCESTE                      L’omicida è tra di noi? Chi è stato parli subito!

MACBETH                    Potrei pensare a vari sospetti qui presenti, compreso te Alceste.

ALCESTE                      L’unico assassino seduto a questa tavola sei tu Macbeth!

MACBETH                    Io non avevo motivo di ucciderlo, tu invece Alceste odi i bugiardi, e noi qui presenti sappiamo tutti che lui lo era ampiamente. Ti proclami misantropo, dici di odiare tutti, di voler vivere recluso, ma sei sempre da qualche parte. Sempre a qualche ricevimento o a casa di qualcuno. Ma soprattutto sei sempre a tuo agio ad essere al centro dell’attenzione.

ALCESTE                      Oh questo tiranno come si scalda! Non vedevo l’ora di sentire la predica di questo clemente e pio carnefice. Macbeth, abituato come sei, avresti potuto compiere un ultimo delitto. Magari istigato da quella manipolatrice di tua moglie.

LADY MACBETH          Non osare accusarmi! Ha ragione mio marito nel sospettare di te! (Fermandosi a pensare. Pausa) Oppure… oppure potrebbe essere stato Orgone, che ha gioito appena si è saputo della morte di Tartufo.

ORGONE                       (Nervoso)Giuro che non ne so nulla! Sarebbe assurdo uccidere qualcuno in casa propria, andiamo. Lady Macbeth, machiavellica come sempre, accusa a destra e a manca

MACBETH                    Bada a come parli di mia moglie, Orgone, anche tu e Dorina sareste una perfetta coppia di assassini.

DORINA                       Lo odiavo, questo è sicuro, ma non mi sarei mai spinta a commettere un delitto!

LADY MACBETH          (Scocciata) Oh tesoro, qua in mezzo Dorina è l’ultima persona sospetta. Sarebbe troppo debole anche per uccidere una zanzara che le ronza intorno! (Tirando un’occhiataccia a Dorina)

MACBETH                    Qui qualcuno sta mentendo spudoratamente! Ho la testa piena di scorpioni per tutti questi discorsi!

ALCESTE                      (A Macbeth) Chissà perché tua moglie si prodiga a difendere Dorina… che l’abbia istigata a uccidere, come ha fatto con te? O forse ha istigato Orgone…  Sarebbe stata capace di manipolare anche l’anima più pura!

[Macbeth afferra un coltello dalla tavola
e lo punta al collo di Alceste
]

MACBETH                    Basta! Non aggiungere altro o farai la fine di Tartufo!

ORGONE                      (Avvicina la mano al braccio di Macbeth) Fermati Macbeth! … Dorina, vieni, andiamo via! Lasciamo che se la risolvano da soli.

DORINA                      (a parte) Ci siamo tutti fatti un’idea sbagliata l’uno dell’altro. (Pausa. Con solennità) Volevamo cenare tra sconosciuti.

Orgone e Dorina escono

ALCESTE                     Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Macbeth… uccidimi e mi darai ragione.

[Macbeth è esitante]
Dopo un momento di pausa, Alceste esce

MACBETH                    (di spalle, ad Alceste) Comunque non ti avrei fatto nulla!

Entrano i cantanti

[Chorus]

[Verse 3-Alceste]
Honesty, it’s hardly ever heard
I forgot how long has been since I last saw her on this earth,
“You have my word”
she said while giving me her hand,
but how can I trust her when the world is going mad
it’s just so sad,
seeing all these people lie to me
they smile at me
they search for me
they think that I’m an oddity
how can I be
when I’m the only one with a little bit of sanity,
I’m gasping for air to breathe and a few words of sincerity.
“Et ne veux place en des coeurs corrompus”
even though that changes when I think about you,
Celimène,
how can I love you if you don’t want me to stay,
when you write to other men trying to keep me at bay.
Mon dieu! I feel so sick of this world
I’m seeing lies and decay as they utter every word,
and I know,
you people tell me that we live in a society,
I saw how people act in it so why would I be part of it
it’s startling,
and yeah you say that I don’t have no friends?
I’d rather be alone than spewing lies as they were sand.
No it didn’t work for me trying to live in the present
so I decided once and for all I’m gonna live in the desert,
but I still,
hope you know that there’s no Truth in this world,
that when you sleep you hear my voice condemning every word,

I hope your conscience eats at you and just know that you will never deserve,
at place at my table and another one dans mon coeur.
So now…

Escono i cantanti

Scena ii

 [Casa di Orgone. Sala da pranzo.
In scena sono presenti solo Macbeth, Lady Macbeth e la Strega]

LADY MACBETH         Sarai soddisfatto. La tua indole non fatica mai a tornare a galla. Dopo Tartufo, Alceste è dunque il prossimo sulla tua lista, ho capito bene?

MACBETH                     Ma di cosa parli?

LADY MACBETH   Ora fingi di non capire, come al tuo solito!
Tartufo era un ostacolo, e tu lo sai.
Non è il tuo più grande piacere uccidere, ben più di governare, delle ricchezze, delle amicizie, degli amori o anche persino del respirare?

MACBETH                    Che assurdità! Tu dici sempre assurdità. Intendi dirmi che sono un mostro? Effettivamente non hai tutti i torti. Mi sono macchiato molte volte le mani. Il liquido denso impregna le dita, e non viene mai lavato via. Ma con ciò: non amo uccidere, faccio solo quello che è la cosa giusta…

LADY MACBETH           Togliere la vita ad altri per aumentare la tua?

MACBETH               Basta, ti prego. Non me lo merito; nemmeno tu lo meriti, ma a differenza mia, continui a spremere il succo dalle viscere degli altri, con il veleno letale della retorica e per le azioni altrui. Perché ancora? Non bastava tutto quello che abbiamo già fatto?

LADY MACBETH         Ora usi il plurale. Davvero non mi sbagliavo sul tuo conto. Nemmeno farsi carico delle proprie azioni, bisogna spalmarle sulla moltitudine. Sei proprio un uomo a pezzi, Macbeth. Se uomo ti si può definire. (Ride e beve un sorso da un bicchiere)

MACBETH                   Non riesci a concepire il male fatto? Continui a ferirmi, invece di comprendere. I tuoi sono sintomi di pazzia… allora non mi sbagliavo, anche la tua coscienza è derelitta e frammentata. Ti aggrappi al gioco della derisione; tu non stai bene. Mi chiedo se sei mai stata bene.

LADY MACBETH          Bene come un cristallo ancora non toccato dalle sozze mani dell’uomo. Sei tu quello problematico, caro. Continui a criticarmi, ma ho fatto quello che andava fatto. Tu non avresti agito diversamente, ed anzi avresti frantumato il suo cranio in prima persona.

MACBETH                  Non so dirtelo. A questo punto neppure io so cosa sarei capace di fare, con le giuste condizioni.

LADY MACBETH          Visto! Mi dai ragione. Sei fragile, Macbeth.

MACBETH                   (Macbeth, sentendosi sopraffatto dalle emozioni, va sulla difensiva alzandosi dal tavolo)  E tu sei folle! Non c’è troppa differenza tra te e quella strega laggiù!

LADY MACBETH          Senti come si permette!

MACBETH              Perché non aggiungi un’altra anima alla tua danza macabra? Sono proprio qui!

LADY MACBETH         Avessi voluto ucciderti, l’avrei fatto molto tempo fa. Sei solo un inetto e dunque non ho sentito il bisogno di aggiungerti alla mia collezione di ossa.

MACBETH                    Mi aspetto un giorno qualcuno che venga ad uccidermi! Sarai tu la tessitrice del regicidio, e di questo ne sono più che sicuro. Un re che si sporca le mani spesso non finisce il proprio regno morendo di vecchiaia. Dopotutto, è strano vedere un tiranno sul suo letto di morte.

LADY MACBETH          Un re, un re… non pensi ad altro che al tuo potere! Vaneggi sulla tua onnipotenza. Basta Macbeth, stiamo dando orribile spettacolo di noi.

MACBETH                        Ora fai la persona mesta? Guarda un po’, l’istigatrice che diventa la diplomatica!

LADY MACBETH          Non ti riconosco più, ti stai scagliando contro di me senza riguardo. Dov’è finita la nostra stima l’uno per l’altra?

MACBETH                    Non c’è mai stata, ecco tutto.

LADY MACBETH         Sentilo un po’. Non facevi così quando ti ho aiutato a diventare l’uomo più grande di tutta la Scozia. Mi fai male, Macbeth.

MACBETH                   E faccio bene; considerando che, alla fin fine, forse sei stata proprio tu a uccidere Tartufo!

LADY MACBETH         Le tue parole sono ustionanti, mi rifiuto di credere che tu mi stia accusando. E se fossi tu l’assassino, come sono ben portata a credere?

MACBETH                  Litigare con te mi fa sentire peggio di prima! Non voglio più vederti; Non voglio più vedere nessuno.

LADY MACBETH           Nemmeno io, e spero di smarrirmi in qualche caverna, per non vedere più la luce del giorno e la sua immensa falsità.

Lady Macbeth esce

In scena Macbeth accasciato sulla tavola e la Strega vicino.

Entrano i cantanti

[Chorus]

[Verse 1-Macbeth]
Another day, another sun, another victory at last
except this one’s took out my pride and then the glory of my past,
‘cause blood I used to see
in battlefields and around me,
but never once I thought it would’ve brought me to insanity
and still,
I couldn’t help my hand from moving
I feel the knife still plunging deep and then some voices speaking to me,
I got choked up by my ambitions
I let them out and make me vicious,
yes they bewitched me with some promises that clouded up my vision.
And yet, was I really wrong,
if they fate crowned me king I think the deed really had to be done.
Again, why am I so restless?
The blood that’s on my hands sits on my wife’s hands too,
weren’t we to careless,
Yeah, ‘cause I hear whispers in the dark
they sing melodies for me, it’s like I’m being torn apart
and have I missed the mark,
I’m seeing ghosts sit on my throne
and why, why can’t I move on
and my mind feels like it’s gone
and now…

Atto iii

Epilogo

 [Casa di Orgone. Sala da pranzo.
In scena sono presenti solo Macbeth e la Strega]

STREGA

Shhh! Zitti tutti!
Silenzio!
Non fiatate!
Nessuno di voi è degno di proferir parola
Nessuno di voi ha il diritto di giudicare.
Nessuno di voi è innocente.
Vergognosi sono i vostri discorsi.
Abominevoli sono le vostre azioni.
Oltraggiose sono le vostre brame.
Le ambizioni, l’ipocrisia e l’ignominia
hanno raggiunto il parossismo.
Non si può più tornare indietro!
Riparare il delitto commesso è ormai impossibile!
Adesso vedo l’orrore nei vostri occhi,
il tremolio nei vostri corpi,
il sangue nei vostri vestiti.
Si sta contorcendo dentro di me
un essere immateriale,
sento il sibilo di un serpente,
che ha bisogno di uscire fuori per parlare.
È Tartuffo,
il morto che ha ansia di vendetta.
Lentamente si sta impossessando del mio corpo.
Vuole gridare, rivendicare,
difendersi dalle vostre accuse profane.
Si sente isolato, tradito e maltratto!
Tutti che lo accusano della sua finta devozione,
della sua falsità e della sua flatterie!
Voi che giudicate, siete altrettanto colpevoli.
Macbeth, l’ossessivo.
Lady Macbeth, l’istigatrice.
Orgone, lo sprovveduto.
Dorina, la pianificatrice.
Alceste, il moralista.
La vostra sporca coscienza è nascosta
nelle innumerevoli sinapsi cerebrali.
La vostra morale è corrotta dai vizi della società,
I vostri sogni sono intrisi di tossicità
I vostri progetti sono contaminati dalla vostra cecità.
Il vostro agire vi ha ingannato,
la malvagità vi ha confuso,
adesso siete disorientati, terrorizzati, stravolti.
Tutto è fuori dal vostro controllo.
Ora è giunto il momento
di accogliere qui il nostro defunto
in questa cena di disgrazia.
Vuole lasciare un messaggio di verità e speranza
anche se la sincerità
non è il suo cavallo di battaglia.
Vuole confessare tutto
anche se per lui è una missione ardua.
La sua ansia di rivincita è incontenibile.
Rimane la sua testimonianza ancora da sentire.
Ascoltate, udite e aprite le orecchie.
Il morto parla, Tartufo parla.

MACBETH  

Ma che diamine sta succedendo! A che mostruoso spettacolo sto assistendo? Venite tutti a vedere la strega che si sta muovendo! Non capisco bene che cosa sta blaterando. Qualcuno si sta impossessando di lei sul serio o per finta? Sarà il nostro Tartuffo infuriato responsabile di questa trasformazione ripugnante? Se sei veramente tu, allora parla. Siamo tutti curiosi di sentire la tua versione dei fatti.

Tutti i personaggi rientrano

TARTUFO 

[La strega recita il monologo di Tartufo à-là Kurosawa.
Viene quindi doppiata da un attore esterno che presta
la voce al personaggio
]

Tartufo io sono,
dal mondo dei morti provengo.
Difendermi voglio da tutte le accuse vostre.
A tutti perdono chiedo per le mie malefatte,
Accusano tutti e nessuno scusa chiede.
Nessuno confessa, nessuno svela.
Umana l’ipocrisia è.
Mortali i complotti sono.
La futilità della vita la morte mi ha insegnato:
come una foglia secca d’autunno che trema;
come un’immagine che nel tempo si scolora;
come una crepa sul muro che crolla.
Ripetutamente i vostri commenti insensati mi tormentano.
Coerente nella mia ipocrisia sono stato fino alla morte.
Senza sosta rivedo il sangue che fuoriesce dalle vene
e dipinge di rosso vermiglio le pareti, il soffitto e la porta.
Gli occhi che sporgono
come un bruco dalla polpa di una mela
io immagino.
Improvvisamente in un buio assoluto
io mi spengo.
Il corpo più pesante
e l’anima più leggera sento.
Tutto in un misero secondo,
la vita l’ultimo respiro sofferto mi ha tolto.
Per ottenere pace e riposo
smascherare i vostri perfidi cuori devo.
La retorica tante menti ha manipolato
ma dal tragico destino
non mi ha salvato.

Diversamente da me,
voi viventi avete l’opportunità
di correggere i vostri errori,
di cambiate la vostra condotta,
e di rispettare i morti.
Giudicate voi:
è giusto incolpare a dismisura
la falsità di un individuo
senza interrogarsi sulla propria coscienza?

Escono tutti

Entrano i cantanti

[Verse 4-Conscience]

Yeah, now everything is bad
and I’m sorry dear viewer for let you witnessing this mess,
and let me stress,
I live inside every one of you,
and you’re capable of doing things you thought you’d never do.
What do you say?
“That’s not true, I could never be a murderer”
Except remember that before that Macbeth was a nobleman,
and then again,
Tartuffe was a man just like you,
then he started scamming people and his soul now is doomed,
and I could,
try to warn you when the time will come
you just have to listen to me or your chance will soon be gone,
are you strong?
You have to see beyond every issue,
how much are you ready to loose to fulfill your ambitions
in addition,
Arrogance is clouding your vision,
you’re not as truthful as you think you are,
it’s not your condition,
but don’t worry,
if you’re nurturing your very obsessions,
like Alceste’s you’ll end up all alone in the desert.
Now tell me,
just what is it, what is making you so sad?
Are you hearing my voice anytime you see your eyes go red,
are you trembling in sin every time you go to bed,
do you think about your death bed or you think you’re going mad,
do you think about your past
when you feel your soul collapsing,
did you think your life would last
only the moment of a heartbeat.
Now I’m sorry for you
but I did everything I could,
you should’ve thought about it
before your mind crushed onto you.
And now… it’s up to you.

Sipario

…TUA, B.

Schettino Martina, in questa sua composizione, rielabora il concetto di colpa e peso della coscienza sotto forma diaristica, riportando i pensieri più intimi e profondi di una giovane protagonista, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B mod. 1 Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Ho sentito un brivido lungo tutta la schiena; il modo in cui ha pronunciato quelle parole, il suo sguardo che è improvvisamente diventato vuoto… è stata solo una mia percezione?”

*

22/09/2022

Caro Diario,

Eccomi, sono arrivata nella mia nuova casa! Finalmente, non vedevo l’ora!. L’Inghilterra è spettacolare, sono così contenta di essere qui. L’appartamento non è grandissimo ma ho un’intera, spaziosissima parete per la mia libreria. La mia coinquilina, Lizzy, è molto simpatica. Mi ha fatto fare un tour della casa e mi ha già dato qualche informazione sulle varie feste che i suoi amici hanno in programma. Per ora voglio concentrarmi sulla sistemazione della mia roba e voglio prepararmi per l’inizio delle lezioni. Mancano solamente due settimane; mi sento agitata ma al tempo stesso sono emozionata. È il mio sogno da sempre! Oxford! Ancora non ci credo, che gioia! Datemi un pizzicotto o crederò ancora di essere in un sogno. Adesso vado, ne approfitto per chiamare mamma ora che Lizzy è sotto la doccia
Tua, B.

07/10/2022

Caro Diario,

sono tornata, prima settimana di lezioni. Ho smesso di scrivere per un po’… mi dispiace, so bene che la scrittura mi aiuta tanto, eppure in questi giorni sono stata così impegnata. Tra l’inizio delle lezioni e le presentazioni ai tantiamici di Lizzy (dire tanti è un eufemismo, non so come questa ragazza riesca a intrattenere tutti questi rapporti sociali, costantemente…), non ho avuto un attimo di tregua. L’appartamento è finalmente sistemato, io e Lizzy lo abbiamo reso molto carino. Anche a mamma piace molto. Ho ancora una lezione per oggi, storia inglese. Il professore è simpatico e si vede che mette molta passione in quello che fa. Abbiamo iniziato dalle origini della storia inglese, dai Britanni alla conquista dell’Impero romano. Una settimana stancante ma molto produttiva; la professoressa di English ci ha già assegnato un saggio da scrivere su Beowulf… vado a lezione.

h. 19 sono in camera, Lizzy è appena tornata con il suo fidanzato, non sembra che le cose vadano molto bene tra loro. Lei piange, penso stiano per chiudere la relazione, mi ha confidato che è da qualche tempo che le cose tra loro non vanno bene.

10/10/2022

Jordan e Lizzy non si sono lasciati. Io sono a metà del mio saggio di Beowulf e in ritardo per la mia lezione di Storia Inglese ciaoo.

11/10/2022

Caro Diario,

ho dormito male questa notte; Lizzy è tornata tardi e ha fatto molto rumore, penso avesse bevuto troppo la sera. Continuava a ripetere un nome, o meglio, continuava a biascicare un nome, storpiando tutte le lettere che lo compongono; strano…

   13/10/2022

“If you could hear at evert jolt, the blood
Come gargling from the fourth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues, –
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
the old Lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.”

Wilfred Owen, uno dei war poets che preferisco in assoluto. La potenza delle parole con cui esprime il suo disprezzo verso i finti ideali sociali del tempo mi provoca sempre un’emozione indescrivibile. Spero un giorno di riuscire ad esprimermi in maniera così decisa ma allo stesso tempo elegante come Owen.

Il saggio è quasi terminato; per essere il primo vero saggio che io abbia mai scritto, sono abbastanza soddisfatta. Lizzy mi ha aiutata con alcune parti più tecniche, sto ancora perfezionando la mia scrittura saggistica. Ultimamente non sta molto bene, non capisco bene cos’abbia… sembra sempre sull’orlo di una crisi o un pianto, è spesso nervosa e molto moody. Quando provo a chiederle di parlarne ha come un sussulto e cambia velocemente umore e argomento, come se tutto il malumore che c’era non fosse mai esistito, se non nella mia testa. Questi suoi comportamenti mi confondono, non capisco perché si comporti così. Anche Jordan si fa vedere sempre meno in casa. Sarà successo qualcosa tra loro?

 15/10/2022

Finalmente è sabato! L’Università è stancante, un ambiente completamente differente da quello del liceo e gli ambienti scolastici inglesi sono così lontani da quelli italiani. All’inizio è stato veramente difficile ambientarsi, ma ho trovato delle persone fantastiche che non mi hanno fatto sentire sola un solo istante. Posso dire di essere la felicità fatta persona!

16/10/2022

Diario,

questa notte è successo qualcosa a Lizzy… è tornata nuovamente molto tardi a casa, piangeva e continuava a ripetere a qualcuno dall’altra parte del telefono che non poteva più sopportare questa situazione, era stanca e voleva solo dormire. Sono sinceramente preoccupata, ma come sempre non ha voluto parlarmene; neanche quando le ho detto che avrei provato ad aiutarla in ogni modo si è voluta liberare del peso che porta nel cuore. In effetti, ora che ci penso… inizialmente non ci ho fatto molto caso, ero stanca, appena sveglia e nel bel mezzo della notte. Ma ora, ripensandoci… mi ha risposto che a quel punto neanche Dio avrebbe potuto aiutarla. Ho un brutto presentimento, molto brutto…

21/10/2022

La situazione sta diventando sempre più strana. Lizzy è tornata quella di prima. Sorridente e spensierata com’era i primi giorni in cui ci siamo conosciute. È tutto sempre più strano. Come sono strane le persone che sta iniziando a frequentare. Si è allontanata da tutti i suoi amici e ora si è avvicinata ad un gruppo di persone… diverse. Non ho una bella sensazione.

Questa sera il professore di storia inglese non ci sarà a causa di un impegno, questo mi dà il tempo di completare un nuovo saggio a cui sto lavorando per il corso di Poesia e una relazione per il corso di Letteratura Americana. Quest’anno il professore vuole concentrarsi sulla letteratura di Hemingway. Adesso stiamo affrontando “The old man and the sea”; ho finito da poco la lettura di questo racconto spettacolare. Quanto mi affascina la scrittura di questo autore, non vedo l’ora di approfondirlo.

Sono in biblioteca, ho bisogno di prendere in prestito alcuni libri per vari corsi. Sinceramente non me la sento di tornare a casa, con Lizzy e quelle persone… mi mettono i brividi. Non capisco, è una sensazione che ho provato non appena hanno messo piede nell’appartamento…

Appunto di Lizzy ritrovato in un quaderno universitario:

Sadness.
Hopes.
Will she trust me again,
After all the things I’ve done?
-E.

09/11/2022

Diario,

sono finalmente più libera dagli impegni universitari; saggi, scritti critici, composizioni. D’altro canto però, Lizzy mi preoccupa sempre di più e occupa quasi tutti i miei pensieri. Ultimamente non torna a casa a dormire, non risponde a chiamate o messaggi e quando, dopo giorni, torna, la trovo sempre più smagrita, stanca, con profonde occhiaie scure sotto gli occhi. Anche Jordan è sempre meno presente, raramente lo incontro in casa… è successo solo poche volte e l’ho trovato profondamente cambiato. Non fisicamente, non è un cambiamento apparente. È qualcosa nella sua persona che sembra diverso, forse nel suo sguardo, nei piccoli movimenti che inconsciamente una persona compie quando si trova in un luogo dove non vorrebbe essere.

Forse sto sognando tutto, forse nulla di ciò che ho scritto sopra è reale; sarò influenzata dalla preoccupazione che provo per Lizzy…

15/11/2022

Abbiamo iniziato Shakespeare al corso di Letteratura Inglese! I’m not gonna lie, è uno dei miei autori preferiti. Sono affascinata dalle tragedie; è un mondo meraviglioso, ricco di piccoli dettagli che rendono la scrittura di Shakespeare così incredibilmente significativa. Tra pochi giorni inizieremo Macbeth. Ricordo ancora la prima volta che approcciai quest’opera. Ero nella mia vecchia camera, tra le mani il volume delle tragedie shakespeariane preso dalla biblioteca di mio nonno. Pagina dopo pagina, la fermezza e la perseveranza di Lady Macbeth hanno catturato la mia attenzione sin dall’inizio. È una donna che non si è lasciata intimorire da nulla, né sovrastare dal predominio del potere maschile che al tempo regnava sovrano nella società. Queste sono, però, le stesse caratteristiche che l’hanno portata alla rovina. Lady Macbeth non sopportava il peso del delitto che lei e il marito avevano progettato e commesso, nei confronti di un uomo buono e gentile.

Lady Macbeth si toglie la vita, consumata dalla sua stessa sete di potere.

20/11/2022

Domenica, il mio giorno preferito della settimana. Ho finalmente recuperato qualche ora di sonno perso in questi giorni di lezioni interminabili.

Ieri sera ho deciso di parlare con Lizzy; la situazione stava diventando insostenibile. Ci siamo confrontate a lungo; mi ha spiegato che tutte quelle persone sono amici di Jordan, conosciuti in un nuovo centro per artisti che aveva scoperto qualche mese prima. Mi ha anche confidato che per “entrare” in questo gruppo bisogna affrontare una cerimonia di iniziazione. Ho sentito un brivido lungo tutta la schiena; il modo in cui ha pronunciato quelle parole, il suo sguardo che è improvvisamente diventato vuoto. È stato un solo attimo, poi ha continuato a parlarmi come se nulla fosse successo. È stata solo una mia percezione??

La detective Campbell chiuse il piccolo oggetto che da ore stava sfogliando, ripetutamente, in cerca di un indizio, una traccia qualsiasi che potesse condurla a comprendere l’accaduto. Questo diario dava molti spunti di riflessione alla giovane detective; Miriam ripensò al lungo interrogatorio di Jordan Foster, il fidanzato di Elizabeth Wright. Pensieri veloci scorrevano nella mente della detective. Tra le mani aveva uno dei casi più difficili a cui avesse mai lavorato; si sentiva pronta, eppure l’agitazione penetrava ogni suo muscolo. Ogni cellula del suo corpo fremeva. Voleva chiudere il caso; le famiglie delle vittime erano distrutte, le si stringeva il cuore ripensando alle lacrime dei genitori quando aveva comunicato loro la notizia; lei però doveva concentrarsi. Lo doveva a loro; lo doveva a quelle povere ragazze.

La scena del delitto era già stata controllata più e più volte, dalla stessa Miriam e da altri poliziotti dello Scotland Yard presenti durante le indagini. Secondo le ricostruzioni, non ancora ufficiali, della vicenda, il giovane si era introdotto nell’appartamento di sera con la scusa di recuperare dei vestiti dalla camera della fidanzata. Secondo i programmi, sarebbero dovuti andare a cena fuori e poi si sarebbero trovati con degli amici di lui, probabilmente gli stessi amici descritti nel diario di Beatrice.

Jordan affermava di aver trovato le due ragazze già morte quando era entrato in casa, usando le chiavi che Elizabeth gli aveva lasciato. Il ragazzo restava comunque il principale sospettato. Chiudendo il diario, Miriam si rese conto dell’ora. Le 2:20 del mattino. Non riuscì a dormire quella notte. Le stava sfuggendo qualcosa, ne era sicura; un pezzo di quell’infinito puzzle che era la verità le mancava, solo che non sapeva come e dove cercarlo.

L’indomani si recò sul luogo delle indagini. Prima di entrare nell’appartamento fece un respiro profondo. Entrando, notò subito la scientifica alle prese con il soggiorno, dov’erano stati ritrovate le due ragazze. Sentiva ancora quella sensazione della notte precedente; la verità stava lentamente scivolando via. Miriam decise di controllare nuovamente quel posto, come se non fosse mai entrata lì prima, come se fosse la prima volta. Doveva concentrarsi su ciò che non era ovvio o scontato.

Ripensando al diario di Beatrice, decise quasi involontariamente di dirigersi verso la libreria del salotto. “Una bella collezione” pensò subito, sfiorando con le mani guantate i dorsi dei libri perfettamente ordinati. L’occhio le cadde sulla collezione dei volumi di Shakespeare; la detective ricordò che Beatrice stava studiando Shakespeare all’Università in quel periodo. Si recò verso quella sezione e notò un buco tra il “King Lear” e “Anthony and Cleopatra”. Non era mai stata appassionata di letteratura, e di certo non poteva sapere quale opera shakespeariana mancasse alla collezione. Si sfilò velocemente il guanto e cercò su Google la lista completa delle opre dell’autore inglese. Controllò i libri uno ad uno, fino ad arrivare al volume mancante; Macbeth. Nella libreria non era presente. Poteva trovarsi solo in camera di Beatrice. L’istinto di Miriam le suggeriva che valeva la pena seguire questa pista, e così fece. Andò in camera della ragazza e lo vide, impilato sulla scrivania insieme ad un sottile libricino di Hemingway e altri volumi. Senza pensare, come se fosse guidata da una forza esterna, aprì il libro. Un piccolo pezzo di carta scivolò sul pavimento, silenzioso. Inizialmente non fu notato da Miriam e rimase lì, sul pavimento. Nel frattempo la detective, sfogliando le pagine e leggendo distrattamente le varie note scritte a mano ai margini, notò che una pagina era stata segnata.

SEYTON

The queen, my lord, is dead.

MACBETH

She should have died hereafter.
There would have been a time for such a word-
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow.
Creeps in this pretty pace from day to day
To the last syllable of recorded time;
and all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury
Signifying nothing.

Una lacrima scese lungo la guancia di Miriam. Quelle parole l’avevano colpita profondamente, ma la nota a margine che accompagnava quei versi le fece gelare il sangue:

My time is coming
sooner than I thought.

Questa era la stessa scrittura del diario, la scrittura di Beatrice. La ragazza era consapevole di essere in procinto di morire? Se sì, com’era possibile? Qualcuno l’aveva minacciata? Jordan? Uno dei suoi amici? Elizabeth aveva cercato di avvertirla in qualche modo?

Chiuse il libro e si appoggiò alla scrivania; mille ipotesi, domande, pensieri fluivano correndo veloci. Miriam chiuse gli occhi. Questo complicava tutto. Aprendo gli occhi notò il foglietto fino ad ora ignorato, che era rimasto sul pavimento della camera.

Quel pezzo di carta apparteneva alla pagina del diario, la carta era la stessa. La detective era sicura di questo perché aveva maneggiato parecchio l’oggetto negli ultimi tre giorni.

Traduzione italiana della nota ritrovata nella copia del Macbeth appartenuta a Beatrice:

Questa nota è per Jordan, Michael e Susanne.
L’atto è compiuto, lei è morta.
Avete scelto una vittima per me, io ho obbedito ai vostri ordini.
Vederla lì, sul pavimento del nostro salotto, senza vita (vita che io le ho tolto!) mi ha destata dal sonno ipnotico in cui ero entrata.
La cerimonia che tanto bramavate è stata realizzata;
ma lei era mia amica.
Non posso vivere sapendo quello che ho fatto, quello che ho fatto per te, Jordan. Solo per te.
Addio,
Elizabeth.

*

Bibliografia:

William Shakespeare, Macbeth, Milano, Mondadori, 2021.

Wilfred Owen, Dulce et Decorum Est, https://www.raicultura.it/webdoc/grande-guerra/battaglia-somme/pdf/WilfredOwen.pdf

Haerēre

Guglielmo Ferroni rivisita la tendenza molieriana di rarefazione della trama di commedie, come Il Misantropo, in una pièce in cui verità e scherzo condividono labili confini, nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa breve pièce ho cercato di colorare di un tono teso e angosciante, attraverso un espediente semplice, una situazione frivola e priva di interesse e di profondità psicologica, facendo girare attorno al protagonista una schiera di maschere insipide e quasi irreali”.

*

Personaggi (in ordine di apparizione):

Una pecora in tassidermia

Elettra, cameriera e governante

Panfilo, giovane

Elvira, amante di Panfilo

Ettore, giovane, amico di Panfilo

Mercede, madre di Panfilo

Il Padrone, padre di Panfilo

Padre Evaristo, prete

Un cuoco

Interno di un salotto borghese parigino. Costumi e ambientazione in stile inizio Ottocento. Al centro della scena, un tavolo apparecchiato solo in parte. Dal soffitto pende, sopra il centro del tavolo, una pecora in tassidermia, grazie ad una corda che la tiene legata per una zampa posteriore, di modo che l’animale è in verticale e con il muso rivolto verso il pavimento; è libera di oscillare, ed è sospesa a circa un metro dal tavolo. Gli attori devono dare l’impressione di non accorgersi della presenza della pecora, né devono esserne turbati nel modo di recitare e negli spostamenti, salvo differenti indicazioni.

Sipario abbassato; inizia a suonare il I movimento della Sinfonia numero venticinque (K183) di Mozart. Il sipario si alza lentamente e due faretti posti al livello della scena, uno a destra e uno a sinistra, iniziano a lampeggiare ritmicamente. Dopo quaranta secondi o poco più si accendono le luci di scena e illuminano il palco. Dopo ancora qualche secondo, entra Elettra da destra, con in mano una pila di piatti; la musica continua ma a volume ridotto.

ELETTRA: Forza, non c’è un momento da perdere; il campanile ha da poco dato il suo rintocco, il sole schiarisce tutti gli angoli della stanza e il Padrone starà ormai rientrando… piatti, piatti, e i bicchieri, oh quante cose! C’è da sperare solo che quel ragazzaccio del cuoco non sia in ritardo nel preparare le pietanze, altrimenti chi lo sente, il Padrone? Io l’ho detto, fin dal primo momento, l’ho detto, io, che il ragazzo era un buono-a-nulla, ma chi la ascolta, Elettra? Ma io blatero, mentre il tempo scorre, e quanto scorre!

(La musica cresce di volume. Elettra inizia a mettere i piatti in tavola e ad apparecchiare con attenzione, mentre mormora tra sé e sé parole che non si sentono, e si muove veloce ma aggraziata; nel mentre, da sinistra entra, correndo delicatamente, Elvira, seguita da Panfilo. I due si rincorrono per qualche secondo senza parlare, solo ridacchiando ogni tanto. La musica si abbassa di volume e va a sfumare).

PANFILO: Elvira, smettila di farti rincorrere, aspettami! Ah, quant’è difficile il lavoro dell’amante, sottostare al padre e alla madre e perfino rincorrere l’amata come a una battuta di caccia… (Prende il braccio di Elvira, che si divincola ridendo e continua a farsi inseguire per gioco). Basta, rondine impazzita, fermati, fermati e fammi guardare quegli occhi che sembran mandarini… (Elvira esce da destra, Panfilo si abbandona con un sospiro su un divano che è in primo piano, sulla destra). Elettra, quanta grazia, quanta allegria oggi! Che quel nuovo cuoco ti abbia messo qualcosa di diverso dal solito, nel caffè?

ELETTRA (ironica): Quel cuoco non l’ha fatto e non me ne rammarico, signor Panfilo, visto che, come fin dall’inizio Elettra vi aveva fatto presente, egli combina solo guai. Non sono allegra, ma in ritardo! Piuttosto voi, la volete smettere di correre dietro a quella ragazza? Sono giorni che va avanti, e nel vostro viavai mi scombinate tutti i mobili e mi sporcate i pavimenti e…

PANFILO: Suvvia, non vi si può fare un appunto che subito vi mettete a punzecchiare!

ELETTRA: E sia, ma vedete di mettervi in ordine prima che il Padrone arrivi; sapete com’è quando…

PANFILO (stupito, guardando la pecora): E quella? Da dove spunta fuori?

(Pausa)

ELETTRA: Non capisco, signore.

PANFILO: Ma come non capite, Elettra! (Si alza di scatto e si muove verso il tavolo) Non state a prendermi in giro, o a far finta di nulla.

ELETTRA (verso il pubblico): Puah, prenderlo in giro… Davvero, signor Panfilo, io non capisco a cosa stiate facendo riferimento, e per di più sono troppo occupata per star dietro alle vostre sciocchezze.

PANFILO (indicando la pecora): Sciocchezze? E quella vi pare una sciocchezza?

(Elettra segue con lo sguardo la direzione verso cui il suo dito punta, guarda verso la pecora, poi guarda il pubblico, poi Panfilo)

ELETTRA: Lei sragiona e indica il nulla, signore. (Pausa) “A vous dire le vrai, les amants sont bien fous!”. Ora, se permettete, vado a prendere le posate per il pranzo… (Si allontana lentamente, guarda ancora una volta il giovane stranita e poi esce da destra; Panfilo, confuso, la guarda uscire e poi torna a guardare la pecora).

(Pausa)

PANFILO: Che sia… per caso… ma no, Panfilo, cosa vai a pensare! Chiaramente lo scherzo è ben riuscito. E che scherzo, davvero! Me la immagino per bene Elettra, o vai a sapere chi, girare tutte le botteghe della città per trovare questa… pecora! Certo mi rimane da capire perché, ma per il resto… ah, ma ecco che arriva Ettore.

(Entra Ettore, un giovane amico di Panfilo, ben vestito e baldanzoso)

ETTORE: Buongiorno, Panfilo. Deh, ma che pallido che siete oggi.

PANFILO: Su, Ettore, dimmi la verità, non mi si può gabbare a tal punto.

ETTORE: Non ti seguo.

PANFILO: C’è da dire, l’idea è originale, e mi chiedo cosa abbia spinto Elettra o te o vai a sapere chi a metter tanta cura nella preparazione dello scherzo, ve lo concedo… Ma ora basta e dammi una mano a tirarla giù, che quando arriverà mio padre non voglio che un oggetto di così cattivo gusto penda sopra la sua testa. (Pausa. Ettore guarda Panfilo non capendo) E va bene, stiamo al gioco. (Sospira) Ettore, buongiorno, per caso guardandovi intorno notate qualcosa di strano nella stanza, qualcosa che pende?

(Pausa. Ettore si guarda intorno)

ETTORE: Io davvero non… non capisco… cos’è questa cosa che pende? State parlando del lampadario per caso? Non sapevo lo disprezzaste a tal punto, e l’altro ieri quella giovane ragazza che avete preso con voi da poco è stata così tanto a lustrarlo, pendente per pendente; ma se davvero non lo sopportate…

PANFILO: Ettore! Basta! Ve l’ho detto, siete stati bravi e sebbene tu sia solo il secondo di oggi che sento recitare, perché sono convinto che Elettra o mia madre o… Ma non importa! Sì insomma state tutti facendo un’ottima prova da attori, ma basta, aiutami a tirarla giù o lo farò da solo.

(Pausa. Ettore guarda la stanza senza capire)

ETTORE: Panfilo, io non… Cosa volete tirare giù?

PANFILO (urlando): La pecora, Ettore! Questa maledetta pecora che vedi tu stesso, di fronte a te! PE-CO-RA.

(Pausa)

ETTORE: Amico mio, se state scherzando lo state facendo bene. E anzi, a dirvela tutta mi stavo quasi preoccupando! (Scoppia in una risata; poi si avvicina a Panfilo e gli dà una pacca sulla spalla) Suvvia, ora basta, ero passato per vedere come fosse la vostra salute e per sapere se foste infine giunto a una decisione sul matrimonio con Elvira, ma evidentemente (ridacchiando), evidentemente siete troppo impegnato con le vostre… pecore, o che so io! Beh, sempre meglio avere le pecore per la mente che le corna in testa… (ridendo) Vi saluto, Panfilo, e portate i miei saluti anche a vostro padre, mi è stato detto che sta arrivando; arrivederci a tra poco… (Esce da destra, sempre ridacchiando e ripetendo sotto voce “Le pecore… le pecore…”).

(Panfilo, immobile, guarda Ettore uscire. Pausa. Poi si gira verso il pubblico)

PANFILO: Sono… sono… (pausa) Sono tutti ammattiti, ecco cosa sono! Ma io dico, è mai possibile? Basta, questa scenata deve finire.

(Va verso il tavolo, guarda la pecora. Poi, sale in piedi su una sedia e si accinge a slegare il nodo che la tiene legata per la zampa. Entra Elettra, con le posate in mano)

ELETTRA: Panfilo, ma che state facendo! Su, forza, giù di lì. Sporcate la sedia con i vostri stivali, ma insomma! Che vi prende?

PANFILO: Elettra, devo ammetterlo, vi siete superata! Sì, è venuto veramente bene; è di buona fattura, e questa corda legata stretta stretta, e anche l’odore che emana, tutto davvero ben studiato, ma ora basta, la tiro giù.

ELETTRA: Ah, Panfilo, sempre a scherzare… ma che pallido che siete. Su, venite giù. (Inizia a mettere le posate di fianco a ciascun piatto)

PANFILO (a voce alta): No. Non scendo. Non finché non l’ho tirata giù e non mi raccontate il perché di tutta questa faccenda.

(Pausa)

ELETTRA: Ma cosa, cosa volete tirare giù? Smettetela di far finta di essere impazzito, sapete che su queste cose non si scherza! Ricordo di un mio zio, tempo fa, che…

PANFILO: Basta! Silenzio, taci! Tirerò giù questa pecora e tu la porterai via! Non sarò il padrone, o meglio non ancora, ma non mi si può mancare di rispetto così, anche se solamente per scherzare!

(Pausa. Elettra fissa Panfilo. Silenzio prolungato)

ELETTRA: Cheeeee? Una pecora? (Si mette a ridere) Questa vi è davvero uscita bene, signore! Vi va bene che oggi la giornata è bella e che sono di buon umore, altrimenti… cavolo, mi stavate spaventando! (Ridacchia ancora) Ora basta però, scendete da lì che devo…

(Panfilo salta dalla sedia al tavolo e sbatte il piede con prepotenza su di esso)

PANFILO (urlando): Smettetela! Come potete ancora fingere, schiava! Come osate appendere un animale morto sopra le teste di coloro che vi danno da vivere! Che il diavolo ti prenda, maledetta!

(Mentre urla, entra Mercede da destra. Donna sulla quarantina, vestita elegante)

MERCEDE: Allora, che cos’è tutto questo urlare, cosa accade? (Vede Panfilo in piedi sul tavolo) Figlio mio, che ci fai sul tavolo? Perché sbraiti tanto? E tu, Elettra, non gli dici niente?

(Elettra guarda un po’ impaurita Panfilo, che la sta fissando. Dopo una breve pausa, si sposta indietro e verso Mercede)

ELETTRA: Signora, stavo giusto per chiamarvi; già ho cercato, di farlo ragionare, ma egli per tutta risposta mi ingiuria e mi urla contro, al punto che sono indecisa tra la rabbia o la paura, perché è evidente che sia impazzito.

(Pausa. Mercede si avvicina sospettosa verso Panfilo, ed entrambi si fissano)

MERCEDE (lentamente): Ci guardiamo come fiere sospettose, figlio mio; perché mai?

PANFILO (calmo ma teso al tempo stesso): Non lo so, madre, ditemelo voi, ditemelo proprio voi che tirate in ballo queste metafore e parlate di fiere. Non ditemi, ve ne prego, che anche voi avete accettato di far parte di questo insulso scherzo che mi sta snervando. E non ditemi che voi stessa, padrona di casa, moglie di mio padre, avete accettato che questa carcassa pesasse sulla sua, sulla nostra testa, senza pensare alle conseguenze di un gesto tale!

(Pausa)

MERCEDE: Figlio… (pausa). Quale scherzo, quale carcassa?

PANFILO (urlando): Ci risiamo! Ancora! (Batte il piede sul tavolo come prima) Anche tu, Mercede, madre mia! Do i numeri, divento cieco per la rabbia… Com’è possibile che siate tutti così seri! Così convincenti! E per quale motivo mi arrecate tanto dolore… Ah, ma ecco chi mi salverà! (Indica verso la sinistra) Su, vieni Elvira, e facciamola finita con questa farsa, con questa commedia.

(Entra Elvira con le mani in grembo, a capo un po’ chino, evidentemente intimorita dalle grida di Panfilo)

ELVIRA: Eccomi, Panfilo, ho sentito da sopra tutto questo baccano e… Elettra, Mercede, che vi accade? Vi vedo così turbate… e anche tu, Panfilo, ma cosa…

(Viene interrotta da Panfilo che salta giù dal tavolo e corre verso di lei. Elvira si ritrae un po’ impaurita. Panfilo la raggiunge e le prende le mani)

PANFILO: Elvira, Elvira, io… come posso… (si guarda intorno, guarda la pecora, poi di nuovo Elvira negli occhi) Almeno tu, finiamola. Dillo. Dì ciò che vedi nella stanza, sopra il tavolo, per esattezza, su, basta una singola parola.

(Pausa, Elvira si guarda intorno)

ELVIRA: Panfilo, io non ti seguo.

PANFILO (urlando, e spaventando per questo Elvira): Non è possibile. Non è possibile, dovete spiegarvi, dovete spiegarmi, io non ce la faccio più, Elvira! Smettetela! (Pausa. Poi con tono supplichevole) Elvira, rondine, te ne prego… fatela finita, fate finire tutto. Se è vero che mi amate, se tutte quelle risate e quelle lacrime non sono state finte promesse, dite ciò che vedete. Ditemi che quella pecora è uno scherzo, e che voi ed Elettra siete andate da un… venditore di pecore, o che so io… (Pausa. Elvira tace) Dunque…

ELVIRA: Panfilo, oggi è la prima volta che vi vedo in questo stato. Avete la febbre, delirate? Quale pecora, quale venditore… Elettra, ne sapete qualcosa? Io penso che la stanchezza, magari… Ma non spiegherebbe delle allucinazioni tali, e poi dove sarebbe, questa pecora? Starebbe ruminando liberamente, magari mangiando il tappeto che è lì vicino al tavolo… ah!

(Mentre parla, cresce la rabbia in Panfilo. Alla fine, è sul punto di tirarle uno schiaffo, ha già alzato il braccio per colpirla. Elvira, spaventata, si ritrae; Panfilo rimane qualche secondo fermo con il braccio alzato, poi lo abbassa e china il capo. Pausa. Dopo qualche secondo, sempre a capo chino, si dirige verso il divano e vi ci siede sopra, con la testa tra le mani. Elvira, Elettra e Mercede si avvicinano e iniziano a borbottare parole incomprensibili. Dopo qualche secondo, si sentono le voci di due uomini che discorrono e che si fanno sempre più vicine. Entrano da destra, da dietro al divano, il Padrone e Padre Evaristo, un prete)

PADRONE: Ed è per questo, padre, che decisi di ringraziare in tal modo il curato, sapete…

PADRE EVARISTO: Certo, signore.

PADRONE: D’altronde, mi sarebbe altrimenti sembrato di mancar di rispetto… Ah, buongiorno a tutti, qui riuniti! Mi sembra manchi solo Ettore, ma possiamo già accomodarci a tavola, e perdonatemi se senza preavviso Padre Evaristo si unirà al nostro pranzo, ma si deve discutere di certe cose… Ma che accade, vi vedo turbati! Donne, perché state là in disparte… (pausa, poi nota Panfilo sul divano) E Panfilo, figlio mio, che vi succede? State per caso male?

ELETTRA: Signore, vedete, è già da prima che…

PANFILO (urlando, sempre con la testa tra le mani): Taci! (Pausa, poi rialza la testa e guarda suo padre e padre Evaristo) Buongiorno signori, perdonatemi, è da tutta la mattina che sono perseguitato dal mal di testa.

PADRE EVARISTO: Si vede, figliuolo! Siete così pallido, quasi candido…

PANFILO: Sarà la primavera che giunge, padre, non c’è da preoccuparsi. Ma prego, accomodatevi a tavola, arrivo in un attimo.

(Il Padrone e Padre Evaristo si guardano velocemente, poi guardano le donne. Nel mentre, da sinistra entra Ettore)

PADRONE: Ah, Ettore, aspettavamo solo voi!

ETTORE: Eccomi, buongiorno a tutti, ero giusto uscito per delle commissioni.

PADRONE: Bene, allora direi di sederci, signori.

(Il Padrone, Padre Evaristo, Ettore, Mercede ed Elvira si muovono verso il tavolo, mentre Elettra si affretta a mettere in ordine le sedie, i piatti, i bicchieri, per poi uscire di scena dopo aver lanciato un’ultima occhiata a Panfilo. Panfilo rimane ancora sul divano, nuovamente con la testa tra le mani. I convitati si siedono in modo che tutti i posti sono occupati tranne quello centrale, ossia quello che dà la fronte al pubblico, ed è in linea con la pecora. I convitati iniziano a parlare tra loro sottovoce; le donne in modo preoccupato e guardando Panfilo, gli uomini in modo allegro).

ETTORE: Panfilo, allora, che fate? Vi decidete a venire a sedervi con noi, o ancora pensate allo scherzo di poco prima, con cui mi avete burlato?

PADRONE: A cosa vi riferite, Ettore?

ETTORE: Oh beh, vedete, signore, vostro figlio stamattina mi ha quasi fatto credere che solo lui fosse in grado di vedere, sopra il tavolo, una pecora, come se fosse attaccata al soffitto! Va detto, la creatività non gli manca…

PADRONE: Cosa? Una pecora? (Guarda la pecora per qualche istante, poi Ettore, poi Padre Evaristo, seduti di fianco a lui, e poi si rivolge al pubblico) Che assurdità!

PANFILO (si alza dal divano, guarda il pubblico; tono grave): Che assurdità… Mansueto e pacifico, oggi sopporto le offese… eppure si crea il vuoto, intorno a me, è il fuoco che mi isola nel campo… quella sensazione…

(Si dirige verso il tavolo. Arrivato, guarda la pecora, dando le spalle al pubblico, e le dà una spinta, di modo che essa inizi ad oscillare. Solleva le spalle e va a sedersi al posto che è rimasto libero. Da destra entra un cuoco, portando un vassoio con sopra della carne, che pone al centro del tavolo, sotto il muso della pecora; poi esce)

PADRONE: Signori, mi avvantaggerei della presenza di padre Evaristo per recitare una breve preghiera. Uniamo le mani.

(I convitati uniscono le mani, e chinano il capo, tutti tranne Panfilo, che fissa la pecora)

PADRE EVARISTO (con tono sommesso e monotono): “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis…”

TUTTI, tranne PANFILO: “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem”.

(Si fermano. Silenzio. Panfilo guarda il pubblico)

PANFILO: Occhi come mandarini. (Pausa).

Quella sensazione di

giorni verdi

e acerbi come cachi

e il rumore del

crollo delle certezze

arbusti a sud, fichi spaccati

e il prurito

perché abbiamo sudato.

E pace sia.

Riprende, a volume basso, la sinfonia di Mozart dell’inizio. Le luci vanno a sfumare, fino a spegnersi. Dopo che si sono spente del tutto, i due faretti dell’inizio pulsano ritmicamente per qualche secondo. La musica finisce, sipario.

Il male a fin di bene

Laura Rossotti intende mostrare in questo racconto le sfumature del male in relazione a un determinato tipo psicologico: il misantropo, un essere dotato di altrettante sfaccettature, dall’omicidio, al confronto, all’analisi della coscienza e della vita. La riscrittura è stata svolta nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua”

*

Timore e sconcerto opprimevano gli animi dei cittadini, insieme alla consapevolezza di impotenza nei confronti di un’entità molto più forte di loro ed estremamente pericolosa. “Ci serve aiuto”, “qualcuno che possa fermarlo”, “altrimenti chissà quale destino buio ci attenderà”: ecco i normali e ripetitivi pensieri di una comunità che nel frattempo se ne stava con le mani in mano, senza azzardare una mossa concreta. Insomma la resistenza contro i mali della società era piuttosto debole, praticamente inconsistente, e pur essendo tali misfatti deplorati e condannati da tutti, essi esistevano ed è questo il grande paradosso tipico delle calamità provocate dall’uomo.

Il tiranno Macbeth continuava infatti indisturbato la sua guerra, bramando una posizione di indiscutibile superiorità e invincibilità sui popoli che intendeva travolgere e sottomettere, seminando morte e disperazione a ogni attacco. In realtà il terribile dittatore assaporava già la sua forza illimitata e si sentiva ormai da tempo inarrestabile: come girava la voce, Macbeth aveva dalla sua parte il favore di tre streghe che gli comunicavano esclusivamente fauste profezie. Esattamente come diversi mesi dopo si poté verificare, grazie al ritrovamento di una lettera scritta dal perfido tiranno e indirizzata a sua moglie, Lady Macbeth, che si riporta in seguito.

“Mia adorata,

Ti scrivo per informarti di una nuova e certamente propizia apparizione delle streghe: questa volta non ho dubbi sul significato delle loro parole e dunque ti annuncio il nostro successo assicurato. Così le tre vecchie donne mi parlarono: “Salute, Macbeth! Salute a te Re del mondo! Macbeth, Macbeth, guardati dall’uomo condannato ad odiare e amare allo stesso tempo! Devi essere spietato, risoluto e sanguinario. Finché sveglio e cosciente nulla potrà contro di te, nessuno tenterà alla tua vita. Altrettanto salvo e quieto sarai quando deciderai di dormire!”.

Ovviamente ero curioso di saperne di più, ma dovetti accontentarmi per via dell’usuale sparizione delle streghe che segue la rivelazione. Spero di averti tranquillizzata con queste magnifiche notizie, dal momento che non devo temere per la mia vita né da sveglio né da addormentato!

Aspetto con ansia il nostro prossimo incontro durante il quale ti mostrerò orgoglioso le nuove terre conquistate.

Ciò che ti ho confidato in questa lettera tienilo per te soltanto.

A presto”

Fu il ritrovamento di questa lettera a sconvolgere ulteriormente i ragionamenti e le ipotesi dei cittadini, che a seguito della morte di Macbeth si erano prodigati ad esporre personali interpretazioni della vicenda, che di per sé risultava apparentemente inspiegabile e totalmente irrazionale: il corpo del tiranno fu infatti rinvenuto esanime nella sua sfarzosa dimora in collina, più precisamente nel suo ufficio e presso la scrivania. Esso non riportava alcuna ferita superficiale e la decisione di etichettarla come una morte avvenuta per cause naturali fu confermata una volta a conoscenza della profezia delle streghe.

Forse qualcuno aveva intuito la verità sull’accaduto e la reale causa del decesso, ammettendo l’esistenza di un assassino; tuttavia la caduta di quel governo del terrore aveva significato immediatamente libertà e fine delle sofferenze, permettendo all’intero genere umano di tirare un enorme sospiro di sollievo.

Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua. I suoi occhi non esprimevano alcun tipo di emozione o pensiero, si sentiva vuoto e non provava la minima esigenza fisica; egli giaceva immobile nella stessa posizione ormai da ore, da quando era rincasato dopo aver compiuto l’omicidio. Di tanto in tanto quello stato di trance si interrompeva e i ricordi delle sue più recenti e biasimevoli azioni gli scorrevano davanti agli occhi come un treno veloce e inarrestabile. Si rivedeva mentre alcune settimane prima veniva assunto come cameriere a servizio di Macbeth, dopo essersi presentato con identità e informazioni false; poi quando acquistò presso un’apoteca ambulante del sonnifero e un veleno letale. Infine ripercorreva i movimenti del giorno prima, come servì tranquillamente il tiranno all’ora di pranzo e come più tardi gli porse gentilmente un bicchiere di acqua calda mescolata a un “infuso energizzante”, ma che in realtà, ovviamente, conteneva il sonnifero. Dopo aver sorseggiato quella miscela, Macbeth non poté resistere all’effetto del medicinale e nonostante il lavoro che avesse da sbrigare, fu costretto a lasciarsi andare ad un sonno pesantissimo. Dopodiché l’assassino gli somministrò il veleno e il tiranno morì nel sonno, inconsapevolmente e senza provare dolore.

L’ennesimo treno di pensieri e ricordi sfrecciò da una parte all’altra della sua mente riempendo il suo cuore di tristezza e svuotandolo subito dopo, per lasciare posto al conseguente stato di trance. Questa volta però qualcuno bussò improvvisamente alla porta.

Entrando, il nuovo arrivato salutò l’amico: «Ciao Alceste».

Raskol’nikov varcò la soglia e si mise comodo su una sedia.

«Chi ti ha dato il permesso di entrare Rodion?».

«Lo so che è strano detto da me, ma se non vuoi che qualcuno entri allora forse dovresti chiudere la porta a chiave».

Alceste non rispose e si limitò a fissarlo in attesa che palesasse il motivo della sua visita.

«Mi sembra di notare che tu stia bene amico mio e di ciò mi rallegro molto», disse Raskol’nikov con leggera meraviglia e quasi con una punta di delusione, che Alceste non mancò di notare.

«Non sembri così felice della mia buona salute come dici di essere… Speravi dunque che io stessi male? E per quale motivo poi?»

«Non me ne volere, d’altronde sarai sicuramente a conoscenza della morte di Macbeth, un evento a cui si può attribuire un rilievo epocale, e di come questa abbia sorpreso tutti quanti. Perciò come minimo mi aspettavo di vedere una qualche reazione sconcertata da parte tua, mentre ti ritrovo qui in assoluta tranquillità».

Qualcosa nel suo modo di parlare non convinceva Alceste. Riteneva Raskol’nikov una persona intelligente e sentiva di potersi fidare di lui, nonostante non lo stimasse e lo considerasse per certi versi ambiguo e crudele. Poteva anche darsi che sospettasse già, e chissà come, di lui e di ciò che aveva compiuto, dal momento che era venuto visibilmente per parlare del recente caso di morte. Conoscendolo, pensò comunque che avrebbe potuto persino discuterne ragionevolmente con lui e che egli non l’avrebbe biasimato. Infine aveva davvero bisogno di qualcuno che valutasse la sua scelta e ascoltarne poi l’opinione.

«Secondo te – ricominciò Raskol’nikov, incalzato dal silenzio dell’amico – è davvero morto per cause naturali oppure…»

«L’ho ucciso io», lo interruppe Alceste vedendo che ormai quella recita stava diventando ridicola da entrambe le parti e non volendo perdere ulteriore tempo.

Come c’era da aspettarsi, Raskol’nikov non fu minimamente scioccato dall’improvvisa confessione, quando chiunque altro al posto suo sarebbe stato incredulo e sarebbe scoppiato a ridere, oppure sarebbe sbiancato senza riuscire a proferire parola. Egli invece rispose immediatamente rivelando i suoi pensieri con estrema onestà e razionalità.

«Caro Alceste, ti domando scusa per averti preso in giro fino ad ora e ti assicuro che da qui in avanti sarò chiaro e trasparente riguardo a ciò che penso; ovviamente non ci sono prove per dichiararti colpevole ma conoscendo il tuo carattere e i tuoi ideali potevo indovinare facilmente che si fosse trattato di te. Io non ti giudico e anzi ti comprendo pienamente; infatti il motivo essenziale per cui ho capito che l’assassino eri tu, sta nel fatto che io e te ci somigliamo molto e io mi sarei comportato nello stesso modo qualora mi si fosse presentata un’occasione ideale».

Alceste ascoltava con attenzione le parole dell’amico e quando questi faceva delle pause, lo pregava di continuare. Voleva sapere ogni singola cosa che Raskol’nikov pensava, poiché, contrariamente a ciò che poteva sembrare, Alceste teneva in alta considerazione le opinioni altrui; tuttavia vi erano aspetti contrastanti nel suo carattere, per cui se da una parte egli desiderasse essere apprezzato e a sua volta ammirava sinceramente le qualità di certi individui, dall’altra perdeva costantemente speranza nel genere umano, rimanendo deluso ogni qualvolta che avesse provato a fidarsi; tant’è che era nato in lui ormai da tempo un certo odio, un odio che si era sviluppato di giorno in giorno, facendogli provare una sorta di ribrezzo per la vicinanza con chiunque e che l’aveva portato inevitabilmente ad allontanarsi e isolarsi. Per questo dunque Raskol’nikov, individuo piuttosto schivo e solitario, poteva forse dire di poterlo capire alla perfezione.

«Non ti biasimo per le tue azioni, caro Alceste, e anzi approvo la tua decisione e la tua determinazione. Ovviamente non ti denuncerò e mai nessuno che venga a sapere della verità dovrebbe farlo, dal momento che sarebbe un’ingiustizia bella e buona, compiuta nella falsità più totale. Sì, perché devi sapere che non vi è cittadino del popolo che non ti sarebbe grato per aver ucciso Macbeth, anche se non lo ammetterebbe mai e sarebbe perfino capace di condannare il proprio salvatore all’insegna di una falsa moralità di cui vuole farsi portatore agli occhi della società, con lo scopo di ricevere approvazione. Mentre qui, Alceste, dovresti essere tu l’unico a ricevere i meriti della questione ed è triste essere un eroe all’insaputa di tutti. Sai, nella mia visione del mondo è giusto che certi uomini, superiori rispetto ai semplici uomini comuni, compiano azioni che questi ultimi non possano; ovvero questa categoria di superuomini, all’interno della quale includo te e il sottoscritto, avrebbe il diritto di agire come vuole, violando la legge ma senza venire punito da essa, per raggiungere obiettivi di ampia portata che abbiano a che fare con il bene della comunità, se non dell’umanità. Dunque Alceste, tu sei pienamente giustificato e l’omicidio che hai compiuto lo si può vedere come un normale dovere svolto nel tuo lavoro di superuomo. Non lasciare che la morte di Macbeth ti appesantisca la coscienza, perché, piuttosto, ti saresti dovuto sentire in colpa se non l’avessi ucciso e ora staresti continuando ad assistere inerme alle sue malefatte. Guarda dunque al futuro luminoso che hai regalato a tutti noi e continua con me quest’opera di disinfestazione del male che avvelena la società».

Alceste rifletté per qualche minuto in silenzio ripercorrendo e analizzando il lungo discorso di Raskol’nikov. Non si riconosceva nel profilo che l’amico aveva tracciato di lui ed era quasi terrorizzato dall’eventualità di poter apparire realmente in questo modo. Finalmente si decise a rispondere:

«Io non credo di essere uguale a te Rodion. Sono onesto e devo ammettere che non mi pento di ciò che ho fatto. Tuttora sono convinto che fosse l’unica soluzione per fermare Macbeth e con lui tutto il dolore e la morte che stavano distruggendo la popolazione e minacciando l’intero genere umano…

Devi sapere che fino a poco tempo fa mi ero stancato di vivere una vita falsa, colma di infelicità e delusioni, tante sono state le volte in cui mi sono fidato di qualcuno e puntualmente mi dovevo ricredere. Ti confesso che molteplici e difficili sono stati i momenti in cui sentivo il cuore opprimermi nel petto al punto di volermelo quasi strappare per eliminare per sempre quella sensazione di soffocamento, ponendo fine alla mia esistenza. Tuttavia, e questo è un fatto che davvero non riesco a spiegarmi, quando non si tratta della mia sofferenza ma di quella altrui, specialmente delle persone più deboli, indifese e innocenti, siano esse le medesime che mi avevano deluso un attimo prima, ho l’esigenza di fermarla, non nello stesso modo in cui fermerei la mia, ma facendo il possibile per risolvere qualsiasi problema si ponga tra quelle persone e la felicità. Ed è quindi poi quando riesco finalmente a contribuire alla serenità di qualcuno che riesco a sentirmi felice e appagato. Dunque sì, ho agito per il bene dei più, ma sacrificando una persona e compiendo un atto atroce, tale è l’omicidio di un essere vivente. Sono perciò colpevole e non sono meritevole di niente. Continuo a rattristarmi profondamente per la scelta che ho dovuto prendere e il senso di colpa graverà per sempre sulla mia coscienza.

Ora però Rodion, ho realizzato che la vita è un privilegio, e se non piace quella che si ha, è comunque inutile privarsene e gettarla via, mentre vale la pena continuare a vivere, se non per se stessi, soprattutto per gli altri e provare ad essere curiosi di cosa può succedere nel futuro».

Raskol’nikov per tutto il tempo aveva ascoltato perplesso le idee dell’amico e alla fine, pur non condividendole pienamente, lo ringraziò per essersi fidato, garantendogli che almeno lui si sarebbe sempre impegnato a non deluderlo e promettendogli di abbandonare i suoi propositi da superuomo, convincendosi quanto meno del fatto che infine nessuno può essere veramente definito tale per la troppa umanità e coscienza presenti come una sorta di tratto genetico in ogni essere vivente che ragiona.

Soltanto mezzo secolo più tardi, dopo la morte di Alceste fu scoperta la verità sull’omicidio di Macbeth grazie al rinvenimento di un diario personale. Egli infatti con il tempo, dopo essersi trasferito in una casa nei boschi lontana chilometri e chilometri dal più vicino centro abitato, aveva deciso di scrivere i suoi pensieri e le sue scelte in un diario, quasi a volerli spostare dalla coscienza alla carta per alleggerire il peso che portava nel cuore. Dal momento che si trattava per lo più di annotazioni confuse e ricordi sparsi, la poesia in ultima pagina risultava contrastante, saltando subito all’occhio. Tale poesia era preceduta da una nota di Alceste, una sorta di scusa e giustificazione per aver deciso di sigillare quella raccolta di riflessioni con un componimento poetico:

“Oggi mi ritrovo a riempire l’ultima pagina di questo diario. E mi sento di farlo con una poesia. Questa strana, improvvisa voglia di poetare ha colto me stesso alla sprovvista e mi fa tornare alla mente certi ricordi per i quali ora rido nostalgicamente: anni fa umiliai tremendamente un mio conoscente, cercando di fargli capire di aver composto un sonetto nauseante e di essersi sbagliato decidendo di esporlo con tanta sicurezza e orgoglio davanti ad altre persone. Un brivido di ripugnanza mi attraversa ancora la schiena quando richiamo alla memoria alcuni di quei pessimi versi. Per questa ragione arrossisco e mi vergogno se penso che sto per scriverne d’altrettanto cattivi. Io però mi guarderò bene dal mostrarli ad alcuno e devo sperare che nessuno legga queste pagine fin tanto che sarò in vita. Ciò di cui mi pentirò sarà soprattutto il tempo e l’impegno che adopererò nella stesura di questa poesia; ma dopotutto, qui e in questo momento non vi è anima viva che possa fermarmi dal compiere i miei bizzarri propositi, anche se ogni tentativo sarebbe comunque vano per via del mio incontenibile desiderio di esprimermi”.

L’amore secondo un misantropo

Sempre, quando il silenzio mi avvolge rimango in ascolto:
Osservando le stelle, dell’universo percepisco la pace e la calma;
In me la mente si svuota e il cuore si scalda;

Su di un prato disteso, pongo al cielo una domanda:
Il mondo inonda la vista e vengo sovrastato dalla natura immensa;
Non cerco una definizione, a me soddisfa questo motivo intenso.

Voci allegre e distanti giungono al mio udito e
Immagino che ogni umano sorriso altrui rivolto
Avrebbe la forza di allontanare qualsiasi tormento.

 Immergersi e annegare nel luogo dove mi sento tanto bene;
Non potrei essere più libero altrove, eppure qui mi vorrei trattenere,
Legarmi in eterno a queste emozioni: vi chiedo, allora, le catene.

*

Bibliografia

Fonti primarie    

Shakespeare W. (2016), Macbeth, a cura di Nemi D’Agostino, Milano, Garzanti

Molière (2006), Il tartufo-Il misantropo. Testo francese a fronte, a cura di Sandro Bajini, Milano, Garzanti

Dostoevskij F. (2013), Delitto e castigo, a cura di Damiano Rebecchini, Milano, Feltrinelli

Riflessi

Beatrice Robaldo parte dall’idea e dall’immagine visiva del rispecchiamento, fonte di contatto intimo e profonda conoscenza, per sviluppare un racconto dove i protagonisti sono evocazioni di sentimenti, riflessi emozionali legati al desiderio che cadono l’uno nell’altro e possono accogliere indistintamente le esperienze personali dei lettori, nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, legato al corso di Letterature comparate B, 2021/20221, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina.”

*

*

Cosa può essere più superficiale di uno specchio che riflette? Cosa più fragile, mutevole, inafferrabile di un riflesso, si chiese accarezzando il cielo con le dita, che già scompariva in milioni di rughe ondulanti. Sembrava quasi che l’acqua aggrottasse la fronte ogni volta che lei cercava di toccare le sue nuvole. Amava guardare il cielo riflesso nell’acqua, lí ogni distanza si annullava, ogni affanno si spegneva, il cielo era nell’acqua e l’acqua nel cielo, non li separava neppure un granello d’aria, il loro abbraccio era troppo stretto. Forse non erano neanche più abbracciati, erano solo insieme, così insieme da essere uno. 
Che riflesso bugiardo, che riflesso eterno.
Un passo indietro dalla riva, continuava a guardarli. 
Si passò le dita sul viso e questa volta ciò che incontrarono non si deformò, non sparí, al contrario, solida, fredda, ruvida, si fece sentire in tutta la sua materialità, in tutta la sua presenza. 
Aveva ormai imparato la differenza fra le cose della vita, differenza che si esauriva essenzialmente nella contrapposizione fra ciò che si sente e ciò che si tocca. Ciò che si sente non può essere ne stretto ne toccato, eppure è vero il contrario, ciò che si tocca può essere sentito. Lei ad esempio lo sentiva, il peso della sua maschera tra le dita, il peso sul suo volto, sul suo cuore. Ma quel mondo, il suo mondo, sembrava non essere capace di sentire. Forse non gli piaceva, ascoltare. 
C’era un altro aspetto del mondo che aveva imparato a conoscere: il mondo era insofferente al dolore, così insofferente da cercare ossessivamente un modo per esserne indifferente. E anche per il dolore le cure erano due, una che si poteva sentire, l’amore – forse quella non l’avrebbe mai conosciuta – e una che si poteva toccare, la morfina. Facile capire quale aveva preferito il mondo. 
Ah, che mondo strano, pensò facendo un passo verso la riva.
Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina. Che mondo strano. Chissà quanti cieli e quante acque c’erano stati prima che il mondo avesse smesso di guardare i riflessi, di sentire, di ascoltare… Prima che avesse avuto troppa paura di essere.
Si tolse la maschera e trattenne il respiro. Quella maschera non le permetteva di stare bene, le impediva di respirare morfina e questo significava non essere anestetizzati al dolore. Avrebbe potuto farlo, un piccolo sospiro e anche lei sarebbe diventata indifferente, avrebbe guardato il cielo dal basso e non avrebbe più sentito il peso della mancanza, della lontananza. Sarebbe stato normale, l’indifferenza sarebbe diventata normale. Non essere significava stare bene. 
Trattenne il respiro e fece un ultimo passo avanti. Guardò il suo riflesso nell’acqua, nel cielo, il suo volto nudo, il suo essere. Perderlo, perdersi, la terrorizzava.
Ma essere era così difficile, così dannatamente difficile.
Era davvero?
L’acqua si increspò, il volto sembrò cambiare le sue sembianze.
Si era persa?
Morfina nell’aria, un mondo senza amore, un’anima senza amore.
Si sarebbe mai ritrovata?
Altrove.
Il cielo si rannuvolò, si fece sempre più buio, l’acqua si ghiacciò, divenne dura, scintillante, divenne uno specchio. Era buio, ma riusciva a vedersi, aveva gli occhi chiusi, ma riusciva a specchiarsi. E come al solito non andava bene. Era buio e non andava bene. Era buio. Lei non andava bene.
Gli diede un pugno, non gli era rimasto neanche un briciolo di forze, le aveva risucchiate tutte, le aveva buttate, sprecate, ne era soffocata, e il braccio, quel braccio molle di un corpo molle, mosso da una mente molle, molle e debole, si alzò con una violenza isterica, insulsa e impattò contro la superficie piatta e fredda, fredda del vetro e spaccò in mille pezzi, un milione di schegge e quelle piccole piccole si conficcarono ovunque, sotto le unghie, sotto la pelle, sotto le ciglia. Scorreva l’acqua, era rossa, rossa come il sangue che si ostinava a passare, nelle vene, nel cuore, negli occhi, sanguinavano gli occhi e i polmoni e le mani e i capelli ne erano incrostati. Tirò i capelli, li tirò forte e il vetro si ruppe di nuovo, urlò e il vetro si ruppe ancora, stette immobile e le schegge si conficcarono più a fondo, respirò, e loro andarono più giù, sempre più giù e ancora e ancora. Ancora e ancora. Il petto era un pozzo, un pozzo stretto stretto. Si dimenò, era caduta in un pozzo. Non c’era aria, non c’erano appigli, ma l’aria doveva passare di lì, doveva uscire dal pozzo, ma non poteva, perché lei occupava tutto lo spazio, si stava togliendo l’aria da sola. Il pozzo cercò dolorosamente di aumentare le sue dimensioni e la pelle si stirò innaturalmente. Vide le pareti deformarsi nel buio, innervate dal dolore le fibre risplendevano. Vide il colore del dolore e desiderò di essere cieca, poi ne sentì il rumore e desiderò di essere sorda, poi il sapore e desiderò di non sentire mai più un gusto, poi la consistenza e desiderò che le mani diventassero insensibili – come facevano a non esserlo con tutto quel sangue, con tutte quelle ferite? – poi lo sentì di nuovo, non era un suono, non un colore non un gusto, non lo sentì con le orecchie non con gli occhi non con la lingua, lo sentì e basta e desiderò di non avere un cuore, mai più, di essere abbastanza grossa per non far passare l’aria, mai più. Ma lei era piccola, piccola e insulsa, piccola e inutile, piccola e debole, piccola e isterica, piccola e disgraziata e un filo d’aria passò lo stesso, un filo più sottile dello stelo di una margherita di campo fu abbastanza per squarciarla. Era una margherita, una margherita rossa, squarciata dalla terra e stritolata in un pugno. Strinse i pugni e le lenzuola si strinsero, ballavano, bianche, bianche macchiate di rosso le lenzuola ballavano e si stringevano, sulla bocca, attorno al collo. Ne fece una corda per fuggire, la tirò e poi se ne aggrappò, saltò fuori aggrappandosi alle lenzuola  e quelle sostennero il peso del suo corpo, strette intorno al collo le lenzuola sostenevano il suo corpo, sempre più strette le impedivano di cadere, sempre più strette le impedivano di respirare. 
Il buio avvolgeva ancora ogni cosa, mentre il mondo riposava lei precipitava. 
Lui invece era ancora in bilico, sull’orlo di un precipizio, cercando di non fare ciò che sapeva di non dover fare, guardare giù. 
Chissà perché sapere non è mai sufficiente.
Era giunto il momento del giorno in cui ogni attività rallentava il suo corso, si faceva più distesa e meno frenetica, il cielo aveva smesso di cambiare pelle e sonnecchiava placido, in quel blu profondo che non avrebbe chiuso i suoi mille occhi ancora per un po’. Le onde della strada si infrangevano sempre più rade alle finestre incappucciate. Le poche auto si sentivano arrivare da lontano, il rumore nasceva, impercettibile, si avvicinava, cullante, passava, deciso e poi sempre più sospirante, sempre più lontano. I singhiozzi dei cani erano radi, ancor di più i brontolii degli aerei, il respiro dell’aria costante e ritmato, rotto soltanto da qualche sospiro profondo di vento. La notte era un corpo dalla fisiologia comune, si agitava mollemente, ma non abbastanza per svegliarsi. Era viva, stanca, serena, addormentata, altrove. Anche lui avrebbe voluto essere altrove, ma non era ancora il momento, inutile mettersi a letto ora, il nervoso avrebbe reso l’attesa oltre che noiosa insopportabile e aveva imparato a muoversi con attenzione quando si ritrovava in equilibro. Sapeva che restare immobili non esimeva dal cadere, come sapeva anche di non esserci mai stato davvero, in equilibrio, di non esserne mai stato capace, ma in quei momenti, quelli in cui riusciva a sincronizzare i suoi respiri con quelli del mondo – e solo di notte c’era abbastanza silenzio per poterlo fare – cadere non faceva male, era più semplice e più rasserenante di tentare di mantenersi in equilibrio. All’improvviso sentì un piagnucolio, un gemito provenire dalla boscaglia e si ritrovò a chiedersi se fossero gli animali ad essere più umani di notte o gli uomini ad essere più animali, il risultato in ogni caso era stato lo stesso, la vicinanza. Quel piccolo verso, così caldo e umido, gli scivolò sulla schiena. Un brivido alla volta la mancanza gli ricordò la sua presenza. Eccola, la goccia, il soffio d’aria, la spinta, l’onda. La vicinanza. Una vicinanza fittizia, insufficiente, irraggiungibile. Cadere ricominciò a fare male. 

Le urla dei grilli coprivano i respiri della notte, impossibile cercare di seguirli. Ora tutto stonava, non un’auto, non un aereo, non un cane. Soltanto urla e silenzio, urla e silenzio. Il volto sereno della notte rimaneva imperturbato, sereno, altrove. Anche lui era finito altrove, ma il suo cielo era diverso, il suo cielo non aveva stelle.
Un cielo senza stelle, un cielo di sabbia, un cielo soffocante. 
Scorreva sotto le dita senza fare rumore, era pelle, seta, le corde dell’arpa, i crini biondi di un cavallo senza padrone, scorreva e graffiava, graffiava i polpastrelli incappucciati da calli invecchiati sotto entusiasmo e frustrazione, graffiava senza fare male, le mani non facevano mai male, il cuore sempre. Era così facile, bastava un respiro a muoverla e mille per decidere di farlo, come quando perché, era così difficile, ogni idea sfumata un rimpianto, ogni idea realizzata una delusione, niente andava mai come doveva andare. Lui sentiva, ma non sapeva trascrivere, la sabbia sbagliava il suo corso, sempre, spingendolo a chiedersi ossessivamente chi fosse a mentire, il cuore o le mani? Il cuore non mentiva mai e lui sapeva ascoltarlo, ma le mani, oh le mani, quelle sapevano solo sbagliare… e ancora, era la sabbia ad essere indomabile o le mani incapaci di essere domate? Se il desiderio che il cuore non smetteva di urlare alle sue orecchie era così facile da sentire, perché, si chiedeva, perché era così difficile da nutrire… la mancanza era assordante, accarezzava la sabbia sperando ingenuamente di trovare sollievo laddove aveva conosciuto solo tormento. Le mani avevano fatto il callo ai graffi, il cuore no, eppure continuava, accarezzava la sabbia, viveva di graffi, tra solchi insoddisfacenti e sfumature sbagliate, viveva di desideri urlanti, tra mani disobbedienti e cuori biascicanti, viveva di inizi e di fini, trascrivendo storie che non gli sarebbero mai appartenute. 
I suoi disegni erano così fragili. 
Si ritrovò a disegnare una bambolina, con gli occhi grandi e le ciglia lunghe. Non sapeva dire se fosse fosse felice oppure no, sicuramente, come tutti i suoi disegni, era fragile e presto non sarebbe esistita più.
Ah che bambolina fragile e mortale, qualcuno si sarebbe ricordato di lei? 
Una bambolina si guardò allo specchio. Aveva gli occhi grandi e le ciglia lunghe, cercò di scrutare più a fondo, nei suoi occhi. Non riusciva a capire se fosse felice o no e si chiese se lo fosse mai stata davvero, se sapeva cosa volesse dire, se sapeva cosa voleva. Era tutto troppo grande, i sogni, le aspettative, le delusioni. Solo di una cosa era sicura. Era fragile, fragile di un fragilità odiosa, non come quella fiera di un cristallo che deve essere maneggiato con cura e che può essere rotto solo con la violenza, la sua fragilità era quella sciocca e molle dei petali dei fiori, delle ali delle farfalle o delle bolle di sapone, bastava niente per farle del male, ogni carezza uno schiaffo, ogni emozione uno sconvolgimento. Si guardò ancora. Era un petalo accarezzato da decine di mani indiscrete ognuna delle quali faceva capo ad una delle sue paure, era un paio di ali che sentiva il desiderio di volare e non aveva la capacità di farlo, era una bolla di sapone, una bolla di sapone che sapeva fare soltanto una cosa, scoppiare.
Scoppiare. Scoppiava. Tutto crollava.
Il cielo crollava, anzi no, erano le case a crollare,  il cielo… era lui il colpevole. L’aria esplodeva e non era più aria, era polvere, era gesso, era irrespirabile. Il cielo non era più il cielo, le case non erano più le case, l’aria non era più l’aria.
Gli uomini erano sempre uomini invece. I bambini sempre bambini. Sempre fragili, sempre vulnerabili, sempre mortali. Ma il mondo stava attraversando uno di quei momenti in cui non ricordava che gli uomini erano uomini e che i bambini erano bambini, li calpestava e basta. 
Ah che uomini fragili e mortali, qualcuno si sarebbe ricordato di loro?
Non un fiore, non un farfalla, non una bolla di sapone.
Non un volto, non un nome.
“Morfina,  serve della morfina, adesso, fate presto!”
“Non ne abbiamo più, mi dispiace, l’abbiamo finita. L’abbiamo finita”
Morfina nell’aria, nell’anima del mondo.
È questa la soluzione? L’indifferenza al dolore. O è questa la colpa? Si chiese l’Umanità guardandosi allo specchio. Il riflesso era quello di un corpo vecchio, vecchio e mutilato, vecchio e dolorante, vecchio e pesante, vecchio e sbagliato, vecchio e mancante, vecchio e sofferente. 
Ma c’era un ‘eccezione, c’è sempre un’eccezione. Male nel bene, bene nel male.
Eccezionali, così erano i suoi occhi, occhi bambini, occhi speranza. 
Quanti cieli avevano visto cadere, quanti ancora ne dovevano vedere. 
Ma per qualche misterioso e arcano motivo non avrebbero mai smesso di brillare.
E ridere.
E piangere.
E ridere.
Perché?
Perché si ama? 
Perché si odia?
È la storia di tutti, di tutto, è la storia del mondo. 
Che non ha volto, che non ha nome, 
che sa solo chiedere e non sa rispondere, 
che è, sempre sarà desiderante, mancante, errante.
Che sa amarsi e non osa farsi del male.
Che decide di farsi del male e dimentica di amarsi.

Atopos

Gianni Demo rappresenta, attraverso un calligramma ispirato all’opera di Apollinaire, la similitudine tra Socrate e le statuette di satiri, rintracciata da Alcibiade nel Simposio di Platone. Il testo è stato sviluppato nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate B, mod. 1, 2021/2022, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Secondo me un calligramma è un insieme di segno, disegno e pensiero. Esso rappresenta la via più breve per esprimere un concetto in termini materiali e per costringere l’occhio ad accettare una visione globale della parola scritta”. G. Apollinaire.             

Il nucleo del discorso di Diotima è il “prezioso contenuto” di questo Socrate-Sileno. In calce, le parole di Alcibiade.

*

Amanti al Clifford’s Coffee

Giorgia Fantino, Diletta Lizzadro, Andrea Polesel e Anna Maria Gribaudo riscrivono, con questa sceneggiatura, un’inedita e attuale Amante di Lady Chatterley perché “Lady Chatterley vive ancora oggi. Vive nei caffè e nelle videochiamate. Vive in ogni corpo recluso, inibito,
frustrato. Vive nella carne che urla, nell’umanità ritrovata”.
Il testo è stato scritto nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

Questo corpo
Così solo
Gettato su un divano
Accartocciato su un letto
Questa Carne
Intorpidita dalla solitudine
Che implora di essere toccata
Implora affetto
Solo così si ricorda di esistere
Le occhiaie che non si riconoscono nemmeno nello specchio
Le terminazioni nervose assopite
Il sangue prosciugato
Mi accorgo di respirare solo tremante sul pavimento
Non mi sembra nemmeno più di avere un corpo
Si è perso fra quelli altrui
A loro apparteneva
Le foglie sono tutte secche
Non c’è nessun sole a riscaldarle
Solo la fredda luce di un monitor.
Ho ventotto anni e sono già appassita.

*

BUIO
SCHERMO NERO. SCRITTA.
«La nostra è sostanzialmente un’era tragica, per cui ci rifiutiamo di prenderla sul tragico»
INT. CASA DI UNA DONNA. GIORNO.
Due donne nude in un letto raggiungono il picco del loro godimento. Si sentono urla di
piacere. Dopo qualche istante Nora si alza e si cambia velocemente, pronta ad andarsene al
più presto.
BARBARA
E quindi sei sposata?
Nora preferisce non rispondere. Infila le scarpe e fugge dalla porta.
BUIO
Nora cammina per le strade di Torino. È una bellissima giornata, il sole splende riflettendo i
suoi raggi nel Po.
NORA
(Voice over)
Mi chiamo Nora, ho 28 anni e sono nata e cresciuta a Torino. La famiglia in cui sono
cresciuta è sempre stata anticonformista, infatti ho sempre potuto godere di esperienze che le
mie coetanee non potevano neanche immaginare. Ogni anno, io e mia sorella andavamo in
vacanza studio nelle migliori accademie di Londra, Parigi, Madrid. Siamo sempre state a
contatto con un mondo fatto di ragazzi e ragazze colte, con un forte interesse per l’arte in
tutte le sue forme. Ma soprattutto, ci sentivamo libere di essere noi stesse, di pensare con la
nostra testa, di avere una nostra opinione e soprattutto di amare chi volevamo. Dopo le
superiori ho deciso di studiare al DAMS e per molti anni ho sognato di poter diventare una
regista, o forse una critica cinematografica, o forse addirittura un’attrice… mmm insomma
un’artista. Poi però a 22 anni ho conosciuto Marco. Quando ci siamo conosciuti non è
scoppiata subito la scintilla, ma con il tempo ho capito quanto lui era per me rassicurante. Si,
rassicurante. Non è facile al giorno d’oggi vivere di arte e diciamo che fin da subito lui è stato
in grado di darmi quella stabilità che mi mancava. Ero persa fuori e dentro di me. E lui mi ha
aiutata. Dopo qualche mese ha preso una casa per noi a Torino e quando ho compiuto 25 anni
ci siamo sposati. Bella storia felice vero? No. Per niente. C’è sempre qualcosa che non va.
Marco vuole un figlio. Ovviamente non ha minimamente pensato al fatto che dovrei
abbandonare la mia aspirazione artistica per dedicarmi totalmente ad un figlio. Ma lui mi
vuole a casa, con un figlio, non lontana in quel mondo frivolo dell’arte. Non so. Sono
confusa. È tutto grigio attorno a me e non ho molte forze. E quindi… Barbara, la ragazza di
prima? Beh diciamo che non voglio reprimere la libertà che mi è stata insegnata fin da
piccola dai miei genitori e dalle esperienze vissute. A volte trovo che gli uomini sono così
ingrati e mai soddisfatti: finiscono per diventare dei bambini capricciosi. Sono una donna
libera, in tutti i sensi e a volte le donne rendono un po’ più colorato il cielo sopra di me.
INT. CASA DI NORA. GIORNO.
Nora è sdraiata sul divano. Ad un certo punto squilla il telefono. È Marco che la sta
videochiamando da Manchester.
NORA
(Annoiata)
Ciao amore.
MARCO
Ciao tesoro. Come stai?
NORA
(Pungente)
Bene grazie.
MARCO
(Capisce che c’è qualcosa che non va, come al solito, ma evita di parlarne)
Senti tesoro, purtroppo non posso ancora tornare. Qui c’è parecchio lavoro da gestire e poi la
situazione pandemica non è delle migliori. Per ora il Regno Unito rimarrà ancora in Lock
down e io non posso muovermi. Ma in Italia la situazione è diversa, quindi è necessario che
tu prenda in gestione il mio bar. Dovrai fare dei colloqui per assumere un nuovo barista e nel
frattempo tu ti occuperai solamente della gestione.
NORA
Solamente? Tu scherzi. Dai Marco, perché proprio io? Lo sai che non sono portata per questo
lavoro. E poi mi toglierebbe un sacco di tempo dal mio progetto artistico. Non puoi assumere
una persona al posto mio?
MARCO
Ma tesoro. Tu ti sottovaluti. Dai, è fuori discussione. Sei tu che devi gestire il bar in mia
assenza. Sono sicuro che troverai la persona adatta e che riuscirai a gestire il tutto senza
problemi.
NORA
Marco, per favore, ascoltami per una volta. Ho davvero un progetto importante in mente. Non
voglio sprecare energie altrove.
MARCO
Durerà pochissimo. E andrà tutto bene. Ora devo andare tesoro. Aggiornami sui colloqui. Ti
amo.
Nora è su tutte le furie. Non riesce a darsi pace. Per l’ennesima volta non è riuscita a far
capire a Marco quello che in realtà è davvero importante per lei. È seduta sul divano e guarda
fissa davanti a sé. Ad un certo punto decide di chiamare sua sorella Gilda per potersi sfogare
e trovare un aiuto.
NORA
(In chiamata con sua sorella)
Ciao Gilda, come stai?
GILDA
Ciao cara, tutto bene, ho passato l’ultima settimana al mare e non mi posso lamentare. Tu
invece? Ti sento strana. È per colpa di Marco?
NORA
Si. Guarda, non ci voglio credere. Marco è davvero odioso. A volte mi chiedo come abbia
fatto a sposare un essere così egoista.
GILDA
Sul fatto che sia odioso, non mi meraviglio, ma egoista? In che senso?
NORA
Si, per me è egoista. Anzi, a volte mi sembra addirittura disumano. È totalmente rinchiuso
nel suo mondo di economia, di numeri, di internet e finisce per non avere contatti con persone
in carne ed ossa. Lui mette un muro con la gente. Ma con chiunque, anche con me.
GILDA
E hai provato a parlargliene?
NORA
Io ci provo a fargli capire che ho bisogno di tempo per dedicarmi all’arte e che non è
sicuramente mia intenzione passare le ore rinchiusa nel suo bar, ma lui è sordo. Per lui, siamo
tutti esseri spregevoli. Lui è superiore e rifiuta ogni contatto umano. Non posso dire che non
sia una persona intelligente, ma è allo stesso tempo presuntuoso e questa chiusura in se stesso
mi manda fuori di testa.
GILDA
Ti senti inutile?
NORA
Dipende. A volte ho la sensazione che senza di me sarebbe perso.
GILDA
Te l’ho detto diverse volte. Prendi in mano la situazione e allontanati per un periodo. Devi
farlo per te, Nora. Finirà per farti ammalare.
NORA
Hai ragione. Forse se una volta me ne andassi per davvero lo capirebbe. Lui ha bisogno di
me, lo so, ma non così. Non a questi patti. Sono umana anche io. Ho un cuore, una sensibilità
e lui, prima o poi, dovrà rispettarla.
INT. BAR. GIORNO
Mattinata di colloqui. Nora è scocciata. Arriva l’ultimo candidato. Occhi azzurri, sguardo
freddo e deciso. Si toglie la giacca. Nel toglierla si alza leggermente la maglietta. Si intravede
il basso ventre. A Nora sembra di essersi intromessa in una scena di intimità. Fissa lo sguardo
sui peli chiari, rossicci, vicino alla cintura di pelle nera. La pelle è bianca, eccetto per delle
linee di inchiostro nero. Ha il muso di uno Spaniel tatuato. Nora sente come un pugno nello
stomaco. Distoglie lo sguardo pensando come spesso ci si dimentichi di essere circondati da
corpi. Di essere corpi. Davanti a lei c’era un corpo.

NORA
Buongiorno, il suo nome?
OSCAR
(porgendole il proprio curriculum)
Oscar Ferraris.
Nora prende il curriculum, fissando le mani che
glielo porgono. Scorre con una rapida occhiata i fogli. 38 anni. Ciclo di studi non terminato,
una miriade di contratti a tempo determinato. Nora spalanca leggermente gli occhi, è
sorpresa. Ha ripreso e completato gli studi qualche anno fa.
NORA
Leggo qui che ha esperienza come barista.
OSCAR
(sfidante)
Sì, l’ho fatto per circa un annetto. Immagino si stia chiedendo come mai quella sfilza di
lavori. Come mai non sia continuativo. Se è perché mi comporto male a livello lavorativo.
Nient’affatto. Sa, è che dopo un po’ mi annoia tutto. E poi non me ne frega granché dei soldi.
Viviamo per qualcos’altro. Non viviamo solo per accumulare denaro. A volte vorrei
tornassimo indietro. Dare un taglio a questa iperproduttività. Ma cosa abbiamo fatto a noi
stessi per colpa del lavoro? Ci siamo rovinati. Con gli occhi spenti e costantemente di corsa,
costantemente in ritardo. Dovremmo essere vivi e belli e invece siamo brutti e mezzi morti.
Non c’è bisogno di lavorare tanto. A me non frega nulla. Non voglio diventare così. Basta
guardarsi intorno, le persone non sanno più parlare, muoversi, vivere, cazzo. Mondi di
plastica con persone di plastica. (Fermandosi un attimo e schiarendosi la voce)
Questo ti avrà sicuramente convinto ad assumermi.
(La guarda con un sorrisetto divertito).
NORA
(Interdetta, catturata dal discorso)
Sincerità per sincerità: nemmeno a me frega nulla di questo colloquio. Anzi, vorrei essere da
tutt’altra parte. Lo sto facendo per mio marito.
OSCAR
(Le guarda le mani, alla ricerca della fede)
E dove vorrebbe essere?

NORA
(Fissando un punto indefinito oltre Oscar)
Non lo so nemmeno io. Però non qui. Vorrei viaggiare. Vorrei studiare recitazione. Oppure
mi piacerebbe diventare una regista.
OSCAR
Mi pare lei possa fare tutto ciò che vuole, no?

NORA
(infastidita)
Senta, tornando a noi: lei abita qui vicino?
OSCAR
Non proprio ma non ci sono problemi, sono comodo con…
NORA
Con la macchina?
OSCAR
…con i mezzi. Non guido, non ho la patente. Farei piazza pulita delle macchine.
NORA
Sarebbe già disponibile per stasera?
OSCAR
Certo. Mi dica a che ora.
NORA
Alle sei? Così le mostro il bar e quale sarebbe la sua mansione.
Si salutano con una stretta di mano. Nora torna a casa e chiama Marco.

INT. CASA DI NORA: GIORNO.
MARCO
(Scocciato, con voce stizzita)
Per quale motivo avresti assunto quello?
NORA
Cosa avrebbe che non va?
MARCO
Ma dai Nora, trentotto anni e ancora fa il barista? Per aver cambiato così tanti lavori significa
che qualcosa di sbagliato lo ha. E poi zero titoli di studio, figurati.
NORA
È diplomato. E poi non vuol dire nulla. E non a tutti interessano i soldi come a te.
MARCO
Nora, Nora… A tutti interessano i soldi. E se non li hai è perché non ne hai le capacità. È
destino. Ogni scarafaggio deve vivere la propria vita. E non attribuire le tue illusioni agli altri.
Tra la classe dei dirigenti e la classe dei subalterni c’è un abisso invalicabile. Sono animali
che non capisci e mai potrai capire.
NORA
(Con rabbia)
Classe dei dirigenti e classe dei subalterni, Dio, Marco ma in che epoca vivi? Tu devi solo
ringraziare di essere nato nella famiglia giusta, non hai nessun merito.

MARCO
(Indifferente e divertito sentendo Nora riscaldarsi)
L’unica cosa buona è che gli serve quel posto. Io posso vivere senza bar, lui non credo.
Quindi assumi chi vuoi Nora, ma al primo errore è licenziato, non me ne frega nulla.
La chiamata si interrompe. Nora cerca di tranquillizzarsi. Si siede sul divano. Si alza.
Cammina per il soggiorno. È irrequieta. Si ferma davanti allo specchio. Torna a sedersi sul
divano. Prende in mano il telefono. Apre le note del telefono e inizia a scrivere.

Questo corpo
Così solo
Gettato su un divano
Accartocciato su un letto
Questa Carne
Intorpidita dalla solitudine
Che implora di essere toccata
Implora affetto
Solo così si ricorda di esistere
Le occhiaie che non si riconoscono nemmeno nello
specchio
Le terminazioni nervose assopite
Il sangue prosciugato
Mi accorgo di respirare solo tremante sul pavimento
Non mi sembra nemmeno più di avere un corpo
Si è perso fra quelli altrui
A loro apparteneva
Le foglie sono tutte secche
Non c’è nessun sole a riscaldarle
Solo la fredda luce di un monitor.
Ho ventotto anni e sono già appassita.
Esce. Si dirige al bar. Davanti all’ingresso c’è Oscar che la aspetta.
NORA
Ciao Oscar, vieni pure dentro. Ah, e diamoci pure del tu.

INT. BAR. GIORNO
Gli mostra l’interno del bar, la cucina, il frigo, il deposito… Poi stanca si siede su uno
sgabello vicino il bancone.
NORA
Alle volte mi fermo e mi chiedo cosa stia facendo. Mi chiedo se è questo quello che voglio
realmente.
OSCAR
E cosa sarebbe questo?
NORA
Un corpo sfiorito a ventotto anni. Un matrimonio che imprigiona. Cosa ho conosciuto della
vita io?
OSCAR
Perché non lasciarlo allora?
NORA
Lo so, dovrei. Ma i nodi d’amore sono quelli più difficili da sciogliere.
(Pausa)
Sai, Marco non sa nemmeno che sono bisessuale. O meglio, finge di non saperlo. Per lui sono
tutte stupidaggini, come tutto quello che mi riguarda, del resto. Si vanta di aver studiato e di
avere la mente più elastica della maggior parte della gente ma in realtà è il 2020 e lui ancora
se ne esce dicendo che fosse per lui le ammazzerebbe le lesbiche.
Si lamenta delle donne frigide, dice così, ma devi vedere non appena gli si propone di fare
qualcosa che si allontani anche solo minimamente da quella che è la sua idea di fare sesso. Si
stupisce che non riesca a venire con la penetrazione. Pensa io abbia qualcosa che non va.
Pensa sia meno femmina. Sembra un bambino geloso quando vengo da sola. Ma tanto non ne
vuole sapere del becco. Te lo giuro, 2020 e ancora non riesce a dire clitoride. Come se fosse
qualcosa di sporco. Come se il sesso fosse qualcosa di sporco. E poi saranno mesi che non lo
facciamo.
(Pausa)
Devi pensare io sia pazza. Dovrei essere la tua datrice di lavoro e invece è la seconda volta
che ci vediamo e sono qui a parlarti di quante volte scopo con mio marito. Anzi, che non
scopo.
OSCAR
(inizialmente scimmiottandola)
Egregia datrice di lavoro…
Per me due cose contano nelle relazioni: la sincerità e l’intesa sessuale. Non vai da nessuna
parte altrimenti, almeno per me. Ho bisogno di quella scintilla. Di sentire la mia carne
bruciare, altrimenti, che senso ha. E poi sai, mi piacerebbe il sesso mantenesse i suoi nomi.
Mi piacerebbe che, così come siamo liberi di parlare con chiunque, fossimo liberi di scopare
con qualsiasi persona solleciti il nostro desiderio.
NORA
(Illuminandosi)
Come se fosse una forma di conversazione! Sì, il sesso come veicolo per comunicare. Come
modo di conoscere. Solo che le parole vengono recitate invece di essere pronunciate.
Magari se facessimo sesso con la stessa spontaneità con cui si sente il bisogno di parlare con
qualcuno, smetteremmo di esserne così tanto ossessionati. Che senso ha essere fedeli se poi si
è aridi? Puoi anche avere la mente pura, ma sarà arida come il deserto.
(Sempre più concitata)
Vorrei fosse così. Un mondo in cui smettessimo di rendere sacro il sesso e lo considerassimo
per quello che è, nè più nè meno. Cioè, è davvero poi tanto importante? E il problema
complessivo della vita non consiste forse nella creazione di una personalità completa? Una
vita disintegrata non ha senso. Se la carenza di incontri rischia di disintegrarti, perché
privarsene?
Nora parlando si è avvicinata sempre di più ad Oscar. I due sono faccia a faccia ora. Le loro
gambe si sfiorano. Oscar alza una mano e fa per avvicinarla al volto di Nora, che si scosta,
realizzando quello che sta per succedere. Guarda l’ora. Dice ad Oscar che è tardi e conviene
iniziare a preparare i tavoli. Oscar si alza.
CASA DI NORA. GIORNO.
Le restrizioni dovute al Covid vanno allentandosi, e Nora ha scoperto che ci sono finalmente
dei voli disponibili da Manchester. Fa quindi una videochiamata a Marco per dargli la notizia.
Quando la scena inizia, i due stanno avendo problemi di connessione.
NORA
Ok, proviamo così… Mi senti ora? Marco?
MARCO
(un po’ indispettito)
Aspetta… va tutto a scatti.
NORA
(sarcastica e poi facendogli il verso)
E meno male che ti avevano dato “uno degli uffici più all’avanguardia della città”.
MARCO
Infatti sarà la tua connessione ad avere problemi, come sempre.
NORA
Ah questo l’hai sentito però.
MARCO
Sì, sembra che ora vada meglio. Dimmi dai, che tra dieci minuti ho una riunione.
NORA
Come tra dieci minuti? Ma mi avevi detto…
MARCO
(interrompendola)
Sì lo so cosa ti avevo detto, mi hanno programmato questa riunione all’ultimo ed è
importante, lo sai come funzionano le cose qui.
NORA
Già, lo so bene…
MARCO
Beh, quindi? Non stiamo qui a perdere tempo allora, visto che ne abbiamo poco: cosa avevi
da dirmi?
NORA
A parte il fatto che mi sarebbe piaciuto parlare un po’, ma ok, vado direttamente…
MARCO
(interrompendola, innervosito)
Non ricominciare con questa storia, per favore, non ora.
NORA
(brusca)
Non sto ricominciando. Ti stavo dicendo che allora vado subito al punto. Hai visto le notizie?
MARCO
Quali?
NORA
(sospira, sconfortata)
Quelle sui voli internazionali.
MARCO
Ah no, scusami, mi sono dimenticato di controllare. Cosa dicono?
NORA
(cercando di riprendere un tono entusiasta)
Che la situazione sta migliorando, e che da settimana prossima si può riprendere a viaggiare!
Finalmente puoi tornare!
MARCO
(senza troppo calore)
Ah, ottimo! Però immagino che i biglietti siano già andati a ruba a questo punto, dubito che…
NORA
(interrompendolo)
No, ho controllato giusto mezz’ora fa! Ci sono ancora un sacco di voli disponibili da
Manchester a Malpensa, forse anche qualcuno per Caselle! Se sei impegnato posso
prenotartelo io, dimmi solo il giorno e l’orario e ci penso io!
MARCO
(elusivo)
Oddio, così su due piedi… Non so se la settimana prossima si può già fare, ho del lavoro qui.
NORA
Ma come no? Avevi detto che ormai potevi andartene quando volevi, no? Che quello che
stavi facendo in queste settimane potevi farlo benissimo anche dall’Italia. Che problema c’è?
MARCO
Sì beh, ecco… Ci sono state delle novità. Te l’avrei detto a breve.
NORA
(raggelata)
Che novità?
MARCO
Senti, dobbiamo parlarne con calma…
NORA
(scaldandosi)
Marco, che novità?
MARCO
Mi hanno proposto un prolungamento del contratto, ma sarebbe qui, in presenza.
NORA
(accusa il colpo, poi dopo un attimo di silenzio risponde)
Quanto tempo?
MARCO
Sarebbero nove mesi.
NORA
Nove mesi?!
MARCO
Amore lo so che sono tanti, ma mi hanno offerto una posizione di altissimo livello, capisci?
Dopo questi nove mesi probabilmente potrei mantenerla anche a distanza dall’Italia, e avrei
uno stipendio molto più alto…
NORA
(interrompendolo)
Lo so, lo capisco, ma tu devi capire che io non ce la faccio più, ok? Sarebbero altri nove
mesi! Nove mesi! Ma ti rendi conto? Per cosa poi, uno stipendio più alto? Non siamo al
verde, perché devi sempre volere di più? Sempre di più! Non ti basta mai! Ti prego pensaci
bene, perché io qui non ce la sto più facendo a stare dietro al bar al posto tuo, e ormai è già
tanto se mi ricordo la tua faccia da quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui siamo stati
insieme! Altri nove mesi… è una follia! Entro quando dovresti dare una risposta?
MARCO
Il fatto però è che con quei soldi potremmo finalmente riuscire ad ampliare la catena dei
Clifford’s Coffee, e anche a pagare qualcuno che se ne occupi al posto tuo.
NORA
Ti ho chiesto entro quando devi dare una risposta.
MARCO
(dopo un attimo di pausa, lentamente, in imbarazzo)
Vedi amore, il fatto è che mi hanno colto di sorpresa, e in più mi sono sentito lusingato da
una simile proposta, voglio dire, è una posizione che non offrono a chiunque, e poi devi
contare che…
NORA
(realizzando, incredula, per poi scoppiare a piangere dalla rabbia)
Hai già deciso… Tu hai già deciso. Hai già deciso da solo, senza dirmi niente! Tu l’hai già
data la tua cazzo di risposta, non è vero?! Hai deciso da solo di stare altri nove mesi lassù!
Altri nove mesi lontano da me, altri nove mesi separati, altri nove mesi in cui io dovrò stare
dietro al tuo bar di merda!
MARCO
Nora ti prego non fare così.
NORA
Faccio così eccome invece! Come hai potuto? Come hai potuto prendere una decisione del
genere con questa leggerezza, senza dirmi nulla? Senza chiedermi cosa ne pensassi?
MARCO
Cerca di capire…
NORA
No, tu cerca di capire! Ma a quanto pare è troppo difficile per te! Vuoi startene lì altri nove
mesi? E allora sai che c’è? Puoi anche andartene a fanculo e restarci tutti i mesi che vuoi!
MARCO
Nora!
Nora interrompe bruscamente la chiamata, chiudendo con rabbia lo schermo del pc portatile,
sul quale poi scoppia in lacrime.

INTERNO BAR. TARDO POMERIGGIO.
Nora arriva al bar verso l’orario di chiusura, per sbrigare alcune faccende burocratiche, che
già normalmente detesta. Inoltre è ancora fortemente scossa per la notizia ricevuta e la
chiamata terminata un paio d’ore prima con Marco. Nel bar non ci sono più clienti, ma trova
Oscar, intento a pulire.
NORA
(dirigendosi verso un armadio nel retro del bancone da cui prende un faldone di documenti)
Ciao Oscar.
OSCAR
Ciao Nora! Come stai? Un po’ di burocrazia, eh?
NORA
Sì.
Oscar resta interdetto dalla freddezza di Nora, capisce che c’è qualcosa che non va ma non
osa ancora chiedere. Nora si siede su uno sgabello all’angolo del bancone e comincia a
scartabellare. Attimo di silenzio tra i due, si sente soltanto in sottofondo la radio del bar che
passa “Time” dei Pink Floyd. Ad un certo punto Nora tira su col naso, Oscar si gira e la vede
con gli occhi lucidi che pretende di guardare il faldone ma in realtà è ferma e fissa il vuoto.
Tenta un approccio ironico per sdrammatizzare.
OSCAR
(cercando di buttarla sull’ironia e riprendendo il motivetto del primo giorno)
Ehi, egregia datrice di lavoro… Va tutto bene? O c’è della cipolla in mezzo a quei
documenti?
NORA
(ricomponendosi, per poi accorgersi della musica)
Eh? Come? Oh, sì, tranquillo Oscar, non è niente… Ma… Questi sono i Pink Floyd. Da
quando sono nella playlist?
OSCAR
Oh, sì, ce li ho messi io. In realtà mi sono permesso di metterne una totalmente diversa, spero
non sia un problema. Non per mancare di rispetto, ma passare le ore qui dentro con la musica
che c’era prima era da manicomio.
NORA
Oh, sì sì, non preoccuparti, anzi, hai fatto benissimo. Hai buon gusto, devo dire. Il sottofondo
musicale che c’è di solito è terribile, è vero, ed è lo stesso da anni. L’aveva scelto mio marito.
Non lo sopporto più neanche io.
OSCAR
(scherzando)
Cosa, il sottofondo o tuo marito?
NORA
(con un sorriso forzato)
Eh…
OSCAR
(dopo un attimo di pausa)
Tasto dolente?
NORA
(con un nodo alla gola)
Un po’.
OSCAR
Ascolta, so che non sono affari miei, però… Le cose che mi hai detto settimana scorsa non
sono da poco. E si vede che non stai bene.
NORA
(soffiandosi il naso)
Sì, faccio schifo, lo so.
OSCAR
(sorridendo, le porge un fazzoletto)
Beh, con il muco al naso in effetti sì, ma come chiunque, no?
NORA
(ridendo e accettando il fazzoletto per poi soffiarsi il naso)
Grazie. Che imbarazzo.
OSCAR
Così come credo che chiunque meriti ben più di questo. Ripeto, non sono affari miei e non
voglio intromettermi, però… Quello che posso dirti è semplicemente: pensa a come stai.
Chiediti cosa vuoi davvero.
NORA
Cosa voglio davvero? Sai che ti dico? Che non lo so. Non lo so cosa voglio davvero. Forse
voglio diventare una regista? Chi lo sa, o magari un’attrice. Eh? O magari qualcos’altro,
qualcosa che ancora non so di volere. Non lo so, non so cosa voglio, ma vorrei anche solo la
possibilità di scoprirlo! Ecco, sì, questo vorrei. Potermi lanciare, buttare a capofitto in
qualcosa di nuovo, di incerto! E invece no, sono bloccata qui, incastrata, impantanata in una
vita che… che non sto vivendo! Obbligata a rispettare questo stabile, grigio e vuoto e stupido
equilibrio, di cui dovrei pure essere grata, giusto? Perché di questi tempi bisogna essere grati
di avere una stabilità, di avere delle certezze, di avere un marito con i soldi che non ti fa
mancare nulla se non se stesso, di avere un bar di cui occuparsi di cui non mi frega
assolutamente nulla, di essere qui circondata da cose che sono certezze, sì, sono stabili, forti,
granitiche. Eppure morte. Morte! Ciò che non si muove muore, Oscar. Non respira. E a me
manca il fiato da molto tempo ormai. Cosa voglio davvero? Non lo so! Ma di sicuro so che
non voglio più tutto questo!
OSCAR
(la guarda un attimo negli occhi, in silenzio, poi accenna un sorriso per confortarla)
Beh, vedi? Sai già molte cose.
NORA
Scusami Oscar, scusami davvero… Tu sei qui che stai lavorando e io piombo dal nulla a
lamentarmi di quanto faccia schifo la mia vita… a lamentarmi di tutta la tremenda stabilità
che ho, con te, che invece la cerchi da anni e in questo momento probabilmente vorresti solo
sputarmi in un occhio. Starai pensando che sono solo una stupida ragazzina privilegiata,
ingrata e arrogante che viene qui a lamentarsi con chi di problemi ne ha davvero, mentre
dovresti pure lavorare… E pure io dovrei lavorare, a dir la verità.
OSCAR
Fidati, se fosse così lo capiresti. Non sono bravo a fingere, quando ho voglia di sputare
nell’occhio a qualcuno.
NORA
(dopo un attimo)
Davvero?
OSCAR
Davvero. Ho sempre avuto poche certezze nella mia vita, e ne vorrei, è vero. Ma anch’io mi
sentirei soffocare nella situazione in cui sei tu ora. Insomma, è vero che sei un po’ borghese,
ma questo non ti rende per forza stronza in automatico.
NORA
(sorride alla battuta)
Grazie, Oscar… Mi fa bene parlare con te.
OSCAR
(abbandonando per un attimo il velo di ironia)
Anche a me.
NORA
(lo guarda negli occhi un momento)
D’accordo, la smetto di piagnucolare, devo finire queste cose.
OSCAR
No, non credo.
NORA
Cosa?
OSCAR
Tu hai bisogno di rilassarti, non di stare dietro a quella robaccia.
NORA
Lo so, ma devo…
OSCAR
Non devi proprio nulla. Facciamo così: il bar lo stai gestendo tu, giusto? Perciò, se ho il tuo
permesso, egregia datrice di lavoro, io adesso chiudo le porte, tanto a quest’ora non arriva
mai nessuno, tiro giù le serrande, lascio la luce accesa, prendo qualcosa da mangiare e una
bottiglia di vino dal retro e stiamo qui a parlare un po’. Che dici?
NORA
(sorridendo, grata)
Va bene. Permesso accordato.
Stacco. Sempre interno bar. La scena riprende con loro due seduti su due sgabelli, molto
vicini, già un po’ alticci e con i calici in mano. Fuori è ormai buio. Stanno ridendo, sono nel
mezzo di un discorso.
OSCAR
…E così, mentre era sopra di me, mi guarda, sgrana gli occhi e mi fa: scusa, ma me lo
spiegheresti cos’è?. Io rimango un attimo zitto con le mie mani su di lei. E faccio: Scusa
cosa?. E così lei, con l’aria anche un po’ di chi fa la sostenuta, mi fa: ma sì quella cosa di cui
stavi parlando, il clitroride. Sono morto…
NORA
(scoppia a ridere)
Cosa?! Stai scherzando?
OSCAR
Te lo giuro! Gliel’ho dovuto spiegare io.
NORA
Ma non ci voglio credere. Ma quanti anni aveva, scusa?
OSCAR
Questa è la cosa ancora più assurda: diciannove!
NORA
Pazzesco. Arrivare a diciannove anni senza minimamente conoscere il proprio corpo.
OSCAR
Come se io a vent’anni mi fossi guardato allo specchio e mi fossi detto “ehi, ma che strane
quelle due biglie che penzolano lì sotto, chissà cosa sono!”.
NORA
(ride, poi incalza, beffarda)
Quasi peggio di Marco che si schifa a pronunciarlo, il clitoride. Va bene, almeno lui sa cos’è,
è vero. Anche se poi essere in grado di trovarlo è un altro discorso.
OSCAR
(ridendo)
Attenzione, partono accuse pesanti.
NORA
(ridendo a sua volta)
Ma fondate, purtroppo! E tu, comunque? Quanti anni avevi quando sei stato con lei?
OSCAR
(reggendo lo scherzo)
Ventidue, una vita fa. Comunque assurdo, davvero. Ma non era mica solo colpa sua, eh, anzi.
Veniva da una famiglia molto, come dire…
NORA
Credente?
OSCAR
No, bigotta. Che è diverso. Si può benissimo essere fortemente credenti senza essere bigotti.
Per i suoi, invece, il sesso e qualunque argomento simile erano dei tabù rigorosissimi.
NORA
Beh, erano anche più di quindici anni fa, non è tantissimo ma si parlava già molto meno di
queste cose.
OSCAR
Sì, è vero. Anche se di passi in avanti ne servono ancora. Ci vorrebbe più educazione sessuale
nelle scuole, ad esempio.
NORA
(toccandogli il braccio mentre lo prende in giro)
Disse quello che la scuola l’aveva abbandonata.
OSCAR
(ridendo)
Ma che stronza. Ti ricordo che poi l’ho finita.
NORA
(sempre ridendo)
Sì sì.
OSCAR
Comunque dico davvero! Farebbe una differenza enorme.
NORA
Lo so. Io sono stata fortunata con i miei, ma a scuola abbiamo affrontato pochissimo
l’argomento, e quel poco che abbiamo fatto è stato fatto male e in modo noioso, che quasi ti
faceva passare la voglia.
OSCAR
(allusivo)
Quasi…
NORA
(sorridendo)
Beh, direi! E non fare quella faccia, che mi sa che tu di avventure ne hai avute molte più di
me.
OSCAR
Non credere. Però forse quanto basta per capire alcune cose. Diciamo che, per quella che è
stata la mia esperienza, credo che ci siano tre grandi tipologie di donne, con tutte le sfumature
in mezzo. Ci sono quelle che chiamerei libere, che per loro fortuna, e anche per fortuna di chi
le incontra, devo dire, riescono a vivere il sesso in modo sano, senza tabù, in base ai propri
gusti, desideri, senza farsi influenzare troppo dalla società. Poi ci sono quelle che invece
vorrebbero fare sesso, e vorrebbero farlo come vogliono loro, ma hanno troppa paura del
giudizio degli altri per lasciarsi andare, e passano la vita a sentirsi frustrate, a desiderare di
più ma a privarsene da sole, consapevolmente. Alcune, lavorandoci su, riescono a dirigersi
verso la prima categoria, altre rimangono bloccate lì, a disprezzare in modo ipocrita quelle
che ce la fanno. E poi ci sono le peggiori, cioè quelle che il giudizio della società l’hanno
assorbito così tanto e così a fondo che è diventato pure il loro, e perciò certe cose non le
fanno perché sono convinte, ma proprio convinte, che siano sbagliate, da zoccole, come
dicono loro. E infatti i loro insulti sono sinceri e sentiti. Ma, senza saperlo, anche loro sono
represse e schiacciate dalla società maschilista e patriarcale che ci circonda.
NORA
Non hai idea di quanto sia bello sentire certe frasi.
OSCAR
(scherzando)
Cos’è, ti eccita se insulto il patriarcato?
NORA
(reggendo lo scherzo)
Un sacco, ti salterei addosso, guarda.
OSCAR
Bene, mi pare di intuire a quale delle categorie tu appartenga, allora.
NORA
(avvicinandosi)
Ma che bravo, riesci a capirlo anche senza prima essere andato a letto con me?
OSCAR
(ironico, ma senza indietreggiare e mantenendo il contatto visivo)
Beh, a dirla tutta, sì, egregia datrice di lavoro, c’è un modo per capirlo anche prima, secondo
me, e in modo molto semplice: è sufficiente chiedere alla ragazza in questione se si masturba.
NORA
(ridendo)
Sul serio?
OSCAR
Sì, davvero. Le prime tendenzialmente ammetteranno di farlo senza problemi, le seconde ti
diranno di no e tenteranno di giustificarsi, ma sotto sotto lo vedi che mentono. E le terze sono
quelle che dicono di no e che davvero non lo fanno.
NORA
Che vita triste.
Nora beve un sorso di vino, intanto Oscar la guarda intensamente. Alla fine del sorso lei
incontra il suo sguardo e gli sorride.
OSCAR
(sorridendo)
Che c’è?
NORA
Niente… Stavo pensando. Pensavo a quanto è facile dimenticarsi di avere un corpo, presi dai
mille affanni di tutti giorni. Spesso diventiamo dei cervelli ambulanti. Tutta testa, testa, testa.
Pensa a questo, ricordati quello, rifletti su quell’altro… E il corpo lo abbandoniamo. Sia il
nostro che quello degli altri. Ce lo ricordiamo solo quando diventa difettoso e dobbiamo
curarlo, ma prima, quando ancora potremmo goderne… nulla.
OSCAR
Già. E sicuramente la pandemia non ha aiutato. Certe volte mi rendo conto che mi manca
tremendamente il contatto umano che avevo prima. O meglio, mi manca la serenità che
avevamo prima nel darlo e nel riceverlo. E d’altronde è ovvio che se ti abitui ad avere a che
fare con delle sagome dentro a un computer, quando ritrovi qualcuno in carne ed ossa rimani
spiazzato.
NORA
Spiazzato sì, è vero, ma in positivo. Come se fosse una bella sorpresa. Inaspettata ma
piacevole.
OSCAR
Non con tutti va così bene.
NORA
(facendosi di nuovo più vicina)
Ma con qualcuno sì. Ogni tanto può capitare di trovare di nuovo qualcuno a cui senti di
poterti avvicinare senza timore.
OSCAR
(sorridente ma leggermente in soggezione)
Sì, ogni tanto capita.
NORA
(gli mette una mano sulla gamba)
Qualcuno che senti di poter toccare. A cui ti vorresti aprire di nuovo, o che vorresti stringere
forte come per strizzargli fuori tutta l’energia che quel contatto ti può dare.
OSCAR
(lasciandosi andare un po’ di più)
Come se in quel tocco, in quel corpo, ritrovassi tutti i corpi che vorresti toccare e stringere.
NORA
(sono ormai vicinissimi)
Tutta l’umanità che abbiamo perso per strada… ritrovata in un corpo solo, tutta insieme.
OSCAR
(si allontana leggermente)
Sarebbe bellissimo, non è vero?
NORA
(scherzando sul discorso di prima)
Già… ma immagino che questo potrebbe succedere solo con certe “categorie” di donne, per
te, giusto?
OSCAR
Probabilmente sì, hai ragione.
NORA
E pensi davvero di riuscire a capire sempre di quale fanno parte?
OSCAR
Forse non sempre, ma… certe volte lo senti.
NORA
(ammiccando)
Ah lo senti, eh? E tu cosa senti ora?
OSCAR
(sorridendo)
Cosa sento?
NORA
(avvicinandosi)
Credi di sapere di quale delle tue categorie faccio parte io?
OSCAR
Beh, non lo so… ma se devo dirla tutta… penso che sarebbe interessante scoprirlo.
NORA
(ormai vicinissimi, con tono malizioso)
Ah sì? E perché mai dovrebbe interessarti?
OSCAR
(sorridendo, malizioso anche lui)
Così.
NORA
Ah, così?
OSCAR
Sì, così.
NORA
Oppure così?
Nel dire quest’ultima frase, Nora lo bacia, e si baciano ancora a lungo prima di andare oltre.
A tratti si distaccano per guardarsi negli occhi e riprendere a baciarsi. Si intuisce che tra loro
è scoccato un legame che non è solo fisico. Poco dopo, comunque, lui la solleva sul bancone
del bar e iniziano a fare sesso.
La scena riprende dopo che hanno terminato, e sono entrambi nudi, sdraiati e abbracciati
dietro al bancone.
OSCAR
(ironico)
E così sei sposata, eh?
NORA
(ha un fremito, si fa più scura in volto)
Già… Tu lo detesteresti uno come lui.
OSCAR
No, non credo. Ho incontrato troppi uomini come lui per prendermi il disturbo di detestarlo.
So a priori che quel tipo di uomo non mi piace, e basta. Mi limito a starne lontano.
NORA
Forse fai bene…
OSCAR
(vedendola turbata, dopo un attimo di silenzio)
Che succede? Mi hai detto che non è la prima volta che ti capita, no? Che eri serena al
riguardo.
NORA
Sì, è vero, ma… questa volta è stato diverso Oscar.
OSCAR
In che senso?
NORA
Non fraintendermi, è stato bellissimo. E io credo di non essere mai stata così bene con
qualcuno come sto con te, nonostante ci conosciamo da così poco. Eppure… è proprio questo
il problema.
OSCAR
Capisco… Mi dispiace che tu stia così, ma… Credo ci sia un problema ancora più grande.
NORA
Cioè?
OSCAR
Che anch’io mi sento così.
NORA
(a metà tra l’incredulità e l’euforia)
Sul serio?
OSCAR
Sul serio. Temo che questa non sia una cosa come le altre… è incredibile che si possa dire
una frase del genere dopo una sola serata insieme. Di solito non ripongo molta fiducia in
nessuno, profondamente, specie dopo così poco. Quando sono con qualcuno non riesco quasi
mai a vedere un futuro con quella persona. Sarà che il tempo passa in fretta e il futuro
incombe come una tempesta davanti a me, e non voglio più sprecare tempo con chi non se lo
merita… Eppure sono qui a dirti tutto questo. Non capisco perché, ma con te è diverso. Mi
sento diverso.
NORA
E io sento la stessa cosa! Oddio, è incredibile… Sono così confusa, non capisco cosa diavolo
stia succedendo…
OSCAR
(sorridendo)
Abbiamo fatto un bel casino, eh?
NORA
(sorridendo e baciandolo subito dopo)
Temo proprio di sì.
OSCAR
Quindi, che pensi di fare?
NORA
Non lo so Oscar, non lo so davvero. Forse… forse dovrei staccare un po’ da tutto. Dovrei
stare un po’ di tempo lontana, farmi due settimane via di qui… Potrei andare a trovare mia
sorella a Venezia. Sì, credo che farò così. Domani parlerò a Marco e gli dirò che con il bar,
almeno per un po’, ho chiuso.
OSCAR
(un po’ preoccupato)
E quindi pensi di partire subito?
NORA
(lo guarda, poi sorride)
No… non subito. Almeno finisco la settimana qui, e poi, beh… Qualche giorno qua con te
potrei ancora passarlo, in effetti.
OSCAR
(scherzando)
Ma quale onore, Vostra Signoria. Anzi: egregia datrice di lavoro. Solo che ora mi hai dato
anche qualcos’altro.
NORA
(ridendo)
Scemo.
Tornano a baciarsi.
Cambio scena. Il giorno dopo, in casa di Nora, videochiamata con Marco, già iniziata.
MARCO
(Arrabbiato ma freddo)
Come sarebbe a dire che non hai più intenzione di gestire il bar?
NORA
(ferma, risoluta)
Mi hai sentito. Non ce la sto più facendo, Marco, mi dispiace. Io da lunedì prossimo in quel
posto non ci metto più piede. Ho bisogno di staccare, da tutto, sto arrivando
all’esasperazione, non posso andare avanti così. Ho bisogno di andarmene per un po’ da qui.
MARCO
Nora ragiona un attimo…
NORA
(interrompendolo)
Io lì non ci entro più. Hai capito?
MARCO
(dopo un attimo di severo silenzio)
Va bene. Se non c’è modo di farti cambiare idea… vorrà dire che dovrò buttare nel cesso dei
soldi per fare questo lavoro. Benissimo, faremo così allora.
NORA
Bene.
MARCO
Bene… Un mezzo nome ce l’ho già in mente, amica di amici, sulla quarantina, con grande
esperienza alle spalle, dicono sia brava. Spero per te che sia vero. Barbara Boldi. Mai sentita?
NORA
(scossa nel sentire il nome dell’amante della prima scena)
Oh… sì. Sì, credo di conoscerla.
MARCO
Credi sia brava?
NORA
(quasi sovrappensiero)
Sì… Sì, è molto brava.
MARCO
Tutto bene?
NORA
Sì, scusami, non mi aspettavo che la conoscessi.
MARCO
Beh, tanto meglio. Quindi? Quando vieni qui a trovarmi?
NORA
Ah, sì…
MARCO
(spazientito)
Nora… che c’è?
NORA
Senti…
MARCO
(interrompendola)
Ah no aspetta, senti tu.
NORA
(infastidita)
Dimmi.
MARCO
Quel tuo amichetto, lì, il signor, com’era? Oscar Ferraris? Beh insomma, il pezzente che hai
assunto: digli che è licenziato.
NORA
(incredula)
Cosa?!
MARCO
Mi hai sentito. Te l’avevo detto che al primo errore era fuori.
NORA
Ma che stai dicendo?! Quale errore? Cosa ha fatto di male?
MARCO
Un signore che vive nel condominio davanti al bar è un nostro cliente fisso, e ha il mio
numero. Ieri sera mi ha telefonato dicendomi che quel porco aveva tirato giù le serrande e
aveva lasciato le luci accese fino a tarda sera. E poi a un certo punto l’ha visto uscire con una.
NORA
(raggelata)
Ah… E… chi era?
MARCO
Era buio e non l’ha riconosciuta, ma che importa, sarà stata una zoccoletta a caso.
Probabilmente l’avrà portata lì perché casa sua faceva troppo schifo persino per una troietta.
NORA
Piantala, lo sai che mi dà fastidio quando parli così.
MARCO
Che c’è, vuoi pure difenderlo ora?
NORA
Non è questo, sto dicendo…
MARCO
(interrompendola)
Senti, la decisione è presa, chiaro? Ti sei presa la responsabilità di farlo entrare nel mio bar,
ora pensi tu a farlo uscire. E fatti ridare le chiavi, che non si sa mai.
NORA
(ha quasi le lacrime agli occhi, ma sapendo di non potersi permettere di risultare sospetta
cerca di nasconderlo)
D’accordo…
MARCO
Quindi, dicevi, quand’è che vieni a trovarmi.
NORA
(rapida e secca)
Non vengo a trovarti. Me ne vado a Venezia da mia sorella.
MARCO
Cosa? Dov’è che vai?
NORA
Mi hai sentito.
MARCO
(alzando man mano sempre più la voce, ma sempre trattenendosi dall’essere scurrile, in modo
quasi ridicolo)
Cioè quindi, fammi capire… è da mesi che mi tormenti perché siamo lontani, perché non ti
rispondo mai, perché non ci sono mai e tutte queste, queste… cialtronerie! Ti rifiuti pure di
fare l’unica cosa che ti chiedo, cioè gestire quel dannatissimo bar, e ora che ti sei liberata a
tutti i costi da questo peso così gravoso anziché venire qui dal tuo maritino che ti manca tanto
che fai? Te ne vai da quella disadattata di tua sorella? A Venezia? A fare cosa? Io non ti
capisco più Nora, cos’è che vuoi da me, eh? Cosa vuoi?
NORA
(rassegnata, senza la forza di reagire alle urla, ma ferma nella sua decisione)
Non lo so cosa voglio, Marco. Non lo so. Ma non voglio venire da te in Inghilterra. Ho
bisogno… Ho bisogno di un momento per me, ho bisogno di tempo.
MARCO
Ma che diavolo dici? Che diavolo dici? Tu stai uscendo di testa, Nora, cosa ti salta in mente?!
NORA
Hai ragione Marco, non mi capisci più. Sto uscendo di testa. Ma tranquillo, so che non
sentirai la mia mancanza. Parto domani mattina, ti avviso quando arrivo.
Dopo uno sguardo di disprezzo e rabbia, Marco chiude la videochiamata senza neanche
salutarla. Nora resta qualche secondo davanti al pc aperto, con lo schermo vuoto e le lacrime
agli occhi, ma senza scoppiare a piangere. Chiude il pc, si tira su dalla sedia con una nuova
determinazione, uscendo dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle.

INTERNO DEL BAR. GIORNO
Due settimane dopo
La porta del bar si apre e Nora entra, si guarda intorno e si siede al bancone, pensierosa.
La signora Barbara arriva dal ripostiglio, indaffarata, si accorge di lei e la saluta raggiante.
BARBARA
Ciao Nora! Bentornata! Che bello rivederti, sei arrivata da tanto?
NORA
(con un sorriso amaro)
Giusto il tempo per farmi tornare la voglia di andarmene di nuovo.
BARBARA
(ridendo)
Eppure, l’aria di Venezia sembra averti ringiovanita! L’ultima volta che ci siamo viste (con
un sorrisetto ambiguo) eri molto più pallida, stanca, adesso sembri tornata un po’ in forze.
NORA
Quello sì, non posso negarlo… ma questo viaggio in solitaria mi ha portato a pensare,
ripensare e pensare ai miei ripensamenti. Stando soli si hanno meno distrazioni capisci? Una
vacanza dai miei pensieri, ecco cosa mi sarebbe servito!
Beh scusa, non voglio annoiarti troppo con i miei discorsi.
BARBARA
No, per quello non preoccuparti, solo se ti sento dire un’altra volta la parola ‘pensieri’ mi
sparo un colpo!
NORA
Al di là dei miei problemi mi sono poi anche guardata intorno e ho notato molte cose. Ad
esempio che alcuni in vacanza cercano semplicemente di distrarsi, riposarsi, mentre altri
vogliono divertirsi a tutti costi, come se glielo prescrivesse il medico insieme all’antibiotico.
Ogni sera festa fino a tardi, alcol a profusione, e il giorno dopo tutto di nuovo. Un loop
continuo, una sorta di dipendenza, per fuggire da se stessi e dalla vita quotidiana, che a
differenza di queste feste è piatta e squallida… E poi secondo te, come siamo arrivati ad
essere così superficiali, a pensare che tutto sia quantificabile, vendibile, acquistabile?
“Compra questa borsa e ti sentirai meglio!” “Sei triste? Regalati questo vestito all’ultima
moda!”. Come con Marco: quando non era ancora un’immagine di pixel sempre incazzata
con una voce robotica, dopo una litigata mi regalava sempre accessori, scarpe, gingilli per
mettermi a tacere, come se per amarci servissero sempre più oggetti. Siamo carne putrida,
come l’odore degli scoli della laguna dopo tanto tempo al sole.
BARBARA
Già mio padre, poveretto, parlava del futuro come del trionfo dell’uomo-macchina, lontano
dalle emozioni, lontano dalla
fede, lontano dalla felicità… Ah, si fosse visto da fuori: come è
poi finito circondato di oggetti inutili come tutti noi!
NORA
Precisamente! E Oscar è stata la scoperta dell’antidoto a tutto questo. In un mondo artificiale
è la spontaneità fatta persona. Non sai che sofferenza, tornare qui al bar e non vederlo dietro
il bancone! Mi sembra di tornare a mesi fa, quando ero chiusa in un doppio recinto, quello
della relazione con Marco e del lockdown. Ci ho riflettuto a lungo e sono decisa a chiedere il
divorzio…Più vado avanti e più Marco mi dà motivi per odiarlo. Ha licenziato Oscar! Ti
rendi conto? Ora è su una strada… ci è sempre stato in realtà, ma ci siamo fatti delle
promesse! Gli avevo promesso che la sua vita sarebbe cambiata, trovando i soldi per studiare!
Comunque tutto questo è accaduto soltanto perché il vicino non sa farsi i fattacci suoi e arriva
a spettegolare anche dall’altro lato dell’oceano! Prima il suo amico che fa la spia e parla delle
avventure di Oscar con una donna, poi questo, che non si fa scrupoli a fare il mio identikit!
Avremmo dovuto essere più prudenti, non farci vedere troppo insieme, ma al diavolo! Da
quando Torino è diventata un paesino di provincia? “Ho ragioni di credere che il barista sia
l’amante di Nora”. Che faccia tosta! Come se sua moglie non si fosse fatta il tour dei letti di
mezzo quartiere!
Vado a Venezia per staccare dai problemi, ma ecco che mi inseguono in gondola! Avresti
dovuto sentirlo, Marco in videochiamata a Venezia era inviperito, uno scandalo
inammissibile, insinuare che la sua fedele mogliettina, delle classi alte, di buon nome, abbia
come amante un comune mortale, un disgraziato che non aveva papino che gli passava i soldi
sul conto! Non ha dubitato un attimo della mia innocenza, che tenerezza! Non ha la più
pallida idea di chi io sia. La sua mentalità è così ristretta …No, non posso tornare con lui. E
con Oscar non può finire tutto così, non può. Anche perché…
BARBARA
(interrompendola bruscamente)
Beh si, hai tirato su tante questioni: se hai bisogno di distrazioni da tutti questi pensieri basta
che batti un colpo.
(sempre con uno sguardo malizioso)
Ma ti capisco, col tempo alcuni matrimoni si rivelano essere delle vere gabbie. Il mio
consiglio è: liberatene finché sei in tempo! Io l’ho capito tardi, ma almeno l’ho capito! Per
quanto riguarda Oscar, insomma, dovresti ricordarti che è finita solo quando tu decidi che è
finita. A quanto pare lui l’ha capito.
Fa un cenno a qualcosa dietro le spalle di Nora. Oscar entra, si avvicina alle due donne,
sedendosi vicino a Nora, mentre Barbara si allontana.
NORA
(estasiata, abbracciandolo d’impeto)
Oscar! Pensavo fossi tornato dai tuoi genitori!
OSCAR
(con tono dolce, ricambiando l’abbraccio)
Pensavo di tornare a casa domani, volevo rivederti.
NORA
(staccandosi dall’abbraccio)
Ehm…
(Tossisce)
OSCAR
(Ammiccante)
Che c’è? Ti sono mancato? Hai già voglia? Io te l’avevo detto che a Venezia non avresti
trovato niente di meglio di me e che…
NORA
No, no, no, non sto ammiccando per quello.
OSCAR
A cosa ti riferisci allora?
NORA
(Tossisce di nuovo)
È difficile da dire…
OSCAR
(Un po’ stupito)
No, ma guarda che se sei stata con qualcun altro, va bene così. Ne
abbiamo parlato… Non siamo la solita coppia perfetta, chiusa nel suo nucleo… Guarda che
lo so che il mondo è talmente grande che…
NORA
(spazientita)
Oscar! Ha a che fare col sesso ma non con quello che pensi tu!
OSCAR
(Pausa lunga)
Non mi viene in mente niente…
NORA
(Scocciata)
Sono incinta!!
OSCAR
(Pausa lunga)
Come?
NORA
Non sei felice?
OSCAR
(intimorito)
Ma, ma sì… Certo…certo che sono felice! Che domande fai?
(con un sorriso forzato)
È che…sì insomma, è un mondo brutto, crudele per far nascere un figlio. Ho-ho una paura
tremenda per il futuro, il mondo che gli daremo in eredità…
NORA
Guarda che siamo noi ad averlo voluto! Poi, guardami: madre, aspirante attrice, compagna di
uno spiantato (ride). Chi lo sa cosa accadrà? Ma con te sento di potere tutto. Ora non
pensiamo al futuro. Sii tenero con lui, e questo sarà già il suo futuro! (fa una pausa e lo
guarda intensamente) E poi, guardati: tu non sei nel mondo per occupare uno spazio e basta.
Sei attivo, vivi nel presente, ti informi, studi, cerchi di capirci qualcosa da questo casino che
chiamiamo vita. Non ti lasci sopraffare dai problemi ma reagisci, li affronti a testa alta. E
quando riesci ti fai carico anche dei problemi degli altri, a volte rimettendoci… Insomma, sei
un padre in tutto e per tutto, con un po’ troppa strafottenza, ma su questo ci possiamo
lavorare!
OSCAR
(colpito e mosso dal discorso, le tocca la gamba e le prende il viso con la mano)
Menomale che ho risposto a quell’annuncio di lavoro. (La bacia) Ma, il divorzio?
NORA
(fiduciosa)
A questo penserò quanto prima. Lasciamo passare un po’ di mesi per tutta la faccenda
burocratica, e poi potremo fuggire insieme, costruire la nostra famiglia.
OSCAR
(guardandola a metà tra il serio e lo scherzoso)
Siamo in una marea di incertezze, ma riporle su qualcosa che è dentro di te mi rassicura
enormemente…Ora che ci penso, invidio questo bambino: lui può stare dentro di te ancora
per molto tempo! Non che non possa farci anch’io un pensierino.
(la guarda ammiccante, mentre si prendono per mano, si alzano ed escono)
INTERNO APPARTAMENTO. NOTTE
È notte fonda. Nora è seduta sul davanzale della finestra. Le luci dei lampioni rischiarano il
buio. Nella penombra si scorge la sagoma di Oscar, steso nudo sul letto, sotto le coperte.
NORA
(fra sé, guardando Oscar)
Incontrarlo è stata la cosa migliore che mi sia capitata. Con lui mi sento viva, la versione
migliore di me. Con lui non provo vergogna. Marco, lui spegneva la luce ancor prima di
spogliarsi: per lui il sesso è sempre stato qualcosa di meccanico, logico, tanto più per la sua
ossessione di avere un bambino. Qualcosa di passivo, freddo, rigido nelle movenze. Con
Oscar è tutto diverso. Lui mi ha ricordato cosa sia la tenerezza, l’ebbrezza di ricevere una
carezza tra le gambe calde. E di avere una testa appoggiata sul seno, come il luogo più
naturale su cui riposarsi. Ha restituito il calore al mio corpo, che stava appassendo ancora nel
fiore degli anni. Dopo mesi di toccate di gomito, di guanti, sorrisi nascosti sotto una
mascherina, e dopo sei anni di baci forzati e abbracci meccanici, finalmente ho riscoperto
cosa siano i corpi, l’istinto, il desiderio che divampa come un incendio, gli abbracci veri,
struggenti, che isolano dal resto del mondo. Oscar mi ha ridato un senso di libertà, di vita.
Con lui posso dire, si cazzo esisto! Esisto, ho le mie esigenze e non posso far finta che la vita
sia questa. Prima di lui la mia non era vita, era sopravvivenza, trascinarsi penosamente di
giorno in giorno, con le ali tappate, le aspirazioni bloccate sul nascere. Avere un bambino con
Marco sarebbe stato un vincolo ulteriore per legarci a vita, la promessa di un futuro
tremendo. Ma avere un bambino con Oscar è un dono, un’occasione per ricominciare tutto di
nuovo, ma per il verso giusto. Con la persona giusta.
Recupera il telefono dalla borsa, che non aveva più controllato perché scarico. Lo attacca alla
presa e attende che si riaccenda. Riceve una notifica da parte di Marco.
MARCO
(messaggio)
Il volo sta per decollare, volevo farti una sorpresa, in questo periodo abbiamo avuto tanti
scontri e vorrei fare pace.
Nora guarda l’ora: gliel’ha scritto 7 ore prima.
Affannata accende la luce, sveglia Oscar. I due si rivestono e sistemano la stanza.
NORA
(aprendo la porta)
Allora alla pros…
Vede nell’androne Marco, che stava per suonare il citofono. Entrambi ammutoliscono. Marco
squadra tutti e due da capo a piedi.
MARCO
Beh, sono tornato.


BIBLIOGRAFIA
David H. Lawrence, Lady Chatterley’s Lover, 1928 (L’amante di Lady Chatterley, tr. it. di S.
Rita Sperti, Milano, Feltrinelli, 2013)

Sleeping beast – La solitudine del coraggio

Tommaso Buffa immagina, in questo suo lavoro, un dialogo sull’amore e la vendetta fra Laclos, Ovidio e i personaggi di Cowboy Bebop. La riscrittura è stata sviluppata nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Easy come, easy go” sentenzia Faye Valentine in Cowboy Bebop. Ma ci si può davvero liberare facilmente del proprio dolore? O è forse esso a dimenticare di chi eravamo, toccando e cambiando la nostra interiorità più profonda? La sofferta lettera di Faye al suo amato traditore ci dimostra, dalla Roma antica al Giappone del XX secolo, passando per la Francia del ‘700, come il lamento, il disprezzo, il desiderio di rivalsa siano solo alcuni dei modi con i quali rinforzare (o distruggere) il proprio cuore segnato da crudele abbandono.

*

Questa lettera giunge a te, traditore di donne, usurpatore del luogo più sacro ed inaccessibile delle loro anime, ladro del sentimento che a loro e loro stesse dovrebbero dedicare. Non vi leggerai tuttavia altro che il mio disprezzo, non vi noterai altro che la mia determinazione, e se, illuso dalla tua stessa reputazione, inorgoglito dai tuoi disprezzabili successi, debole e superbo, la inclinassi contro luce, in cerca dei segni di una lacrima, di odio, di un rimpianto, dell’impronta indelebile che ancora credi di aver lasciata nel mio cuore, non vi troveresti altro che un oceano di indifferenza, ed il mio cuore freddo come una pietra e privo di scalfitture. Con quale audacia ti presentasti a me, fingendoti chi non eri, e se solo avessi saputo allora quanto fosse patetica la tua messinscena, disoneste le tue intenzioni! Ma funzionò, e cento volte sia maledetto il giorno che mi mostrai così debole! Solo un riflusso, l’oceano del mio cuore ancora inquieto, proferisce pensieri che non più gli appartengono. Perché infatti maledire un’occasione per migliorare? Perché disprezzare chi fui, quando amo chi sono? Chi, dopo aver aperto il forziere, lamenta il tempo speso a cercare la chiave? Chi ha sofferto senza riuscire a trovarsi. Io, al contrario, ti sono quasi grata. Ancora, non susciti più sentimenti tanto forti da scomodare il destino, non alimenti alcuna fiamma né tanto brillante né tanto cupa e desolante in me. Il mio cuore è sigillato, ma, ahimé, ecco! una stilettata, un dolore, un sibilo, e un debole lamento che ancora traspira. Mi infastidisce, ma lo lascerò libero di sfogarsi, che sia l’ultima volta e poi ti avrò espulso fuori bordo come un rifiuto. «Nata per vendicare il mio sesso e dominare il vostro, ti ho tolto il potere e la volontà di nuocermi, tiranno divenuto mio schiavo», e dopo questa lettera sarà l’oblio, per te e per il mio cuore.

Ma quale effetto mi facesti, come mi scombussolasti l’animo, quando ti vidi per la prima volta! «Perché mai mi piacquero più del dovuto i tuoi capelli grigi, la tua eleganza ed il garbo artificioso delle tue parole?» Ah, come riconosco e biasimo oggi il mio comportamento come quello delle «donne attive nell’ozio che chiamiamo sensibili, e in cui l’amore si impadronisce facilmente di tutta l’esistenza»! Ma come avrei potuto far accadere altrimenti? all’epoca ero priva delle conoscenze, non possedevo ancora i miei mezzi. Sola, in un mondo straniero, differente da quello che avevo lasciato, ma poi, quale mondo avevo lasciato, quando su nulla la mia volontà aveva avuto autorità? Fu tutto il resto a lasciare me, la mia famiglia, il mio pianeta, i miei ricordi, la mia realtà.

Venisti da me al mio risveglio da un sonno criogenico, cinquantaquattro anni terrestri, innumerevoli vite altrui iniziate e terminate trascorse alla deriva nel vuoto, nell’oscurità infinita, nella solitudine più cupa, nel gelo assoluto. All’alba di quell’interminabile notte, durante la quale la mia Terra era stata distrutta e gli umani avevano cominciato ad abitare l’universo, mi ritrovai priva di memoria, ed ogni traccia del mio passato, tranne il nome, Faye, obliterata. Tratta in salvo solo per essere messa di fronte ad un folle debito di spese mediche per un incidente di cui il mio corpo non portava alcuna traccia, il mondo che tanto a lungo si era dimenticato di me mi restituiva la coscienza per umiliarmi ed espormi al suo squallore. Fu allora che mi promettesti il tuo aiuto, il tuo supporto, poi il tuo amore, e “a che scopo? in cambio di cosa?” furono le domande che volli ma non fui capace di porre. Nuda, priva della mia identità, a malapena riuscivo a tenermi stretta la certezza di averne una, e come avrei potuto chiudere il mio cuore quando quello, completamente vuoto, bramava calore? Si può considerare chiusa una scatola vuota, se al suo interno c’è solo spazio da riempire? Ero ancora me stessa, sì, ma appena nata, e come un neonato che senza conoscere nulla cerca il seno della madre, io cercai qualcuno e ti facesti trovare tu, e «chi riesce a nascondere bene l’amore», quando non possiede altro? «La fiamma appare ben visibile, tradita dal suo stesso chiarore.». «Imprudente, nel mio amante attuale non seppi vedere il nemico del futuro!».

Mi ritrovai a dipendere da te nella mia interezza, il mio corpo, il mio animo, la mia volontà erano le tue, io continuavo a non capire, a non spiegarmi tanta gentilezza, ma intuivo l’affetto, il suo peso rassicurante, ero consapevole della tua presenza al mio fianco, mai troppo lontana ma, ahimé, mai lontana abbastanza! L’iniquo debito non diminuiva, la tua promessa non era mantenuta, ma la tua voce era ferma e rassicurante, ed io, ingenua, ero certa della sincerità del mio amore, e convinta che non servisse altro ad un’esistenza lieta. Poteva forse qualcosa di tanto squallido e materiale competere con l’elettività del nostro rapporto? Come in una fiaba, eravamo legati da un filo rosso, tu ti definivi «il mio principe ed io la tua bella addormentata», e tanto bastava ad allietare il mio cuore di bambina, debole ed illuso, tanto fragile che pareva minacciare di implodere se tu lo avessi nuovamente svuotato, con lo stesso impeto con il quale lo avevi riempito. Succuba e serena, non riuscivo a sentire alcun male nelle tue parole, non riuscivo a vedere alcuna distanza nei tuoi occhi, a notare alcuna menzogna nei tuoi discorsi, a percepire alcuna distanza nei tuoi abbracci. Eri lì al mio fianco, tanto più grande e luminoso di quanto non fossi io ed a me andava bene così, contenta della tua luce riflessa. Ancora priva di memoria come sono adesso, credevo per me stessa di non poter essere altro da ciò che tu la rendevi, e le tue azioni mi parevano sempre prive di malfatto, di un’armonia e bellezza ineguagliabili. Mi sentivo piena, come un frutto maturo appeso al ramo di un albero, piccola ed orgogliosa, orgogliosa di ciò che tu avevi fatta di me, ed in piena estate, bagnata dalla luce del sole, invincibile, non riuscivo nemmeno a concepire la separazione, ed ero sicura nella mia stoltezza.

Ciò che non sapevo, ciò di cui, irradiata da quell’amore bugiardo e che tuttavia era l’unica realtà che il mio sguardo trovasse, non mi rendevo conto, era che l’abbandono, apparentemente così lontano ed estraneo, come la colonia di un piccolo pianeta che si ha difficoltà anche solo a trovare sui radar, era in realtà l’elemento fondamentale della mia storia, il senso stesso del mio vuoto passato. Come potei dimenticarmene? Come potei dimenticare il torto subito dal destino, la beffa che l’universo, l’unica vera casa e famiglia di tutti gli esseri viventi, mi aveva giocato, strappandomi, di certo per invidia, dall’altra mia casa, dall’altra mia famiglia, dallo stesso pianeta che avevo sempre abitato, proiettandomi nel vuoto, intimo ed esterno? Come potei non accorgermi che coloro che mi avevano già abbandonata una volta, le persone, l’avrebbero fatto ancora ed ancora? Come potei non accorgermi della solitudine che è nostra natura più evidente?

Potrei giurare, questo giorno di due anni dopo, con il pensiero della tua patetica figura rinchiusa nella stiva della mia nave a mo’ di zavorra, che sì, me ne accorsi eccome, ma, ahimé, non seppi fuggire, non seppi voltare le spalle al tuo calore così accogliente per volgermi nuovamente all’infinito gelo della solitudine, buio e profondo come un abisso, sconcertante, crudele nella sua indifferenza e nel suo silenzio, dal quale mi avevi tratto in salvo. Che per di più il tempo pareva dissipare ogni dubbio, ed il nostro falso amore pareva più inamovibile del Monte Olimpo. Chi avrebbe immaginato che il periodo passato così dolcemente insieme era solo atto a rafforzare l’inganno!

Eravamo insieme, quella sera come tutte le altre, quando, orrore! mi guardasti con occhi mai stati tuoi, occhi gelidi, impassibili, all’improvviso fra di noi una distanza siderale – riecco l’abbandono! l’antico spettro tornato a tormentare la dimensione che non ha mai lasciato,  nei tuoi occhi, gli occhi del tradimento, vidi riflesse le mie lacrime e laddove avrei dovuto leggere l’inevitabile, il mio destino, resa ingenua e folle – sì, folle, solo ora mi è chiaro! – dalla paura di perderti vi lessi invece la tua determinazione, quando grave mi confessasti che i creditori si erano infine fatti vivi, e la tua intenzione, tragica e solenne, di liberarti di loro una volta per tutte! Ecco l’abile e misera menzogna! Quale imbarazzo mi causa oggi ripensare al trasporto con cui ti credetti quando, nascosto dalle suppliche di non andare, di fuggire solo con me, lontani da tutti, dall’avarizia, dal grigiore degli animi umani!, il mio animo gioiva spavaldo al pensiero tuo coraggioso, luminoso, proprio come un principe sul suo destriero – e quanto mi sentii orgogliosa di te, e di me stessa per essere tua, tua preziosa ed insostituibile, da proteggere a tutti i costi dal peso del mondo! Debole mi coprii con uno sguardo convenientemente infantile e pensai che sì, che sicuramente tu avresti combattuto e sconfitto – quanto risuona ingenuo adesso! – i malvagi creditori come il drago al castello, ma che sì, sicuramente il pericolo dava adito a precauzioni e sì, indubbiamente era necessario che diventassi immediatamente tua erede universale che, il caso non lo volesse (e come avrebbe potuto volerlo, quando il nostro amore era eletto dal destino?), tu fosti morto, avresti potuto continuare a prenderti cura di me. Ah, tanto più è dolorosa l’inevitabile rivelazione della realtà quanto più ci si è ostinati a non guardarla! Ma quale eroe, ma quali nobili intenzioni! Fuggisti come un codardo, e a mio carico la tua eredità, un ammontare di debiti due volte maggiore del primo! Eccovi servito l’amore eletto! Usata ed ingannata, ti permettesti – oh quale onore! – di considerarmi degna di affidarmi il tuo fardello – quale miseria! Esiste forse fardello più infimo? per poi lasciarmi nuovamente al freddo ed alla solitudine. Quale umiliazione dovetti di nuovo subire, ma quale coraggio ne ho tratto!

Ma prima tu, la tua pateticità, la tua meschinità: non un eroe, ma il più squallido dei semplici uomini, ma che dico, inferiore! Animale! Principe ti definisti, quanto è principe il maiale che per ultimo giunge al trogolo! Come osasti consolarmi con le tue parole sudicie, rassicurarmi con le tue false promesse, scaldarmi l’animo con i tuoi malvagi discorsi! Il principe dei serpenti al massimo, con una tale lingua biforcuta! Ti meriti il maggior disprezzo, ma la minima attenzione. Sicuramente sto dando troppa considerazione immeritata ai tuoi irrilevanti talenti. D’altronde come nuoti, o meglio dire annaspi, in questo universo? con quali squallidi mezzi porti avanti la tua miserabile esistenza, nemmeno degna di essere detta vita? Avvicini donne disperate, senza un passato a cui chiedere coraggio e senza un futuro a cui chiedere speranza, e le conquisti, quanto è facile per un lupo predare un cervo zoppo. Per quanti anni hai mentito? Quante donne hai rovinato? Quante ingenue hai fatto cadere nella tua ragnatela e divorate? Di sicuro non hai divorato me, che caddi sì nella tua ragnatela, ma ne uscii con coraggio, indenne e rafforzata. Ho ritrovato la mia identità, ho ritrovato il mio coraggio, la mia determinazione, e solo grazie al tuo tradimento. Ti ringrazio? Oh sì, tale è ringraziare una zanzara per aver affinato i miei riflessi. Ma non di meno riconosco il tuo merito. Abbandono e solitudine sono la natura nostra di umani e mia in particolare, tu servisti solo da promemoria. Conosco la realtà della nostra condizione. «In questo mondo regna la legge della giungla: ingannare ed essere ingannati è la logica della vita. Riporre fiducia nel prossimo non porta alcun guadagno: questo è il mio imperativo», questa la lezione che ho imparato.

Tu me la insegnasti a modo tuo, me la facesti sentire sulla pelle, fragile come vetro, rigettandomi nel gelo dell’abbandono, ma il vetro non si infranse, ne uscì temprato. Duro come il diamante, il mio spirito è incrollabile. Se ingannare è la logica della vita, ho imparato ad ingannare. Se essere traditi è il destino delle persone, ho imparato ad approfittarne per ricavare guadagno. Si sbaglia forse andando contro natura? Per questo non ti odio. Ti disprezzo, questo sì, disprezzo lo squallore dei tuoi mezzi, lo scarso valore delle tue conquiste. Ti definisci uomo? Quale vero predatore, nella giungla in cui viviamo, cercherebbe la preda più facile? Un parassita, ecco cosa sei. Strisci sotto il fogliame, per finire chi è già sull’orlo del vuoto. Così attaccasti anche me, neonato germoglio in un campo costantemente straziato dalla falce. La tua mano di contadino mi espose alla luce, quanto fu luminosa per un istante! ma quando provasti a recidermi alle radici, fallisti. Uomo patetico quale sei, non riuscisti a tagliare il più debole dei filamenti.

Ma che dico, fui io, fui io a non farmi recidere! Fui io, a portare sempre appresso il dubbio. Me ne accorgo oggi, quando dopo due anni ti ho finalmente visto per quello che sei. Intenzionalmente ho lasciato parlare il mio cuore all’inizio di questa lettera. L’ho permesso, ma adesso non più: ti avevo avvisato, il mio cuore ora è un monolite, l’oblio degli affetti e della nostalgia di essi. Non rimpiango il tuo falso amore, non rimpiango il tuo gelido calore. Come potrei? ripensandoci ora, mi accorsi in fondo ben presto che non era un filo rosso a legarci, ma una pesante catena. Ma a chi altro avrei potuto rivolgermi, al tempo? Non mi ero ancora resa conto della risposta tanto evidente quanto mi appare adesso la luce di questo schermo: “a me stessa”, ovviamente. Avrei dovuto cercare in me, nei miei mezzi, nelle mie capacità, il sollievo. Invece, delirante, lo cercai in un uomo. Quale ironia, cercare rifugio da braccia tese a strappare fra braccia strette a strangolare! «Ma una donna sventurata che senta per prima il peso di una catena, quali rischi ha da correre se cerca di sottrarsi ad essa, se osa soltanto sollevarla?» Così non osai combatterti, non osai fuggire, e restai a crogiolarmi nel calore del tuo inganno. Sentivo che «sarei stata senza risorse se tu fossi stato senza generosità».

È stato solo quando mi hai meschinamente tradita che mi sono resa conto della follia nella quale stavo conducendo la mia vita, che l’albero al quale credevo di sorreggermi era invece un opprimente viticcio intento ad offuscare ed indebolire i miei sensi. Che orrore, ripensare alle tue mani strette alle mie, al suono dei tuoi sussurri accanto al mio viso, alla sensazione delle tue labbra sul mio corpo! Quando ascoltavo la tua voce promettermi le infinite carezze dell’amore eterno, le infinite gioie della nostra affinità, mi pareva simile al vento che batte le lande deserte di Marte, caldo e rassicurante. Riportandola alla mente ora, non sento nulla di dissimile alle grida di un ubriaco nella notte di Blue Crow, patetico e miserabile.

Ma quando mi sono ritrovata di nuovo sola, o meglio sola come sempre, sono forse crollata di nuovo della disperazione? Ho forse maledetto il mio destino, pianto una pioggia di lacrime, strappato i miei capelli alle radici, deturpato il mio viso con le mie stesse unghie? Per chi, per l’uomo più insignificante dell’universo, per il pesce più minuscolo in questo oceano? Deturpare il mio viso, la cui fierezza non hai potuto cancellare, la cui bellezza è la mia arma ed il mio orgoglio? Quanto sarai rimasto deluso, vedendomi fuggire indenne al tuo inganno! Mi sono fatta forte e spietata. Sono diventata cacciatrice di taglie, ho saputo creare i miei mezzi, fondare i miei principi. Ho lavorato su di me «con cura, e con ancor più fatica». Fintanto che l’obiettivo è proteggere quanto di più prezioso ho al mondo, me stessa, ho rifiutato di farmi scrupoli. Gentilezza ed altruismo non esistono, solo inganno e egoismo, ed una lotta continua, una strenua ricerca della vetta più alta, dalla quale dominare e sopraffare chi non è in grado di raggiungerci e difendere da chi tenta. E oh, quanto mi sono elevata al di sopra della tua ombra! Tu, vile, sei invece sempre rimasto a bocconi sulla terra, a godere dei tuoi abietti successi, e quale delizia incontrare il tuo muso di bestia sull’elenco delle taglie rilasciate e constatare, con la facilità della tua cattura, la tua inferiorità! Tutto ciò che hai mai posseduto, i tuoi piccoli inganni, le tue piccole vittorie, io lo moltiplico mille volte. Do’ la caccia a pesci grossi, pesci che ti sbranerebbero in un solo boccone, e li piego sotto il mio stivale. Vuoi sapere a quanto ammontava la taglia più alta che ho mai riscosso? ₩28,000,00. Vuoi sapere a quanto ammonta la tua? Un ridicolo ₩19,000. Non mi basterà per un vestito nuovo, se non un mucchio di stracci. Potrei comprarli e spedirteli in prigione, che dici? Un mucchio di stracci per un patetico straccione, la cui voce è quella di un ubriaco.

Ma non troverei alcuna gioia ad umiliarti. La mia indifferenza nei tuoi confronti è una nave che ti sorpassa e ti annega nella sua scia, talmente vasta che al suo interno perderesti la tua identità. Sarebbe forse la fine adatta a te, ridurti come un animale, incapace di esprimere te stesso e la tua volontà, volontà disprezzabile, incapace di desiderare altro che il male di donne deboli e sole. Ma poi, quante volte la tua truffa è veramente riuscita? Quante volte sei stato in grado di distruggere veramente una donna, nel suo intimo, fino a non farle più desiderare di sorreggersi sulle sue stesse gambe e continuare a vivere in questo mondo? Non mi stupirei se la risposta fosse nessuna. Coloro che conoscono la realtà della nostra natura, non soccomberanno a te. Sei forte dei tuoi inganni con chi non sa ingannare a sua volta, ma impallidisci di fronte ad un confronto degno. E le donne, tutte, se educate a sufficienza dalla vita, hanno più valore di te. Le donne, tutte, se in possesso del proprio orgoglio, della propria integrità, dei propri mezzi e del proprio coraggio, hanno più valore di te. L’ammontare comicamente basso della tua taglia, se non altro, è chiaro segnale, del tuo essere nullità.

Chissà se ancora non te ne rendi conto, se ancora pensi che io mi senta in qualche modo legata a te, che forse il mio cuore cerchi ancora l’amore di cui tanto vaneggiavi, di cui tanto mi illudesti. Non lo cerco, non cerco sentimenti fasulli e privi di significato e di utilità pratica. Che provino a goderne gli stolti, si ravvedranno quando resteranno inevitabilmente delusi e traditi. Non provo nemmeno più il desiderio di conoscere il mio passato. Cos’altro potrei trovare nei miei trascorsi, che mi sia più utile a sopravvivere di quanto già so? Una famiglia, forse? Amici? Legami affettivi inutili, fardelli, debolezze. Una persona deve vivere per sé stessa e per nessun altro. Le uniche relazioni degne di essere intraprese sono quelle che portino guadagno, e si basano inevitabilmente sull’inganno. Mi sono riconciliata con l’amore, «non per provarlo in verità, ma per ispirarlo e fingerlo». Mi riesce meglio di tanti altri, poiché a differenza di una nullità come te, io sono sempre alla ricerca di un’occasione in più, di una sfida, «e se devo scegliere fra due mali, scelgo sempre quello che non ho provato prima». Le promesse, come le tue promesse di amore eterno, non posseggono per me più alcun significato. Se non altro, «le promesse sono fatte per essere infrante», come strumento utile ad ingannare.

E così, eccomi di nuovo al tuo cospetto, ma non di fronte a te o più piccola di te, bensì talmente in alto che i tuoi occhi da talpa, abituati a fissare la terra, non possono nemmeno scorgermi. Sono come ti ho descritto e come ti ho dimostrato: il tuo tradimento ha forse avuto successo? Non sei forse nel mio pugno, grande come una mosca, ammanettato alla parete come l’ultimo dei ladri che sei, al buio e circondato dai topi? Quasi ti immagino, a sperare che la polizia arrivi il prima possibile perché tu possa scappare dalle mie grinfie vendicative. E che questo tuo pensiero sia l’ultimo respiro del tuo debole orgoglio, che ti fa credere degno della mia vendetta. Non riceverai nulla da me, non uno sguardo, non un sospiro, non – no di certo! – una fiammella di compassione, e no, nemmeno questa lettera. Già, perché dovrei consegnartela, pensare ancora a te, mantenere alcun briciolo di qualsiasi genere di considerazione nei tuoi confronti, alcun amore, odio, o sentimento? Indifferenza è ciò che ti meriti. Bonaccia è l’oceano del mio animo, quanto è silenzioso l’universo più vasto. Addio, Whitney, che lo sconforto non ti tolga il sonno, e che non ti giunga troppo presto quello eterno.

Faye Valentine.

Bibliografia

P. C. De Laclos, Le relazioni pericolose, BUR, Milano, 2018.

Ovidio, Eroidi, a cura di Emanuela Salvadori, Garzanti.

Cowboy Bebop, studio Sunrise, editore it. Dynamic Italia, 1999.


Topos e tema: una distinzione teorica. Incontro con Guido Paduano

Giovedì 15 febbraio si è tenuto nella Sala Lauree della Scuola di Scienze Umanistiche un incontro con Guido Paduano, Professore Emerito di filologia classica e di letterature comparate all’Università di Pisa. Paduano si è distinto nel corso della sua lunga carriera accademica per varie traduzioni e commenti ad opere della classicità greca e latina, oltre che studi in ambito musicale e di teoria della letteratura (due suoi libri a riguardo sono: La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale (2008) e Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura (2013) ). Il discorso di Paduano, per la sua tematica, si intreccia, sin dall’introduzione del professor R. Gilodi, alla fondamentale opera di E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino (1948), pubblicata in traduzione italiana soltanto nel 1992, in cui l’autore aveva dimostrato la continuità della letteratura europea dall’antichità greca e romana al ‘700 attraverso la persistenza di alcuni topoi fondamentali.

La tesi di Paduano viene immediatamente esplicitata: la distinzione, o meglio, opposizione tra topos e tema è “teorica” in quanto appartenente più al linguaggio metacritico che ad una realtà effettiva. Essi sarebbero, infatti, più vicini di quanto si sia soliti pensare. Entrambi sono legati al fenomeno dell’intertestualità e caratterizzati dalla ricorsività di un’unità fondamentale all’interno di macrotesti appartenenti ad una sola cultura oppure a culture ed epoche totalmente diversi. Il tema (parola nata in ambito musicale attorno al 1830 e legata da un rapporto definitorio a “variazione”) però viene generalmente visto come un’unità mobile e metamorfica; invece il topos, termine preso in prestito alla retorica classica, è in genere associato ad un’idea di staticità, di forte stereotipizzazione, di fissità. L’opposizione così posta si riflette perfettamente nelle recensioni all’opera di Curtius, che subì alcune critiche, pagando, secondo Paduano, la “cattiva fama” del topos, ovvero la sua supposta rigidità. Le critiche sorsero principalmente proprio dall’aver scelto il topos come concetto portante del libro, ad esempio sostenendo che gran parte dell’erudizione dell’opera mostra semplicemente che “a commonplace remained a commonplace”, oltre al fatto di essersi concentrato più sui fenomeni di persistenza piuttosto che su quelli di mutamento, di innovazione. In verità, nota Paduano, già Roberto Antonelli, nella prefazione all’edizione italiana del volume, contraddice questa visione attribuendo al metodo topologico di Curtius la capacità di entrare nella dialettica “testo-sistema”, indirizzando quindi la fruizione di Letteratura europea verso la critica tematica.

Paduano definisce dunque il topos “un tema di cui si parla male” e la sua opposizione con il tema come frutto di un’analisi viziata dal “pregiudizio” di valore, cioè da un giudizio che precede l’analisi contestuale. Al contrario Paduano propone una definizione che lega le due categorie secondo rapporti differenti: definisce il topos come “un tema in un certo senso abortito”, cioè che non ha trovato una creatività capace di rigenerarlo (un non-evento, una creatività non intervenuta) e il tema invece come un topos che “si afferma attraverso le sue mutazioni”, un terremoto di valori che spesso porta allo stravolgimento, alla vera e propria “esplosione di un senso nuovo”. Ed illustra questa seconda idea attraverso tre esempi letterari di altissimo livello, tre topoi che, a partire dalla loro origine antica, subiscono nel corso della storia stimolanti e imprevedibili trasformazioni, e che dimostrano una vitalità che contraddice la comune visione immobilistica e sterile di questa categoria. Il primo di questi esempi è il topos dell’insufficienza del tempo amoroso che troviamo per la prima volta nell’Odissea (la notte, prolungata da Atena, in cui Odisseo e Penelope, ricongiunti, si raccontano a vicenda gli anni trascorsi) e che viene ricreato e rielaborato finemente nel Romeo and Juliet shakespeariano, nel contesto della separazione degli amanti al sorgere del sole. Nell’opera esso si manifesta attraverso un interessante scambio delle parti: Giulietta nega l’evidenza dell’alba che sopraggiunge (affermando che il canto dell’allodola è invece il canto notturno dell’usignolo), Romeo l’asseconda, ed infine Giulietta ribalta quanto detto in precedenza, comprendendo la pericolosità della loro situazione, e lo congeda. In Romeo e Giulietta questo topos dell’alba demonizzata “si scontra”, inoltre, con un altro topos, anch’esso molto antico e di valenza quasi antropologica: quello dell’opposizione luce-buio, secondo cui la luce (e il giorno) è associata al polo della positività, della vita, mentre il buio (e la notte) a quello della negatività, della morte e del disvalore. Lo scambio che avviene nella scena della separazione degli amanti viene infatti anticipato e contraddetto da un passo in cui Romeo definisce Giulietta come “un sole”, che lui invita a sorgere scacciando la luna invidiosa.

Il secondo topos trattato è quello, invece, del “dialogo con se stessi” nel racconto Lenz di Georg Büchner, un topos antico quanto l’Iliade, che però nella sua formulazione originaria presupponeva la fondamentale unitarietà del soggetto in cui avviene il monologo interiore. Al contrario, nel personaggio di Lenz, poeta folle, viene sancita l’impossibilità di questa unità proprio dall’incapacità stessa di avviare questa comunicazione con se stesso e dalla conseguente affermazione del soggetto come entità frammentaria e scissa.

Infine, Paduano ha trattato l’antico topos della “natura che ride”, ovvero della natura che riflette lo stato d’animo dell’uomo, la sua letizia, e la sua profonda trasformazione nel III atto del Parsifal di Wagner. Nel Parsifal il riso assume più di una connotazione: è risata denigratoria quella di Kundry, la donna che ride di Gesù sulla Croce, e che per questo verrà punita con una maledizione secolare, quella di non poter piangere. Solo dopo un lungo percorso di redenzione Kundry riuscirà di nuovo a erompere nel pianto, in contemporanea alla rinascita della natura nell’incantesimo del Venerdì Santo. Le parole di Parsifal saranno: “Tu piangi, vedi! il prato ride”. In questo caso, a differenza dell’originaria declinazione del topos, la natura e l’uomo hanno due manifestazioni opposte, eppure coincidenti ad un livello più profondo.

Gli spunti di riflessione suscitati dalle considerazioni di Paduano sono molti. Le operazioni della comparatistica, così come lo studio dei topoi attraverso i secoli e le letterature, non devono limitarsi esclusivamente ai rapporti di discendenza genetica tra i testi, all’automatismo dell’imitatio. E allo stesso tempo non si può ritenere come frutto di coincidenza o caso tutto ciò che non può essere ricondotto alla filiera genetica, come non si può ricondurlo al modello degli archetipi junghiani, strutture che, secondo Paduano, non possono servire alla critica letteraria, in quanto distruttive di ogni differenziazione e significato. Ciò che invece dev’essere indagato è, analizzando singolo testo per singolo testo, come in diverse circostanze storiche siano state stimolate risposte simili, dando vita a interessanti parallelismi, e privilegiando nello studio i fenomeni di ricreazione autonoma rispetto alla semplice meccanicità dell’imitatio o aemulatio. Ciò che rende un testo un capolavoro non è, infatti, la sterile ripetizione di pattern letterari precedenti, di topoi, bensì l’elemento di novità, di scarto, di originalità, così come emerge dagli esempi letterari citati. Una delle linee di accesso più interessanti a questo aspetto, come suggerito dal professor Gilodi in commento alle tesi di Paduano, è stato forse proprio quel “senso dell’individuale” in relazione all’opera letteraria, in cui per “individuale” si intende “unico nella sua irrepetibilità”, assunto dal circolo protoromantico di Jena come cifra del loro pensiero nonché come essenza della poesia moderna rispetto a quella antica.

Caproni recensore: un laboratorio di poetica

In questo articolo, Gaël Pernettaz propone un’interessante analisi della figura di Giorgio Caproni recensore. Attraverso lo spoglio di articoli e dichiarazioni si ricercano costanti di questo aspetto secondario dell’attività dello scrittore, delineando in modo più completo la sua poetica attraverso l’illustrazione del rapporto che intercorre fra le recensioni e i componimenti in versi.

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Poeta, fra i principali esponenti della corrente antinovecentista. Un uomo magro, dal fisico schietto e nodoso, grande fumatore e amante della musica e della poesia, a cui dedicò tutta la sua vita. Questo fu Giorgio Caproni, e molto altro ancora: fra le altre cose, scrittore di narrativa, traduttore e critico, o piuttosto recensore, come lui stesso preferiva definirsi.

Egli rifuggiva infatti l’epiteto forse troppo magniloquente di “critico letterario”, probabilmente perché sentiva che tale vestito cadeva largo, troppo largo, sulle sue minute fattezze. Forse per tale ragione ha costellato la sua intera carriera di momenti in cui autosvalutava il suo lavoro, preferendo mostrarsi come un semplice omino dedito al suo lavoro con zelo e calma, piuttosto che imbellettarsi con quell’artificiosa immagine di arbiter elegantiae e al contempo di giudice infernale che contorna la figura, tanto temuta, del critico letterario.

Ora non ci si fraintenda: Caproni non portava avanti una battaglia contro la critica, che invece amava e apprezzava, quando ben fatta (ovvero, secondo lui, quando fatta da altri), e queste prese di distanza non sono da intendersi né come espressioni di falsa modestia, né come attacchi all’attività critica, quanto piuttosto come la constatazione sine ira et studio di un uomo che ha già trovato altrove la sua vera voce -o la sua musa, se si preferisce- e che si occupa di recensioni solo per dovere, seppur con la passione e il fresco entusiasmo del non specialista. Passione e entusiasmo che non lo abbandonarono mai per gli oltre cinquant’anni di esperienza, durante i quali collaborò a diverse testate fra cui «La fiera letteraria», «Italia socialista», «Il lavoro nuovo», «Mondo operaio», «La Giustizia», «Il Punto» o ancora «La Nazione».

È indubbio il fatto che nelle recensioni Caproni parli dei libri come ne parlerebbe con un amico davanti a un caffè, o come un ammiratore e non piuttosto in qualità di giudice, con il rigore e il distacco del critico, così come la mai sconfessata difficoltà nello scrivere recensioni, che a volte assume i caratteri molto più netti del rifiuto frontale se si pensa a certi versi del 1963 «Come sono felice/ dopo una recensione/ porre il libro lodato/ – Merda! «in un cassettone»./ Il pianto che m’è costato,/ il sudore, il groppone,/ il cuore che c’ho consumato/ a leggerlo/ che maledizione!/ […] Anch’io sarò divorato dai topi: è la condizione». Questo non basta però ancora a privare di interesse la figura tanto bistrattata (dallo stesso in primis) del Caproni recensore; e non solo per il valore documentario, di “dietro le quinte”, di laboratorio di poetica, che permea tutte le sue recensioni (una su tutte l’articolo Versi come utensili, apparso nel giorno di Natale del 1948 su «Mondo operaio» e poi divenuto celeberrimo), ma soprattutto perché in poche figure l’interdipendenza fra poesia e vita è infatti tanto stretta quanto lo fu per Caproni.

Proprio questa sua attitudine, che puntellò l’intera sua opera (per non dire l’intera sua vita) a ridurre tutto alla poesia, è ciò che lo portò non solo a riversare nell’attività di recensore tutta la sua esperienza da scrittore in versi, ma anche a cercare nei libri analizzati- per la maggior parte raccolte o antologie poetiche- i temi cari alla sua poesia. Senza dubbio l’esempio più evidente è l’articolo Poesie di Pasolini, apparso su «La fiera letteraria» del 20 marzo 1947, in cui Caproni loda artifici retorici della poesia di Pasolini (quali l’utilizzo del vezzeggiativo, la ripetizione del nome, la musicalità cavalcantiana) di cui lui stesso si servirà, dodici anni più tardi per cantare la madre Annina nei Versi livornesi, sezione de Il seme del piangere. Ad ogni modo nessuno degli autori recensiti, negli oltre cinquant’anni, sia i meno conosciuti (Ferri, Sbaraglia, Manzini, Reale, Belleli, Carra, Zoni o Verginelli per citarne alcuni) che i più affermati, italiani (quali gli amati liguri Montale, Roccatagliata Ceccardi, Novaro, Boine Grande o Barile, o ancora Rebora, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Penna e Sereni) o stranieri (Jacobi, Guillén, Salinas, Machado, Pound, Brecht, Joyce o Apollinaire ), è potuto sfuggire a questo vaglio critico; così Caproni, nell’aprire una poesia di Saba o una di Montale, come una di Machado o di Pound sempre ha cercato -a titolo di esempio- i minimi che lo ossessionavano, quei tenui barbagli («Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata, nemmeno come lettore») che permettevano alla Poesia di rifulgere, conferendo al testo letto quel carattere di universalità che è proprio della grande lirica.

In parallelo a questa ricerca, Caproni rivolgeva grande attenzione anche alla musicalità del verso e alla sua costruzione poiché, a suo parere, la forma era di primaria importanza e intimamente connessa alla poetica di un autore, e non mera tecnica applicata. Per tale ragione egli, trattando degli autori più disparati, si concentrò sul ritmo e la musicalità del verso, non risparmiando concetti, quali tonica, dominante, settima diminuita, che per il lettore che non si intende di musica, risultano incomprensibili. Questo perché, i vocaboli posseggono due nature, una fonica e una semantica, e la poesia, a differenza della prosa, si serve di ambedue, coniugandole o facendole stridere a seconda dell’intenzione del poeta.

A tale istanza di attenzione alla forma, e al suo legame con il testo, si collega inoltre il rifiuto per quelle che egli definisce le «poetiche a priori», riferendosi a quell’insieme di poetiche appunto, che, durante il secondo Dopoguerra, in opposizione alla precedente stagione ermetica, accusata di solipsismo e ignavia, fecero della poesia un mezzo per proporre -o per meglio dire “imporre”- idee, e non la considerarono invece quell’attività igienica che nasce da un bisogno interiore quale è e quale la intendeva il poeta. Non stupiscono quindi alcune pointes polemiche contro la poesia neorealista, rea di non aver raggiunto i risultati della prosa in quanto sterile esperimento in vitro e per tale motivo rivelatasi più perniciosa che altro. E sempre per la stessa ragione, non sorprende che Caproni in tutti gli autori analizzati cerchi l’afflato di vita, sia quello più palmare – quello, per intendersi dei suoi primi componimenti, in cui le donne erano ancora sapide («Sono donne che sanno/ così bene il mare…») e il fuoco bruciava ancora vivo («Bruciano alla bramosia/ segreta, le carnagioni/ giovani…») nelle vene del giovane poeta-, sia quello, più difficile a cogliersi, delle poesie permeate da una maggiore riflessione, quelle che Schiller definirebbe «sentimentali»: una su tutte La casa dei doganieri, il componimento montaliano da lui prediletto.

Infatti, la poesia non è certo equivalente a un saggio o a un discorso in prosa; non deve mostrare nulla di nuovo al suo lettore, quanto piuttosto, attraverso una forma originale, fare risorgere nel lettore quel je ne sais quoi appunto di poetico, che Caproni stesso non si vergogna di chiamare, con una punta di compiaciuta ingenuità, “emozione” o “sentimento”. Così, anche verso la fine della sua vita egli si riscalda quando sente che la poesia è morta, come dimostra l’articolo intitolato Poesia e scienza: si può ancora cantare la Luna (apparso sul «Tuttolibri» del 6 giugno 1987). Qui agli attacchi mossi da Giorgio Salvini, «illustre Fisico», che aveva osservato come nel mondo odierno, dominato dalla techné e dalla conoscenza, non ci fosse più spazio per la poesia essendo il mistero del mondo ormai svelato, egli risponde difendendo la magia dello scrivere versi, chiudendo con una citazione tratta da Apollinaire che racchiude e sintetizza magistralmente la figura di Caproni, nelle vesti del recensore, del poeta, ma, soprattutto, dell’uomo comune: «Poesia bella, amore mio,/ ci siamo amati storditamente./ Senti che razza di scampanio./ E vuoi non si crucci la gente?»

Gaël Pernettaz

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Bibliografia

Giorgio Caproni,  Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, Aragno, Torino, 2012.

Giorgio Caproni, L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, Mondadori, Milano, 2005 (1998).

Raffaella Scarpa, Secondo Novecento. Lingua stile metrica, dell’Orso, Alessandria, 2011.