di Guglielmo Ferroni
In questa ‘lettura’ Guglielmo Ferroni analizza, attraverso gli studi sulla scrittura storica di Hayden White, il modo in cui Pajtim Statovci utilizza espedienti retorici come metafora e frammentazione nel suo primo romanzo Il mio gatto Jugoslavia.
☙
Introduzione
“Quando incontrai il gatto per la prima volta, fu qualcosa di sconvolgente, come vedere i corpi di cento splendidi uomini tutti insieme…”[1]. Quella che sembra una frase à la Bulgakov de Il maestro e Margherita[2] o, perché no, un estratto della “sciarada gattesca” di Burroughs[3] è invece l’incipit del romanzo d’esordio dell’autore kosovaro-finlandese Pajtim Statovci (1990). Pubblicato in Finlandia nel 2014 con titolo Kissani Jugoslavia, è stato tradotto in italiano nel 2016 presso Frassinelli con il titolo L’ultimo parallelo dell’anima; titolo falsamente evocativo e mossa commerciale allo stesso tempo, come indicava già nel 2017 Nicola Rainò[4]. Il romanzo dell’autore è stato ritradotto dallo stesso Rainò nel 2024 e pubblicato da Sellerio con un titolo (finalmente) letterale, Il mio gatto Jugoslavia. Sellerio aveva già pubblicato gli altri due romanzi di Statovci, Le transizioni (2020) e Gli invisibili (2021), tradotti e curati sempre da Rainò.
Accolto con grande calore in Finlandia nel 2014 e altrettanto in Italia dopo il grande successo dei romanzi pubblicati a partire dal 2020, Il mio gatto Jugoslavia è un libro difficile da classificare: una sorta di romanzo storico-(auto)biografico con due punti di vista ben distinti, affiancati da alcuni elementi surreali e fantastici (in primis il gatto parlante-gay-tabagista); un insieme di “forme” che mi induce ad evitare quella “violazione” del testo che si genera quando si vogliono applicare categorizzazioni troppo nette[5], e mi spinge a definirlo con la generica etichetta di romanzo postmoderno[6]. Ritengo tuttavia che l’opera tratti in modo innovativo e curioso il tema della Storia, specialmente del trauma personale dei personaggi, attraverso visioni frammentate che si riflettono sulla narrazione e attraverso un discorso simbolico e mitico. Questi aspetti, visti attraverso la lente fornita da alcuni saggi di un accademico come Hayden White, potrebbero condurci a un apprezzamento maggiore del romanzo, e ci porteranno a distinguere tre “modalità” principali con cui Statovci parla del passato, pubblico e privato, dei suoi personaggi.
1. Identità divise, narrazione frammentata
Un breve riassunto del contenuto del libro ci può servire come punto di partenza. I protagonisti de Il mio gatto Jugoslavia sono principalmente tre: Bekim, studente universitario di origini kosovare, omosessuale, trasferitosi in Finlandia con la famiglia da bambino; sua madre Emine e suo padre Bajram, uomo violento e tradizionalista. Durante tutta la narrazione, si intrecciano il punto di vista di Bekim, ambientato nella Finlandia contemporanea, e quello di una giovane donna (che capiremo in seguito essere Emine, la madre di Bekim), ambientato in Kosovo a partire dal 1980 e, man mano, in altre nazioni, fino al 2009. La vicenda, narrata in modo non lineare, narra dell’incontro tra Emine e Bajram, il loro matrimonio, la fuga dal Kosovo dopo la morte di Tito e l’avvento di Milošević, l’arrivo in Finlandia e le difficoltà dell’integrazione.
Tutti e tre i personaggi vivono la condizione di migranti, e questa situazione “liminale” si proietta sulla loro identità: la scelta di appartenere a un mondo piuttosto che a un altro non solo è difficile, ma spesso è impossibile; in modi diversi, sono soggetti frammentati. Possiamo vedere uno “spectrum” nella relazione che questi personaggi hanno con la loro tradizione, come sottolineano van Amelsvoort e Dal Bosco (“[…] these three characters form a spectrum of stances regarding migrants’ positionings in contemporary Europe”[7]): Bajram rimane legato alla sua origine kosovara, e non riuscirà mai a integrarsi; Emine è una figura mediana, che accetterà man mano l’integrazione; Bekim, seppur con molte difficoltà, arriverà a un netto rifiuto della sua origine familiare. La sua situazione tuttavia è doppiamente “in bilico”: la sua omosessualità è un altro carattere di frammentazione del sé e di alienazione (“From its first pages, My Cat Yugoslavia is characterized by a certain alienation, or contrasting lifeworlds, between the protagonist Bekim and the people around him, be they the Finns or his own family”[8]). La “relazione binaria” tra i protagonisti e il nuovo mondo in cui arrivano si può dunque tradurre, come sottolinea Ewelina Bator[9], o in uno spiccato “Albanism”, che potremmo vedere come un’esasperazione di quel “Balkanism”[10] che spinge gli abitanti dei Balcani a una lotta (tanto ideologica quanto effettiva) per affermarsi come “più occidentali” delle popolazioni a loro confinanti (è il caso di Bajram), o a una netta separazione binaria “us/them”, “immigrato/cittadino”, più marcata, almeno nei primi tempi, in Emine, più implicita ma comunque presente in Bekim (è lui che parla nel passo seguente):
Verso di loro [i finlandesi] avevo un atteggiamento ostile, arrogante, disprezzavo il loro stile di vita, le loro scelte e i loro problemi. […] Che cosa ne sapevano della vita reale? E delle sofferenze vere? Niente. E loro lo chiedevano a me. Quand’è che gli immigrati alzeranno il culo dalla sedia per fare qualcosa, quando la smetteranno di saccheggiare il nostro stato sociale, quando si stancheranno di poltrire e molestare le donne? Certo, non sono tutti uguali, per esempio tu sei un eccezione, sei proprio il tipo di immigrato che vorremmo qui, ma la maggior parte…[11]
Questi aspetti di divisione dell’identità dei personaggi sono indubbiamente presenti negli altri due romanzi di Statovci, Le transizioni e Gli invisibili, anch’essi abitati da personaggi che combattono con l’accettazione razziale ed etnica e con il loro orientamento sessuale che difficilmente si sposa con la tradizione balcanica, sia essa albanese, kosovara, serba. Tutto suggerisce che anche l’ultimo romanzo dell’autore, A Cow Gives Birth at Night, pubblicato in Finlandia nel settembre 2024 e non ancora tradotto in altre lingue, tratterà temi simili[12].
Numerosi articoli si sono concentrati su questo tema, eppure raramente hanno esteso la loro analisi su un piano più strettamente testuale; ritengo infatti che la narrazione di questi romanzi, e di Il mio gatto Jugoslavia in particolare, funzioni come una sorta di specchio delle personalità tormentate dei personaggi. Non si può evitare di chiedersi perché l’autore abbia deciso di trattare una storia lineare (Emine conosce Bajram, hanno figli, scappano dal Kosovo, raggiungono la Finlandia, i figli si integrano nella società, Bekim conosce il gatto, ecc.) attraverso un intreccio confusionario, che procede per giustapposizione di quadri narrativi che solo man mano rivelano la loro coerenza, mettendo in dubbio la verità sulla morte del padre, trattando in modo realistico la presenza di un gatto parlante che evidentemente stona con il tono “storico” del resto del libro, ecc. Perché fare avanti e indietro tra presente e passato, tra Finlandia e Kosovo, per poi arrivare a un finale in cui sì, i fili dell’intreccio sono stati messi insieme, ma tutto viene messo in dubbio (il suicidio del padre ci dimostra la sua debolezza, dopo una vita passata a simulare forza e integrità) e sembra di essere stati sbattuti fuori dalla porta del racconto? O meglio, visto che dobbiamo interrogarci non sul “perché” del meaning ma sul suo “come”[13], che effetto ha questa scelta sul lettore, come dobbiamo interpretarlo?
Ritengo che questa scelta narrativa sia un modo sottile ed efficace per riflettere la condizione del migrante e della sua identità divisa sul modo di raccontare il proprio sé, e che spinga il lettore ad accettare questa confusione. Un’identità “[…] composita, stratificata, e naturalmente conflittuale”[14], per riprendere una parafrasi di Lacan, si traduce in una narrazione analogamente stratificata e conflittuale; è probabile che una narrazione più tradizionale non sia in grado, almeno agli occhi di Statovci, di descrivere appieno questa condizione. Non solo l’identità divisa dei personaggi si riflette sull’intreccio narrativo frammentato, ma penso che sia proprio attraverso questa frammentazione, arricchita da elementi simbolici e da un discorso mitico, che l’autore riesca a rappresentare appieno la storia dei suoi personaggi. Eventi traumatici vengono spiegati attraverso narrazione e figure “tropologiche”, come vedremo a breve: ecco come emerge il tema della narrativizzazione della storia. Prendere in esame alcuni saggi di Hayden White contenuti in Forme di storia[15] può essere un taglio critico utile per approfondire questo aspetto.
2. Gatti, serpenti, eventi storici
Mettiamo in atto questa analisi partendo da un presupposto: Il mio gatto Jugoslavia non è un testo storico né storiografico, bensì un romanzo; la narrazione e l’intreccio hanno, tuttavia, un grande valore nella rappresentazione storica, come sostiene White[16]. Partiamo da alcune considerazioni ulteriori sul romanzo di Statovci.
Kissani Jugoslavia è un romanzo realistico? Potremmo dire di sì: come abbiamo visto è ambientato nella Finlandia contemporanea o in un passato altrettanto reale come il Kosovo degli anni ’80 e ’90, e i personaggi sono persone comuni, migranti caratterizzati da una storia personale che è dolorosa e condivisa da molte altre persone che si sono trovate o si trovano in una condizione analoga; tratta poi temi di attualità come la difficoltà dell’integrazione e il rapporto con l’omosessualità. È un romanzo storico? Almeno in parte lo è, in quanto tratta con occhio disincantato la vita rurale e cittadina di Pristina, parla della morte di Tito e degli scontri tra serbi e kosovari, ecc. Un romanzo che non porrebbe alcun problema, se solo non fosse presente, per esempio, un personaggio non umano, un gatto antropomorfo; se esso fosse parte di un sogno o di un’allucinazione di Bekim, l’interesse per questa figura sarebbe limitato (o si presterebbe ad un’analisi psicoanalitica…). Ritengo però che il “simbolo-gatto” (che, va ricordato, è anonimo: non viene mai detto, come nel titolo, che si chiami Jugoslavia, come sottolinea Ayako Oku[17]) sia, per l’appunto, un elemento simbolico, tanto di una presenza maschile, tanto di una tradizione che incombe sui personaggi[18]. Il gatto è, infatti, in primis un gatto gay che instaura una relazione tossica con Bekim, poi viene declinato in un normale gatto bianco e arancione che Bekim trova a Pristina per poi perderlo, infine diventa il gattino nero che Emine, ormai “inserita” nella società finlandese, decide di accudire; a fianco del simbolo “gatto”, troviamo il simbolo “serpente”, anch’esso declinato in vari modi: Bekim da piccolo ha degli incubi ricorrenti sui serpenti, che finiscono solo quando il padre lo picchia; a Pristina trova un serpente che lancerà addosso al nonno materno; in Finlandia comprerà un boa constrictor come animale domestico, che finirà per essere accoltellato dallo stesso Bekim. Si potrebbe senza dubbio tentare una lettura metaforica di questi elementi e del rapporto tra gatti e serpenti, ma penso che qui il punto sia un altro: sono simboli inseriti in una struttura di narrazione storica, con un obiettivo preciso, ossia dare significato ad avvenimenti traumatici.
Proprio la narrazione, con i suoi elementi simbolici, viene indicata da Hayden White come il mezzo attraverso cui viene dato un significato intelligibile agli avvenimenti storici; le narrazioni storiche vengono da lui indicate come “… costruzioni verbali, i cui contenuti sono tanto inventati quanto trovati e le cui forme hanno più in comune con i loro corrispettivi nella letteratura di quanto abbiano con quelli nelle scienze”[19]. E ancora, poco oltre:
Come si debba configurare una specifica situazione storica dipende dall’abilità dello storico di far corrispondere una specifica struttura d’intreccio a un complesso di eventi storici cui egli desidera attribuire un significato di tipo particolare. Questa è essenzialmente un’operazione letteraria, […] la codificazione di eventi secondo tali strutture di intreccio è uno dei modi di cui dispone una cultura per dare senso al passato sia privato sia pubblico[20].
E, qualche pagina dopo,
Ciò mi induce a pensare che le narrazioni storiche non siano solo modelli di eventi e di processi del passato, ma siano anche affermazioni metaforiche […] Vista da un’ottica puramente formale, una narrazione storica è non solo una riproduzione di eventi in essa riportati, ma anche un complesso di simboli che ci dà le direzioni per trovare un’icona della struttura di quegli eventi nella nostra tradizione letteraria[21].
E poi ancora:
L’antica distinzione tra finzione e storia, secondo cui la finzione è la rappresentazione dell’immaginabile e la storia è la rappresentazione del reale, deve cedere il posto al riconoscimento del fatto che possiamo conoscere il reale solo se scopriamo le differenze e le somiglianze con l’immaginabile[22].
Queste riflessioni, innanzitutto, ci fanno capire come sia possibile considerare Il mio gatto Jugoslavia, sebbene pregno di elementi simbolici e metaforici, come un discorso storico (o meglio una narrazione storica) a pieno diritto. La scrittura storica e la scrittura narrativa non vanno distinte, sono da mettere sullo stesso livello, in quanto sono entrambe un “manufatto verbale, il risultato di un uso specifico del linguaggio”[23]. Dunque, come sottolinea White, se il discorso storico rappresenta gli eventi attraverso una narrazione, un intreccio, una “struttura tropologica”, ossia li traduce in un linguaggio opaco, possiamo vedere la narrazione opaca, metaforica e tropologica come un modello attraverso cui tradurre in linguaggio la Storia. Un’idea, questa, che sembra faticosa da difendere, perché pone domande sulla nostra idea di “verità”: come può un romanzo in cui è presente un gatto che parla e che confonde e intreccia gli avvenimenti (finzionali) dei personaggi essere una “forma di Storia”? Bisogna allora ragionare, come White, sul significato di “verità”: ciò che ci sembra un discorso sui fatti accaduti nel passato è, inevitabilmente, un discorso incompleto e soggettivo[24]; lo scrittore sceglie dei fatti e li narrativizza in un certo modo ben specifico. E ancora, possiamo aggiungere:
A meno che un racconto storico sia esposto come rappresentazione letterale di eventi reali, non possiamo avanzare critiche alla sua veridicità o alla sua falsità rispetto ai fatti della materia trattata. Se fosse presentato come una rappresentazione figurativa di eventi reali, allora la questione della sua veridicità dovrebbe sottostare a quei criteri che governano la nostra valutazione della verità delle opere di fantasia[25].
Tuttavia, “Questa caratterizzazione del discorso storico non comporta che eventi, persone, istituzioni e processi del passato non siano mai esistiti nella realtà”[26], ma semplicemente che “Ciò che il discorso storico produce sono interpretazioni di qualsiasi informazione e conoscenza del passato a disposizione dello storico […] ciò che [queste interpretazioni] hanno in comune è l’utilizzo di un modo narrativo di rappresentazione”[27]. Il nostro “gatto postmoderno”, allora, non produce alcun attrito: parlando degli scrittori del realismo magico sudamericano, White scrive “[…] essendo opere di fantasia, i loro scritti non ci insegnano nulla sulla storia reale? […] I loro racconti sono meno veri per il fatto di essere prodotti di fantasia?”[28], e “…qualcuno crede davvero che il mito e la finzione letteraria non si riferiscano al mondo reale, non dicano la verità su di esso e non forniscano un’utile conoscenza di esso?”[29].
Ciò che voglio dire è che Statovci non inserisce inutilmente nel suo romanzo questi simboli. La loro presenza è sicuramente metaforica, ma forse più che concentrarci sul loro significato dobbiamo concentrarci sulla loro funzione, che è, per l’appunto, non quella di significare qualcosa, ma di farci accedere per una “porta laterale” al significato di eventi storici drammatici. Ossia, di parlare di eventi privati in modo indiretto. Per essere più concreti, penso, per esempio, che il gatto parlante sia uno strumento per far parlare Bekim della propria omosessualità indirettamente, e non è un caso allora che ricompaia a Pristina la figura del gatto (come una sorta di “peso” che Bekim si porta dietro) o che Emine alla fine del romanzo adotti un gatto (una sorta di accettazione dell’omosessualità, o meglio un simbolo che ci fa pensare a ciò indirettamente, ci fa entrare nell’evento in modo laterale). E analogamente il serpente permette a Bekim di pensare a suo padre (gli incubi sui serpenti di Bekim bambino smettono quando il padre lo picchia), è uno strumento per parlare indirettamente della sua storia personale. Il discorso metaforico diventa narrazione storica, l’unica narrazione possibile.
3. Trauma e mito
Come dialogano questi due punti, ossia la divisione dell’identità dei personaggi del romanzo e la possibilità di vedere il discorso simbolico e di finzione come una forma di rappresentazione storica? Ritengo che la risposta, ancora una volta, sia presente a livello testuale.
L’esperienza di Emine, Bajram, Bekim è un’esperienza traumatica su più livelli: la fuga dal proprio paese, la violenza tanto storica quanto privata, l’integrazione in Finlandia, l’omosessualità. Senza cadere in un biografismo innecessario, bisogna riconoscere che sono temi perlomeno molto vicini a Statovci: è innegabile, in ogni suo romanzo, l’ispirazione autobiografica. Sembra dunque lecito pensare che lo stesso autore si sia posto una domanda: come rappresentare questi traumi, come dare loro una forma, un significato? Può un racconto lineare, cronachistico, essere la risposta, essere il modo adatto per narrare il vissuto di personaggi intrinsecamente divisi e in una zona grigia di non-appartenenza? Evidentemente no, almeno per Statovci, che pone un gatto simbolico come incipit del suo primo romanzo, e utilizza, come abbiamo visto, il tropo metaforico come strumento per parlare del passato. Se torniamo a White un’ultima volta, possiamo forse chiarire questo aspetto.
Se vediamo la storia di Bekim e Emine come una sorta di “mito” (“Nel mito ogni mutamento è il risultato o della dislocazione di una cosa dal suo luogo “appropriato” o della scomparsa del suo momento “appropriato” nel tempo”[30]: non è forse una forma dell’esperienza dei migranti?) capiamo perché Statovci ricorra a una narrazione simbolica per rappresentarlo, attraverso un discorso mitologico. Come scrive White,
Il mito pertanto spiega o, meglio, esplica i tipi di situazione che noi moderni potremmo caratterizzare come “ricostruzione di società”, attraverso la segnalazione, l’individuazione e l’identificazione delle violazioni della regola di conformità. Ecco perché una modalità mitologica per concettualizzare i programmi di ricostruzione sociale appare un’alternativa adatta alle tecniche storiche e scientifiche di analisi delle situazioni di crisi sociale o di crollo di un sistema sociale. […] Il mito affronta situazioni di disastro sociale narrativizzandole[31].
Sostengo perciò che gli esseri umani, in quanto membri di una specifica società o ordine sociale, siano inclini a ricorrere ai modi mitologici di pensiero ed espressione qualora si trovino coinvolti in processi, naturali o sociali, che distruggano l’infrastruttura materiale delle loro comunità, travalicando la capacità della scienza di afferrare o anche solo di registrare il loro significato morale. In situazioni di devastazione sociale, il discorso mitologico fuoriesce e si espande nello spazio semantico reso vuoto dall’incapacità della scienza di riconoscere il significato morale della sofferenza umana[32].
Come la scienza non può spiegare il significato morale di un trauma, così non lo potranno esprimere appieno una storia e una narrazione lineari e “scientifiche”, bensì solo una storia narrativizzata e una narrazione mitica e simbolica. Il personaggio-diviso si riflette in una narrazione divisa; il personaggio diviso sente la necessità di creare un mito, per dare significato al proprio vissuto doloroso; il personaggio diviso crea questo mito attraverso un discorso storico narrativizzato e tropologico, che si appoggia, perché no, su simboli e metafore. Ancora una volta, capiamo quanto poco il gatto parlante e il serpente domestico stonino con la narrazione, anzi ne siano elementi strutturali: come può Statovci parlare di Emine e del suo dolore per l’abbandono della patria, di Bajram e della sua violenza e inquietudine latente, di Bekim e dei suoi fratelli nella loro nuova vita di kosovari in Finlandia? Solo attraverso brevi quadri narrativi che passano lentamente da un idillio a un crollo delle certezze, attraverso un universitario omosessuale che non si sente accettato da nessuno, attraverso un gatto parlante che aspira a essere regista.
Conclusione
Dunque, per sintetizzare schematicamente ciò a cui siamo arrivati, i personaggi del primo romanzo di Pajtim Statovci danno un senso al proprio passato attraverso tre modalità:
- Attraverso una narrazione frammentata, specchio della loro identità complessa.
- Attraverso un discorso storico metaforico, ricco di simboli.
- Attraverso la costruzione di un discorso mitico, unico modo per affrontare il tema del trauma.
Ritengo che alcuni punti fondamentali sulla costruzione simbolica di Il mio gatto Jugoslavia siano emersi grazie all’utilizzo della visione di Hayden White. Personaggi divisi, narrazione frammentaria e costruzione mitologica, aspetti che subito ci lasciano un po’ perplessi, si rivelano fondamentali per entrare, passo dopo passo, nella vita di Bekim ed Emine.
Entriamo nel romanzo attraverso una “porta” un po’ strana, attraverso un gatto dai mille corpi e attraverso una chat su un sito di incontri per omosessuali; usciamo da una “porta” ugualmente strana, o meglio ne veniamo “cacciati”, se mi si concede la metafora: arriviamo alla fine del romanzo e abbiamo seguito la vita dei personaggi, eppure qualcosa manca. Ma è come se loro ci dicessero, o meglio dicessero al lettore originario, un cittadino (o perlomeno parlante) finlandese: questa è la nostra storia, o meglio è l’unico modo che abbiamo per raccontartela. Accetta il gatto parlante e accetta la confusione, come dovresti accettare noi. E se non ti va bene, questa è la porta, tanti saluti.
Bibliografia:
– P. Statovci, Gli invisibili, Palermo, Sellerio, 2021.
– P. Statovci, Il mio gatto Jugoslavia, Palermo, Sellerio, 2024.
– P. Statovci, Le transizioni, Palermo, Sellerio, 2020.
– J. van Amelsvoort, E. Dal Bosco, Our America: Migratory Dreams in Pajtim Statovci’s My Cat Yugoslavia and Crossing, in Continuum: journal of media & cultural studies, n. 4, vol. 38, anno 2024, pp. 465-476.
– Ayako Oku, Post-Yugoslav in Other’s Languages: Memory and Identity among 1.75 Generation Writers, in Re-Imagining Literatures of the World: Global and Local, Mainstreams and Margins, Collected Papers of the XXIII Congress of the ICLA, vol. 4, 2025, pp. 440-450.
– E. Bator, Binary Relations in the Deconstruction of Ancestral Tradition – An Analysis of Excerpts from Pajtim Statovci’s Novel My Cat Yugoslavia, in Studia Filologiczne UJK Philological Studies, 2021, pp. 73-91.
– G. Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura, Fondamenti e problemi, Torino, Einaudi, 2006.
– W. S. Burroughs, Il gatto in noi, Milano, Adelphi, 1994.
– F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, 2021.
– S. H. Olsen, The “Meaning” of a Literary Work, in New Literary History, vol. 1, anno 1982, pp. 13-32.
– N. Rainò, Romanzi finlandesi tradotti in italiano: selezione e ricezione, in Settentrione, rivista di studi italo-finlandesi, anno 2017, n. 29, pp. 111-122.
– H. White, Forme di storia, Dalla realtà alla narrazione, Roma, Carocci, 2006.
[1] P. Statovci, Il mio gatto Jugoslavia, Palermo, Sellerio, 2024, p. 11.
[2] È lo stesso Statovci a sottolineare le affinità in un articolo del 2017 su The Guardian: https://www.theguardian.com/books/2017/nov/15/top-10-talking-animals-in-books
[3] W. S. Burroughs, Il gatto in noi, Milano, Adelphi, 1994. L’espressione è del traduttore e curatore Giuseppe Bernardi.
[4] N. Rainò, Romanzi finlandesi tradotti in italiano: selezione e ricezione, in Settentrione, rivista di studi italo-finlandesi, anno 2017, n. 29, pp. 111-122. Il riferimento a Statovci si trova a pag. 118. Penso non sia scontato far notare, tuttavia, che Rainò si scaglia contro le scelte di cambiare drasticamente i titoli dei romanzi finlandesi ma poi, nel 2020 e 2021, traduce Tiranan sydän (lett. “Il cuore di Tirana”) con Le transizioni e Bolla (lett. “Diavolo, mostro, straniero”) con Gli invisibili. Scelta editoriale in contrasto con il traduttore?
[5] Cfr. F. de Cristofaro, Le forme e i generi, in F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, 2021.
[6] Hayden White probabilmente lo definirebbe un prodotto di “metafiction storica postmodernista”, caratterizzato dalla “sospensione della distinzione tra il reale e l’immaginario. Tutto è presentato come se fosse dotato dello stesso ordine ontologico”: H. White, L’evento modernista, in Forme di storia, Dalla realtà alla narrazione, Roma, Carocci, 2006, p. 104.
[7] J. van Amelsvoort, E. Dal Bosco, Our America: Migratory Dreams in Pajtim Statovci’s My Cat Yugoslavia and Crossing, in Continuum: journal of media & cultural studies, n. 4, vol. 38, anno 2024, p. 470.
[8] Ibidem.
[9] E. Bator, Binary Relations in the Deconstruction of Ancestral Tradition – An Analysis of Excerpts from Pajtim Statovci’s Novel My Cat Yugoslavia, in Studia Filologiczne UJK Philological Studies, 2021, pp. 73-91.
[10] Cfr. J. van Amelsvoort, E. Dal Bosco, Our America: Migratory Dreams in Pajtim Statovci’s My Cat Yugoslavia and Crossing, cit., p. 467.
[11] P. Statovci, Il mio gatto Jugoslavia, cit., p. 47.
[12] Vedi l’abstract presente in https://pajtimstatovci.wordpress.com/a-cow-gives-birth-at-night/
[13] Cfr. S. H. Olsen, The “Meaning” of a Literary Work, in New Literary History, vol. 1, anno 1982, pp. 13-32.
[14] G. Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura, Fondamenti e problemi, Torino, Einaudi, 2006, p. 285.
[15] H. White, Forme di storia, Dalla realtà alla narrazione, Roma, Carocci, 2006.
[16] Cfr. H. White, Il valore della narrazione nella rappresentazione della realtà, in Forme di storia, cit., pp. 37-60, e altrove.
[17] Ayako Oku, Post-Yugoslav in Other’s Languages: Memory and Identity among 1.75 Generation Writers, in Re-Imagining Literatures of the World: Global and Local, Mainstreams and Margins, Collected Papers of the XXIII Congress of the ICLA, vol. 4, 2025, pp. 440-450.
[18] Cfr. Ibidem.
[19] H. White, Il testo storico come artefatto letterario, in Forme di storia, cit., p. 16.
[20] Ivi, p. 20.
[21] Ivi, p. 23.
[22] Ivi, p. 33.
[23] H. White, Teoria letteraria e scrittura storica, in Forme di storia, cit., p. 64.
[24] Cfr. H. White, Il valore della narrazione nella rappresentazione della realtà, cit., p. 46 e altrove.
[25] H. White, Le strutture d’intreccio nelle rappresentazioni storiche e il problema della verità, in Forme di storia, cit., p. 90.
[26] H. White, Teoria letteraria e scrittura storica, cit., p. 62.
[27] Ibidem.
[28] Ivi, p. 73.
[29] Ivi, p. 82.
[30] H. White, Catastrofe, memoria comune e discorso mitico, in Forme di storia, cit., p. 140.
[31] Ivi, p. 141.
[32] Ivi, p. 142.