di Silvia Fedele
Silvia Fedele, in questo contributo, esplora il percorso ekfrastico nella produzione poetica di Torquato Tasso. Il saggio segue le prime prove poetiche della giovinezza, con le sperimentazioni nelle forme classiche dell’ekphrasis tardo rinascimentale, fino alla fase conclusiva della produzione, soffermandosi sul rapporto fra arte figurativa e verità dopo la Controriforma e su come questo influenzi non solo gli artisti, ma anche i letterati che si cimentano in descrizioni ekfrastiche.
☙
I. Introduzione. L’ekphrasis nella letteratura tardo rinascimentale: alcuni casi emblematici
Nel decimo canto del Purgatorio Dante e Virgilio, dopo averne oltrepassato la porta, si fermano su un’altura deserta e osservano rilievi marmorei che rappresentano esempi di umiltà, destinati a insegnare le anime dei superbi. Le sculture, perfette in quanto opere dirette da Dio, includono l’Annunciazione di Maria, il re David che danza umilmente davanti all’Arca, e l’imperatore Traiano che, fermandosi a vendicare una vedova, dimostra che la vera grandezza sta nel compiere umilmente il proprio dovere. Queste immagini sono talmente perfette da far invidia al grande scultore classico Policleto. L’arte, in questo caso di derivazione divina, è capace di evocare un linguaggio che trascende la sua dimensione visibile e si fa voce – il visibile parlare, appunto, una fortunata espressione dantesca che racchiude in sé l’essenza del dispositivo ecfrastico.
Pertanto, il concetto di ekphrasis, inteso come la descrizione di un’opera d’arte visiva all’interno di un’opera letteraria, ha radici profonde nella tradizione italiana – sebbene fosse una pratica discorsiva presente già in Omero. «Words about an image, itself often embedded in a larger text»[1], potremmo dire, immagini parlanti grazie all’intermediazione del poeta.
Nel corso del Cinquecento, il procedimento ecfrastico interroga concretamente le possibilità espressive del linguaggio. Il tardo Rinascimento, infatti, vede il fiorire del dibattito estetico sulla potenzialità della parola, ben limitata se comparata alla resa immediata dell’arte pittorica. Tuttavia, Elena Paroli afferma che la riflessione cinquecentesca sulla poesia come una «pittura cieca» riprende un dibattito nato già in seno alla cultura greca: la studiosa puntualizza come «il concetto di “cecità” della poesia abbia assunto un carattere ambiguo sin dall’Antichità; Virgilio, introducendo l’ekphrasis dello scudo di Enea – una descrizione che consta di un centinaio di versi! – definisce l’oggetto in questione come “non enarrabile”»[2]. La letteratura si trova così a dover affrontare una sfida ardua: come rendere visibile il mondo fenomenico con la parola, seppur priva di una sua “materialità” come quella della pittura?
Il cuore della questione risiede nella componente emotiva che investe tanto l’autore quanto il lettore. Il procedimento ecfrastico non si limita a narrare l’opera d’arte presa in esame, ma amplifica e trasmette l’emozione che l’arte visiva suscita in chi la contempla. Secondo Paroli, infatti, «il genere ecfrastico, lungi dal limitarsi a “narrare” l’opera, ne allarga il raggio d’azione emozionale: in un gioco di specchi, lo scrittore di ekphrasis trasmette al lettore tanto l’emozione insita nelle figure che le emozioni che egli stesso percepisce alla vista di quelle figure»[3]. L’ekphrasis non è dunque un semplice esercizio descrittivo, ma un modo per ricostruire la vivacità dell’immagine sulla pagina, per renderla “parlante”. Un’interpretazione che si esplica nel continuo attraversamento tra la dimensione visiva dell’opera e quella emotiva dell’osservatore. La riflessione che emerge da questo confronto si concentra sul concetto di enargheia, ossia la capacità di far apparire l’immagine davanti agli occhi del lettore, un termine ripreso dall’ekphrasis per come era concepita nel mondo classico[4]. In effetti, la difficoltà per la letteratura risiede proprio nel rendere la vivezza dell’immagine pittorica: mentre la pittura può esprimere i moti esterni del corpo, la poesia si dedica piuttosto ai moti interiori, alle emozioni nascoste. L’arte letteraria è così chiamata a esplorare quei «moti dell’animo» che non sono visibili nella superficie dell’immagine, ma che ne costituiscono il vero contenuto emotivo. La parola diventa uno strumento che non solo replica la realtà, ma ne fa emergere nuove potenzialità espressive. Come sostiene ancora Paroli: «La descrizione non è più ancella della pittura ma strumento che fa dire all’immagine ciò che essa da sola non dice»[5]. In questo senso, l’ekphrasis si fa veicolo di un’emozione condivisa, capace di arricchire l’immagine con una dimensione interiore che da sola l’opera visiva non può trasmettere.
L’opera tassiana si inserisce perfettamente entro il discorso della trattatistica estetica cinquecentesca, tanto più che quasi tutte le opere del poeta ospitano riflessioni sulla bellezza, con particolare riguardo alle teorie antiche ma anche alle riflessioni coeve. E non mancano puntuali riferimenti all’arte propriamente detta, in particolare alla pittura. Come nota Ambra Carta, infatti, «non mancano nell’opera tassiana, dai giovanili Discorsi dell’arte poetica ai più tardi Discorsi del poema eroico, dalle Rime al Mondo Creato, attraverso i Dialoghi, numerosi riferimenti alle teorie sulla bellezza, alla pittura, al confronto tra gli strumenti del poeta e quelli del pittore, che provano, come già i contemporanei di Tasso notavano, la conoscenza da parte del poeta dei trattati sulle teorie dell’arte e l’utilizzo di un vocabolario tecnico derivato dalla pittura, dalla musica e dalla scultura»[6]. Il discorso ecfrastico risulta tutt’altro che marginale o episodico all’interno dell’officina poetica del Tasso, tanto più che lo stesso poeta rivendicava con forza il carattere narrativo e non digressivo delle ekphráseis nel momento in cui dovette difendere la scelta di inserire ampie descrizioni di immagini all’interno della Gerusalemme Liberata[7].
II. Le prime rime tassiane: In morte di Irene di Spilimbergo
La questione della sistemazione delle rime tassiane è una delle più complesse riguardanti il poeta di Sorrento. Come nota acutamente Residori, infatti, le Rime costituiscono una parte tutt’altro che marginale della produzione tassiana: non solo perché il poeta tenterà fino alla fine una sistemazione organica, ma soprattutto perché «per Tasso, come per molti poeti del tempo, la scrittura di rime è innanzitutto la manifestazione più ovvia della sua identità sociale di letterato»[8].
L’esordio del Tasso poeta risale al 1561, quando, assieme al padre Bernardo, anch’egli poeta, riceve l’invito a partecipare a una silloge encomiastica in onore della nobildonna friulana Irene di Spilimbergo, scomparsa prematuramente due anni prima. Il progetto era stato promosso da Giorgio Gradenigo e Dionigi Atanagi, e sarebbe andato in stampa l’anno stesso presso l’editore Guerra, a Venezia. La silloge, dal titolo Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della signora Irene delle signore di Spilimbergo, contiene ben 279 poesie in italiano e 129 in latino, la maggior parte opera di versificatori dilettanti della buona società, ma anche di figure importanti come Ludovico Dolce, Luigi Tansillo, Benedetto Varchi, e di Tiziano Vecellio, di cui la giovane Irene era stata allieva. Proprio un ritratto di Tiziano è il soggetto dei tre sonetti con i quali Tasso contribuisce alla raccolta.
La silloge propone non tanto l’esaltazione del decoro e della rettitudine morale della donna, quasi volti a costruirne una «biografia agiografica»[9], quanto piuttosto l’elenco delle virtù che ne avevano decretato la gloria terrena, soprattutto quelle volte ad esaltarne l’eccezionale abilità artistica. La partecipazione della donna all’attività artistica è l’elemento ponte di molti sonetti. Molti dei componimenti, fra cui quelli tassiani, infatti, si distinguevano per la loro posizione «al crocevia tra la celebrazione poetica e il ritratto»[10]. Due anni prima della morte di Irene, infatti, erano stati prodotti due dipinti di attribuzione incerta, ma ritoccati quasi sicuramente proprio da Tiziano[11]. Il primo ad accostare il dipinto e la silloge curata da Atanagi era stato il Vasari, mostrando che già all’epoca la silloge doveva aver avuto una certa risonanza[12].

Anonimo, Irene di Spilimbergo, National Gallery of Art, Washington.
Dei tre sonetti tassiani, il primo planctus (Al signor Gradenigo per la morte de la sua donna Irene di Spilimbergo) è rivolto proprio all’ideatore della raccolta, perché Tasso, non avendo conosciuto la donna, non aveva un’immagine precisa di lei. Gli altri due componimenti, al contrario, si avvalgono della rappresentazione pittorica della giovane, anche se è dubbio se il Tasso abbia effettivamente potuto visionare i dipinti. Come vedremo, infatti, Tasso non descrive minuziosamente il dipinto, ma al contrario utilizza una serie di topoi – in primis petrarcheschi – e di artifici retorici per restituire al lettore l’impressione derivante dal dipinto – e non già la sua descrizione reale.
Sul ritratto d’Irene di Spilimbergo, dopo la sua morte
Com’esser può che da sembiante finto
da mortal mano a noi traluca fuore
si leggiadro sì chiaro almo splendore
ch’ogni gran lume altrui ne resti vinto?
Certo, poscia che morte invida estinto
ebbe il più caro, il più pregiato fiore
di beltà vera, e, mal tuo grado, Amore,
te dal bel seggio tuo scacciato e spinto;
tu, qualunque altro albergo avendo a vile,
ne l’immagin di lei che sì ti piacque
t’annidi e siedi oltr’ogni usato stile;
e quinci avvien ch’ella rischiara ed orna,
dal tuo bel foco accesa, e l’aria e l’acque,
qual dai raggi del sol Diana adorna.
Il sonetto si apre con l’interrogativa retorica sulla luminosità del ritratto, tema ponte con il terzo sonetto. Al netto del modello petrarchesco, da cui provengono quasi tutte le immagini legate al campo semantico della luce, ciò che colpisce è la vitalità che emana il ritratto, dovuta all’insediamento di Amore in esso in seguito alla morte di lei. Pertanto, il ritratto non è solo monumento alla memoria della donna, ma luogo in cui risiedono le sue qualità morali, evidenti nella rappresentazione della bellezza fisica, che ne avevano abbandonato il corpo nel momento della morte.
In morte d’Irene di Spilimbergo, sul di lei ritratto
Onde vien luce tale? onde sì chiara fiammch’arder potrebbe Apollo e Giove?
onde tanta dolcezza e grazia piove
e si vero piacer, gioia sì cara?
Quando beltà così pregiata e rara
e degna di stupor fu vista altrove?
quando eccellenze sì divine e nove
in cui d’alzarsi al ciel s’impara?
Quai leggiadri pensieri, quai sante voglie
devea viva destar ne l’altrui menti
questa del gran Motor gradita figlia
poi ch’or dipinta, o nobil meraviglia!,
e di cure d’onor calde e ardenti
e d’onesto desir par ch’invoglie?
Nel terzo sonetto la vividezza del secondo componimento si trasforma in una fiamma che supera addirittura Apollo e Giove, rispettivamente dio del Sole e dio dei fulmini. La qualità del ritratto è tale da restituire la folgorante bellezza – non solo esteriore – della donna e di provocare un «vero piacer» e «onesto desir» in chi guarda. L’impatto della descrizione ecfrastica, quindi, mostra in concreto le «possibilità rappresentative della letteratura, chiamata a ricostruire sulla pagina la vivezza dell’immagine dipinta»[13]. Come espresso in apertura, infatti, rispetto alla tendenza classica, che tendeva alla descrizione della realtà, nel Cinquecento si avverte la necessità di fornite non solo un’«interpretazione»[14]dell’opera d’arte, ma anche un corredo emozionale che nasce nel poeta alla visione del soggetto rappresentato, e che da lui passa al lettore[15].
III. Nel cuore del poema: la Gerusalemme Liberata
Il XVI Canto della Gerusalemme Liberata offre il più spiccato e cosciente degli episodi ecfrastici nella produzione tassiana. Il canto si apre con la descrizione del palazzo e del giardino d’Armida, sulle cui caratteristiche non ci soffermeremo. Ciò che preme sottolineare è la porta d’ingresso che accoglie, per così dire, i due cavalieri Carlo e Ubaldo, giunti per strappare Rinaldo alla seduzione della maga Armida. Il portone è riccamente ornato da fregi, che Tasso descrive in modo talmente dettagliato da suscitare l’illusione che il lettore stia effettivamente vedendo ciò che viene descritto. Tasso, in particolare, inserisce un gioco di specchi tra la parola e l’immagine, un rapporto che fa della poesia stessa un mezzo per generare un’immagine più viva e coinvolgente di quella che una tela o una scultura potrebbero offrire.
La presentazione della maga Armida, fin dalla sua entrata in scena nel campo di battaglia avversario, è costruita sulla spettacolarizzazione[16]. La climax si raggiunge però nel momento della descrizione del palazzo. La scelta di Tasso per le immagini rappresentate ricade su due episodi egualmente fondativi del mondo classico, ovvero le fatiche di Ercole e la battaglia di Azio. Mitologia e storia si intrecciano nel racconto, ed entrambe le scene raccontano due storie di abbandono del dovere in ragione della «subalternità del maschile al femminile»[17] – Ercole abbandona le proprie fatiche, Antonio abbandona i suoi doveri nei confronti di Roma – esattamente come aveva fatto Rinaldo, stregato da Armida.

Annibale Carracci, Rinaldo e Armida, 1601, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli.
La scena di Alcide (Ercole) e le sue fatiche sembra prendere vita attraverso la forza del linguaggio, quasi a realizzare un dinamismo visivo senza eguali; allo stesso modo, è possibile guardare alla dettagliata descrizione dell’episodio della battaglia di Azio, un punto decisivo nella lotta di Antonio e Cleopatra. In questo passo, Tasso utilizza l’ecfrasi per costruire un’immagine vivida della scena, ricca di dettagli visivi, in un dinamico interplay tra il corpo della battaglia e le vele della regina egiziana che fuggono, simbolizzando la sua fuga, ma anche l’emozione che pervade Antonio.
L’ecfrasi è sempre caratterizzata dall’uso di verbi che rimandano alla “visione”, come sottolinea l’uso del verbo “mirar” (o in questo caso il vedere alternato), creando un doppio movimento. Da una parte quello interno alla scena descritta, per cui Antonio alterna il suo sguardo tra la battaglia che ancora non è stata abbandonata e le vele che simboleggiano la fuga di Cleopatra, dall’altra il raddoppiamento dei punti di vista, come in un sistema di specchi. Ciò permette a Tasso di rendere tangibile la divisione emotiva di Antonio: non è lui a fuggire dalla battaglia, ma piuttosto segue Cleopatra, che scappa dalla sua responsabilità. In questo senso, emerge una tensione tra amore, vergogna e rabbia, con l’amore che emerge come l’emozione decisiva. L’uso del verbo “s’enfuir” (fuggire) gioca un ruolo cruciale nel climax della scena: il “dédoublement” emozionale di Antonio, diviso tra il dovere di combattere e il desiderio di seguire Cleopatra, è evidente. Tasso, attraverso questo gesto poetico, esplora la psicologia di Antonio, creando un movimento visivo ed emotivo che enfatizza la sua lotta interiore e la sua sottomissione all’amore.
In questa descrizione, la battaglia diventa un simbolo di conflitto, mentre la fuga di Cleopatra attraverso l’ecfrasi visiva diventa il catalizzatore per la riflessione sulle emozioni complesse di Antonio. Attraverso il linguaggio, Tasso non solo “dipinge” la scena, ma anche fa emergere la contraddizione interiore del suo protagonista, utilizzando la pittura come una metafora per la tensione tra la ragione e la passione. Ancora una volta, quindi, «la potenza delle imagines viventes è tale da provocare effetti sconvolgenti in chi le guarda: metamorfosi interiori, turbamenti profondi, dentro e fuori la cornice del testo»[18], tanto più che il destinatario delle ottave sembra un tu fuori campo – il lettore.
IV. Il Tasso della Controriforma: Sopra il ritratto di San Giovanni Battista
La vulgata vuole che, nell’ultima parte della sua vita, il poeta abbia appiattito la propria creatività sulla linea della Controriforma. In verità, gli ultimi studi hanno in parte corretto questa visione, mostrando che Tasso aveva piuttosto spostato il suo focus verso il proposito di nobilitare la letteratura attraverso l’annessione di saperi diversi, nonché il dialogo con i classici antichi. È indubbio, comunque, che il concilio di Trento abbia sortito un doppio effetto sul piano letterario, che interroga tanto il rapporto io-opera letteraria quanto quello opera letteraria-mimesi. E d’altra parte, tale movimento viene avvertito nell’intero comparto culturale, e anche e soprattutto nel dominio artistico più strettamente inteso. Come riassume perfettamente Paroli, infatti:
«A ciò si aggiungono i rigidi orientamenti post-tridentini che stavano prendendo forma in quegli stessi anni: se l’immagine deve nuovamente avere una funzione essenzialmente didascalica, l’inventività del pittore ne esce giocoforza ridotta, in quanto la pittura è relegata a dimostrazione e esemplificazione di ciò che è trasmesso nelle Scritture. Allo stesso tempo, proprio il Concilio di Trento sarà alla base della centralità data, attraverso la parola, all’interpretazione emotiva dell’opera d’arte: la commozione provata dai poeti alla vista dell’effigie della Vergine e di qualsivoglia episodio biblico portava infatti al suo massimo grado la sopradetta “funzione pedagogica” che le immagini dovevano d’ora in avanti possedere. In questo senso, il rapporto fra la descrizione delle opere d’arte e l’empatia deve essere inteso anche, se non soprattutto, quale risultato di un determinato contesto storico e politico»[19]
Tale cambiamento di paradigma sortisce naturalmente grande effetto sul poeta di Sorrento. Se la parabola poetica tassiana può essere riassunta come «un consapevole, costante, ambizioso, ma anche ostinato e sofferto cammino verso la perfezione»[20], è indubbio che, in reazione alle politiche tridentine, il poeta abbia deciso di assumere a soggetto di poesia la creazione divina, e non più quella umana, mantenendo la propria ostinata tendenza verso la perfezione. L’evocazione dell’antichità cristiana è al centro dell’opera controriformista tanto nelle commissioni artistiche – dai cicli decorativi, al rifacimento della Biblioteca vaticana alla Galleria delle carte geografiche – quanto alle commissioni letterarie. L’influenza della Controriforma in Tasso è evidente nei Dialoghi, nella Gerusalemme Conquistata, ma soprattutto nelle Rime sacre. La riflessione sull’ineffabilità della poesia si fa più serrata, in ragione della fondamentale inconoscibilità di Dio, e «di qui la necessità di simboleggiare, metaforizzare, allegorizzare per dire solo un’apparenza che non giunge mai alla so stanza del vero nascosto alla stessa intelligenza dell’uomo»[21]. La poesia assurge così a discorso privilegiato su Dio e assume potere conoscitivo.
Guardando al progetto di edizione focalizzato dal Tasso nel corso degli anni ’80, alle rime sacre venne riservata la terza e ultima parte delle poesie, e la corrispondente selezione è stata individuata, dagli studi di Luigi Poma[22], nel manoscritto Vat. lat. 10980. I testi non andarono a stampa vivo il Tasso e la loro ricomposizione nella sezione finale del canzoniere si deve prima al lavoro filologico di Solerti, quindi all’edizione di Maier di tutte le rime tassiane. Fra queste, quella che ripropone maggiormente la tendenza tassiana all’ekphrasis è il sonetto Sopra il ritratto di San Giovanni Battista.
Quest’ultimo è un esempio emblematico del cambio di paradigma che interessa la scrittura tassiana in seguito alla Controriforma, verso un rafforzamento del carattere emotivo che interessa la scrittura ecfrastica. Come già notava Morando[23], si tratterebbe di un caso di «notional ekphrasis», ovvero di una descrizione di opere d’arte non esistenti nella realtà. Hollander, infatti, opera una fondamentale distinzione fra actual ekphrasis, in cui il soggetto del discorso è un’opera d’arte esistente e notional ekphrasis, in cui, afferma, «a purely fictional painting or sculpture that is indeed brought into being by the poetic language itself»[24]. Questo non cambia però la sostanziale natura dell’ekphrasis nel Cinquecento, anzi. Come afferma Paroli «il fatto di assistere, nel tardo Cinquecento, tanto a delle descrizioni immaginarie che a delle pitture «di ricostruzione» altro non è che un segno ulteriore della molteplicità e varietà di rapporti che si instaurano fra poesia e pittura nel prolungarsi del dibattito sul paragone delle arti»[25].
Eccovi il don de l’onorata testa
di lagrime sì degno e di sospiri,
ecco la faccia scolorita e mesta,
in cui viva è la morte e par che spiri.
Ecco per bene oprar gli aspri martiri:
muta è la bocca già sonora, e ‘n questa
vita mortale anco richiama e desta
l’alta sua voce a gli stellanti giri.
E ‘n gran deserto pur rimbomba, e intanto
l’Agnel di Dio vi mostra: udite il suono,
che nulla dopo morte al mondo estingue.
Ma fredda lingua accende ardenti lingue:
o di mano empia già spietato dono,
o spettacol crudel, ma sacro e santo.
A questo proposito, il dipinto probabilmente immaginato da Tasso costituisce un esempio notevole di come la parola cerchi di portare la sua attenzione su ciò che sarebbe difficilmente esprimibile in pittura, ovvero la dimensione limbica e proteiforme del San Giovanni, e rappresenta la contemporaneità e gli stati d’animo opposti che attraversano il poeta nella visione del dipinto, ancora una volta vivificati a beneficio del lettore-spettatore.
V. Conclusione
In conclusione, i momenti ecfrastici tassiani, seppur differenti fra loro, si inseriscono perfettamente nella totalità di quelli che Carta definisce come «effetti di ecfrasi», ovvero «effetti che investono il campo delle azioni e delle emozioni»[26]. L’ekphrasis diviene quindi un dispositivo conoscitivo della «mobilità dell’animo» umana, ed è per questo che la descrizione di un’opera d’arte non è mai statica, ma è sempre segnata dal continuo dinamismo del sentimento umano. Come sottolinea Paroli, «la mobilità dell’animo, sia essa manifestata dalla figura rappresentata o dal suo osservatore, è un altro carattere precipuo facente dell’ekphrasis un accrescimento emotivo»[27]. In definitiva la pittura, pur essendo la rappresentazione più fedele del reale, non riesce a cogliere interamente la complessità dell’esperienza emotiva umana, che invece trova una particolare espressione nella parola.
È interessante notare quanto le stesse opere di Tasso, in particolare la Gerusalemme, siano divenuti oggetto di rappresentazione da parte di pittori, anche nell’immediato Barocco. Per esempio, il dipinto di Annibale Carracci Rinaldo e Armida (1601) si inserisce tra le prime rappresentazioni pittoriche tratte dal poema di Tasso. L’opera di Carracci, insieme ad altre come quella di Ludovico Carracci e l’edizione illustrata del 1590 del poema, testimonia come i Carracci siano stati pionieri nell’illustrazione grafica e pittorica della Gerusalemme liberata. L’epopea di Tasso non solo ispira le opere dei pittori, ma diventa anche un veicolo di espressione sensuale e visiva, come nel caso del quadro di Annibale, che cattura il momento in cui Rinaldo è sedotto dall’incantesimo di Armida. In questo ribaltamento, il poema di Tasso, che prima parlava di arte visiva, diventa esso stesso oggetto di un’interpretazione pittorica che esprime la carica sensuale e la tensione tra il distacco eroico e la seduzione amorosa. «In particolare, come fa notare Venturi, la poetica tassiana del parlar disgiunto divenne ben presto fonte di ispirazione per la dispositio e l’inventio della pittura tardocinquecentesca, bolognese e veneta»[28].
Bibliografia
Cristina Acucella, Un’ekphrasis contro la morte. Le Rime di Torquato Tasso sul ritratto di Irene di Spilimbergo, in «Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia antica», serie Le immagini vive, sezione L’età moderna, a cura di Carmelo Occhipinti, Tomo I, Roma, Università degli Sudi di Tor Vergata, 2015.
Erminia Ardissino, Il pensiero e la cultura religiosa di Torquato Tasso. Rassegna e discussione su un quinquennio di studi (1998-2002), in «Lettere Italiane», Ottobre-dicembre 2003, Vol. 55, No. 4, p. 591.
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Simona Morando, «Poesia, vox clamantis et picta, lettura di Rime, 1655», in Marco Corradini e Ottavio Ghidini, Senza te son nulla. Studi sulla poesia sacra di Torquato Tasso, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 2016.
Elena Paroli, «S’io veggo ‘l sasso, penso a la sua doglia». Ekphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento, «Notos», N. 6 / Formes de l’empathie: arts et langages, 2022.
Luigi Poma, La Parte terza delle rime tassiane, in «Studi tassiani», XXVII, 1979.
Matteo Residori, Tasso, in Profili di storia letteraria, a cura di Andrea Battistini, Bologna, Il Mulino, 2009.
Luca Zipoli, “S’a gli occhi credi”. Il giardino di Armida nelle edizioni illustrate della Gerusalemme Liberata, in Parola all’immagine. Esperienza dell’ecfrasi da Petrarca a Marino, a cura di Andrea Torre, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2019.
[1] Shadi Bartsch and Jaś Elsner, Eight Ways of Looking at an Ekphrasis, Classical Philology, Vol. 102, No. 1, Special Issues on Ekphrasis, Edited by Shadi Bartsch and Jaś Elsner (January 2007), Chicago, The University of Chicago Press, p. 1.
[2] Elena Paroli, «S’io veggo ‘l sasso, penso a la sua doglia». Ekphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento, «Notos», N. 6 / Formes de l’empathie: arts et langages, 2022, p. 14.
[4] Sonia Maffei, I limiti dell’ekphrasis: quando i testi originano immagini, Studi di Memofonte, 15/2015, p. 120.
[5] Elena Paroli, «S’io veggo ‘l sasso, penso a la sua doglia». Ekphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento, cit., 2022, p. 3.
[6] Ambra Carta, Effetti di ecfrasi nei canti XVI e XVIII della Gerusalemme liberata. Una proposta didattica, in QdR / Didattica e letteratura, Collana diretta da Natascia Tonelli e Simone Giusti, N. 9/Insegnare letteratura. Teorie e pratiche di una disciplina, a cura di Ambra Carta, Torino, Loescher Editore, 2019, p. 116.
[7] Luca Zipoli, “S’a gli occhi credi”. Il giardino di Armida nelle edizioni illustrate della Gerusalemme Liberata, in Parola all’immagine. Esperienza dell’ecfrasi da Petrarca a Marino, a cura di Andrea Torre, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2019.
[8] Matteo Residori, Tasso, in Profili di storia letteraria, a cura di Andrea Battistini, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 37.
[9] Cristina Acucella, Un’ekphrasis contro la morte. Le Rime di Torquato Tasso sul ritratto di Irene di Spilimbergo, in «Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia antica», serie Le immagini vive, sezione L’età moderna, a cura di Carmelo Occhipinti, Tomo I, Roma, Università degli Sudi di Tor Vergata, 2015, p. 94.
[10] Ivi, p. 96.
[11] Cristina Acucella, Un’ekphrasis contro la morte. Le Rime di Torquato Tasso sul ritratto di Irene di Spilimbergo, cit., p. 99.
[13] Elena Paroli, «S’io veggo ‘l sasso, penso a la sua doglia». Ekphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento, cit., 2022, p. 2.
[14] Ivi, p. 3.
[15] Per maggiori informazioni sull’«effetto di presenza» rimando a Maria Pia Ellero, Introduzione alla retorica, Firenze, Sansoni, 1997, p. 322.
[16] Ambra Carta, Effetti di ecfrasi nei canti XVI e XVIII della Gerusalemme liberata. Una proposta didattica, cit., 2019, p. 124.
[17] Ivi.
[18] Ambra Carta, Effetti di ecfrasi nei canti XVI e XVIII della Gerusalemme liberata. Una proposta didattica, cit., 2019, p. 120.
[19] Elena Paroli, «S’io veggo ‘l sasso, penso a la sua doglia». Ekphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento, cit., 2022, p. 4.
[20] Erminia Ardissino, Il pensiero e la cultura religiosa di Torquato Tasso. Rassegna e discussione su un quinquennio di studi (1998-2002), in «Lettere Italiane», Ottobre-dicembre 2003, Vol. 55, No. 4, p. 591.
[21] Ivi, p. 599.
[22] Luigi Poma, La Parte terza delle rime tassiane, in «Studi tassiani», XXVII, 1979, 5-45.
[23] Simona Morando, «Poesia, vox clamantis et picta, lettura di Rime, 1655», in Marco Corradini e Ottavio Ghidini, Senza te son nulla. Studi sulla poesia sacra di Torquato Tasso, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 2016.
[24] John Hollander, The Poetics of Ekphrasis, World & Image, 4, I, 1988.
[25] Elena Paroli, «S’io veggo ‘l sasso, penso a la sua doglia». Ekphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento, cit., 2022, p. 7.
[26] Ambra Carta, Effetti di ecfrasi nei canti XVI e XVIII della Gerusalemme liberata. Una proposta didattica, cit., 2019, p. 128.
[27] Elena Paroli, «S’io veggo ‘l sasso, penso a la sua doglia». Ekphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento, cit., 2022, p. 5.
[28] Ambra Carta, Effetti di ecfrasi nei canti XVI e XVIII della Gerusalemme liberata. Una proposta didattica, cit., 2019, p. 120.