Archivi categoria: Riscritture

Questo matrimonio non s’ha da fare

Carlotta Drusilla Corrado, in questa sua composizione teatrale, riscrive La bisbetica domata mantenendo la struttura e il tono vivace della commedia originale, con riferimenti ad altre opere letterarie, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa riscrittura ho scelto di concentrarmi sul personaggio di Kate, ponendo particolare attenzione al rapporto con sua sorella Bianca. Un rapporto segnato da una forte rivalità, sotto cui in realtà si cela un profondo affetto e un senso di protezione nei confronti di un destino a cui ogni donna sembra essere inevitabilmente destinata: il matrimonio.”

*

Entrano PETRUCCIO e CATERINA

PETRUCCIO
Kate! Tu mentivi…anzi, hai sempre mentito.

CATERINA
Che cosa c’è da strillare tanto? Sarà un altro dei tuoi episodi di pazzia?

PETRUCCIO
Ma quale pazzia e pazzia, qui l’unica pazza finta bisbetica sei tu!

CATERINA
Di cosa blateri, marito, dimmi.

PETRUCCIO
So tutto ormai, Kate! Ora puoi anche smettere di recitare questa parte!
Guarda che cosa ho trovato nella tua stanza, mentre facevo prendere ai servi le tue valigie…

CATERINA
…il mio diario! Immagino che tu abbia letto tutto, ma ti prego, lascia che ti spieghi.

PETRUCCIO
Spiegarmi? No Kate, non serve che mi spieghi; mi è bastato leggere una sola pagina per capire tutto quello che hai fatto, o meglio, che cercavi di fare.

Lascia che te la legga:

“Mio padre oggi mi ha rimproverata, dicendo che sembro nata dal demonio, per come ho trattato mia sorella Bianca; ma io lo so che è lei il suo tesoro, che è lei la sua preferita ed io come sempre vengo messa al secondo posto. A lui non è mai importato di me, a lui importa solo di far sposare Bianca, ma io glielo impedirò. Finché mi comporterò come una bisbetica, nessuno mi vorrà sposare e di conseguenza, nessuno potrà sposare Bianca. Questo è l’unico modo che ho per vendicarmi.”

Entra GRUMIO

GRUMIO
Signore, signore! Che cos’è tutto questo baccano? State bene?

PETRUCCIO
Zotico! Mi stai forse dicendo che sto facendo baccano?

GRUMIO
No, signore, assolutamente, ma…

PETRUCCIO
Ma cosa, allora? Non farmi perdere tempo!

GRUMIO
Nulla, signore! Io e gli altri servi vi stavamo aspettando sotto per partire, ma non vedendovi più arrivare e sentendo del frastuono provenire da qui sopra, ho temuto fosse successo qualcosa.

PETRUCCIO
Vuoi sapere che cos’è successo? Chiedilo a Kate!

GRUMIO
A vostra moglie, signore?

PETRUCCIO
Sì, a Kate, la mia cara bisbetica moglie, che a quanto pare non è bisbetica e ha inscenato tutto solo per non far sposare sua sorella Bianca.
E sai perché? Perché è gelosa di lei.
Non ci posso credere…ed io che pensavo di conoscerti Kate!

GRUMIO
[A parte]  Bé, per essere una finta bisbetica ha recitato proprio bene.

CATERINA
Ora basta! Fate silenzio e lasciatemi parlare!

PETRUCCIO
Non pensi di aver già detto e fatto abbastanza, Kate?

CATERINA
Penso che qui l’unico zotico sei tu, marito.
Secondo te, sarei mai in grado di fare una cosa simile? Non hai proprio capito nulla!
Credevo di esser stata scoperta, invece no, hai frainteso tutto!
Quando hai trovato il mio diario, hai aperto una delle tante pagine e hai letto solo quella, senza girare la pagina seguente e senza pensare che il discorso che stavo facendo non era ancora finito.
Oh, marito, sei sempre così precipitoso!

Continua la lettura di Questo matrimonio non s’ha da fare

C’è speranza

Giulia Sabatino, in questo testo, descrive la presa di coscienza di Giulietta, che decide di ribellarsi al violento Romeo, nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“La mia riscrittura non ha solo l’obiettivo di descrivere una vittima di violenza ma anche di dare voce a chi, come Giulietta, ha vissuto nel silenzio e nella rinuncia. Giulietta diventa consapevole di se stessa grazie alla Nora di Ibsen: il teatro viene inteso come un fulmine improvviso che conduce dalla prigionia alla liberazione”. 

*

Nel 1891, al Teatro dei Filodrammatici di Milano, va in scena la prima rappresentazione italiana di Casa di Bambola di Henrik Ibsen. Sul palco la divina Eleonora Duse interpreta il ruolo di Nora, rapendo l’attenzione del pubblico- tra cui una giovane spettatrice di nome Giulietta Capuleti, la cui vita cambierà radicalmente dopo quello spettacolo.

Atto I- Infanzia

Giulietta ha sempre amato il teatro. Il suo primo ricordo risale a quando, da bambina, lei e sua madre usavano la stoffa scarlatta delle tende per costruire un piccolo sipario nell’androne di casa. Lì recitavano insieme, davanti al resto della famiglia. Su quel palcoscenico improvvisato, Giulietta guardava sua madre negli occhi, coglieva il suo sorriso appena accennato, e si sentiva al sicuro e amata. 
Un grigio pomeriggio d’autunno, mentre passeggiava nel cortile ammirando i colori delle foglie, vide sua mamma gettarsi dal balcone. Il suo corpo si schiantò sul prato gelido, e Giulietta assistette impotente al suo ultimo respiro. Non comprese il motivo di quel gesto, ma da quel momento si trovò sola, abbandonata. Rimase con il padre, un uomo severo e conservatore. Lui, incapace di elaborare il lutto, iniziò a privarla delle sue passioni: le proibì di leggere e di avvicinarsi al teatro, così Giulietta crebbe intrappolata tra le mura di casa, in una vita vuota fatta di silenzio e rinunce. Giulietta non lo vide mai versare nemmeno una lacrima per la morte della madre e si convinse che il suo comportamento fosse solo un modo per affrontare la perdita e proteggere la figlia.

Continua la lettura di C’è speranza

Il piccolo princip

Francesco Lombardo, in questo breve racconto, descrive un personaggio storicamente controverso ispirandosi a fatti reali, nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Coscienza e verità: il romanzo contemporaneo. (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“L’obiettivo che mi ha guidato durante questa riscrittura era di provare a raccontare un lato della storia a cui personalmente ritengo sia concesso poco spazio, se non nessuno, nella manualistica e nella didattica contemporanea. il racconto si articola sulla narrazione romanzata della vita di Gavrilo Princip e sulle riflessioni di carattere etico e sociale che vengono operate dai diversi narratori”.

*

Gavrilo è sempre stato modesto. Fin da bambino ha imparato che nulla viene dal nulla, e che non ci si deve aspettare che il peggio.
Da piccolo era pallido, magrolino ed emaciato. Sua madre gli impediva persino di uscire a giocare con gli altri ragazzi per paura che si ammalasse. Lui proprio non la capiva, e odiava questa situazione.
Per fortuna aveva tanti fratelli con cui divertirsi pur rimanendo in casa. Ma dopotutto non ci si può aspettare che il peggio. I suoi fratelli lo lasciarono uno dopo l’altro.
Gavrilo era molto triste. Capiva però che la colpa non fosse loro. Per un po’ di tempo aveva attribuito questo torto a sua madre che, preoccupandosi così tanto di lui, aveva finito per abbandonare gli altri figli. In seguito, aveva addossato a suo padre la responsabilità di questi eventi, lui che andava in giro tutto il giorno per consegnare lettere a sconosciuti piuttosto che aiutare la propria famiglia. In fondo era poco più che un bambino. Più avanti avrebbe capito che i suoi genitori avevano sofferto quanto lui, al suo stesso modo vittime di quella situazione.
Più cresceva, più Gavrilo si domandava quale fosse la ragione per cui soffriva così tanto. Questa è la storia di un processo mentale che ha condotto ad un processo giudiziario, risolvendosi con questo racconto.

Continua la lettura di Il piccolo princip

Lost long, forever found

Irene Filippetti, in questa composizione, riunisce Sigismondo, Riccardo III e Tamerlano il Grande, facendoli dialogare nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Storia e potere nella prima età moderna (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa riscrittura ho voluto riflettere sul ruolo del potere nella vita degli uomini. La vicenda, narrata in tono fiabesco, invita il lettore in un mondo fittizio dominato da regole semplici e categoriche, che vengono messe in discussione dall’inaspettata comparsa di un nuovo personaggio”.

*

C’era una volta un piccolo pezzo di terra, che per taluni non significava nulla, ma per altri significava il mondo intero. Sin dall’antichità, il pezzo di terra era diviso in tre e affidato a tre diversi regnanti. Di mattina, il sole sorgeva nel Regno di Riccardo, poi attraversava il Regno di Tamerlano, e infine calava nel Regno di Sigismondo. Nonostante vivessero tutti sotto lo stesso cielo e sullo stesso palcoscenico, le differenze che intercorrevano tra di loro erano come quelle tra un giglio e una rosa: appartenevano alla stessa specie, ma mai nessuno avrebbe potuto confondere l’uno con l’altro, neanche per sbaglio.
Riccardo era un regnante ossessivo e ombroso, Tamerlano era seducente ma brutale, infine Sigismondo trasognato e selvatico.
In vita loro, i tre re non si erano mai visti in faccia. Una regola soprassedeva ciascun governo: nessuna contaminazione tra i popoli era concessa. Il pezzo di terra era piccolo abbastanza da permettere che, se i cittadini dei tre regni si fossero messi in fila, il primo avrebbe potuto stringere la mano dell’ultimo senza doversi neppure allungare, e tutti insieme avrebbero potuto fare un bel girotondo. Nonostante ciò, qualsiasi fraternizzazione veniva punita, più o meno spietatamente in base alla giurisdizione di appartenenza.
Ogni giorno, degli ambasciatori tecnici andavano con squadre e righelli a misurare i confini tracciati sul suolo. La pace era minacciata da ogni ago di abete perché, se anche un solo ramo di un albero nemico cresceva al di là di un centimetro, ecco che si urlava all’invasione.
Un giorno arrivò una straniera. Aveva fattezze che, in quel pezzo di terra, non si erano mai viste prima. Non conosceva le usanze locali e travalicava i confini come fosse normale. La sua esistenza creava un grande scompiglio, se non altro perché non si capiva cosa di preciso fosse venuta lì a fare. Mangiava melograni a morsi e si lucidava le scarpe a suon di sputi; sembrava soltanto godersi i paesaggi e ascoltare le storie dei più vecchi abitanti. Questo non aveva il minimo senso, perché notoriamente i tre regni non possedevano bellezze paesaggistiche né culture affermate. Un simile bizzarro comportamento non poteva restare inosservato. La straniera non recava alcun danno o disagio, eppure tutti e tre i re, simultaneamente, la chiamarono a udienza.
Poiché nessuno voleva cederla di un minuto all’altro, avvenne un fatto epocale: i tre re si riunirono assieme per poter interrogare la straniera.
Appositamente per l’udienza, venne costruito in quattro e quattr’otto un palazzo ai piedi della montagna, ch’era punto nevralgico del territorio: il luogo preciso in cui tutti i regni convergevano. Il palazzo era sontuoso e splendente. Tappeti delle più pregiate fatture vennero srotolati per i nobili calzari di Riccardo, Tamerlano e Sigismondo, araldi vennero innalzati e cori annunciarono il grande evento.
La straniera si presentò nell’unico abito sgualcito che sembrava possedere.
I tre re cominciarono con la stessa identica, tuonante domanda: “Perché sei qui?”.
Lei si era resa conto della situazione ed ebbe voglia di trarne piacere. Inventò una bella storiella per metterli alla prova. “Vengo da un paese molto lontano”, disse, “E ho viaggiato fin qui perché ho saputo dell’immenso tesoro che custodite.”
“Che tesoro?”
“Come, che tesoro! Il chicco di riso.”
“Il chicco di riso?”
“Il chicco di riso.”
L’immensa sala si riempì di chiacchiericci.
Riccardo simulò un colpo di tosse, così tornò il silenzio.
La incalzò: “Di cosa parli, straniera?”.
La straniera rispose con tono ovvio, “Il chicco di riso che sta proprio sul cucuzzolo della montagna. So che, se ingoiato, dona forza e ricchezza infinite. Per questo mi sono messa in viaggio, non senza spavento.”
I re erano attoniti, ma non potevano di certo svelare che non ne sapevano nulla. Finsero di conoscere perfettamente il chicco prodigioso. E poiché i re fingevano, anche il popolo finse, per non esser da meno. L’udienza terminò poco dopo.
Quella notte stessa, tutti e tre i re cominciarono ad arrampicarsi per la montagna in gran segreto.
Nonostante la penombra gettata dal cielo, si riconobbero nell’oscurità.
Com’era prevedibile, pur continuando a scalare, presero a insultarsi e ad aizzarsi nell’orgoglio.
“Ah! Che ci fa qui il potente Tamerlano? Si reputa forse carente in forza e ricchezza?”
“Voglio solo assicurarmi che forza e ricchezza non finiscano nella bocca di chi non saprebbe masticarle.”
“La tua bocca serve soltanto alla tua arroganza; mai ne uscì qualcosa di saggio.”
“Almeno non ne abuso per dire sempre qualcosa di sciocco, Sigismondo; e in quanto a Riccardo, può soltanto ringraziare che almeno la bocca non gli sia nata storta.”
Mentre procedevano a mani nude sulle rocce, calò il silenzio. I tre re erano nemici, certo, e provavano una sadica gioia nel potersi finalmente insultare in pieno viso. Tuttavia, non lo si poteva negare, sui loro animi gravava l’udienza di quel giorno e tutto lo scompiglio che la straniera aveva versato sui regni, viscoso come pece ma brillante come miele. Com’era possibile che non fossero a conoscenza del chicco di riso? Chissà perché, a nessuno venne in mente che potesse trattarsi di un inganno. Forse perché ci troviamo dietro il sipario delle fiabe.
“Il fatto che siate qui con me stanotte”, disse d’un tratto Riccardo, “svela il mio stesso svantaggio. Anche voi avete scoperto oggi del chicco di riso.”
Sigismondo digrignò i denti, ma dovette ammettere, “È così. A cosa serve aver deciso anch’io di studiare le stelle, se non mi accorgo di ciò che sta sulla terra?”.
“Non ti crucciare a tal modo”, chi avrebbe mai indovinato che la voce di Tamerlano potesse rivelarsi quasi gentile? “Neppure io, col mio ingegno, me ne sono accorto. E nessuno dei miei sudditi ha mai pensato di dirmelo! Domani dovrò tagliar loro la testa, uno a uno.”
Ora succedeva qualcosa di straordinario: provavano pena l’uno per l’altro, perché soltanto loro in tutto il mondo potevano capirsi a vicenda. In questa distorta empatia nacque il germoglio della comprensione. Forse non erano così diversi come credevano di essere. Tutti loro conoscevano gli affanni della corona tanto quanto i godimenti della stessa. Quella notte gli scettri pesavano più che mai, e che altra soluzione avevano se non di sorreggersi a vicenda?
Faticarono per ore e ore. Alla fine, però, raggiunsero la cima della montagna. Vi misero piede all’unisono.
Dove poteva essere il chicco di riso, in mezzo a tutta quell’erba incolta? Ma prima di mettersi in cerca— qualcosa di magnifico fermò i loro passi e mutò i loro cuori. Era l’alba.
Il sole sorgeva dalle colline circostanti, indorando il mondo di colori che non avevano mai visto prima. Com’era vasto il loro piccolo pezzo di terra, da lassù! Com’era vasto e com’era bello! La brina sembrava cipria sparsa sui volti dei sassi, le pianure brillavano di piante e frutti dai sapori indimenticabili, le strade deserte parevano un disegno fatto a matita da Dio. E quelle vaghe, poche sagome di pescatori o fornai che già si accingevano al lavoro, com’erano amabili! I re pensarono a loro, a tutti gli abitanti che ancora dormivano sotto le coperte, a chi stava facendo colazione, a chi andava a mungere mucche. Sentirono i propri cuori intiepidirsi, e per un attimo capirono la straniera: capirono perché non faceva altro che guardare il paesaggio e interrogare gli anziani. Da lassù, era impossibile distinguere dove cominciasse un regno e dove finisse l’altro.
Si sorrisero, forse si abbracciarono, sedettero a lungo. Si scambiarono parole buone e sincere. Si vollero bene.
Nonostante questo, quando il cielo imbrunì e sui loro cuori tornò la tenebra, sguainarono le spade e finirono comunque per uccidersi a vicenda – per un chicco di riso che neppure esisteva. Perché tale è la natura dell’uomo.
I loro corpi vennero recuperati e sepolti con grande prestigio. Ciascuno dei loro figli venne eletto nuovo re, e i figli continuarono a odiarsi come fecero i padri, senza sapere che per un momento erano stati fratelli.

Continua la lettura di Lost long, forever found

Banchetto

Luisa Carolina Stella, in questo testo a metà tra narrativa e monologo teatrale, riscrive Romeo e Giulietta reinterpretando i ruoli dei personaggi, sopra tutti quello di Giulietta, che viene eletta a rappresentante della tragedia beckettiana, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Romeo, oggi sopravviviamo in un altro tempo, in un luogo che poco somiglia alla nostra Verona. E non si è più soltanto noi perché si gioca un’altra partita. Ohnon chiedere “cosa?” , abbi un po’ di pazienza. Siamo simboli al cospetto di un altro dio, un dio che invecchia, ma che, ancora, non muore.”

*

We’re not beginning to… to … mean something?

S. Beckett, Endgame, Faber&Faber, 2012, p. 54

L’erba cresciuta tra le fessure delle piastrelle del peristilio accarezzò i suoi teneri piedi scalzi. Il suo vestito immacolato danzava con i frammenti sconnessi del selciato.
La struttura trasandava sotto il peso dei secoli, ma protetta com’era dal debole sole del tramonto, sperava di nascondere alla bene e meglio lo squallore a cui il padrone di casa l’aveva ridotta. Crepe profonde nelle pareti circostanti, tegole in frantumi tra l’erbaccia e le travi, di quel che un tempo era stato il tetto, ora ronfavano, implose su se stesse, tra i calcinacci.
Ma gli occhi di Giulietta brillavano. Percorreva in punta di piedi il perimetro del cortile, attenta a non guastare il precarissimo equilibrio delle cose. Era una danza la sua, piuttosto traballante, a ritmo di una musica che sembrava raggiungerla da un altro tempo, ridotta a un’eco di dolci note di cetra. Con la leggerezza che tutta l’umanità invidia alle ragazzine, ballava con le colonne: le braccia protese, prima una e poi l’altra, stringevano i marmi eterni, come se mai più avessero dovuto lasciarli; poi, di lì a un secondo, li abbandonavano, per liberarsi e proseguire, di marmo in marmo, il colonnato. Lo sguardo di Giulietta, intanto, si posava su ogni cosa, frugava dappertutto, forse alla ricerca del luogo da cui provenisse quella musica.
A metà del colonnato, la sua attenzione venne catturata da un baluginio al centro del cortile. Interruppe la sua danza, s’arrestò con le braccia avvinghiate ai marmi. Rimase così, per qualche istante, quasi a ponderare l’idea d’avvicinarsi o di rimanere cautamente dove già si trovava, o addirittura, d’andarsene.
Ma non aveva scelta. Oltrepassò le sue colonne d’Ercole e s’avviò verso la luce.

Continua la lettura di Banchetto