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Tg interviste Italia S07E01, Stagione 7 prima puntata completa

Giuseppina Santoro, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura offre uno spunto per una rappresentazione teatrale sotto forma di intervista su stampo moderno e tecnologico anche attraverso l’uso del linguaggio e degli strumenti tecnologici del personaggio shakespeariano Pericle, principe di Tiro. Ricorrenti anche inserti tratti da Cibelino e dalla Tempesta.

*

Intervistatore
Buonasera cari telespettatori e benvenuti ad un’altra puntata del TG interviste. Oggi con noi in studio un ospite molto speciale; facciamo un caloroso applauso a Pericles il principe di Tiro.

[Applausi incontenibili accompagnati da fischi e schiamazzi accompagnano l’ingresso dell’uomo].

Pericle
Buonasera a tutti miei cari [Saluta il pubblico agitando la mano per aria].

Intervistatore
Buonasera Pericle. Come è andato il viaggio? Ti trovo in forma [Stringe la mano all’ospite].

Pericle
Sempre più è faticoso per me varcare il confine del mondo eterno e scendere nel mondo di voi mortali e nonostante le mie imprese eroiche per terra e per mare, il mio vecchio cuore mostra sempre più i segni dell’affanno. [Tossisce].

[I due si scambiano pacche sulle spalle. L’intervistatore gli fa cenno di accomodarsi alla postazione e consulta il block notes che tiene tra le mani].

Intervistatore
Pericle do you prefer to speak in English?

[L’ospite ride sotto i baffi].

Pericle
Negli anni il mio intelletto si è arricchito di idiomi, favorito anche dalle traduzioni della narrazione delle mie gesta. Ti è dunque consentito l’uso dell’italiano.

Intervistatore
Ti ringrazio, non me la cavo molto bene con le lingue. Inizio subito a porti la prima domanda: dopo la scoperta dell’incesto tra Antioco e sua figlia, quale è stata tua reazione?

Pericle
La prima volta che i miei occhi ebbero la possibilità di ammirare la bellezza di questa donna, ella mi apparve abbigliata come la Primavera, tanto bella da donare luce a tutte le creature che la circondavano. Gli dei, al momento della mia nascita, decisero di fare di me un uomo ed in quanto tale pregai loro affiche io potessi baciare tale bellezza sconfinata. La mia preghiera di certo non si fermò dinnanzi alla verità, seppur cruda e violenta questa colpì il mio cuore, io ero pronto a qualsiasi rischio. Al mio destino non fu data altra scelta se non quella della fuga così mi imbarcai ed affrontai il grande pericolo del mare. Presto il mio viaggio fu interrotto dalla tempesta, un vento impetuoso ruppe le vele dell’imbarcazione. Questa si distrusse e mi ritrovai tra tuoni e abissi. La potenza delle onde mi trascinò da costa in costa finché la Fortuna mi gettò sulla riva di Pentapoli e…

[L’intervistatore lo interrompe].

Intervistatore
Facendo confusione tra le scartoffie che ha in mano]. Bene bene stiamo perdendo le fila del discorso. Ecco la seconda domanda è questa: in che modo sei riuscito a superare le dure prove del Re Simonide e a prendere in sposa Taisa? Immagino ti sarai allenato per parecchio tempo per prevalere su ben cinque dei più forti cavalieri del tempo.

Pericle
La speranza fu la prima a guidarmi e la Fortuna l’ultima ad abbandonarmi. Questa mi permise di trovare un’armatura indistruttibile per mare; elmo, scudo, schinieri, pettorali e corazza. Mi sentii invincibile, e così fu. Sposai Taisa. La mia mente però celava ancora in segreto il ricordo della donna più bella di una dea dalla però fui costretto a fuggire. La Fortuna ancora una volta mi fu vicina, l’eros tra me e Taisa arse dopo una sola notte di fuoco.

Intervistatore
Mio caro Pericle, il primo amore non si scorda mai! Tutti i tuoi fan sono a conoscenza di ciò che viene dopo e, anche se sarà doloroso per te parlarne, e per questo abbiamo preparato dei fazzoletti proprio lì, ti chiedo di parlarci della perdita di tua moglie, seppur apparente.

[Pericle accenna un mesto sorriso, prende in mano preventivamente un fazzoletto e fa un grosso respiro. Lentamente ripercorre i ricordi].

Pericle
O Taisa, la donna della mia vita, l’unica per la quale fui “Puro e disposto a salire a le stelle” venne così strappata dalle mie braccia. Il tempo, fugace nemico, non fu dalla mia parte e non ci permise di vivere una vita serena.  Quanto dolore riporti alla mia memoria e quanta infelicità al mio vecchio cuore. [Toglie gli occhiali, si passa una mano sugli occhi e si soffia il naso]. Quell’orrida tempesta fu la causa non soltanto della morte di mia moglie ma anche della mia. Nulla più fu motivo di felicità per me e le parole di bocca non mi uscirono più. Conobbi un monaco che mi convinse a seguirlo e così feci. Il cappuccio della tonaca mi copriva il volto e gli occhi; vedevo buio come la mia amata sul fondo del mare…

[Il pubblico è in lacrime. L’intervistatore trattiene il respiro per non emozionarsi e si morde la lingua. Getta sotto la poltrona la lista delle domande preparatosi].

Intervistatore
Ti dispiacerebbe continuare a raccontare la storia, Pericle?

[Pericle si sistema sulla poltrona e accenna un freddo sorriso].

Pericle
La cassa nella quale si trovava Taisa galleggiò sul mare per tre giorni e tre notti finché non approdò sulle coste di un’isola. Ancora i miei pensieri sono incerti sul nome di questa, nel mediterraneo, tra Italia e Tunisia, ma chi aprì la cassa e riportò in vita mia moglie mi fu subito chiaro; Prospero il suo nome. Colui di cui vi parlo è il sommo mago; incantesimi, trucchi cui è impossibile disobbedire ed altre maleficenze del mestiere sono la sua specialità, egli è dotato perfino dalla capacità di evocare le anime. Panni e fuoco ci vollero per risvegliare la mia Taisa, aria, musica rozza e lamentosa, tanta. In questo modo Prospero riuscì a risvegliarla dal suo sonno mortale e di ciò io gli sarò eternamente riconoscente.

Intervistatore
Sono sicuro sia un tuo ottimo amico. Dunque dopo aver commosso l’intera sala facciamo tutti un grande applauso al nostro ospite [Applausi acclamanti]. Adesso posso finalmente dirtelo Pericle, fremo dalla voglia da quando sei entrato. Abbiamo preparato per te una sorpresa che ti lascerà a bocca aperta, te lo assicuro. Chiudi gli occhi e riaprili solo quando te lo dico io e, mi raccomando, non sbirciare!

[Pericle si copre gli occhi con le mani, una poltrona viene sistemata tra i due uomini e Marina viene fatta entrare in punta di piedi].

Intervistatore
Adesso puoi aprire gli occhi!

Pericle
For God’s sake! Long time no see! Vieni tra le braccia di tuo padre e mostrami la tua bellezza. Mia cara figlia, sangue del mio sangue, guardati, sei una donna ormai!

Marina
Caro padre troppo tempo è passato dall’ultimo nostro incontro nell’oltretomba.

Intervistatore
Quanta bellezza in studio! Quante emozioni ci regala questa famiglia! Marina chiedo a te adesso, spiegheresti al pubblico il significato del tuo nome?

Marina
Come immagino già sappiate la mia nascita avvenne in mare durante un naufragio nel quale mia madre perse la vita. Io riuscii a sopravvivere e mio padre [Stringe la mano del padre] mi diede in dono questo nome. Io appartengo al mare. Il mio nome nasconde delle caratteristiche del mio essere; sensuale, passionale, energica e sensibile son io.

Intervistatore
Riprendiamo adesso con momenti tragici e crudi mia cara, racconta al pubblico in che modo sei riuscita a non farti possedere in quel bordello nel quale ti mandò Dionisa, invidiosa della tua bellezza.

Marina
Oh quel posto, che orrore, che atrocità! Dell mia bellezza vollero approfittarsi e vendere il mio corpo a degli uomini! Rendo grazie agli Dei, a mia madre e a mio padre per avermi concesso l’abilità della danza e del canto. Cantai come un immortale e danzai simile a una dea sulle sue ammirate melodie. Queste arti ammutolirono chiunque io avessi dinanzi e nessuno mai ha osato poggiare dito sul mio corpo.

Pericle
Che ripugnanza, figlia mia!

Marina
E’ vero padre, ciò che non uccide fortifica ed io adesso mi sento invincibile.

Intervistatore
Accidenti io amo i happy ending! Concludiamo questa bellissima ed emozionante puntata del tg interviste con un’ultima domanda a te, Pericle. Ti chiedo di farci commuovere un’ultima volto con un altro tuo racconto ovvero quello dell’incontro con tua figlia e tua moglie…ah quasi dimenticavo, ragazzi dello staff, facciamo entrare l’altra sorpresa!

[Lo staff sistema un’altra poltrona e fa partire la sigla].

[Entra Taisa]

Intervistatore
Tale madre tale figlia. Buonasera Taisa sei splendida! Accomodati pure.

[Taisa abbraccia Marina e Pericle e si siede].

Pericle
Fu il giorno più bello della mia vita. Non potetti credere alle mie orecchie quando sentii quel canto proveniente dalla sua bocca. In un primo momento non capii bene chi io avessi dinnanzi, poi tutto mi fu chiaro. A partire dal suo nome, Marina, alla sua storia della nascita in mare compresi che la fanciulla che mi stava difronte era la mia amata figlia. Rinacqui. Come Taisa fu salvata dal mago anche io ripresi a respirare, il cuore rinsanì d’un colpo e le mie labbra, dopo tanto tempo, formarono un arco che rassomigliava ad un sorriso. Piansi. Piansi di gioia e di dolore. Si risvegliò in me la consapevolezza di ciò che ero, Re, e come tale ripresi a comportarmi.

Intervistatore
Che fortuna avervi avuto in studio oggi. È stato un enorme piacere per me. Vi chiedo di scattare una foto in ricordo di questo bel incontro da appendere alla “bacheca ospiti”. Venite, stringiamoci.

[Un ragazzo dello staff scatta la foto. L’intervistatore dà la mano agli ospiti e li abbraccia calorosamente].

Intervistatore
Arrivederci miei cari e buon ritorno, mi raccomando Pericle, attento al cuore, non ti affaticare! Sssssssigla!

[Escono].

Il racconto ad Alcinòo: l’avventura del Ciclope

Viola Bossolasco, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Odissea omerica, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I/II, Letterature comparate B, mod. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questo fumetto propone in chiave ironica il libro nono dell’Odissea: Ulisse e i suoi compagni arrivano nell’isola dei ciclopi dove incontrano il buffo Polifemo.

*

Edge

Matilde Penta, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof. ssa Chiara Lombardi.

Sembrava una normale notte estiva, quando il sonno inquieto di William venne spezzato: una voce imperativa, una visita inaspettata, due dame, la luna e il semplice timore del domani.

*

Will… Will…” un brusio confuso e indistinto echeggiava nel buio delle palpebre. William si rigirava nel letto: il sonno irrequieto, la fronte imperlata di sudore, le lenzuola avvinghiate all’esile corpo come serpi, i pugni stretti lungo i fianchi. Will… Will… il pallore lunare tappezzava la stanza, un flebile sospiro s’infilava dalla finestra rimasta socchiusa, le candide tende sventolavano debolmente disegnando forme sinuose come fantasmi. Will… Will… il ticchettio del pendolo sembrava rallentare, il tempo si assopiva.

Fra le mille voci se ne levò una, limpida e imperativa: Will! L’uomo si tirò a sedere sul letto con uno scatto fulmineo. Il petto si sollevava e abbassava a una velocità insolita, gli occhi stropicciati si misero ad indagare l’oscurità, alla intimorita ma curiosa ricerca della fonte del suo brusco risveglio. La stanza sembrava non essere diversa da come l’aveva vista prima di lasciarsi scaldare dall’abbraccio di Morfeo eppure aveva come la sensazione di non essere solo.

“Sono desolata di aver disturbato il vostro sogno, caro” quella stessa voce ora suonava più chiara, calda e vicina.

“Chi è là?” sentenziò Will con la voce ancora spezzata dal sonno, ma inspiegabilmente serena.

“Non lasciate che il canto della notte faccia naufragare la vostra memoria, non mi riconoscete?”

William ancora non era in grado di dire con precisione da dove venisse quella voce, ma non gli era del tutto nuova.

“Se mi concedeste la grazia di mostrarvi a me vi libererei dallo scomodo ufficio di presentarvi” disse spingendosi al fondo del letto. Tentò di fendere le tenebre aguzzando la vista verso il camino, dove il fuoco ormai ridotto a un fioco bagliore rossastro sepolto sotto la cenere illuminava solo le gambe della vecchia poltrona di velluto, ma non solo. Strinse le palpebre e finalmente riuscì a tracciare i contorni di una figura. Sulla poltrona stava comodamente seduta una fanciulla.

Nonostante la sua giovane età, sedeva con la compostezza di una dama, con le mani giunte in grembo e le spalle dritte. Eppure c’era qualcosa di particolare nella sua figura, qualcosa che sembrava darle un’aurea d’impalpabilità.

La ragazza sollevò lo sguardo e lo intrecciò a quello di Will. Un raggio di luna non solo le incorniciò la parte sinistra del volto, ma la attraversò come un dardo.

“Rivelatevi a me, siete forse un fantasma?” domandò senza lasciarsi scomporre dalle parole che aveva appena pronunciato.

“Non temete caro, non sono qui per affidarti alcuna vendetta. Guardatemi con attenzione, piuttosto. Orsù, non mi riconoscete? Eppure è stato il vostro intelletto a darmi questo aspetto”.

William scese dal letto con passo delicato: il legno sconnesso scricchiolò sotto il suo peso. D’un tratto si sentì fastidiosamente pesante. Avvicinandosi prese a scrutare quel volto con chirurgica attenzione: quei lineamenti giovanili, quegli occhi svegli, quel sorriso savio. Capì.

“Mia cara, l’invidiosa notte mi velò gli occhi e vi nascose al mio animo” si sedette sulla poltrona dirimpetto. Si sentiva a disagio così sciupato, con il pigiama stropicciato e i capelli arruffati, dinanzi a quella figura così regalmente composta.

“Non tediatevi, bensì ascoltate le mie parole e prestate attenzione.” la fanciulla sistemò l’unica piega del lungo abito “Lasciare le spiagge di Tarso è un dolore tollerabile finché il sole non ne sfiora i tetti. La ragione che mi spinge sin qui ha un nome e un volto.”

Will si strofinò gli occhi, non perché faticasse a credere a ciò che vedeva, ma per tentare di assumere quel contegno che tanto lo assillava “Qualcuno vuole il mio male? Non ho arrecato torto a nessuno!” tentava di occultare quella scintilla di nervosismo che gli solleticava le spalle.

“Così credete, mio caro.” sorrise, sembrava divertita dall’inquietudine di Will “Ormai sarà alle vostre porte”

“Chi, saggia Marina, chi fa tuonare le mie porte nel cuore della notte? Sciogli il timore che mi attanaglia il cuore, non fare mistero della mia sorte” Will strinse con forza i braccioli della logora e polverosa poltrona, fissò gli occhi sgranati sullo spettro, immersa nel buio solo per metà.

“Una delle tue figlie, delle tue dame, delle tue chimere, stanche di nascere e morire ogni notte per i capricci di altri, viene a pregarti di impugnare il tuo tagliente ferro un’altra volta e di darle una vita nuova.”

La pacatezza di Marina tradiva il senso delle sue parole. Il cuore di William avrebbe dovuto tremare, ma fremeva, impaziente.

D’improvviso un rumore sordo lo fece sobbalzare. Il suo cuore ebbe un sussulto, si voltò di scatto e un tenero sorriso gli increspò le guance.

Una fanciulla, dalla stessa evanescenza pallida di Marina, stava accovacciata con il braccio teso. Raccolse il piccolo volume che le era goffamente sfuggito dalle mani e si alzò. Con la testa ancora china sollevò i lembi dell’abito dai contorni indefiniti rivelando i piccoli piedi scalzi e accennò un composto inchino ai due. Quando alzò lo sguardo su Will, l’uomo provò nei suoi confronti un amore quasi paterno.

“Perdonate, Milord, il tremore dei polsi”. Rimase lì, in piedi nel mezzo della stanza, come attendendo il permesso di Marina. Quando questa le accennò un segno col capo, la fanciulla andò a sedersi ai piedi della sua poltrona. I lunghi capelli legati in una morbida acconciatura e cadevano sulle spalle come onde rubate a quel mare che tanto bene conosceva.

Con il libro stretto fra le piccole e tozze dita, lo guardava con ammirazione, ammaliata e attonita.

“È una gioia vedervi, mia cara Miranda” Will si sporse in avanti, avrebbe voluto stringere quella figura così minuta e dagli occhi scintillanti tra le braccia.

La giovane tentò di nascondere un risolino con la rigida copertina del libro “L’onore è mio, Milord, la più ambiziosa delle mie brame è finalmente reale! Tutte le stelle del cielo sono invidiose dello splendore della vostra penna, poter…” il rapido e incalzante fiume di parole venne arrestato dalla mano di Marina che si posò delicata sulla spalla della ragazza. Marina sollevò lo sguardo sulla fanciulla che sedeva sulla poltrona: avevano pressoché la stessa età, eppure lustri sembravano separarle.

“Avete ragione, tempus fugit e la luce dell’alba già solletica le lacrime di rugiada. Devo sbrigarmi!”.

Esitò, inspirò come a cercare nell’aria la forza di confessare ciò che le opprimeva quel suo cuore di luce.

“Milord” riprese con gli occhi bassi “la vostra mente mi ha dato vita, la vostra arte mi ha condannata.”

Il cuore di Will trasalì. Improvvisamente una sensazione di soffocante colpevolezza lo avvolse. Non aveva ancora concluso neppure il primo atto, come poteva Miranda già detestare il suo destino?

“Nata duchessa, cresciuta selvaggia. Vissuta tra menzogna e solitudine. Figlia di un padre sofferente e tiranno, nelle mie vene scorre il putrido sangue di un vile traditore, lacrime versate per un passato di cui non ho memoria. Indegna sorte mi costrinse su quelle rive. Senza conoscere il mondo e le sue meraviglie, prigioniera delle stesse albe e dei soliti tramonti, quanti segreti. Perché punirmi con un simile destino maligno? Un’esistenza votata a pagare colpe di cui la mia anima mai si macchiò. Sciogliete il mio vincolo, Milord, sganciate le catene che mi ancorano a quell’isola: amorevole madre ma crudele matrigna. Prima che la vostra penna sigli la mia condanna, ve ne prego, riflettete se desiderate vedere il virtuoso cuore della vostra creatura appassire e donare i suoi petali stanchi al suolo che la ha dato vita e morte.”

Quegli occhi eterei imperlati di lucciole e quella bianca voce spezzata dal tremore frantumarono il cuore di Will in mille prismi di quarzo e anche più. Miranda abbandonò il capo al bracciolo della poltrona, come se quelle parole l’avessero affaticata più della tempesta che le aveva turbato il cuore, là sulla riva del suo esilio ameno.

L’autore la guardò con dolcezza. Niente più che una giovinetta, sola davanti all’immensità del futuro, ignoto e spaventoso. Gioventù e ingenuità fanno nascere nel cuore il suo smarrimento. “Non temere” pensò Will “ti darò il più brillante dei domani. Ti libererò dal giogo che ti appesantisce le spalle per donartene uno che ti abbellirà il capo: sarai sapiente regina, rispettabile moglie, amorevole madre, devota figlia.”

Will sapeva, però, di non poterle rivelare la verità. Miranda avrebbe dovuto soffrire e imparare prima di poter godere delle meraviglie che l’autore aveva in serbo per lei. Così diceva il copione e lo spettacolo doveva continuare.

“Fiore innocente, sospiro di purezza, splendida creatura tu temi l’ombra di una nuvola. Non può farti perdere un solo capello: la sua oscurità è intensa ma effimera e fuggevole. Sii paziente, mia Miranda e abbi fede. Il futuro non è chiaro finché non lo si chiama passato. Ricorda al tuo cuore che sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere.”

Sul volto della fanciulla che pendeva da un lato spuntò uno sguardo enigmatico. Non era sicura di aver compreso le parole di Will, ma per qualche ragione quel senso un po’ oscuro placò l’infuriare dei suoi pensieri.

Le prime luci dell’alba cominciavano a dipingere d’oro gli stracci di nuvole cuciti nel cielo ancora assopito. I primi cinguettii spezzarono il silenzio della notte e scossero Will dal torpore in cui era scivolato.

“Mia cara, il giorno si desta, è tempo per noi di tornare alle nostre pagine” disse Marina.

La giovane seduta ai piedi della poltrona inspirò profondamente, come intimorita dall’idea di tornare da dove era venuta, fra quelle righe che sembravano giocare con il suo destino.

“Per il tempo che mi avete concesso, Milord, e per le parole che mi avete rivolto, serberò nel cuore questa notte finché la vostra penna mi darà respiro.”

I primi bagliori squarciarono la penombra della stanza e dipinsero di brillanti virgole d’oro le sue pareti. Le due giovani donne si alzarono, rivolsero un sinuoso inchino al Will incorniciate dai voluminosi abiti. Come un’ombra fugge la luce, così Miranda si sottrasse allo sguardo dell’autore e si dissolse nell’aria densa del mattino.

“So che vi prenderete cura di lei, Will e le darete quel futuro glorioso che già onorò me e le mie sorelle. Il suo esempio sopravvivrà alla morte di mille lune”. Chinò la testa un’ultima volta e, come schiudendo le soglie dell’oscurità, scomparve.

Will si ritrovò di nuovo solo: stanco e stordito. Passò la mano sul velluto intiepidito dal primo sole del mattino e fece scivolare lo sguardo su quelle coperte che poco prima lo avevano fatto sentire prigioniero. Improvvisamente si sentì così simile a Miranda: solo in un domani ignoto.

Le palpebre cominciarono a pesare e nell’istante in cui chiuse gli occhi, un brivido gli scosse la schiena. 

Quando li riaprì si ritrovò nel letto: le campane in lontananza battevano lo scoccare delle tre, la stanza era immersa nel pallore perlaceo della luna, vuota.

Eppure non si sentiva solo: in fondo, siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni.

Bibliografia

  • “La tempesta” e “Pericle principe di Tiro” da “William Shakespeare: i drammi romanzeschi”, a cura di Giorgio Melchiori, Milano, Mondadori, 2015

Oh, Dear

Marta Brentan, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i personaggi shakespeariani di Postumo e Innogene, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Lo scambio epistolare riguarda due giovani sposi, Innogene, figlia del presidente degli Stati Uniti d’America e Postumo, siciliano, portato dalle difficoltà economiche a lasciare la sua patria e cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Allontanati, i due innamorati non avranno altro legame che la penna. Fino alla partenza e morte di Innogene.

*

Se la Boemia fosse sul mare

Martina Gnorra, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof. ssa Chiara Lombardi.

Ispirata dall’opera “La Boemia è sul mare” di Ingeborg Bachmann, ho composto questa poesia soffermandomi sugli aspetti e i temi più eloquenti dei quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, attualizzandoli e proponendoli come scelte ipotetiche. La composizione si conclude lasciandoci intravedere l’esistenza di un possibile rifugio, di un luogo adeguato a soddisfare le ambizioni e i desideri di chi si è innamorato e di chi si innamora ogni giorno della letteratura e del rapporto che quest’ultima intrattiene con l’uomo. Un luogo magico e utopico come la Boemia sul mare.

*

Se la Boemia fosse sul mare, ci verresti a nuotare?
Se Miranda si fosse innamorata di Calibano, Prospero avrebbe accettato il loro amore?
Se ti avessero privato di tutto come Griselda, il duca Gualtieri lo avresti perdonato?
Se tua madre potesse ritornare in vita, quante statue scolpiresti?
Se la gelosia ti tesse il cuore, riusciresti a resisterle?
Se il vino ti facesse dimenticare il mostro che sei, quanti bicchieri berresti?
Se ti insegnassero a parlare al prezzo della tua libertà, accetteresti di essere muto?
Se una tempesta ti colpisse, ritorneresti in mare?
Se la meraviglia si trasformasse in amore, vorresti essere la mia Miranda?
Se per valere come donna dovessi travestirti da uomo, saresti disposto a farlo?
Se ti descrivessero la mia camera da letto, penseresti che ti abbia tradito?
Se un racconto potesse allietarmi dal dolore, mi racconteresti la storia della tua vita?
Se rinascessi con la primavera e fuori è inverno, saresti in grado di descrivermela?
Se potessi travestirti per un giorno, sceglieresti di essere regina come Perdita o Nessuno
come Ulisse?
Se i sogni attenuassero le passioni, ti sveglieresti?
Se ti volessero solo per il tuo corpo, crederesti ancora di avere un’anima?

Se la Boemia fosse sul mare,
io avrei un posto dove stare
dove chi si sente incompreso,
può liberarsi da ogni peso.
La Boemia è sul mare,
la mia anima è lì ad aspettare
un altro vulnerabile cuore,
un altro ingenuo sognatore.

PISANIO SULLA LUNA

Adele Ziano, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Cymbeline shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Come l’Orlando ariostesco perde il senno a causa dell’amore di Angelica per Medoro, così Postumo diventa folle per l’immaginario tradimento di Imogene con Iachimo. Allo stesso modo, in questo mio racconto, ho voluto comparare il personaggio di Pisanio a quello di Astolfo durante il suo viaggio sulla Luna, passando attraverso la dimensione onirica del sogno.

*

Un messaggero giunge da Roma al palazzo di Cimbelino; con sé reca una lettera destinata alla principessa Imogene, splendida come mattutina stella e giglio d’orto e rosa del giardino. Ella, conosciuto il luogo da cui le viene inviata la missiva, sente il cuore riempirsi di gioia poiché pensa che quelle siano le dolci parole del suo amato sposo. Ma dopo aver letto le prime righe, ecco mutare l’espressione sul suo volto: corrugata la fronte, lo sguardo si fa cupo, le gote rosee si scoloriscono lasciando spazio ad un pallore diffuso e le labbra, un tempo vermiglie, si torcono in una smorfia di dolore. Misera Imogene! quelle parole non suonano soavi bensì, come tanti chiodi, ti feriscono pungendoti il cuore. Ella va cercando in mille modi col pensiero di non credere a ciò che a suo malgrado crede. E subito una lacrima le disegna un rigo lungo il viso esangue. 

«Pisanio! Pisanio! corri da me! sotto i colpi della Fortuna avversa, sento appressarsi la Morte!»

«Eccomi! Cosa succede mia signora?» e il fedele servo di Postumo si precipita appena in tempo perché riesca a sorreggerla.

Imogene non riesce a rispondere alle domande di Pisanio, la voce rotta da dolorosi singulti di pianto; così gli porge la lettera che stringe accartocciata nella mano.

La missiva recita così: 

“Vostra Altezza,

A scrivervi è un modesto soldato, nonché amico del vostro amato Postumo. Il mio nome è Filario e, come saprete, ospito nella mia dimora il vostro gentile sposo dal momento in cui fu esiliato dalle terre di vostro padre.

Vorrei potervi recare liete novelle a riguardo ma, aimè, mi farò portatore di infauste parole. Sembra che egli, da tutti conosciuto per il suo amino grande e virtuoso e che sì saggio è stimato, ora abbia perso il senno. E tutto ciò a causa di una scommessa perduta contro quell’uomo che di nome fa Iachimo, il quale credo che l’abbia vinta a torto. Lo ricordate essere venuto alla vostra corte tempo addietro, con l’intenzione di mettere alla prova, insidiandovi, quella fedeltà ed onore che di voi, spirito eccezionale, il vostro caro sposo assai lodava e che fu appunto motivo del loro patto.

Tornando a Roma, egli ci raccontò di come fosse riuscito nell’impresa, fornendoci una quantità tale di minuzie da rendere veritiera anche la più grande bugia. Da tempo conosco bene Iachimo e potrei dire la stessa cosa del vostro Postumo, nonostante la nostra amicizia sia recente: uno lo muovono l’astuzia e la spregiudicatezza e l’Invidia è al comando del suo cuore; l’altro è un animo puro e le sue parole sono frutto di tanta limpidezza e trasparenza. Ingiustamente, nel duello fra questi due temperamenti, il malvagio ha prevalso sul virtuoso, il cui sentire, già ingenuo di natura, temo fosse reso ancora più incerto da Amore che tutto soggioga e contro il quale è perdente anche colui che vinse tutte le altre cose. Se solo esistesse un modo per rintracciare il suo senno, ovunque si sia perduto, e così restituirglielo! Aimè, colui che per amor è divenuto pazzo furioso noi l’abbiamo perduto entrambi: io come amico e come soldato valoroso e impavido, le cui abilità sarebbero state decisive nel vincere una guerra contro la Britannia di vostro padre, la quale appare ormai imminente; voi, invece, come sposa oltremodo devota. 

Vostro umilissimo,

Filario

                                                                                                                                                             Terminata la lettera, Pisanio sente agitarsi nel petto un turbinio di sentimenti. Ma il suo smarrimento non dura a lungo; ecco che tra lo stupore e il turbamento si fa largo la ragione, imponendosi con il suo rigore. Cerca di rassicurare la bella Imogene e l’accompagna fin sulla soglia della sua camera. «Si riposi mia signora, provi a trovare nel sonno un po’ di requie» e con la promessa di restituirle l’uomo di cui si era innamorata si accomiata. 

Pisanio inizia a camminare su e giù per il palazzo; nel mentre pensa al suo signore, a come il discorso menzognero di Iachimo abbia scaturito in questi un dolore così insormontabile da generare una tale rabbia, un tale furore da far rimanere ogni suo senso offuscato. Gli vengono alla mente immagini terrificanti: accecato dall’ira, la forza di Postumo risulta ora pari a quella di un ciclone o di un terremoto e in questo modo sradica alberi e uccide chiunque gli si pari davanti, uomini o bestie che siano. Figurandoselo in quello stato, vedendolo correre come un ossesso per i boschi, a Pisanio si stringe il cuore dal dispiacere. Era convinto di dover agire per salvare il proprio signore, perché nel profondo è spinto da quei voti di fedeltà e di affetto che a questi lo legano.

Sforza l’ingegno Pisanio e pensa e ripensa a come far rinsavire Postumo e a porre così fine ai suoi dispiaceri, oltre che a quelli della sua bella Imogene. Nel mentre scende la notte e, stremato da tutto questo lavorio della mente, da tutto questo suo vano congetturare, Pisanio si siede, abbandonandosi con un po’ di sconforto. Guardando fuori da una finestra, alza lo sguardo al cielo stellato e fissa gli occhi su quel globo d’acciaio il cui freddo riverbero brilla sulla terra buia. Comincia così a contemplare la Luna che, splendida e silenziosa, sorge ogni sera a rimirare deserti e valli, eterna pellegrina; in questo modo, vinto dalla stanchezza, è abbracciato dal sonno. Ancora il fedele servo non sa che quel suo gran fantasticare sulla Luna lo porterà ad approdarvi sopra. 

Lassù Pisanio rimane meravigliato dalla grandezza del luogo e guardandosi intorno vede che vi sono fiumi, laghi e campagne simili a quelle sulla Terra, ma che tuttavia appaiono diverse. In quel luogo Pisanio si sente un po’ spaesato; sicuramente un’altra presenza umana lo rassicurerebbe, ma per il momento lì vicino non sembra esservene traccia. Anche se, leggermente più in là, verso l’orizzonte, gli pare di vedere un vecchio canuto tutto intento a scrivere chino su se stesso. 

«Mi scusi buon uomo, saprebbe dirmi dove mi trovo?», dice Pisano una volta andatogli vicino, «questa mi pare essere la Terra che io abito ma ora sembra apparirmi diversa…»

«Appunto, perché questa non è la Terra; quella si trova laggiù», e il vecchio indicò verso il basso una piccola palla che Pisanio riuscì a distinguere a malapena strizzando gli occhi; questo perché la Terra, con il mare che la circonda e la chiude proprio come la Luna, non emette luce. 

«Questa invece, caro straniero, è la Luna, nonché il paese dei poeti, di coloro che, servendosi di pochi semplici arnesi, scrivono di cose vedute e non vedute; di cose che sono, che potrebbero e non potrebbero essere; di ciò che è divino e sommo e di ciò che è infimo e triviale; del comico e del tragico. Noi siamo i profeti di una lettera sempre pronta a crescere su se stessa e ad ornarsi dei fiori del sublime.» 

Tra una parola e l’altra, ecco che quei due si ritrovano a passeggiare per i sentieri della Luna; discutendo delle grandi questioni dell’esistenza, il vecchio poeta guida Pisanio per quei luoghi che gli si svelano a poco a poco: lì vi sono altre pianure, altre valli, altre montagne, ognuna con le sue città e castelli, con case così grandi mai vedute prima d’ora da Pisanio. Così giungono all’ingresso di un vallone stretto tra due montagne.

«Qui dentro si raccoglie ciò che si smarrisce sulla Terra o per colpa degli uomini, o a causa del tempo o della Fortuna», dice il poeta; infatti il servo vi trova le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si butta via inutilmente nel gioco d’azzardo, il lungo ozio di uomini ignoranti, disegni vani che non si sono concretizzati mai e anche alcuni suoi fatti e giorni che aveva perduto. Arriva poi ad un mucchio più alto delle altre cose descritte; in esso vi sono numerose ampolle, quali più, quali meno capienti, tutte etichettate e contenenti un liquido poco denso e fluido, rapido a esalare se non si tiene ben chiuso.

«Questo che tu vedi è quella cosa che voi terrestri pensate di avere in abbondanza, ovvero il senno. Alcuni lo perdono in amore, altri nel ricercare gli onori, altri cercando le ricchezze per mare; altri nelle speranze dei signori, altri dietro alle sciocchezze della magia; altri in gemme, altri nelle opere dei pittori, ed altri in altre cose che apprezzano più di altro. La pazzia invece qui non è né poca né molta, poiché essa sta sulla Terra e non se ne allontana mai.»

A quel punto Pisanio, colto da una straordinaria intuizione, si ridesta di colpo dal suo sogno. «La Luna! la Luna! Lassù dovrò volare per recuperare il senno del mio signore!» Detto ciò, sentendosi rinvigorito nel corpo e nella mente, balza in piedi con uno scatto e prende a correre verso la camera della bella Imogene. 

Chissà se sulla Luna avrebbe trovato anche il suo di senno. 

Bibliografia:

W. Shakespeare, Cimbelino, Garzanti, 2015

L. Ariosto, Orlando Furioso, Feltrinelli, 2016

I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori, 2016

La nona onda

Camilla Montanaro, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questo testo nasce con l’intenzione di descrivere un episodio banale di vita quotidiana e trascinarlo su piani inattesi grazie all’attualità del Pericle shakespeariano e alla potenza del dialogo artistico.

*

-3 gradi, nuvole grigie e un freddo pungente sulla pelle. 
Entrare nell’atrio del museo e togliersi il cappello è una liberazione per Emma e Federico.
Le decorazioni natalizie per le strade riscaldano l’inverno russo, ma ciò non impedisce ai soffi gelati di vento di lambire le poche porzioni di pelle nuda.
La statua bronzea di Puskin, posta proprio nel centro di Piazza delle Arti con il braccio teso e fiero, sembra esortare i turisti ad entrare il prima possibile nel Palazzo Michajlovskij per cercare calore, più che per inebriarsi di arte.
Emma aveva sviluppato una passione per i musei fin da piccola grazie ai giochi di suo padre: 
«Scegli il quadro più bello.»
«Mimi, trova i tre quadri più rossi del corridoio.»
«Cerca quello che ti rende più allegra e quello che ti fa più paura.»
E lei sfrecciava per i corridoi desiderosa di completare il test per vincere il preziosissimo premio in palio: una zeppola con panna. 
La raffinatezza di ogni dettaglio del Palazzo Russo fa tornare Emma al suo mondo di bambina: per un attimo si immagina duchessa, con un vestito bello e lungo, mentre cammina per il corridoio e… «Ticket?» risuona una voce. 
«Sure, one second. Li hai tu, no?»
Federico sfila dalla tasca destra del cappotto il CityPass, abbonamento che permette di accedere ai numerosi musei di San Pietroburgo. Prova un senso di soddisfazione nel saltare le code e illudersi che siano tutti gratis. «Se non lo avessi fatto – si compiace – ora saremmo ancora fuori al freddo.»
Percorrono i corridoi con l’intenzione di mantenere un ritmo costante fino alla fine ma, quando scoprono che mancano ancora due piani del museo, si arrendono. La panchina, che è solo un asse di legno, pare una poltrona di piume d’oca. Davanti a loro, in una sfavillante cornice dorata, un’onda bagna la tela. 
La luce del quadro è talmente particolare che Emma sente il bisogno di socchiudere leggermente gli occhi per osservare i dettagli. La curiosità la costringe ad alzarsi per guardare il cartellino sottostante: La nona onda di Ajvazovskij (1850). 
Dicerie marinaresche raccontano che le onde si ripetano periodicamente a gruppi di nove e che sia proprio la nona ad essere la più grande e la più pericolosa, quella contro la quale l’uomo non ha potere.
L’acqua verdastra scolorisce in un manto di spuma. Le nuvole sembrano estranee agli sconvolgimenti del mare, proseguono inalterate il loro percorso. L’agitazione dei naufraghi stona con un cielo tanto luminoso. «Come lo trovi?»
«Quello?»
«Sì, Fè.»
«Bello.» 
«Perché?»
«Bella luce.»
Lo osservano ancora qualche secondo.
«Mimi, dobbiamo tornare qualche giorno nella casa al mare.»
«Hai ragione, ho bisogno di aria fresca.»
«Non smetteremo di andarci, vero?»
«Ma no, basta organizzarsi.»
«Magari diventa un tuffatore.»
«O magari un’atleta di nuoto sincronizzato.»
Emma si sfiora il ventre appena arrotondato.
Mentre parlano osservando il quadro, l’onda sembra gonfiarsi. La rabbia del mare stride con la serenità del cielo. Si tratta di una sensazione che Emma ha già provato. Un senso di angoscia la pervade. Ripensa alla pila di fogli che ha lasciato sul tavolo prima di partire. Avrebbe dovuto preparare la lezione per il rientro in classe dopo le vacanze e ancora non aveva scelto i saggi da proporre. ‘Amleto’ è un’opera colossale e lei vorrebbe farne conoscere una minore come Pericle, Principe di Tiro.
«Marina!»
«Cosa?»
«Se è una femmina voglio chiamarla Marina.»
«Manco per sogno.»
«Oh, Federico, è un nome bellissimo.»
«Perché Marina?»
«Sto pensando al Pericle di Shakespeare.»
«Ecco, ci risiamo…»
«E’ un personaggio stupendo.»
«Emma, nostra figlia vivrà nel mondo reale, non in un’opera letteraria. Marina è un nome da sirena, non da    bambina.»
«Ti racconto la storia. »
Federico aveva conosciuto Emma a Oxford, durante una vacanza studio. Lei era già allora appassionata di letteratura inglese, ma aveva deciso di farne una professione andando avanti con gli studi universitari.
Quando la chiamarono per una supplenza annuale stapparono una bottiglia e ordinarono la pizza.
«Pericle si reca dal re Antioco e scopre la soluzione di un indovinello grazie al quale ottiene la mano della figlia.»
«Fine della storia?»
«Ma capisce che la figlia ha un rapporto incestuoso con il padre.»
«Si fa interessante.»
«Il re allora manda dei sicari per ucciderlo.»
«E lui scappa, immagino.»
«Lascia provvisoriamente il suo regno, Tiro, all’amico Elicano e va a Tarso dove aiuta i sovrani.»
«Poi?»
«Una tempesta lo scaraventa a Pentapoli.»
«Te la stai prendendo comoda, Mimi, non ho ancora sentito il nome Marina.»
«Qui vince un torneo per sposare la figlia del re, Taisa.»
«E’ un vizio insomma.»
«Insieme partono per tornare a Tiro e Taisa è incinta.»
«Precoce il ragazzo.»
«Subiscono un altro naufragio e Taisa sembra morire di parto.»
«Sembra morire o muore?»
«Tutti credono che sia morta, ma in realtà è viva; sta di fatto che viene gettata in mare. E’ un momento di    sofferenza assoluta.»
«E per quale assurdo motivo vuoi chiamare mia figlia Marina?»
«La bambina, però, sopravvive. Le viene dato il nome di Marina.»
«Tiè! Vorrei una notte tranquilla il giorno del parto, per piacere.»
«Poi ci sono una serie di peripezie, Marina viene cresciuta dai sovrani di Tarso.»
«I sovrani di Tarso? Ah sì, quelli dell’inizio.»
«Taisa è salvata da un mago, Marina rischia di essere ammazzata, finisce in un bordello…»
 «Di bene in meglio, insomma.»
«Pericle è disperato. E’ convinto che sia la moglie che la figlia siano morte. Si taglia i capelli,  indossa un saio, decide di non parlare più.»
«Speri che chiamando nostra figlia Marina io smetta di parlare?»
«Alla fine, però, Pericle incontra nuovamente sua figlia. Inizialmente non crede sia lei, ma poi la riconosce.»
«E Taisa?»
«Si ricongiungono tutti e tre.»
«Storia molto carina. Ora dimmi, per quale accidenti di motivo vuoi chiamare mia figlia come una    sirenetta?»
«Perché Marina è un personaggio mitico, Fè. E’ in grado di aprire ogni comunicazione. Grazie solo alla      parola cambia la realtà in cui vive. Quando viene trascinata nel bordello, converte ogni cliente e non si fa  toccare. Riesce a parlare perfino con suo padre che si è chiuso a qualsiasi tipo di comunicazione. E’ il ruolo che Shakespeare affida all’arte e al teatro. Marina ricrea la vita.»
Federico si ferma a riflettere. Il nome Marina proprio non gli piace, ma la passione con cui Emma parla della letteratura lo intenerisce profondamente.
«Perché ti è venuto in mente ora?»
«Stavo guardando il quadro. Penso di averlo associato alla tempesta. Pericle stava vivendo la sua nona onda, ma Shakespeare sapeva che si sarebbe sgonfiata. Vedo Marina in quel cielo arancio.»
«Tutta colpa di Ajvazovskij, insomma.»
«E’ un sì?!»
«E’ un ‘vedremo’.»
«Che bello, Fè! Marina è un nome stupendo, non è banale, dobbiamo trovare il soprannome e…»
«Speriamo nasca maschio.»
Emma e Federico escono due ore dopo dal Palazzo.
Non vedranno mai più la statua di Puskin, non torneranno sotto le luci natalizie russe e non finiranno mai l’ultimo piano del museo.
Ma ricorderanno, sempre, La nona onda. 

Bibliografia:

William Shakespeare, Pericle, Principe di Tiro, Bergamo, Lemma Press, 2019

Vladimir Stoyanov, Ivan Aivazovsky: Selected Paintings, CreateSpace

Indipendent Publishing Platform, 2017

Renée

Sara Cofone, in questa composizione, riscrive, in forma di lettera, il Pericle shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I/II, letterature comparate B, mod. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Sulle orme dell’intima scrittura di Marcel Proust, ho voluto mettere in luce la potenzialità della parola che, se scritta, può vincere il tempo che passa e perpetuare i legami. Una parola che cerca di fermare, tra carta e penna, la tempesta di un’esistenza e che conduce alla rinascita di una vita.

*

Cari mamma e papà,

l’ultima volta che mi trovai in mare fu la più crudele di tutte. L’abisso, come risvegliato dalla furia di Nettuno, si agitò sempre più forte, sempre di più. In un tempo poco più lungo di un batter di ciglia, quella stessa nave che per me, Marina perché nata dal mare, fu culla, si trasformò sotto i miei occhi  in letto di Moira. La furia del mare vi vinse e vi seppellì sotto un’onda più pesante della terra consacrata che sigilla il ricordo di una presenza. Tutto finì, all’apparire di un’alba che ha portato la notte in cui assaporai il vero gusto del sale che, dal primo mio respiro, aveva profumato la mia esistenza. Una lacrima salata  arrivò alle mie labbra e, dopo avermi scalfito il viso marmoreo e pallido, mi bruciò in gola e scatenò la più violenta delle tempeste: quella del cuore. In un attimo finì quella vita felice che vissi con voi, dopo che lo stesso crudele mare ci aveva fatti rincontrare,  e, con questa, quel dolce canto che intonavamo insieme.  Il mare è stato per noi mondo, un’incognita insieme dolce e amara; è stato il misterioso specchio dell’esistenza che, come la nostra nave, scivolava su di una distesa di tutto e di nulla verso non precisate destinazioni, non precisati incontri. Quella coperta salata, che a guardarla da riva faceva  paura, è stata per noi il nodo delle nostre esistenze incrociate, l’intreccio che abbiamo sfidato seguendo la stella dell’amore, la navigazione delle emozioni.  Eppure, in me, più nulla cantava;  Amore, da poeta e pittore delle mie giornate, si era trasformato in pesante pietra che mi portava a fondo, in un corpo che si muoveva senza sapere dove e perché andare.  Non più una goccia di vita scorreva nel mio corpo impietrito dalla perdita, da quello che non avevo più e che mai più potevo avere.  Avevo perso voi e, quindi, me stessa perché voi siete sempre stati me e più di me. Ho pazientato a lungo nella speranza di vedervi ritornare, ma sentivo che non c’era fuoco o musica che potesse ridarvi la vita, né voce che potesse guidarvi sulla via per ritornare al mondo insieme a me.

  Tutto d’un tratto, mesi fa,  involontario richiamo del cuore:  camminavo sulla riva del mare, sul sottile filo tra terra e acqua, quando la brezza marina mi strinse in un abbraccio materno, portando al mio naso uno strano profumo, il vostro, quello che mi ha riportata indietro nel tempo e che per un effimero, ma potente secondo mi ha fatto percorrere qualche metro di sabbia con voi al mio fianco.  Improvvisamente, ho capito che quell’antico canto era sempre rimasto chiuso in me e che a salvarmi, una volta ancora, sarebbe stata la più bella delle arti che voi mi regalaste: l’arte magica del dire, la mia parola.  Ho incollato ogni brandello del mio cuore lacerato con il potente collante della comunicazione che sfida ogni tempo e spazio. Tutto in me era soffocato dal disordine degli eventi e, con la parola, ho trovato il luogo più sicuro per rifondare la mia leggera città di sogni di donna. Ho preso carta e penna e mi sono addentrata nella foresta dei ricordi, foresta fitta di immagini, profumi, momenti e voci che mi hanno permesso di riporre la mia anima scossa e turbata in ciò che mi era familiare, e che era sempre stato in me, senza che io lo sapessi.  Sono rinata. Sono Renée.  Mi avete cresciuta nel culto del verbo e io,  da fedele discepolo, ho sempre creduto nella potenza della parola che , se detta è magica, scritta può essere miracolosa. Amati genitori, oggi vi scrivo per rivendicare un tempo di gioia che ci è stato negato. Per riportare al palato il gusto felice di un ricordo inzuppato di vita, anche se fragile come una gocciolina su un filo al passare rapido del vento e per fermare, nero su bianco, le intermittenti emozioni che ancora mi legano a voi e turbano dolcemente la mia mente cresciuta, ma ancora bambina. Vi scrivo per ricercarvi accanto a me come quel giorno in riva al mare e perché ogni mia nuova parola possa schiudere, come conchiglia di mare, la perla più preziosa di un tempo perduto.

Dal giorno in cui l’onda amara vi strappò da me,  mi rifugiai in un’isola deserta e mi assicurai che il mio sposo Lisimaco mi credesse morta. So papà quanto è dolorosa una tale notizia all’orecchio di un uomo che ama, ma non ho mentito: Marina era morta davvero. Ho accettato e accolto, ma non ero più la Marina che voi lasciaste sola sulla terra prima di sparire tra la braccia della Morte.  Quando rinacqui Renée, capii che era arrivato il tempo di portare la dolce primavera che,  mi aveva fatta rifiorire,  anche a Mitilene. Vi trovai il mio sposo, che da anni tesseva la speranza di vedermi ritornare, fedele e vinto dal più tenero amore che con il tempo non era sfumato, proprio perché, come ho imparato a cercarvi io,  mi aveva trovata nel ricordo delle parole che  la voce spensierata, di quella che un tempo fu Marina, gli intonava ogni sera sulle note di una piccola cetra. Nelle sue mani era scolpita la fatica. Mi disse che l’arazzo della speranza si intrecciava nel coraggio del giorno e si disfaceva  nella paura della notte; mi confessò che il suo palazzo era invaso dal timore e dall’impazienza di sentire di nuovo la mia voce. Era tempo di ricominciare, per tutti. Raccontai a Lisimaco il miracolo della parola e gli mostrai il quaderno, quell’insieme di fogli  su cui si riversava il mio impeto di doloroso amore, in cui voi rivivevate. La parola si faceva, lettera dopo lettera, corpo e il corpo diventava nuova vita. Come ogni lettera componeva una parola e ogni foglio componeva il libro della mia ricerca, quel libro componeva la mia, la nostra storia, che tra lacrime sorrisi e singhiozzi, regalo all’eternità schiusa in ogni piccolo gesto d’amore.

In quella primavera che emanava effluvi di armoniosa lietezza, Lisimaco colse la mia rosa e, dentro di me, in quel terreno una volta arido di dolore, sbocciò il più bello dei germogli: nostra figlia  Emma.  Sì, siete nonni ora. Da piccola era una bambina bellissima, ma dovreste vederla adesso come è splendida! Sai mamma, se fossi qui con noi,  riconosceresti in lei gli stessi tuoi capelli ondulati e profumati di amore, le tue gote alte e rosate e la bocca che, come scrigno, schiude il  più dolce mistero che possa giacere in una donna. Papà, la tua forza e la tua tenacia da sovrano rivivono, in abiti femminili, nella nostra Emma.  A Lisimaco assomiglia solo per bontà d’animo; da me, la natura ha voluto che ereditasse la potente arte, che esercita in modo diverso da me. Parla poco, solo all’occorrenza, ma le sue parole di miele addolciscono il grezzo della carta. Emma legge molto, vive ogni giorno un’illusione diversa in ogni nuovo libro; illusione che non la inganna, ma che sa filtrare e scatenare, con controllata forza, per dar valore alla realtà. 

Una tiepida mattina d’estate, mentre districavo i più ostinati nodi dalla sua chioma ondulata, ho sentito lo stesso profumo di rose e di viole che si spargeva nella mia stanza quando tu, mamma, intrecciavi i capelli di quella giovane fanciulla, ora mamma come te. Sulle sfumature di quel tenero profumo floreale, senza spostarmi di un passo dalla mia dolce creatura, sono ritornata in quella stanza piena di mattina che accoglieva le nostre chiacchierate complici. Ricordo con quanta elasticità queste cambiavano argomento e come mi sentivo libera tra le parole che echeggiavano nella stanza e mi parlavano di vita pura. Avevi sempre un grande controllo in quello che dicevi, mentre mi insegnavi a essere una donna.

Vorrei poter dare a Emma, ancora giovane e inesperta, la meraviglia che mi avete insegnato a coltivare e che oggi, anche se non siete più, con il corpo, insieme a noi, parla di voi e fa splendere la terra della vostra grazia da sovrani, prima di Tiro, del regno dell’amore e della vita semplice che mi lasciaste in eredità prima di soffocare tra i furiosi flutti di sale.

Più questa lettera conquista spazio sul bianco del foglio, più io vi sento accanto a me : la mamma alla mia destra che mi dice di non piangere perché il nostro amore è arte e, si sa: l’arte sola salva dalla morte. Papà, tu, sei alla mia sinistra e, con le tue possenti mani da guerriero che ha infinitamente sopportato, mi stringi le spalle e diventi scudo nella mia guerra, che solo questa sequenza illogica di parole può vincere. Così, armata di penna nel campo bianco cosparso di nero, ritrovo le emozioni più profonde, ritrovo racchiusi i beni interiori che, come quelli materiali, pensavo che la fatale tempesta avesse perduto per sempre. Vedo parole che sembrano scritte in una lingua solo per me che ricrea la mia realtà e vi restituisce al mio amore di figlia.  Ritrovo, nello spazio tra una parola e l’altra, il respiro che la vista della vostra morte ha soffocato nella mia  gola che ,per anni, ha smesso di cantare.  Per ritornare a cantare un canto che un tempo fu cantato, “to sing a song that old was sung”, iniziai a scrivere la mia ricerca. Sono passati anni da quando, per la prima volta, presi in mano quella bacchetta magica che è la penna, da quando l’antico canto ha ristorato il mio presente, un meraviglioso  presente di cui mai mi sarei detta destinata e che canta un canto nuovo, ma sulle stesse dolci ed eterne note d’amore e di vita.

 Mamma, papà, lasciate che la parola vi raggiunga, ovunque voi siate e che riempia il vuoto che vi separa da me, da noi perché ogni parola è come un fragile fiore sospeso tra memoria e presente, tra dolore e nuovo inizio; insieme loto che dona l’oblio e girasole che segue la luce celeste e sconfigge le tenebre, cantando l’armonia della vostra voce che urla sul muto foglio e, proprio come un tempo, intona il dolce canto insieme a me . Adesso che scrivo vi riscopro, cade il travestimento e, in quella cicatrice di dolore rivedo il mio passato che ritrovo presente. Anche quando la morte cancella, sapete, la parola rigenera e nel mio scrivere ricostruisco in nome dell’amore perché dopotutto, come scrive Proust, c’è sempre una sopravvivenza negli abissi del cuore e, nel fluire implacabile e incontrollato del finito,  la nave scivola verso la ricerca dell’eternità del nostro  prezioso tempo perduto.

La vostra Marina, oggi Renée.

Bibliografia:

Flaubert G. (1857), Madame Bovary, Gallimard 2001

Omero, Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2014

Marcel P. (1913) , Le intermittenze del cuore, traduzione di M. Noja, La Vita Felice, Milano 2018

The Last Winged Time

Francesca Luppino, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva alcuni capolavori shakespeariani, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, e mod. 2, I drammi romanzeschi di Shakespeare II:  Il racconto d’inverno e la Tempesta, prof.ssa Chiara Lombardi.

The last Winged Time
is a four-part stream
which could be seen
as an angel first
as the wind of Choice then
as the plague of decay
and as the arms
of a mother at last.
It is the last
for every man
as his one life is,
which is lived for its invisible drops.
The last Winged Time
is the only touchable god
for atheist souls
and the main equal faith
for a rich and poor humanity.

*

PART I
scene i
Ma Morire
è per tutti?
princìpi a parte
Morire è da prìncipi
siamo tutti degni del regno dell’abissale conoscenza?
La meta conoscitiva anche dei bambini
è assurdo
patetico, parlare di uguaglianza
su queste cose
Morire non è per tutti
Morire è sentire la spinta verso il buco
d’altrove
dove il vento smette di soffiare
finalmente. Pace.
dove la luna illumina quanto il sole
e dove il tempo si sfilaccia le ali
le poggia nel fluttuante attorno
si guarda in giro
e pensa di farsi una passeggiata
ora che la commedia è finita.
Non credo nella resurrezione
nella seconda possibilità
né nel Paradiso.
L’Eden possibile è nella testa per fortuna
solo lì
se no saremmo rovinati.
Meglio perdersi e ritrovarsi da soli
nel peccato
il mondo non deve vedere
il mondo non deve mai vedere.
Ma qui, qui è tutto sigillato
imbottigliato con cura
poi magari versato
come adesso
ma mai come all’origine
mai come appena colto.
Lo stesso è l’uomo
che non è mai lo stesso Morendo
mentre viene versato, l’uomo
cambia
ma non ogni uomo, almeno credo
cambiano i peggiori forse
avrebbe senso
cambiano gli scartati a fine fila
avrebbe senso
cambiano i superficiali
avrebbe senso
i vinti cambiano
vincono
e capiscono.
Morire è per i vinti in vita
Vivere è per i morti in vita
e i vincitori?
Quelli non se ne accorgono nemmeno
non se lo aspettavano
ritardavano
si nascondevano tra i ceppi verdoni
tra le opere d’arte
tra le culle
credendo ancora nell’immortalità e nelle fate.
I vincitori vanno bene per romanzi
personaggi per commedie.
Il resto è prosa d’arte
flusso, errore, verità
finalmente. Redenzione.

scene ii
Piango come le giovani bestie piangono;
piango se questi miei pensieri mi fan male;
piango per i tetti dei palazzi,
che li raggiungono ma non li superano;
e piango per i cieli
che non piangono mai, ma guardano
e si lasciano ritrarre
col colore della natura che sembra finire sempre
per primo
nella memoria di ognuno.
Non mi ricordo il colore dei prati
ed ho bisogno di corrervi
spogliarmici
con un giovane accanto e bello dev’essere,
che corra insieme a me
senza dire una parola, e con la luce forte del giorno negli occhi.
Lui mi farà sdraiare sull’umida terra
scura
coperta dai peli di nostra madre
dove mai ci fece ribrezzo dormirvi qualche ora d’estate,
e chiedendomi di attenderlo
correrà a raccoglier fiori per me
da incoronarmi e da coprirmi
vestirmi di piume
e soffiarmi nei raggi del sole,
trasformando la mia bruttezza in una tomba giuliva,
in una mascherata,
in un carnevale da pastori.
Quasi interamente vestita di petali ripenserò
a quanto ho pianto
quanto ho sospettato
della mia inutilità: tutto quel male fattami
tornerà a galla e vi camminerò sopra
come fosse fatto di fresche ninfee,
vi ci dormirò sopra
senza che il cuscino si renda duro e crespo di sale
senza che il mondo possa sbagliarsi
ancora
su di me e sulla mia vita.
Sarò giovane come solo le divine creature
possono davvero essere. Ho vissuto nella grotta.
Lì ho finito il pennarello azzurro
e lì ho sognato tanto
cambiando lato del cuscino ogni notte
ma ora posso uscire
ora mi si lascerà andare al vento,
cadrò nei dirupi finalmente
e saprò di non essermi mai sbagliata
di poi così tanto, sull’arte di morire.
Ora poggio le lenti a terra
lavandomi
la faccia da artifici
nulla vedo, tocco e basta il mio corpo
che non è abbastanza
ma nel suo essere mostro, l’aria tra le branchie
si fa sentire.
Ora capisco. Capisco
che nuoterei mari interi al mondo
e che è un oceano
quel che ho da dire.

PART II
scene i
Lassateme sta’.
Ho capito che comannate voi, su de me
perché io c’ho scelto? Laggente
che me porta via, come voi
che mi costrignete ad esse’, senza il tempo de capì
infonno, che vorrei solo nun dove’ esse’
ciò che vorrei nun esse’.
Io ora ve cedo
ma state certi che gni’ finisce qua.
Io so’ er più timido e nun vedete che sto
a fatica’, pe’ stuprarve
co’ ‘e parole mie.
E stateve boni che nun me sto
appoggia’.
Io me sostengo. E vivo.

scene ii
“Abbattimi Dio
o fammi essere chiodo rovente
a sollevar e tener presente
il corpo del martire
dell’anima e mente mia.
Fammi corda di sipario
a tener su il cielo stellato.
Fai di me qualcosa
o abbattimi come si suol fare
con le piante morte
per troppa sete e poc’Amore”.

Vorrei esser degna di essere immortale.
Mi basterebbe il vostro Credo.
Non ve la sentite? Perché io ve lo chiedo
in ginocchio.
Ma lo so! Lo so, che mi trovo in un mondo
di Dimostrazione e parlo di Credo.
Guardate! Ridete!
Ho talmente la faccia da ‘credo’
che non ci crederete mai.
Ma il naufragio non è più un tormento
a me, ormai.
Certo, ho paura che sia tutto
solo un diario.
Ma Tiresia ha detto che vivrò a lungo
come Narciso, se non vedrò me stessa.
Mi vedrete voi! Che bello!
Un peso in meno: menomale!
Menomale che finché non appartengo a questo mondo
non avrò mai un grado di rabbia
e mi consumerò piacevolmente per compiacervi.
La mia parata è iniziata
son pronta a scomparire
e a lasciar due canzoni
come asciugamani per i vostri piedi
miei signori.
L’arte non è più una ribellione
per me, ormai.
E ringrazio voi se ad oggi conosco il vetro che è me stessa.

PART III
scene i
Il tempo che i re misurano
in stelle acquee
è lo stesso degli abitanti dei campi di grano dorato?
L’oro ci asfalta tutti.
Gli occhi lastrati e forgiati
come nuovi
ma ecco il trucco
che ho capito: funzionan meno di prima.
La mente rimbomba suoni meschini
acuti e metallici
ed hai il cuore come un garage
il tuo sangue vi cerca posto
ma è già pieno
di altra roba e gente, non capisco.
Forse ho esagerato.
Ho preso la stella al volo
me ne sono andato via dal Mondo
a cavalcioni di quel proiettile dorato
che mi ha portato in una roulotte.
Parlavano di mirtilli laggiù
ma ho visto solo sangue, era sangue, si sangue
e ne bevvi troppo
per essere ancora così giovane com’ero.
Ho sentito tutti dire che non c’è più
Nulla
da pregare. Perché Dio è morto
ed io non sono che la sua fica squarciata contro un muro.
Ero davvero troppo piccolo per bere quei calici così puri e densi.
Troppo orgoglio.
Ma dato che ora son re
penso che perseverò in tutti i miei peccati
così da poter farmi delle ali
e scuoterle magari.
Io spero che voi tutti mi amiate come a corte
noi amiamo tutti voi
e voi farete lo stesso, di certo.
Ci farete sesso con la corte, di certo.
O luna dolce di miele
che parole dolci di miele pronuncio
stasera.
O luna dolce di miele
sento che ti verrò a prendere presto
questo mondo-oceano è così crudele
che muta i miei modi,
come i tuoi.
Io son re ma tu no
io canto ma tu non puoi
io bevo e tu brilli
io uccido e tu sei santa.
Io provo invidia per te, o mia luna senza occhi.
Inalo e sniffo polvere di stelle acquee
tutto il giorno
bacio le ninfe acquee
dono pesci ai mondi acquei
e le maree ancora
mi odiano.
Io provo invidia per tutti quanti.
Provo invidia per me
che solo in questo sono più giovane di com’ero
prima.

scene ii
Ricordo i cipressi che disegnavo
con te, mamma
e gli elfi nella foresta.
Adesso ho l’India in testa,
e gli stessi (della foresta)
ridono di me.
Ma adesso ho l’India in testa, mamma
ed un canto lontano
che voglio,
che devo
e che ho bisogno di ascoltare.

Giustiziata.
Giustificata.
Non trovo la mia salvezza
ed ho avuto la mia possibilità di avere Fede
ma né il Suo Sacrificio
né il sacrificio di nessun altro, basterà
mai.
Mamma, Senta sono io.
L’Olandese Volante sono io.

PART IV
scene i
O Ariele, ti canto il sole
ma cerco ancora la notte
ed eri tu
ad avermi promesso una cometa
d’oro.
Allora sarà il mondo
a trovare quel miracolo in me:
una cadaverica Venere,
un fuoco che continuerà
a bruciare
quando tutto attorno sarà
ormai cenere.
O Ariele, ti canto il sole
ma non la voglio nemmeno più
la tua notte
ne ho solo più paura;
che la cometa d’oro non venga vista
che il miracolo smetta di esistere
e che Dio rimanga a dormire
ancora così distante
da me.

scene ii
‘Quel che è fatto è fatto’ è stato detto.
L’immagine che ci è stata data
l’abbiam guardata e riguardata, odiata e mascherata, smascherata
e riconosciuta, come
naturalmente
bella e pura e nostra.
I muri ormai sembran porte di vetro
la mente si abbandona e le apre
vi passiamo attraverso.
A terra siam caduti e lì
rimasti, distesi ora
ne siam parte
ed è famiglia il fango
se l’odore di natura è casa nostra, come la pioggia è domenica.
Il cambiamento non è nemmeno avvenuto
a parte qualche solco in più
l’anima funziona
e vola quanto prima ma è più
labile, piange prima (vero padre?)
e gli occhi sono umide biglie: è il mare
che ci renderà infanti ancora.
Madri di noi tutti,
o mare mio nero
copri il mio vello trasparente e idiota
di pelliccia vistosa e tingi
le mie cortine antiche;
che mi si noti nell’abisso, come mai in superficie fu.
I palazzi volli erigere da giovane
ed ora non li vedo
da qua, nemmeno più.
La statura è diversa e le nubi son più fitte.
Temo che il Nulla
non abbia digiunato questa volta.
In effetti il copione si sapeva
dall’inizio
devo ammettere che lo avrei ucciso
quel drammaturgo maledetto, che mi chiamò a recitare
e recitare e ripetere di fingere e fingere
di ripetere, ancora
e di più e ci morii.
La tragedia aveva questo epilogo dall’inizio,a
chiaro, tutto torna
ma il cielo almeno l’ho strappato
e lo ricordo solamente, come un sogno
chissà se vero.
Mi fischieranno le orecchie, spero.
Mi pruderanno le dita, spero
e mi solleticherete i piedi, spero
coi vostri nuovi palazzi,
ragazzi
vi prego io che accada.
Non lasciatevi tranciare come torte.
Perché per fortuna
non si è qui per esistere, e voi
per fortuna, come me,
mai esisterete.

La Tempesta

Marco Cappa, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva musicale La Tempesta di Shakespeare, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare II:  Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La riscrittura che vado a presentare è una piccola suite di due movimenti ognuno dei quali incentrati su due personaggi del dramma romanzesco shakespeariano. I due soggetti che ho voluto analizzare sono Ariel e Calibano, entrambi rappresentanti della natura ed entrambi servi o schiavi di Prospero. Ho voluto utilizzare per questi due brani tre strumenti a me non così vicini, ma comunque dal timbro molto caratteristico e a mio parere azzeccato per i due esseri presi da me in considerazione. Il flauto traverso con i suoi acuti e la sua velocità mi è subito sembrato perfetto per Ariel, mentre il fagotto con il suo timbro scuro e cavernoso mi ha fatto pensare a Calibano. A chiudere il triangolo l’oboe che con il suo suono funge quasi da collante tra le sonorità alte e basse dei due strumenti prima citati. Parlando del livello compositivo per quanto riguarda il primo brano, quello dedicato ad Ariel, mi sono voluto concentrare di più sulla sua natura di spirito del vento e sulla sua capacità di mutare forma e diventare invisibile, tenendo anche conto però del suo desiderio di libertà. Il primo tema viene suonato dal flauto per poi essere rafforzato anche dal timbro dell’oboe. In seguito i tre strumenti entrano in un secondo periodo musicale più serio caratterizzato dal ritornello. Superata questa parte il flauto e l’oboe introducono la ripresa dove il fagotto suona il tema principale. Per Calibano invece ho voluto dare più importanza al suo essere un personaggio con delle sfumature poetiche più che alla sua bestialità. Il fagotto, che come già ho detto, è il protagonista del suo brano, esegue una melodia malinconica, con alti e bassi di forza e di frustrazione che però concludono in modo non positivo e disperato. Gli altri due strumenti diventano d’accompagnamento e traghettano il fagotto verso la sua triste fine ripetendo la melodia e spartendosi gli elementi accordali dell’armonia.

Marco Cappa, (Casale Monferrato, classe 2000), si avvicina da piccolo alla musica con il pianoforte, per poi passare al flauto traverso durante le scuole medie. Si innamora sin da subito del basso tuba, strumento grande e possente della famiglia degli ottoni. Dall’estate del 2014 studia la tuba (anche con il Maestro Enrico Montanari) e suona nella banda che lo ha fatto incontrare col suo strumento. Presso il liceo musicale di Novara ha studiato con i Maestri Simone Morellini, Francesco Rossi e Domenico Mazzù; con il Maestro Rino Ghiretti, invece, al Conservatorio statale di Torino, che frequenta ancora oggi. Oltre alla musica si interessa alle arti ed alle loro vie di rappresentazione. Dal 2018 è studente del corso di laurea triennale Culture e Letterature del Mondo Moderno, curriculum Arti e Letterature.