reportage di Chiara Lo Cascio

4 ottobre 2025, prima giornata dei Portici di Carta. All’interno del maestoso Palazzo Graneri della Roccia, primo piano, tutto in fondo, più a destra che si può, una sala dalla tappezzeria bordeaux e antichi specchi ovunque. Sulla destra le finestre che danno sull’affaccio dell’ingresso, e un tavolo con la colazione.
Al centro, un circolo di sedie, occupate a posti alterni. Sopra ognuna: un quaderno, una cartolina e una penna. Voci gentili si alternano per chiedersi permesso ma nessuno osa davvero parlare ad alta voce. Un gruppo di persone di qualsiasi età, dai 20 ai 70.
La signora più grande di tutte rompe le righe, quel silenzio timido di chi al tempo stesso ha un mare di parole da gettare sulla carta.
“Buongiorno, io mi chiamo Clotilde”.
Scioglie il nervosismo, inizia quindi un chiacchiericcio seppur timido. Entra l’organizzatrice dell’evento, Adele Chiabodo, scrittrice e autrice del libro La rivoluzione dei piccoli gesti. Con una gentilezza rara ci riporta all’attenzione degli oggetti che ci sono stati dati. Sulla cartolina c’è un incipit, una frase di Luis Sepulveda: “Se è tutto un sogno, che importa. Mi piace e voglio continuare a sognare.”
“A partire da questa frase cominciate a scrivere tutto quello che volete, quel che vi viene da scrivere. Poi, scambierete i quaderni con un’altra persona, e questa sarà libera di riscrivere la storia, continuare a scriverla, modificarla come vuole”.
20 minuti di scrittura e poi quel testo smette di essere tuo. Diventa altro, anche di altri, un progetto esteso. E quindi, ognuno inizia a scrivere. Allo scadere di quel primo tempo iniziamo ad attingere al buffet, ed a chiacchierare con meno timidezza. C’è chi pensava che qui si sarebbe ritrovato a scambiare libri, chi non aveva la minima aspettativa, chi sapeva cosa aspettarsi ma non era assolutamente pronto a leggere ad alta voce. Così, conclusa la prima pausa, ci scambiamo i quaderni, e completiamo la storia del compagno al nostro fianco.
Le combinazioni possibili erano infinite: la sala ospita persone di ogni età, provenienti da tutto il mondo. Si accostano quindi vissuti molto diversi, divari di età anche piuttosto ampi, diversità culturali e modalità di scrittura personali.
E qui accade qualcosa di straordinario.
Terminata la seconda sessione di scrittura si passa al momento di lettura.
Ognuno a prescindere dall’età torna ad attingere alla propria infanzia, o all’infanzia ideale, al bisogno di sentirsi libero dal vincolo dell’età adulta, della responsabilità d’essere.
E le coppie tra loro, pur scambiandosi i quaderni, scoprono di aver scritto testi molto simili a quelli del compagno, quasi a rendere impercettibile la differenza, e rispondono in maniera quasi identica l’uno al testo dell’altro.
Ci si immedesima talmente nella storia da non permettere di riconoscere un distacco, un differenziale. Arrivano A. e A.B. : A.B. rivendica il suo diritto di sognare, ad occhi chiusi e ad occhi aperti, e lo rivendica perché sente che qualcosa glielo impedisce. A., ispirato, risponde con un regolamento sui sogni, in una società dove oltre i 29 anni è vietato parlare e diffondere. È semplicemente vietato sognare. C’è chi interagisce attivamente a quanto scritto dal proprio co-scrittore, e lo pronuncia: “sono d’accordo con la mia co-scrittrice”. E la propria compagna di lavoro interagisce allo stesso modo. É come se avessero inconsciamente pattuito di continuare allo stesso modo i lavori reciproci.
Com’è possibile immedesimarsi tanto nelle parole di un estraneo?

Com’è possibile far proprio un lavoro che non ti appartiene?
Alla penultima storia, F. e C. mi segnano profondamente: F. scrive di un sogno in cui rivede la propria nonna, vede uno scorcio della propria infanzia e ne racconta i dettagli. Il suo tenersi affaccendata, i pomeriggi condivisi in quella cucina che le sarà per sempre familiare. E C. le risponde, come fosse la sua voce della coscienza, invitandola a ricordare con leggerezza, e di lasciare andare. Di lasciare andare il passato, di non aggrapparsi con rancore. Un esercizio di vera empatia che rimane permanente, scritta su carta e che ognuno dei partecipanti custodirà in casa propria.

Questo swap party letterario è la prima volta che si verifica in quella sede ed è la prima volta che ciascuno dei partecipanti coinvolti vi partecipa. Queste persone si sono scambiate un intimo pezzo di storie, sia con chi ha co-scritto, sia con gli altri che hanno udito l’unione delle parti ed hanno, ancora una volta, rinnovato il loro matrimonio con la scrittura. Chiedo la licenza d’uso della parola matrimonio, sì: ho raccolto qualche testimonianza. Ho chiesto a ciascuno di loro: “Perché scrivi?”
Per permettere loro di rispondere ho ceduto il mio taccuino, e qui seguono alcune delle loro risposte:
“Scrivo perché non riesco a NON scrivere. Scrivere per me è sopravvivere. Da una parte, è letterale: con le parole, scrivendo, facendo reportage, recensioni, revisioni di testi. Dall’altro è spirituale: scrivo per dare ordine alle mie idee, i miei sentimenti o per far finta che ci sia un ordine. Scrivo anche per entrare in nuovi mondi, giocare e tornare alla bambina che trovo dentro di me” – Mary
“Scrivo quando ho bisogno di fare chiarezza dentro di me. Spesso, quando succede, mi capita di commuovermi” – Mariagrazia
“Io scrivo principalmente per sfogarmi. Amo scrivere un diario, a volte scrivere racconti. Adoro scrivere a mano” – Angela
“Scrivo perché non lo so. C’è una bellezza nelle parole affiancate l’una dopo l’altra. Con questo flusso si restituisce qualcosa al mondo
“Scrivo perché non lo so. C’è una bellezza nelle parole affiancate l’una dopo l’altra. Con questo flusso si restituisce qualcosa al mondo” – Alessio
“Scrivere è una delle (poche) cose che ci separano dagli animali. Poco tempo dopo (relativamente) aver creato la scrittura, abbiamo “conquistato” la filosofia, l’arte, la scienza… Scrivere è una chiave. Usala” – A.
“La scrittura è terapeutica. mi permette di mettere nero su bianco pensieri, di depositarli, di guardarli anche da un punto di vista diverso. Scrivere è anche mondi, luoghi dove riposarsi” – Francesca
“Penso che ognuno nasca con qualcosa che è destinato a fare. Non perché sia necessariamente portato o perché quello sia il suo talento, ma perché ci si sente nati per quello. E quel qualcosa, per me, è scrivere. Scrivo perché sono nata per farlo” – Adele
In conclusione, Torino aveva bisogno, proprio adesso, di un posto dove poter scrivere e potersi fare leggere: scrivere è necessario alla sopravvivenza, lo dicono proprio coloro che lo fanno per sé stessi prima che per il loro lavoro. Per il singolo che smette di sentirsi solo, che si ridimensiona e si sente in qualche modo, al posto giusto, inaspettatamente compreso. All’uscita ognuno ha guadagnato nuovamente la propria strada, camminiamo liberamente per la città. Non sappiamo se ci incontreremo mai di nuovo, ma non pensiamo che sia impossibile.

