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Swap party letterario: esercizio di empatia

reportage di Chiara Lo Cascio

4 ottobre 2025, prima giornata dei Portici di Carta. All’interno del maestoso Palazzo Graneri della Roccia, primo piano, tutto in fondo, più a destra che si può, una sala dalla tappezzeria bordeaux e antichi specchi ovunque. Sulla destra le finestre che danno sull’affaccio dell’ingresso, e un tavolo con la colazione.
Al centro, un circolo di sedie, occupate a posti alterni. Sopra ognuna: un quaderno, una cartolina e una penna. Voci gentili si alternano per chiedersi permesso ma nessuno osa davvero parlare ad alta voce. Un gruppo di persone di qualsiasi età, dai 20 ai 70.
La signora più grande di tutte rompe le righe, quel silenzio timido di chi al tempo stesso ha un mare di parole da gettare sulla carta.


“Buongiorno, io mi chiamo Clotilde”.

Scioglie il nervosismo, inizia quindi un chiacchiericcio seppur timido. Entra l’organizzatrice dell’evento, Adele Chiabodo, scrittrice e autrice del libro La rivoluzione dei piccoli gesti. Con una gentilezza rara ci riporta all’attenzione degli oggetti che ci sono stati dati. Sulla cartolina c’è un incipit, una frase di Luis Sepulveda: “Se è tutto un sogno, che importa. Mi piace e voglio continuare a sognare.”

“A partire da questa frase cominciate a scrivere tutto quello che volete, quel che vi viene da scrivere. Poi, scambierete i quaderni con un’altra persona, e questa sarà libera di riscrivere la storia, continuare a scriverla, modificarla come vuole”.

20 minuti di scrittura e poi quel testo smette di essere tuo. Diventa altro, anche di altri, un progetto esteso. E quindi, ognuno inizia a scrivere. Allo scadere di quel primo tempo iniziamo ad attingere al buffet, ed a chiacchierare con meno timidezza. C’è chi pensava che qui si sarebbe ritrovato a scambiare libri, chi non aveva la minima aspettativa, chi sapeva cosa aspettarsi ma non era assolutamente pronto a leggere ad alta voce. Così, conclusa la prima pausa, ci scambiamo i quaderni, e completiamo la storia del compagno al nostro fianco.

Le combinazioni possibili erano infinite: la sala ospita persone di ogni età, provenienti da tutto il mondo. Si accostano quindi vissuti molto diversi, divari di età anche piuttosto ampi, diversità culturali e modalità di scrittura personali.

E qui accade qualcosa di straordinario.

Terminata la seconda sessione di scrittura si passa al momento di lettura.

Ognuno a prescindere dall’età torna ad attingere alla propria infanzia, o all’infanzia ideale, al bisogno di sentirsi libero dal vincolo dell’età adulta, della responsabilità d’essere.

E le coppie tra loro, pur scambiandosi i quaderni, scoprono di aver scritto testi molto simili a quelli del compagno, quasi a rendere impercettibile la differenza, e rispondono in maniera quasi identica l’uno al testo dell’altro.

Ci si immedesima talmente nella storia da non permettere di riconoscere un distacco, un differenziale. Arrivano A. e A.B. : A.B. rivendica il suo diritto di sognare, ad occhi chiusi e ad occhi aperti, e lo rivendica perché sente che qualcosa glielo impedisce. A., ispirato, risponde con un regolamento sui sogni, in una società dove oltre i 29 anni è vietato parlare e diffondere. È semplicemente vietato sognare. C’è chi interagisce attivamente a quanto scritto dal proprio co-scrittore, e lo pronuncia: “sono d’accordo con la mia co-scrittrice”. E la propria compagna di lavoro interagisce allo stesso modo. É come se avessero inconsciamente pattuito di continuare allo stesso modo i lavori reciproci.

Com’è possibile immedesimarsi tanto nelle parole di un estraneo?

Com’è possibile far proprio un lavoro che non ti appartiene?

Alla penultima storia, F. e C. mi segnano profondamente: F. scrive di un sogno in cui rivede la propria nonna, vede uno scorcio della propria infanzia e ne racconta i dettagli. Il suo tenersi affaccendata, i pomeriggi condivisi in quella cucina che le sarà per sempre familiare. E C. le risponde, come fosse la sua voce della coscienza, invitandola a ricordare con leggerezza, e di lasciare andare. Di lasciare andare il passato, di non aggrapparsi con rancore. Un esercizio di vera empatia che rimane permanente, scritta su carta e che ognuno dei partecipanti custodirà in casa propria.

Questo swap party letterario è la prima volta che si verifica in quella sede ed è la prima volta che ciascuno dei partecipanti coinvolti vi partecipa. Queste persone si sono scambiate un intimo pezzo di storie, sia con chi ha co-scritto, sia con gli altri che hanno udito l’unione delle parti ed hanno, ancora una volta, rinnovato il loro matrimonio con la scrittura. Chiedo la licenza d’uso della parola matrimonio, sì: ho raccolto qualche testimonianza. Ho chiesto a ciascuno di loro: “Perché scrivi?”

Per permettere loro di rispondere ho ceduto il mio taccuino, e qui seguono alcune delle loro risposte:

“Scrivo perché non riesco a NON scrivere. Scrivere per me è sopravvivere. Da una parte, è letterale: con le parole, scrivendo, facendo reportage, recensioni, revisioni di testi. Dall’altro è spirituale: scrivo per dare ordine alle mie idee, i miei sentimenti o per far finta che ci sia un ordine. Scrivo anche per entrare in nuovi mondi, giocare e tornare alla bambina che trovo dentro di me – Mary

“Scrivo quando ho bisogno di fare chiarezza dentro di me. Spesso, quando succede, mi capita di commuovermi – Mariagrazia

“Io scrivo principalmente per sfogarmi. Amo scrivere un diario, a volte scrivere racconti. Adoro scrivere a mano – Angela

“Scrivo perché non lo so. C’è una bellezza nelle parole affiancate l’una dopo l’altra. Con questo flusso si restituisce qualcosa al mondo

“Scrivo perché non lo so. C’è una bellezza nelle parole affiancate l’una dopo l’altra. Con questo flusso si restituisce qualcosa al mondo – Alessio

“Scrivere è una delle (poche) cose che ci separano dagli animali. Poco tempo dopo (relativamente) aver creato la scrittura, abbiamo “conquistato” la filosofia, l’arte, la scienza… Scrivere è una chiave. Usala – A.

“La scrittura è terapeutica. mi permette di mettere nero su bianco pensieri, di depositarli, di guardarli anche da un punto di vista diverso. Scrivere è anche mondi, luoghi dove riposarsi – Francesca

“Penso che ognuno nasca con qualcosa che è destinato a fare. Non perché sia necessariamente portato o perché quello sia il suo talento, ma perché ci si sente nati per quello. E quel qualcosa, per me, è scrivere. Scrivo perché sono nata per farlo – Adele

In conclusione, Torino aveva bisogno, proprio adesso, di un posto dove poter scrivere e potersi fare leggere: scrivere è necessario alla sopravvivenza, lo dicono proprio coloro che lo fanno per sé stessi prima che per il loro lavoro. Per il singolo che smette di sentirsi solo, che si ridimensiona e si sente in qualche modo, al posto giusto, inaspettatamente compreso. All’uscita ognuno ha guadagnato nuovamente la propria strada, camminiamo liberamente per la città. Non sappiamo se ci incontreremo mai di nuovo, ma non pensiamo che sia impossibile.

L’antologia de <La Morza>, da Giovanni da Certaldo curata e raccolta

Elisa Maisa, attraverso questa rivisitazione, tenta di dare un tocco di creatività alla già di per sè geniale cornice boccacciana, attraverso una racconto quadro che indaga il fenomeno salentino della Taranta, nell’ottica del corso di Letterature Comparate Il personaggio nella novella europea: Boccaccio e Chaucer (Prof.ssa Chiara Lombardi).

In questa mia rivisitazione ho tentato di enfatizzare il ruolo chiave ricoperto dalle donne nella narrazione boccacesca, sottolineandone la vitalità. La centralità della parola e dell’ascolto, inoltre, si è rivelata un aspetto cruciale della mia composizione, intorno alla quale ha preso forma l’intera vicenda. Attraverso il personaggio di Nunzia, infatti, il lettore riscopre se stesso empatizzando con la protagonista, la cui lotta interiore si trasforma in una catarsi che non libera solo il corpo, ma anche l’anima.

*

Graziosissime donne, io non voglio per me alcuna lode. Dopo lungo peregrinare, errando e vagando alla ricerca di esperienze dalle quali attingere racconti da narrare, mi ritrovai improvvisamente forestiere della vita e questo racconto è semplice trascrizione di ciò che ho udito e vissuto.
In qualità di attento, veritiero e fedelissimo ascoltatore (anziché narratore), mi accingo a riportare per iscritto questa raccolta di trame, tessute e intrecciate dalla cosiddetta “Morza”, meglio conosciuta come “la Tarantata”.

Morza la Tarantata fu vergine, giovane e onesta donna, di bell’aspetto a dai graziosi e gentili modi; la quale fu tristemente conosciuta a Galatina, piccola cittadina dell’entroterra salentino, per essere stata consumata irrimediabilmente dal morso della taranta.

Questo morbo ancestrale, infatti, colpí esclusivamente giovani donne, tuttavia non venne trasmesso per contatto come avvenne, invece, per la feroce pestilenza che colpì la mia Firenze: ogni giovane ragazza fu punta dalla propria Taranta e portó nel sangue un veleno solo suo.

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Ho sognato il Mondo, ma ho perso le mie pecore

Marianna Pandolfo, in questa interpretazione di Tamerlano di C. Marlowe, vede il protagonista vittima di se stesso. É tutto un sogno. Il potere assoluto si svela come un’illusione di gloria e conquiste effimere. La brutalità del suo regno e la solitudine che ne deriva mostrano il vuoto della sua ascesa, nell’ottica del corso di Letterature comparate Storia e potere nella prima età moderna  (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Partendo dalla tragedia Tamerlano il Grande di C. Marlowe, questo testo propone una rilettura del protagonista come un pastore sciita il cui sogno di potere assoluto si trasforma in un’illusione di gloria e conquista. Attraverso una riflessione sul contrasto tra ascesa e fragilità, si esplora il vuoto che segue il dominio, mettendo in discussione la natura del potere stesso. La figura di Tamerlano diventa simbolo di un desiderio distorto, della caducità della grandezza, e dell’illusione che bellezza, amore e gloria possano essere posseduti.”

*

Ho immaginato Tamerlano, stanco dopo una giornata di lavoro faticosa, appisolarsi sotto le fronde di un albero, all’ombra dell’ultimo sole.
È stato tutto un sogno.

La vera natura di Tamerlano è sempre stata, e per sempre sarà, quella di un pastorello sciita. Sono arrivata a questa idea analizzando l’estrema esagerazione dei successi attribuiti al protagonista: Marlowe descrive l’ascesa di un uomo che, da semplice pastore, diventa il Signore del Mondo. Ho pensato allora che tutto potesse essere letto come un sogno, il desiderio smisurato di una persona semplice. Le sue gesta diventano il prodotto di un delirio, l’esagerazione di un’ambizione che serve a evadere dalla sua condizione reale.

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La musica in e da Guerra e Pace

di Matteo Camogliano

In questo breve saggio, Matteo Camogliano analizza il ruolo della musica nell’architettura del romanzo Guerra e Pace di Tolstoj e si concentra poi sulla ricezione attiva di quest’opera letteraria, ovvero sull’influenza esercitata su opere d’arte musicali contemporanee e successive. 

Come è evidente dal romanzo breve Sonata a Kreutzer,[1]Lev Tolstoj teneva la musica in alta considerazione,[2] ma essa non è meno presente nelle altre sue opere, a partire da Guerra e Pace.[3]

La musica in Guerra e Pace

Nel grande romanzo storico tolstojano la musica fa le sue numerose comparse soprattutto nell’ambito di quella mir che è rappresentazione del mondo umano, ma non mancano sconfinamenti anche nel mondo della vojna, che rappresenta invece la Storia.[4]

La musica è elemento connaturato e sempre presente, anche quando non esplicitamente descritto, in tutti i contesti mondani dell’alta società russa. A partire dall’incipit del romanzo in casa di Anna Pavlovna, la musica non può mancare nei salotti aristocratici, non solo come necessario accompagnamento per il ballo, ma anche come campo di prova in cui si esibiscono in particolare le giovani fanciulle di buona famiglia. Al di là degli effetti emotivi particolarmente esplorati da Tolstoj, su cui ci soffermeremo, non mancano da parte dell’autore i segni di un’effettiva conoscenza tecnica della materia musicale: «Ma a un tratto scoppiò una tempesta, nell’orchestra si sentirono delle scale cromatiche e accordi di settima diminuita, e tutti corsero e trascinarono di nuovo uno dei presenti dietro le quinte, e il sipario calò»,[5] o ancora

La musica suonava sempre piú forte. La melodia cresceva, passava da uno strumento all’altro. Si andava formando ciò che si chiama fuga, anche se Petja non aveva la minima idea di che cosa fosse una fuga. Ogni strumento, ora simile a un violino, ora a delle trombe, ma piú bello e piú puro dei violini e delle trombe, ogni strumento suonava il suo motivo, e prima ancora di averlo finito si fondeva con un altro, che iniziava quasi la stessa cosa, e con un terzo, e un quarto, e tutti si fondevano insieme e tornavano a disperdersi e poi a fondersi di nuovo in una musica ora solennemente religiosa, ora brillantissima e trionfale.[6]

Nella caratterizzazione dei personaggi del romanzo, la più legata alla musica è indubbiamente Nataša, che il lettore ricorderà proprio per l’alta occorrenza con cui Tolstoj ne evidenzia le ottime doti canore e la spiccata sensibilità musicale:

Dopo il tè andò nella sala che amava particolarmente per la forte risonanza, e cominciò i suoi esercizi di solfeggio. Conclusa la prima lezione, si fermò in mezzo alla sala e ripeté una frase musicale che le era piaciuta particolarmente. Rimase con gioia ad ascoltare l’incantevole effetto (quasi inatteso per lei) con cui quei suoni, vibrando, riempivano tutto il vuoto della sala e si spegnevano lentamente, e a un tratto si sentì allegra.[7]

La musica è in grado di esercitare sul suo personaggio un ascendente notevole, e non manca mai: nella sua prima partecipazione a un ballo, nelle ricorrenze familiari, nella fatale serata all’Opera, quasi alterando – come in quest’ultimo caso – la percezione stessa della realtà.

Oltre alla musica dei salotti aristocratici, un ruolo importante sembra avere anche la tradizione folclorica russa, anzi è proprio questa tipologia che ci è utile per capire meglio il rapporto di Tolstoj con la musica del suo tempo. L’episodio in tal senso più illuminante del romanzo è quello che avviena a casa dello “zietto”, in seguito alla battuta di caccia:

Dal corridoio si udirono distinte le note di una balalaica, suonata evidentemente da un virtuoso. Nataša già da tempo aveva teso l’orecchio a quelle note e adesso uscì in corridoio per sentirle meglio. – È il mio cocchiere Mit´ka… Gli ho comprato una bella balalaica, mi piace, – disse lo zietto. Da lui c’era questa usanza: quando tornava dalla caccia, nella stanza dei cacciatori Mit´ka suonava la balalaica. Allo zietto piaceva ascoltare quella musica. – Che bello! Davvero eccellente, – disse Nikolaj con un certo disdegno involontario, come se si vergognasse di ammettere che quei suoni gli facevano molto piacere. – Come eccellente? – disse Nataša con rimprovero, avvertendo il tono con cui l’aveva detto il fratello. – Non è eccellente, è una vera delizia! – Proprio come i funghetti, il miele e i rosoli dello zietto le erano sembrati i piú buoni del mondo, cosí anche quella canzone in quel momento le sembrava il culmine della delizia musicale.[8]

Il passo è illuminante in quanto – oltre alla limpida caratterizzazione del quadretto rustico, davvero particolarmente riuscito – permette di notare come la tradizione folclorica sia assurta nell’Ottocento russo a notevole importanza, testimoniata dal fiorire della cosiddetta scuola nazionale, rappresentata dal Gruppo dei Cinque (o “gruppetto possente”, Mogučaja kučka), e prima ancora, dal compositore Michail Glinka, che fu il primo promotore e fautore della musica russa, proprio attingendo a larghe mani dal repertorio popolare.[9] La scelta da parte di Tolstoj di questa oculata rappresentazione del folclore sembra legittimare l’ipotesi di una chiara consapevolezza da parte dell’autore della filiazione popolare della musica russa colta in voga nella sua contemporaneità (mezzo secolo dopo i fatti narrati), e pare trovare conferma in un altro passo saliente già anticipato, ovvero nell’episodio dell’Opera.

Dopo la vita in campagna e nella seria disposizione di spirito in cui si trovava, a Nataša tutto ciò appariva assurdo e sorprendente. Non riusciva a seguire l’intreccio dell’opera, non riusciva neppure ad ascoltare la musica: vedeva solo i cartoni dipinti e gli uomini e le donne stranamente abbigliati, che si muovevano, parlavano e cantavano stranamente in quella luce violenta; sapeva che cosa doveva rappresentare tutto ciò, ma era tutto cosí leziosamente falso e innaturale, che un po’ si vergognava per gli interpreti, un po’ li trovava ridicoli. Si guardava intorno, guardava le facce degli spettatori, cercandovi lo stesso senso di ironica perplessità che era in lei; ma tutte le facce erano attente a ciò che accadeva sulla scena, ed esprimevano un rapimento che a lei sembrava simulato.[10]

Nonostante l’ormai nota sensibilità musicale di Nataša, nel nuovo contesto sociale moscovita la musica operistica inizialmente sembra non avere effetto su di lei, a causa sia della sua disposizione d’animo, sia del periodo di vita in campagna: l’episodio precedente in casa dello zietto è subito richiamato alla memoria e stride in tutto e per tutto con il presente. A Nataša il nuovo contesto sociale urbano non può che apparire falso, simulato, e così anche la musica che lo permea è per lei priva di significato, vuota, rispetto alla schietta immediatezza del suono della balalajka e del canto popolare. Non di meno, nonostante la disposizione d’animo iniziale e questo primo rifiuto quasi inconscio e viscerale per l’ambiente in cui si trova, quello stesso ambiente sociale e la musica che lo permea compiono lo stesso il loro magico effetto – o sortilegio – sull’indifesa Nataša:

Mentre percepiva la luce viva diffusa in tutta la sala e l’aria tiepida, riscaldata dalla folla, Nataša a poco a poco cominciava a entrare in uno stato di ebbrezza che non sperimentava da tempo. Non ricordava chi era e dov’era e che cosa accadeva davanti a lei. Guardava e pensava, e i pensieri piú strani le balenavano nella testa inaspettatamente, senza un nesso. Ora le veniva l’idea di saltare sulla ribalta e cantare l’aria che cantava l’artista, ora aveva voglia di dare un colpetto con il ventaglio a un vecchietto seduto non lontano da lei […].[11]

L’Opera, la musica e l’atmosfera in cui si trova immersa la protagonista, sono tutti strumenti dell’azione incontrollabile con cui si manifesta la forza dell’eros, che agisce in modo irrazionale nelle vite degli uomini così come nella Storia.

La musica è un amplificatore degli effetti, già di per sé fatali, dell’azione incontrastata dell’amore sui personaggi, ignari e impotenti di fronte al suo manifestarsi. Lo era stata già persino per il principe Andrej, innamoratosi di Nataša proprio dopo averla ascoltata cantare, di nascosto – scena memorabile e quasi da pellicola – in una selenica notte di leopardiana memoria.[12] In mancanza del wagneriano filtro d’amore, è la musica a compiere l’effetto afrodisiaco.

Tornando all’episodio della serata all’Opera, la costruzione di Tolstoj è magistrale e trasforma la scena in una sorta di meta-rappresentazione teatrale, in cui, oltre allo spettacolo in corso sul palcoscenico, i veri attori, marionette inconsapevoli, sono i protagonisti-spettatori. Nel crescendo della musica e tra gli applausi del pubblico si consuma la tragédie della povera Nataša, che cade vittima degli strali di amore e della maliziosa e noncurante frivolezza di Anatole Kuragin,[13] prima ancora di avere il tempo di rendersi effettivamente conto di quanto le stia accadendo. La collocazione di questo episodio così importante nell’intreccio del romanzo proprio all’interno del contesto sociale del teatro d’Opera, denota da parte di Tolstoj una costruzione che è quasi metaletteraria e non priva di una certa ironia nel dipingere proprio la moda ottocentesca, aristocratica e borghese, della frequentazione dei teatri. Moda che, per quanto russificata, è di chiara ed evidente importazione occidentale, attraverso il fortunato canale della tragédie lyrique francese. Ciò non stupisce più, in un romanzo che si apre proprio con una conversazione in francese, e conferma, se mai ce ne fosse bisogno, l’aperta critica e ironia verso la cultura occidentale e la sua riappropriazione da parte dell’alta società russa.

Sembra dunque profilarsi, in filigrana, quello che sarà poi il severo giudizio morale di Tolstoj sulla musica come traspare in Sonata a Kreutzer, ovvero una netta condanna verso un’arte capace come null’altra di scatenare le passioni e i desideri terreni. Una condanna religiosa-morale legata alla repressione degli istinti sessuali[14] e in ultima analisi riconducibile alla lunga tradizione della “teoria degli affetti”, che ha le sue radici nei miti orfici e nell’ethos musicale dell’antica Grecia.[15]

Non mancano, come si diceva, le intromissioni o gli sconfinamenti della musica al di fuori del contesto sociale aristocratico e borghese che le è più proprio, quello della mir, nel mondo della vojna. Sono molteplici gli episodi in cui il furore e le paradossali allegrezza ed euforia della guerra si manifestano negli uomini che la vivono anche attraverso episodi in cui è coinvolta la musica, o in rimembranze e metafore musicali: «L’animo di Rostov si riempì di allegria per quei suoni che non udiva da tempo, quasi fossero le note della musica piú allegra. Trap-ta-ta-tap! – scoppiettavano gli spari ora insieme, ora in rapida successione».[16] Nulla di sorprendente in fondo, la musica fin dall’antichità è potente strumento apotropaico, in grado di infondere coraggio e rifuggire il terrore della morte – ancora il riferimento è alla teoria greca dell’ethos[17]– e come tale è utilizzata e si sviluppa in forme appositamente pensate per l’uso bellico, come le marce militari ma anche il canto spontaneo da parte dei soldati, di carattere ora esaltante ora profondamente malinconico.

La musica dunque, in quanto arte e artificio umano, in Guerra e Pace si cala tanto nella mir quanto nella vojna e come visto è essa stessa strumento inconsapevole al servizio della Storia, del suo travolgente corso e delle forze che la portano inesorabilmente avanti, eros e thanatos.

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Regnabo, Regno, Regnavi, Sum sine regno

Un percorso poetico che ripensa la struttura immersiva dei Morality Plays e l’elaborazione dello scontro morale tra figure allegoriche come Vizio e Virtù; Paradiso e lnferno; Dèi e Diavoli. In questo genere di performances, il pubblico rimaneva fermo in un punto nello spazio cittadino, mentre gli attori su pageant wagon ruotavano in giro per la città. Al termine della rappresentazione, tutti potevano aver assistito a un intero ciclo di storie. Partendo da quella sollecitazione, la lettura offre un percorso ispirato alle incisioni delle Rotae fortunae.

REGNABO

Prima stazione
In questa stazione, in forma di Limerick, ballate, sestine e sonetti si discute il problema dell’agognata ascesa del potere, del desiderio di regnare sugli altri e non per gli altri; ma anche della proiezione di mondi immaginari e fantastici, del sogno di realtà lontane e forse possibili.

Titolo: There was a shepherd
Genere: Limerick
Autrice: Monica Portis

There was a shepherd who was crippled
and a small duke whose temper was bristled,
would do anything grim
to be the true King, 
till the scenes with corpses were riddled.

[C’era un pastore azzoppato
e un piccolo duca, assai adirato,
per essere sovrano
avrebbe attuato ogni piano,
finché il palco con cadaveri fu colmato].

Titolo: There’s a man who’s a minister, it’s true
Genere: Limerick
Autrice: Monica Portis

There’s a man who’s a minister, it’s true,
but of transports he hasn’t a clue;
he blames all the boats
to count up the votes,
while the trains still don’t run on cue.

[C’è un uomo che è ministro, ed è verità,
che di trasporti non ne sa la metà;
dà la colpa alle navi
per avere i suoi ricavi,
per avere più voti
parla bene dei sacerdoti,
mentre i treni non fan puntualità]

Titolo: Soffia il vento tra mura oscure
Genere: Ballata
Autore: Giovanni Giraudo

Soffia il vento tra mura oscure,
dove Sigismondo sogna in catene
La vita è sogno tra mille paure,
un mare agitato in cui morto è ormai il bene.
Dove conduce questa via?
Sogno o sostanza? Magia o follia?
Nel buio profondo l’anima vaga
cercando luce tra ombre vane
La realtà scappa, la mente paga,
Ma il cuor ribatte pur tra le tane
E tutto nasce, e tutto va via:
Sogno o sostanza? Magia o follia?
Rinato al giorno, un re si sveglia,
ma il trono è sabbia, fragile inganno.
L’uomo è padrone della sua meraviglia,
ma ogni speranza svanisce nel danno
solo il destino decide la via:
sogno o sostanza? Magia o follia?

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