Edge

Matilde Penta, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof. ssa Chiara Lombardi.

Sembrava una normale notte estiva, quando il sonno inquieto di William venne spezzato: una voce imperativa, una visita inaspettata, due dame, la luna e il semplice timore del domani.

*

Will… Will…” un brusio confuso e indistinto echeggiava nel buio delle palpebre. William si rigirava nel letto: il sonno irrequieto, la fronte imperlata di sudore, le lenzuola avvinghiate all’esile corpo come serpi, i pugni stretti lungo i fianchi. Will… Will… il pallore lunare tappezzava la stanza, un flebile sospiro s’infilava dalla finestra rimasta socchiusa, le candide tende sventolavano debolmente disegnando forme sinuose come fantasmi. Will… Will… il ticchettio del pendolo sembrava rallentare, il tempo si assopiva.

Fra le mille voci se ne levò una, limpida e imperativa: Will! L’uomo si tirò a sedere sul letto con uno scatto fulmineo. Il petto si sollevava e abbassava a una velocità insolita, gli occhi stropicciati si misero ad indagare l’oscurità, alla intimorita ma curiosa ricerca della fonte del suo brusco risveglio. La stanza sembrava non essere diversa da come l’aveva vista prima di lasciarsi scaldare dall’abbraccio di Morfeo eppure aveva come la sensazione di non essere solo.

“Sono desolata di aver disturbato il vostro sogno, caro” quella stessa voce ora suonava più chiara, calda e vicina.

“Chi è là?” sentenziò Will con la voce ancora spezzata dal sonno, ma inspiegabilmente serena.

“Non lasciate che il canto della notte faccia naufragare la vostra memoria, non mi riconoscete?”

William ancora non era in grado di dire con precisione da dove venisse quella voce, ma non gli era del tutto nuova.

“Se mi concedeste la grazia di mostrarvi a me vi libererei dallo scomodo ufficio di presentarvi” disse spingendosi al fondo del letto. Tentò di fendere le tenebre aguzzando la vista verso il camino, dove il fuoco ormai ridotto a un fioco bagliore rossastro sepolto sotto la cenere illuminava solo le gambe della vecchia poltrona di velluto, ma non solo. Strinse le palpebre e finalmente riuscì a tracciare i contorni di una figura. Sulla poltrona stava comodamente seduta una fanciulla.

Nonostante la sua giovane età, sedeva con la compostezza di una dama, con le mani giunte in grembo e le spalle dritte. Eppure c’era qualcosa di particolare nella sua figura, qualcosa che sembrava darle un’aurea d’impalpabilità.

La ragazza sollevò lo sguardo e lo intrecciò a quello di Will. Un raggio di luna non solo le incorniciò la parte sinistra del volto, ma la attraversò come un dardo.

“Rivelatevi a me, siete forse un fantasma?” domandò senza lasciarsi scomporre dalle parole che aveva appena pronunciato.

“Non temete caro, non sono qui per affidarti alcuna vendetta. Guardatemi con attenzione, piuttosto. Orsù, non mi riconoscete? Eppure è stato il vostro intelletto a darmi questo aspetto”.

William scese dal letto con passo delicato: il legno sconnesso scricchiolò sotto il suo peso. D’un tratto si sentì fastidiosamente pesante. Avvicinandosi prese a scrutare quel volto con chirurgica attenzione: quei lineamenti giovanili, quegli occhi svegli, quel sorriso savio. Capì.

“Mia cara, l’invidiosa notte mi velò gli occhi e vi nascose al mio animo” si sedette sulla poltrona dirimpetto. Si sentiva a disagio così sciupato, con il pigiama stropicciato e i capelli arruffati, dinanzi a quella figura così regalmente composta.

“Non tediatevi, bensì ascoltate le mie parole e prestate attenzione.” la fanciulla sistemò l’unica piega del lungo abito “Lasciare le spiagge di Tarso è un dolore tollerabile finché il sole non ne sfiora i tetti. La ragione che mi spinge sin qui ha un nome e un volto.”

Will si strofinò gli occhi, non perché faticasse a credere a ciò che vedeva, ma per tentare di assumere quel contegno che tanto lo assillava “Qualcuno vuole il mio male? Non ho arrecato torto a nessuno!” tentava di occultare quella scintilla di nervosismo che gli solleticava le spalle.

“Così credete, mio caro.” sorrise, sembrava divertita dall’inquietudine di Will “Ormai sarà alle vostre porte”

“Chi, saggia Marina, chi fa tuonare le mie porte nel cuore della notte? Sciogli il timore che mi attanaglia il cuore, non fare mistero della mia sorte” Will strinse con forza i braccioli della logora e polverosa poltrona, fissò gli occhi sgranati sullo spettro, immersa nel buio solo per metà.

“Una delle tue figlie, delle tue dame, delle tue chimere, stanche di nascere e morire ogni notte per i capricci di altri, viene a pregarti di impugnare il tuo tagliente ferro un’altra volta e di darle una vita nuova.”

La pacatezza di Marina tradiva il senso delle sue parole. Il cuore di William avrebbe dovuto tremare, ma fremeva, impaziente.

D’improvviso un rumore sordo lo fece sobbalzare. Il suo cuore ebbe un sussulto, si voltò di scatto e un tenero sorriso gli increspò le guance.

Una fanciulla, dalla stessa evanescenza pallida di Marina, stava accovacciata con il braccio teso. Raccolse il piccolo volume che le era goffamente sfuggito dalle mani e si alzò. Con la testa ancora china sollevò i lembi dell’abito dai contorni indefiniti rivelando i piccoli piedi scalzi e accennò un composto inchino ai due. Quando alzò lo sguardo su Will, l’uomo provò nei suoi confronti un amore quasi paterno.

“Perdonate, Milord, il tremore dei polsi”. Rimase lì, in piedi nel mezzo della stanza, come attendendo il permesso di Marina. Quando questa le accennò un segno col capo, la fanciulla andò a sedersi ai piedi della sua poltrona. I lunghi capelli legati in una morbida acconciatura e cadevano sulle spalle come onde rubate a quel mare che tanto bene conosceva.

Con il libro stretto fra le piccole e tozze dita, lo guardava con ammirazione, ammaliata e attonita.

“È una gioia vedervi, mia cara Miranda” Will si sporse in avanti, avrebbe voluto stringere quella figura così minuta e dagli occhi scintillanti tra le braccia.

La giovane tentò di nascondere un risolino con la rigida copertina del libro “L’onore è mio, Milord, la più ambiziosa delle mie brame è finalmente reale! Tutte le stelle del cielo sono invidiose dello splendore della vostra penna, poter…” il rapido e incalzante fiume di parole venne arrestato dalla mano di Marina che si posò delicata sulla spalla della ragazza. Marina sollevò lo sguardo sulla fanciulla che sedeva sulla poltrona: avevano pressoché la stessa età, eppure lustri sembravano separarle.

“Avete ragione, tempus fugit e la luce dell’alba già solletica le lacrime di rugiada. Devo sbrigarmi!”.

Esitò, inspirò come a cercare nell’aria la forza di confessare ciò che le opprimeva quel suo cuore di luce.

“Milord” riprese con gli occhi bassi “la vostra mente mi ha dato vita, la vostra arte mi ha condannata.”

Il cuore di Will trasalì. Improvvisamente una sensazione di soffocante colpevolezza lo avvolse. Non aveva ancora concluso neppure il primo atto, come poteva Miranda già detestare il suo destino?

“Nata duchessa, cresciuta selvaggia. Vissuta tra menzogna e solitudine. Figlia di un padre sofferente e tiranno, nelle mie vene scorre il putrido sangue di un vile traditore, lacrime versate per un passato di cui non ho memoria. Indegna sorte mi costrinse su quelle rive. Senza conoscere il mondo e le sue meraviglie, prigioniera delle stesse albe e dei soliti tramonti, quanti segreti. Perché punirmi con un simile destino maligno? Un’esistenza votata a pagare colpe di cui la mia anima mai si macchiò. Sciogliete il mio vincolo, Milord, sganciate le catene che mi ancorano a quell’isola: amorevole madre ma crudele matrigna. Prima che la vostra penna sigli la mia condanna, ve ne prego, riflettete se desiderate vedere il virtuoso cuore della vostra creatura appassire e donare i suoi petali stanchi al suolo che la ha dato vita e morte.”

Quegli occhi eterei imperlati di lucciole e quella bianca voce spezzata dal tremore frantumarono il cuore di Will in mille prismi di quarzo e anche più. Miranda abbandonò il capo al bracciolo della poltrona, come se quelle parole l’avessero affaticata più della tempesta che le aveva turbato il cuore, là sulla riva del suo esilio ameno.

L’autore la guardò con dolcezza. Niente più che una giovinetta, sola davanti all’immensità del futuro, ignoto e spaventoso. Gioventù e ingenuità fanno nascere nel cuore il suo smarrimento. “Non temere” pensò Will “ti darò il più brillante dei domani. Ti libererò dal giogo che ti appesantisce le spalle per donartene uno che ti abbellirà il capo: sarai sapiente regina, rispettabile moglie, amorevole madre, devota figlia.”

Will sapeva, però, di non poterle rivelare la verità. Miranda avrebbe dovuto soffrire e imparare prima di poter godere delle meraviglie che l’autore aveva in serbo per lei. Così diceva il copione e lo spettacolo doveva continuare.

“Fiore innocente, sospiro di purezza, splendida creatura tu temi l’ombra di una nuvola. Non può farti perdere un solo capello: la sua oscurità è intensa ma effimera e fuggevole. Sii paziente, mia Miranda e abbi fede. Il futuro non è chiaro finché non lo si chiama passato. Ricorda al tuo cuore che sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere.”

Sul volto della fanciulla che pendeva da un lato spuntò uno sguardo enigmatico. Non era sicura di aver compreso le parole di Will, ma per qualche ragione quel senso un po’ oscuro placò l’infuriare dei suoi pensieri.

Le prime luci dell’alba cominciavano a dipingere d’oro gli stracci di nuvole cuciti nel cielo ancora assopito. I primi cinguettii spezzarono il silenzio della notte e scossero Will dal torpore in cui era scivolato.

“Mia cara, il giorno si desta, è tempo per noi di tornare alle nostre pagine” disse Marina.

La giovane seduta ai piedi della poltrona inspirò profondamente, come intimorita dall’idea di tornare da dove era venuta, fra quelle righe che sembravano giocare con il suo destino.

“Per il tempo che mi avete concesso, Milord, e per le parole che mi avete rivolto, serberò nel cuore questa notte finché la vostra penna mi darà respiro.”

I primi bagliori squarciarono la penombra della stanza e dipinsero di brillanti virgole d’oro le sue pareti. Le due giovani donne si alzarono, rivolsero un sinuoso inchino al Will incorniciate dai voluminosi abiti. Come un’ombra fugge la luce, così Miranda si sottrasse allo sguardo dell’autore e si dissolse nell’aria densa del mattino.

“So che vi prenderete cura di lei, Will e le darete quel futuro glorioso che già onorò me e le mie sorelle. Il suo esempio sopravvivrà alla morte di mille lune”. Chinò la testa un’ultima volta e, come schiudendo le soglie dell’oscurità, scomparve.

Will si ritrovò di nuovo solo: stanco e stordito. Passò la mano sul velluto intiepidito dal primo sole del mattino e fece scivolare lo sguardo su quelle coperte che poco prima lo avevano fatto sentire prigioniero. Improvvisamente si sentì così simile a Miranda: solo in un domani ignoto.

Le palpebre cominciarono a pesare e nell’istante in cui chiuse gli occhi, un brivido gli scosse la schiena. 

Quando li riaprì si ritrovò nel letto: le campane in lontananza battevano lo scoccare delle tre, la stanza era immersa nel pallore perlaceo della luna, vuota.

Eppure non si sentiva solo: in fondo, siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni.

Bibliografia

  • “La tempesta” e “Pericle principe di Tiro” da “William Shakespeare: i drammi romanzeschi”, a cura di Giorgio Melchiori, Milano, Mondadori, 2015

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