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Nel presente articolo, Sofia Ranca (Università degli Studi di Torino) analizza e indaga la scrittura del sé nell’opera del premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio

(Settembre 2023)

Davanti allo specchio tropo bianco della pagina vuota

Davanti allo specchio troppo bianco della pagina vuota, sotto il paralume che diffonde una luce segreta
(Jean-Marie Gustave Le Clézio)

Introduzione

Il Dio della Bibbia è un Dio che parla, un Dio che incarna la parola. L’incipit del vangelo di Giovanni lo sottolinea con forza quando afferma che «in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»[1]. La legge del Dio giudaico è infatti la Legge della Parola che illumina il caos originario dell’indifferenziato, e dona vita al creato:

Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu[2].

Nella Genesi la divina Creazione si compie attraverso la parola di Dio. Quest’ultima non nomina, non designa solamente le cose del mondo: dona loro esistenza, ne rivela l’essere, le molteplici verità. La parola di Dio è logos, è verbo che si fa carne «e [viene] ad abitare in mezzo a noi»[3]; è dunque creatrice di relazioni, concetti, teorie e realtà.

Quale sia il rapporto tra lingua e pensiero è d’altronde una delle questioni più discusse dalla teoria più recente. Ma se la lingua, ogni lingua diversa, è in grado di organizzare e modellare la teoria del mondo – dunque di comprendere la realtà, attribuendole significato -, si può affermare di essere fatti della stessa sostanza delle parole? È questo il significato del Dio della Bibbia che incarna la parola? «Ritornavo al mio sesto piano simbolico, vi respiravo […] l’aria rarefatta delle Belle Lettere, l’Universo si disponeva a piani sotto di me, e ogni cosa umilmente mi sollecitava un nome, dare ad esse un nome era al tempo stesso crearle e prenderle»[4], sembrerebbe rispondere Jean-Paul Sartre, uno dei più influenti maestri del linguaggio umano a lungo interessatosi alla natura creatrice delle parole, «quintessenza delle cose»[5]. Tuttavia, non è possibile pensare che le verità veicolate dalle parole possano risolversi unicamente nella mistica ispirazione o nel “dono provvidenziale” poiché esse sono anche il risultato di uno spazio storicamente e culturalmente determinato e che l’essere umano, attraverso il proprio vissuto, tenta di colmare. In tal senso, la letteratura «est un phenomene double»[6]: nell’individuo, e più nello specifico nello scrittore e nel lettore, lo sviluppo psicologico si incontra e/o si scontra con quello storico, sociale e culturale.

Riflettere sul linguaggio, in particolare letterario, significa certamente affrontare una storia lunga, tempestosa ed intricata; in A libro aperto: una vita è i suoi libri, il noto filosofo e psicoterapeuta italiano Massimo Recalcati scrive che «ogni lettore che è stato letto dal libro porta stampate su di sé le tracce di queste letture, […] impariamo qualcosa di chi siamo dal libro che leggiamo perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto»[7]. Scrivere, allora, può voler dire farsi libro? E leggere, può significare essere letti dal libro stesso? E ancora, in che modo lo scrittore ed il lettore si servono della materia sensibile e reattiva della parola? È forse questa stessa materia che, più di ogni altra (pur rassomigliando alla Musica), avvolge l’esistenza umana e differenzia l’opera letteraria da tutte le altre opere artistiche?

Il presente lavoro vuole avviare una riflessione a partire dai quesiti posti per comprendere come, e quanto, si possa interrogare la legittimità della parola nella sua duplice funzione di verità e finzione, di ricerca interiore e necessità, di certezza ed illusione. Al sorgere di tale idea di ricerca ha contribuito l’attenta lettura de L’Extase matérielle di Jean-Marie Le Clézio, la cui “identità” narrativa ha permesso un personale e stimolante arricchimento intellettuale.

Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche parte, sopra le infinite Tavole del Verbo; […] se combinavo ingegnosamente le parole, l’oggetto si impegolava nei segni, era mio.
(Jean-Paul Sartre, Les Mots)


L’Extase matérielle’, Jean-Marie Gustave Le Clézio, 1967

Può certamente indurre a un’immediata riflessione il fatto che un’intima, quasi viscerale, e oscura indagine esistenziale, quella di Jean-Marie Gustave Le Clézio, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2008, abbia trovato la propria espressione letteraria nell’ibrida forma del saggio filosofico-romanzesco, non a caso intitolato L’Extase matérielle. «Autore di nuove partenze, avventura poetica ed estasi sensuale, esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civiltà regnante»[8], Le Clézio comincia l’esplorazione della propria esistenza dalla sua stessa non esistenza, dal suo evidente non essere nel tempo e nello spazio, quando il vuoto era la sua carne e «c’era unicamente questo: uscita dal silenzio e ritorno al silenzio»[9].

Questo mondo era uno e plurimo, […] era più che una verità; perché al di là di ogni linguaggio, era l’impossibile identità di ogni manifestazione[10].

L’autore, e questo è forse l’aspetto che più contraddistingue la scrittura di Le Clézio, affronta la narrazione da una retrospettiva del tutto nuova, straniante e ancora inesplorata: la voce è di chi – come «seme confuso fra i semi»[11]-, non è ancora vivo, ma non ancora morto. Da questa particolare posizione, la narrazione, che non è ancora dotata di immaginazione umana, tecnicamente si traduce in un processo di associazione ed invenzione di nuove forme (saggio, filosofia, forma lirica, teoria della letteratura) esplorabili unicamente attraverso la trasgressiva rappresentazione di un Io che, spersonalizzandosi, è in grado di collocarsi nella dimensione dell’umanamente inesprimibile: uscendo dalla stasi (da qui, l’estasi), esso accede alla gioia invincibile dell’ essere nella materia. È qui, in questa “zona” senza volto, situata tra l’estasi e la materia, che l’autore può avvicinarsi all’intuizione e alla percezione delle potenzialità dell’esistenza; è qui, in quello che egli definisce l’infinitamente medio (a cui è dedicato il primo capitolo), che lo scrittore fa esperienza della sostanza delle parole: l’incipit, l’«istante [in cui] può nascere il sentimento vero di vivere veramente»[12]. Avvicinandosi alla riflessione heideggeriana secondo la quale l’essenza (essentia) dell’Esserci [il Dasein] consiste nella sua esistenza [existentia][13], Le Clézio sembra svelare come quest’ultima non dipenda da un’essenza data a priori, bensì si determini solo nel momento in cui essa si apre traumaticamente all’orizzonte del mondo attraverso gli atti e le forme attribuite al proprio essere. In tal senso, e qui subentra la riflessione sartriana, l’uomo è prigioniero della libertà: egli non ha creato se stesso, tuttavia non può sfuggire dalla responsabilità della scelta, dunque della creazione della propria esistenza; quest’ultima, allora, si traduce in una ricerca del proprio e più autentico significato. Così, tra la realtà ed il mistero, tra la trascendenza e l’immanenza, lo Scrivere (che è anche il titolo del quarto capitolo de L’Extase matérielle), rappresenta per Le Clézio «lo sguardo [che] dà moto al mondo»[14], che attiva il passato – esplorandone le verità individuali e più personali -, e che intuisce la Verità – quella assoluta, indicibile, se non intelligibile. In tal senso, «la scrittura è la sola forma perfetta del tempo. C’era un principio, ci sarà una fine. C’è un segno, ci sarà un significato»[15] in grado di rivelare il fine ultimo del non linguaggio, del silenzio:

Ogni arte che non abbia come necessità il superamento del proprio messaggio,
cioè la propria morte, è inefficace[16].

Allora, è dietro tale irriducibile modo di guardare al valore delle parole e al loro modo di concepire e donare senso, unità e significato che merita di essere indagata l’estasi materiale di cui parla lo scrittore: «questo mistero più di ogni altro vorrei chiarire. Perché porta con sé la chiave del linguaggio, e forse anche la ragione originaria»[17], il contatto con l’al di là del tempo. Così, nonostante la voce dell’Io non racconti alcunché di sé stessa, le pagine dell’opera sembrano incarnarne la personale dichiarazione di esistenza nel mondo: quella che nasce dalla propria melodia e dal suo accordarsi all’universalità della scrittura, per poi fare ritorno nell’eterno silenzio dell’armonia del Tutto.

Per me non c’è nient’altro, nient’altro che il linguaggio. È il solo problema, anzi la sola realtà tutto vi si ritrova, tutto vi è coordinato. Io vivo nella mia lingua, è essa stessa che mi costruisce. Le parole sono realizzazioni, non strumenti. […] Come tutte le illusioni, quella alimentata dal linguaggio oltrepassa se stessa; diviene natura della mia fuga, forza della mia ascensione, forse anche ascesi[18].

È attraverso la scrittura che egli prende coscienza di sé, della realtà e di sé nella realtà: egli è figlio della parola creatrice, del verbo che è causa ed effetto della relazione, misura della libertà, ma anche alienazione ed inganno; ne percepisce forte tutta la contraddittorietà, l’estraneità, sino alla più perturbante sofferenza. Egli esiste grazie alla scrittura: autenticità e illusione del suo vissuto; «mi ci è voluta la durata della maggior parte di questa esistenza per comprenderne il significato»[19] dichiara l’autore nella sua prolusione durante la cerimonia del Nobel.  

Come d’altronde ricordava Wittgenstein, sono i confini del proprio linguaggio a determinare quelli del proprio mondo. Il binomio esistenza-scrittura rimanda nuovamente a uno dei testamenti umani e letterari di Sartre: Les Mots (pubblicato prima su Les Temps Modernes alla fine del 1963 e poi da Gallimard nel 1964):

Sono nato dalla scrittura: prima, c’era solo un gioco di specchi; […] Scrivendo, esistevo, mi sottraevo alle persone grandi; ma non esistevo che per scrivere, e se dicevo: io, ciò significava: io che scrivo[20].

Forte di una vita trascorsa tra la lettura e la scrittura (non a caso la sua autobiografia si compone di due soli capitoli: Leggere, il primo, e Scrivere, il secondo), Jean-Paul Sartre dichiara la propria esistenza nel mondo attraverso, appunto, les mots e termina il suo testamento consegnando al lettore e alla posteriorità non solo la storia di un uomo ed il ricordo di una vita esemplare, ma anche una profonda riflessione sull’universalità della scrittura.

È forse questo il ruolo della letteratura, quello di farsi carico dell’esperienza vissuta? Quello di lasciare un’impronta che – come disse Neil Armstrong nel momento in cui mise piede sulla luna -, è sì, un piccolo passo per un uomo, ma anche un grande balzo per l’umanità? Attraversando lande amene e desolate, anche la mano di Jean-Marie Gustave Le Clézio scrive per «accumulare le parole come colpi, per velare la faccia della verità, per dissimulare l’abisso di gioia e d’infelicità. Questa mano che avanzava sola sul bordo del tavolo, contratta sul corpo di materia plastica della penna a sfera, sapeva davvero quello che faceva? […] Le parole avevano preso corpo, esistevano sotto forma di esili fili sconnessi, odoranti, violenti, grotteschi, precisi. Dove avevano preso questo dramma?»[21]. Queste sono le domande che frantumano il sé durante il viaggio nel verbo, nella materia (e nelle sue molteplici trasformazioni e costruzioni), in quella che Le Clézio chiama foresta di paradossi. Non a caso la narrazione de L’Extase matérielle è prolissa, discontinua, disordinata. Le interruzioni, i paralogismi, le discese abissali e l’ardita speculazione ne caratterizzano l’esposizione, come pure il lirismo e le elevazioni dell’anima; tuttavia, il fine ultimo di questo déchirement, di questo assoluto senza gioia, di questo luogo dal quale l’artista non deve cercare di scappare – «ma al contrario nel quale egli deve “essere accampato” per riconoscervi qualche dettaglio, per esplorare ogni sentiero, per dare il nome proprio a ogni albero»[22] -, il fine ultimo di tutto questo, dicevamo, è la più piena e matura consapevolezza e ricostituzione del sé. La forza di tale estenuante percorso coincide con quella di un ardito desiderio:

Lo scrittore è un creatore di parabole. Il suo universo non nasce dall’illusione della realtà, ma dalla realtà della finzione. Procede così, splendidamente cieco, a scatti,
a inganni,a menzogne, a piccole condiscendenze. […] Deve avere la potenza dell’imperfezione. E deve essere dolce all’ascolto, dolce e commovente come un’avventura immaginata[23].

«Io devo alla foresta una delle più grandi emozioni letterarie della mia età adulta»[24], sostiene Le Clézio, il quale vede nel linguaggio “l’invenzione” più straordinaria e solidale dell’umanità. Lo scrittore, il poeta, il romanziere ne sono i celebratori ed i guardiani: tramite le parole – che essi non utilizzano, bensì servono -, creano bellezza, pensiero, immagine; rendono vivo il linguaggio, lo arricchiscono, lo trasformano, ne riscattano l’esistenza attraverso il fenomeno estetico: deriva forse da qui la passione per la Bellezza? Nella sua esplorazione, lo scrittore francese giunge sino al cuore, l’organo che lo inquieta di più: «spesso mi domando come possa battere, questo piccolo muscolo chiuso su se stesso. Perché non si arresta mai? Qual è la forza che lo fa trasalire così, cadenzatamente, regolarmente, e gli fa gettare il suo fiotto di sangue rosso ai quattro angoli del mio corpo? C’è qualcosa in queste fibre, una minuscola onda elettrica che d’improvviso le percorre, e lui sobbalza. Tuttavia non lo comando. Non lo sento nemmeno»[25]. Per Le Clézio, l’essenza del cuore risiede perciò nel suo battito ingovernabile: la sua voce non conosce che la scansione di un ritmo che alterna presenza ed assenza, senza pause. È a partire dal cuore, dall’ascolto di esso, che si può andare al di là della percezione, verso l’ideale sacramento della parola: dall’esistenza all’essenza.

La filosofia non mi interessa se non è anche preghiera[26].

Il «traguardo supremo del linguaggio e della coscienza»[27] è infatti per l’autore il silenzio, «quello da dove si viene e quello dove si va»[28]. Giunto al capitolo conclusivo del suo lavoro, lo scrittore sostiene che non vi è che l’“assenza” di suono a dare senso alle parole, così come non vi è che l’“assenza” della vista a dare senso alle visioni: «tutto ciò che si dice o si scrive, tutto ciò che si sa, è a questo fine, veramente a questo fine: il silenzio»[29]. Quest’ultimo non è luogo, non è vuoto, non è assenza, bensì presenza, «presenza illimitata di tutti i ritmi, di tutti gli accordi, di tutte le melodie»[30]. L’Io che parla, il soggetto lirico, diviene limite, soglia, porta del mondo, margine di un continuo interscambio con un oltre che diviene pensabile ed esprimibile solo attraverso la morte. Quest’ultima non è l’ultima melodia dell’esistenza, «non [è] il nulla, ma l’unione reale di tutto ciò che era vivo, di tutto ciò che era esistente, non più per l’espressione, ma per il silenzio, non più per l’uomo, ma per tutti, non più per tutti, ma per sé, ma nell’universo. Questo era l’evidenza»[31]: un’immanenza che sovrasta[32], come la definirebbe Martin Heidegger. Le Clézio concepisce dunque una morte che gradualmente rende evidente la sua eterna presenza, ciò che è sempre stata e che esige di essere assunta anche quando la letteratura sembra illusoriamente edificare una realtà dalla quale sono escluse l’esperienza ingovernabile della vita e quella inaggirabile della morte: «questa idea di morte era ciò che c’era stato di più acuto nel godimento, […] era stato segreto e tuttavia l’avevano conosciuto tutti. […] In me, in ogni istante, c’era l’uomo morto»[33].

Uomo che hai distrutto ogni volta che io operavo, uomo che hai cancellato
ogni volta che scrivevo, non mi hai lasciato mai […] come un dio[34].

Quello che bisognerebbe fare per penetrare veramente il mistero della scrittura, scrive Le Clézio, è «scrivere fino ai limiti delle proprie forze. Pensare, e definire il pensiero con segni instancabilmente, fino a cadere addormentato, svenuto, morto»[35]. Tuttavia, analogamente a Sartre[36], egli è amaramente consapevole di essere, più che un testimone, un semplice spettatore: desidera agire piuttosto che testimoniare, desidera «scrivere, immaginare, sognare perché le sue parole, le sue invenzioni, i suoi sogni intervengano sulla realtà, cambino gli spiriti e i cuori, aprano la porta a un mondo migliore. E tuttavia, nello stesso istante, una voce gli sussurra all’orecchio che questo non si potrà fare, che le parole sono parole che il vento della società porta via, che i sogni non sono che delle chimere. […] La solitudine sarà il suo premio. Lo è sempre stato […] felicità contraddittoria, miscuglio di dolore e di piacere, un trionfo ridicolo, un male sordo e onnipresente, come una piccola musica assillante. Lo scrittore è l’essere che, meglio di ogni altro, sa come coltivare la pianta vitale e velenosa, quella che cresce solo sul suolo della sua impotenza. Egli vorrebbe parlare per tutti, per tutti i tempi: eccolo, eccola nella sua stanza, davanti allo specchio troppo bianco della pagina vuota, sotto il paralume che diffonde una luce segreta. Davanti allo schermo troppo vivo del suo computer, ad ascoltare il suono delle sue dita che battono sui tasti. È quella la sua foresta. Lo scrittore ne conosce fin troppo bene ogni sentiero. Se qualche volta qualche cosa se ne fugge, come un uccello che si leva in volo all’alba disturbato da un cane, lo è sotto il suo sguardo sbalordito – era a caso, era malgrado lui, malgrado lei»[37]. Dunque, prima di essere scrittore e lettore, l’autore sembra riconoscersi nella stessa natura del libro: quello scritto dalla lingua più privata, inconscia, straniera e che Jaques Lacan ha definito lalangue (la lingua primaria che ha sancito il singolare rapporto che esiste tra le parole e la propria memoria più antica, che ha perciò unito il significante al corpo: la «spina del corpo[38]»). Il neologismo coniato dal Lacan esprime perfettamente nel suo stesso suono l’impatto con il Verbo (lo stesso Verbo della Genesi). Fenomeno verbale e intellettivo, il primo è incarnato nel secondo e viceversa. Anche Sartre offre una mirabile visione dell’incarnazione della lingua nel corpo, della cristallizzazione della memoria antica della voce ormai indelebilmente sedimentata. In tal senso si può allora comprendere il significato del titolo Una vita è i suoi libri che Massimo Recalcati affida al suo testo (vi si è fatto riferimento in apertura). Egli stesso, d’altronde, sostiene che «dove c’è ancora un libro […] gli uomini restano ancora umani, dove c’è ancora un libro la vita resta ancora nel solco della Legge della parola»[39].


Conclusioni

Giunti al termine di questa breve ricerca si vogliono richiamare alla memoria gli interrogativi dai quali si è partiti, al fine di comprendere come da questi si sia brevemente sviluppata la riflessione che vi è seguita. L’accenno analitico sul significato originario della parola nella Parola ci ha interrogati su cosa voglia dire scrivere, cosa voglia dire leggere e quale sia il rapporto tra questi due processi. Giunti alla figura di Jean-Marie Gustave Le Clézio – rapportata in certe occasioni a quella di Jean-Paul Sartre (con il quale si sono riscontrate delle somiglianze espressive) -, la lettura di alcuni estratti dell’esperienza umana documentata dalla sua scrittura ha permesso di osservare come il peculiare rapporto con il linguaggio scritto, e la trasgressività delle sue forme, lo abbia avvicinato a tematiche quali l’assurdo, la fatalità, la ricerca di autenticità, la libertà, la noia, l’illusione, la nausea in quanto eccesso di esistenza (dove quest’ultima non è più categoria astratta, ma materia stessa delle cose).

Riflettendo sull’inesauribile rapporto che corre tra la parola letta, la parola scritta e le loro innumerevoli possibilità di significazione, l’intento del breve lavoro è quello di aver accompagnato l’osservazione di come la letteratura non solo faccia dell’identità un tema, ma giochi anche un ruolo significativo nella costruzione dell’identità dei lettori.

Fornire un’unica, definitiva e statica concezione di letteratura non è possibile, in nessun luogo e nessun tempo. Ciò significherebbe scegliere la via dell’appiattimento letterario, artistico e culturale; dunque, la strada verso una visione identitaria che cancella il modo in cui occhi unici, perché diversi, osservano, vivono, leggono e poi raccontano la propria storia. Molteplici, perciò, sono i valori di cui la letteratura è portatrice e certamente è proprio nella ricerca di questi e delle infinite Verità che ogni vita letteraria è in grado di custodire – trovando testimonianza e infiniti riflessi negli occhi di chi oggi dona, e domani donerà, voce a quella singolare esistenza -, che si pone la condizione essenziale per la sopravvivenza della Letteratura. Una futura ricerca potrebbe allora offrirne un’interpretazione di più ampio respiro; tuttavia, scopo ultimo del presente lavoro è omaggiarne l’originario significato etimologico della parola, nonché l’arte di leggere e scrivere[40]; significato che la personale ed attenta lettura prima de Les Mots e dopo de L’Extase matérielle ha potuto ritrovare tra le parole e l’essenza identitaria di Jean-Paul Sartre e di Jean-Marie Gustave Le Clézio.

                                 L’arte si raggiunge scrivendo, scrivendo per sé e per gli altri, senz’altra mira che quella di essere se stesso.
(Jean-Marie Gustave Le Clézio,
L’Extase matérielle)


[1] Gv 1,1-3.

[2] Gen. 1:3.

[3] Gv 1, 14-18.

[4] J.-P. Sartre, Les Mots (1963); trad. it. Le parole, a cura di L. de Nardis, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 41.

[5] Ivi, p. 27.

[6] J.-P. Sartre, A. Astruc, M. Contat, Sartre: un film, Gallimard, 1997, p.61.

[7] M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli, Milano 2020.

[8] Motivazione conferimento Premio Nobel per la Letteratura 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio (https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2008/summary/).

[9] J.-M. G. Le Clézio, L’extase matérielle (1967); trad. it. Estasi e materia, trad. it. M. Binazzi e M. Maglia (a cura di), Rizzoli, Milano 2019, pp. 10-15.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 9. 

[12] Ivi, p. 35.

[13] M. Heiddeger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p .24.

[14] J. -M. G- Le Clézio, op.cit., p. 91.

[15] Ivi, pp. 85-86.

[16] Ivi, p. 171.

[17] Ivi, p. 34.

[18] Ivi, p. 29.

[19] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 2, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[20] J.-P. Sartre, op.cit., p.109.

[21] J. -M. G. Le Clézio, op. cit., pp. 233-235.

[22] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p.3, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[23] Ivi, p. 85-86.

[24] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 8, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[25] J. -M. G. Le Clézio, op.cit. p. 112.

[26] Ivi, p. 108.

[27] Ivi, p. 255.

[28] Ivi, p. 101.

[29] Ivi, p. 255.

[30] Ivi, p. 236

[31] Ibidem.

[32] M. Heiddeger, op. cit., p. 305.

[33] J. -M. G. Le Clézio, op.cit., pp. 260-261.

[34] Ibidem.

[35] Ivi, p. 107.

[36] Se è vero che al Jean sans terre si sostituisce lo scrittore impegnato che legge nella propria vicenda personale il percorso di tutta una generazione di intellettuali, è altrettanto vero che egli non cerca la gloria per i suoi scritti poiché ciò che più gli interessa è la comunicazione che, attraverso i suoi libri, egli è in grado di instaurare. Sartre desidera che questi possano continuare ad essere letti anche a seguito della sua morte, ma è consapevole di come questo non dipenda unicamente dal suo impegno o dalla sua notorietà, bensì da quanto la società, in costante evoluzione, possa essere in grado di tutelarne la circolazione e la divulgazione.

[37] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 5, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[38] J. Lacan, La terza, in Psicoanalisi n. 12, Astrolabio, Roma1992, p. 24.

[39] M. Recalcati, op. cit., pag. 179.

[40] Vocabolario online Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/letteratura/ (ultima data di consultazione: 28/05/2023): [dal lat. litteratura, der. di littĕra e littĕrae, secondo il modello del gr. γραμματική (v. grammatica)]. – 1. In origine, l’arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi in genere cultura, dottrina. Oggi s’intende comunem. per letteratura l’insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici, o, pur non proponendoseli, li raggiungano comunque; e con sign. più astratto, l’attività intellettuale volta allo studio o all’analisi di tali opere.

Bibliografia

La Sacra Bibbia, CEI-UECI (a cura di), Roma 1974

M. Heiddeger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976

J.-P. Sartre, Les Mots (1963); trad. it. Le parole, L. de Nardis (a cura di), Il Saggiatore, Milano 1982

J.-P. Sartre, A. Astruc, M. Contat, Sartre: un film, Gallimard, 1997

M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli, Milano 2020

J.-M. G. Le Clézio, L’extase matérielle (1967); trad. it. Estasi e materia, trad. it. M. Binazzi e M. Maglia (a cura di), Rizzoli, Milano 2019

J. Lacan, La terza, in Psicoanalisi n. 12, Astrolabio, Roma1992

L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, trad. it. L. Mecacci (a cura di), Laterza, Urbino 2019

Sitografia

Motivazione conferimento Premio Nobel per la Letteratura 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio (https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2008/summary/)

Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf)

«Un itinerario lunghissimo, imprevedibile e assurdo»: una lettura cosmogonica de La tregua di P. Levi

Lezione del dott. Mattia Cravero (Università degli Studi di Torino) nell’ottica del corso Scritture delle origini. II. Dal Rinascimento a Leopardi, Letterature Comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La presentazione in .pdf è disponibile qui; per il video in differita è possibile utilizzare Webex o YouTube.

Corso di Laurea in Culture e Letterature del Mondo Moderno
Dipartimento di Studi Umanistici
Università degli Studi di Torino

Mattia Cravero (mattia.cravero@unito.it) è dottorando in Comparatistica (XXXIV° ciclo) presso l’Università degli Studi di Torino. Nel suo progetto di ricerca analizza i miti delle origini (letterari, biblici, scientifici e fantascientifici) presenti nell’opera di Primo Levi, a cui ha dedicato diversi saggi (tra cui «Acqua per cancellare / Acqua feroce sogno / Acqua impossibile per rifarsi mondo»: Primo Levi e tre casi di intertestualità, «Status Quaestionis», 2018; «Nel mondo delle cose che mutano»: racconto metaforico e mito metamorfico tra Ovidio e Primo Levi, in Innesti. Primo Levi e i libri altrui, a cura di R. Gordon e G. Cinelli, Peter Lang, Berna, 2020). Partecipa attivamente ai convegni universitari come organizzatore e come relatore; è membro della redazione e revisore in doppio cieco per «CoSMo». Oltre all’opera di Levi, si interessa di ricezione moderna e contemporanea del classico e di riscritture (Contro la guerra. L’Iliade riscritta da noi, con C. Lombardi, Mimesis-AlboVersorio, 2017).

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Amleto e Ofelia: due volti di una stessa follia

In questa sua composizione, Giulia Cearini intende rappresentare i personaggi di Amleto e Ofelia come un doppio l’uno dell’altro, specularmente, simili a due facce di una stessa medaglia. Si cercherà di avvalorare questa tesi compiendo un percorso, iniziando dall’analisi inerente l’impiego della follia in Shakespeare, analizzando il fool shakespeariano (spesso portatore di verità), passando poi per gli studi di Jaques Lacan relativi al concetto di desiderio, per giungere infine all’analisi della morte dei due personaggi, sinonimi e contrari fino alla fine, modelli della dualità uomo/donna al momento del loro abbandono della vita.

Giulia Amelia Cearini (giulia.cearini@edu.unito.it) studia Culture Moderne Comparate presso l’Università degli studi di Torino. Si è laureata in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo nell’a.a. 2016 con una tesi in Tecniche Audiovisive dal titolo “Oltre il muro: la metafora nelle animazioni di Gerald Scarfe per il film Pink Floyd The Wall”.

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This nothing’s more than matter
Laertes
Amleto, Atto IV, Scena 5

1. Amleto e Ofelia: «Il pazzo finto e la vera pazza»[1]

Nelle opere di Shakespeare figura ricorrente è quella del pazzo, il fool scespiriano, sicuramente  attinta da epoche antiche. Lo statuto della follia è stato fonte di numerosi dibattiti ed il suo progredire nella storia ha seguito una serie di mutamenti, oscillando tra due estremi: «in parte corruzione dell’anima, in parte profonda esperienza dello spirito, poiché solo attraverso la follia si può giungere ad esplorare l’estremo confine della natura umana»[2].  Lungi dall’addentrarci, in questa sede, in uno studio sulle origini del concetto di follia, risulta sicuramente emblematico il fatto che nel corso della storia il pazzo avesse una sorta di corsia preferenziale nella definizione della verità, come detentore di uno sguardo che, esulando dalla realtà, potesse scorgere la vera natura delle cose. Numerosi e disparati sono i personaggi folli che si possono ritrovare in Shakespeare, motivo per cui diviene necessaria una breve digressione etimologica a tal merito. Nel saggio di Vanna Gentili Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano[3] l’autrice compie una distinzione tra il Natural Fool, passivo, ovvero l’idiota per natura (vedasi i due becchini dell’ultimo atto di Amleto, definiti clown, nell’inglese antico bifolco ma anche buffone[4]) e l’attivo Artificial Fool, ossia «colui che professionalmente si finge idiota per divertire, per intrattenere oppure per smascherare la realtà nascosta dietro l’apparenza o la vera follia insita nella saggezza»[5] (esempio emblematico è il Matto che diventa alter ego di Re Lear[6]). Si passa così da «chi agisce a chi è agito»[7]. Questa distinzione è fondamentale per inserire Amleto nella categoria di Artificial Fool. Per esacerbare il marcio che ormai risiede in Danimarca Amleto sfrutta la recita della follia, penetra la realtà con l’immaginazione[8], inganna, intrappola, si fa regista dei suoi piani attraverso il mezzo della follia, che è solo simulata. Più che un folle lo potremmo definire un abile attore.

HAMLET:
That I essentially am not in madness, but mad in craft[9]

In merito a queste affermazioni quindi, Amleto è un finto pazzo che attraverso l’uso della follia cerca di far emergere verità che sono a lui già rivelate. La capacità di scrutare nelle pieghe menzognere dell’anima, avvicinandosi al ruolo del folle  incarnato in epoca greca, potrebbe essere invece attribuito a Ofelia, la vera pazza. La perdita della sua ragione non si riconduce solo alla perdita del padre (unico motivo, secondo Claudio, della sofferenza della giovane[10]) bensì, come possiamo evincere dai significati delle canzoni da lei cantate, solo apparentemente prive di senso, anche alla perdita del suo oggetto d’amore,  Amleto stesso.

OPHELIA
How should I your true love know
From another one?
By his cockle hat and staff,
And his sandal shoon[11]

Colei che è così profondamente legata ad Amleto è la prima vittima della sua finzione. Nella sua follia, priva di infingimenti, Ofelia, pur non ricercando la verità, è colei che della verità diventa testimone. Come nella definizione di Foucault nel suo intervento La follia e la società, Ofelia diventa personaggio portatore di verità ingenuo, come il buffone della corte medievale, che non per questo fa venir meno la sua ragione d’essere. La sua parola è «parola marginale: una parola che era sufficientemente importante da essere ascoltata, ma che era sufficientemente svalutata e disarmata da non avere nessuno degli effetti abituali della parola ordinaria»[12]. Amleto e Ofelia così «si confrontano e definiscono a vicenda»[13].

2. Il desiderio e la sua interpretazione: i desideri di Amleto e Ofelia a confronto

Nel seminario di Jaques Lacan Il desiderio e la sua interpretazione, Lacan si sofferma sulla definizione freudiana del rapporto tra Edipo e Amleto. La correlazione di questi due personaggi ci è nota ad oggi con questa definizione:

Nello stesso terreno dell’Edipo Re, si radica un’altra grande creazione tragica, l’Amleto di Shakespeare. Ma nella mutata elaborazione della medesima materia si rivela tutta la differenza nella vita psichica di due periodi di civiltà tanto distanti tra loro, il secolare progredire della rimozione nella vita affettiva dell’umanità. Nell’Edipo, l’infantile fantasia di desiderio che lo sorregge viene tratta alla luce e realizzata come nel sogno; nell’Amleto permane rimossa e veniamo a sapere della sua esistenza – in modo simile a quel che si verifica in una nevrosi – soltanto attraverso gli effetti inibitori che ne derivano. [14]

Punto di partenza per questa analisi è il concetto di desiderio: desiderio compiuto per Edipo, desiderio rimosso per Amleto. Laddove la tragedia dell’Edipo Re viene concepita come una ‘tragedia del destino’, per Amleto si definisce una ‘tragedia del desiderio’. Lacan completa così «la triade del complesso edipico con un quarto personaggio che è l’incarnazione dell’oggetto del desiderio della madre»[15]. Non più, quindi, il desiderio ‘per’ la madre come avviene nell’Edipo Re, ma il desiderio ‘della’ madre. La differenza essenziale tra animale e uomo risiede nel fatto che il primo ha bisogni, il secondo ha desideri. Il desiderio è quindi l’effetto di un meccanismo che umanizza l’essere vivente quando nasce e che attraversa un circuito: il bisogno del neonato, che necessita della cura dell’altro per la sopravvivenza, tendenzialmente la madre, e una richiesta ovvero «cosa desidera mia madre da me?». Identificandosi con la madre, il bambino assume il desiderio della madre come proprio. In quanto tale, secondo Lacan, il nostro desiderio è sempre e solo desiderio del desiderio dell’Altro. Una volta messo in chiaro questo concetto bisogna capire il motivo di indugio nell’uccidere lo zio secondo l’interpretazione lacaniana. Lo psicanalista dà due motivazioni che interpretano questa abulia: la prima è che Amleto rimane legato al desiderio di sua madre, la seconda è che quest’ultimo dipende sempre dal tempo altrui.

Amleto non riesce a staccarsi dal desiderio della madre, per seguire il proprio desiderio e agire in accordo con esso, e fa dipendere il proprio atto dal tempo degli altri. Il suo momento di autenticità, dice Lacan, è durante il funerale di Ofelia. Inizialmente era l’oggetto su cui trovava sostegno, dopo di che la identifica come la genitrice e in tal modo come veicolo di tutti i peccati, come la madre di Amleto.

Lacan spiega questo aspetto come la distruzione dell’oggetto che viene recuperato nel quadro narcisistico del soggetto. La voracità pulsionale della madre fa di lei un soggetto che trae godimento dal soddisfacimento diretto di un bisogno. Questo fa sentire Amleto come un oggetto di desiderio trascurato, secondo il modo in cui Lacan presenta i fatti nel suo decimo seminario. Inizialmente per Amleto l’oggetto di desiderio è Ofelia, non la madre. La perdita di Ofelia è necessaria perché Amleto si risvegli. Nel momento stesso in cui Ofelia diventa un oggetto impossibile, torna ad essere per Amleto l’oggetto di passione che gli permette di riprendere il proprio desiderio. ‘Sono io, Amleto il danese’, dice davanti alla sua tomba. Eccolo dunque come soggetto diviso di fronte al proprio oggetto “a”. Solo in questo modo può portare il lutto per la morte del padre.[16]

L’indecisione continua di Amleto viene rappresentata nel famoso monologo  «Essere o non essere? ». La ‘questio’ che qui si pone è agire o non agire? Vivere o morire? Accettare stoicamente le pene dell’animo umano o scegliere una via all’apparenza più dolce e semplice? L’indecisione è così forte che per un momento l’abbandono della vita è una soluzione rispetto a compiere l’omicidio che gli viene chiesto. Alla fine di questo monologo giunge proprio Ofelia, e la furia di Amleto si scatena su di lei. Un approccio drasticamente differente da quello delle dichiarazioni di tenero corteggiatore, di cui lei si ricorda bene «parole composte da un respiro così dolce da renderli più ricchi»[17]. E’ in questo momento che Ofelia perde il suo statuto di oggetto di desiderio e diventa il transfer rappresentativo della madre, che la sostituisce nell’immaginario inconscio di Amleto.

Questo è ciò che è riscontrato nella lunga trattazione di Lacan sulle Sette lezioni su Amleto. Nella seguente analisi tenterò di ribaltare i ruoli tra il protagonista e Ofelia, da un Amleto soggetto ad Amleto oggetto del desiderio. E’ possibile che la reazione violenta di quest’ultimo, proprio in seguito al suo colloquio con Ofelia all’inizio del Terzo Atto, sia l’origine della spaccatura del senno di Ofelia? Già in quel momento, la coscienza di lei subisce un trauma che porterà alla sua morte? Che la morte del padre Polonio sia solo un’ultima spinta a cadere nel lago, ma non il motivo stesso per cui lei si è arrampicata? Se alla fine della prima scena del Terzo Atto Ofelia non eseguisse solo un giudizio sulla perdita della ragione di Amleto ma l’anticipazione del suo futuro.

OPHELIA:
And I, of ladies most deject and wretched,
That sucked the honey of his music vows,
Now see that noble and most sovereign reason
Like sweet bells jangled, out of tune and harsh;
That unmatched form and feature of blown youth
Blasted with ecstasy. Oh, woe is me,
T’ have seen what I have seen, see what I see![18]

Sicuramente, in confronto ad Amleto, Ofelia è una creatura più fragile. Ad Amleto, a partire da Freud, non si nega la sua tempra, non è «una natura troppo pura, nobile, estremamente virtuosa, ma senza la forza d’animo che caratterizzava l’eroe»[19], come lo definisce Goethe. Il Principe di Danimarca è in grado di agire, uccidere, gli manca la capacità di compiere la vendetta ordinatagli dal padre per i motivi appena citati, ma nonostante il momento di debolezza del suo «Essere o non essere», decide di vivere. Forse Ofelia, invece, decide di mettere fine alla sua vita per  quel che Lancan definisce la logica della manque-à- être[20]. L’impossibilità di colmare quella mancanza a cui tutti, secondo Lacan, tendiamo è ciò che porta Ofelia a recidere la sua vita, diventando un soggetto patologico qualora le venga a mancare l’oggetto del desiderio.

In quanto manque-à- être, il soggetto è anche desiderio di raggiungere ciò che gli permetterebbe di essere, è aspirazione dell’essere che gli manca. Ecco che il soggetto è una mancanza a essere e, al tempo stesso, è desiderio di raggiungere/ricercare ciò che gli garantirebbe consistenza, ciò che, appunto, gli darebbe essere. Il soggetto è nella sua dimensione strutturata quando assume il suo desiderio come la cosa più propria che possiede, come la verità della sua vita. Questa incessante ricerca del soggetto verso l’essere di cui manca è destinata a non compiersi. Essa è votata all’infinito in quanto non esiste, secondo Lacan un oggetto di desiderio in grado di colmare il desiderio stesso. Il desiderio non si fa possedere dal soggetto, è erratico, lo trascende.[21]

Forse è stata la rimozione stessa dei desideri infantili ad impedire ad Amleto di compiere, alla fine del suo monologo, lo stesso atto che avrebbe poi compiuto Ofelia alla fine dell’opera. Il suo gesto estremo potrà compiersi solo dopo la morte e il funerale di Ofelia,  poiché tali avvenimenti introducono e collocano in primo piano la mancanza del sapere riguardo alla vita stessa e alla possibilità di padroneggiarla. Una mancanza che solamente adesso Amleto può assumere su di sé, svincolandosi da ogni calcolo e dalla ricerca di una garanzia ultima riguardo a ciò che deve compiere.

3. Le due morti a confronto: morte virile e morte femminea

Uno specchio è ciò che rivela un’immagine simile a quella reale ma al contempo rovesciata e distorta: quale opposto è più radicato nel genere umano che non l’opposizione tra uomo e donna? Un tutto e un uno al contempo.

La fine di Amleto avviene durante un duello, un incontro di spade, antico richiamo di scontro di virilità. La spada in sé è simbolo fallico e di forza. Il personaggio di Amleto però si può definire anche: «un soggetto liminare, principe tragico e buffone impertinente, vendicatore imperioso e inerte perdigiorno, campione di virilità dalle profonde rifrazioni femminili»[22]. Se il personaggio di Amleto è così polimorfo, è giusto attendersi che riponga in sé attributi sia maschili che femminili, a maggior riprova di campione universale.

Diverso è il discorso di Ofelia, la cui essenza è profondamente femminile, senza lasciare adito ad altre componenti. La sua morte, secondo il filosofo Gustave Bachelard, è il simbolo della morte femminile.

L’acqua è la patria sia delle ninfe viventi che delle ninfe morte. L’acqua è il vero elemento della morte femminile. Nella prima scena tra Amleto e Ofelia, Amleto – seguendo in ciò la regola della preparazione letteraria del suicidio – come se egli fosse un indovino che predice il destino, esce dalla sua profonda fantasticheria mormorando: «Ecco la bella Ofelia! Ninfa, nelle tue preghiere, ricordati di tutti i miei peccati» (Amleto, atto III, sc. 1). Da allora, Ofelia è destinata a morire per i peccati altrui, ella deve morire nel fiume, dolcemente, senza clamore[23]

L’acqua è elemento femminile perché riconduce alle acque del grembo materno, alle lacrime a cui l’emotività della donna ha più facile accesso. Sicuramente il tragico episodio del 1579, dove Katherine Hamlett, una giovane donna di Stratford (città natale di William Shakspeare) annega accidentalmente nel fiume Avon può avere ispirato la morte di Ofelia nel dramma, postulando il suo annegare nel lago come riconducibile a simbolo della maternità, vale a dire la chiave stessa del conflitto psicanalitico di cui abbiamo appena trattato. Amleto e Ofelia sono dunque i due opposti vertici di vita e morte di cui è costellato l’intero dramma. Si rispecchiano eternamente nelle comuni acque di una follia che è «Un nulla, che dice tutto»[24].


[1]Marenco. F, William Shakespeare – Tutte le Opere- Le Tragedie,  Bompiani, Firenze, 2018, p. 727

[2]Guidorizzi. G, Ai confini dell’anima – I greci e la follia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, p. 11

[3] Gentili. V, Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano, in Shakespeare e Jonson: il teatro elisabettiano oggi, Officina, Roma, 1979

[4] Marenco. F, op.cit, p. 2878

[5] Fagioli.A, Storia del fool, http://alessandrafagioli.com/storia-del-fool/

[6] Marenco. F, op.cit, p. 2878

[7] Fagioli.A, Storia del fool, http://alessandrafagioli.com/storia-del-fool/

[8] Marenco. F, op.cit, p.726

[9] “AMLETO: Che io non sono pazzo veramente, ma pazzo ad arte”,  Ivi. p. 918, Amleto, Atto III-Scena 4

[10] Ivi. p.2876

[11] “OFELIA:Come farei a riconoscere fra i tanti il mio vero amore?Dalla conchiglia sul cappello, dai sandali e bordone”, Ivi. p.936, Amleto, Atto IV, Scena 5

[12] Foucault. M, La follia e la società. 1978, in “Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 1978 –1985. Etica dell’esistenza, etica, politica”, a cura di Pandolfi A., Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 74

[13] Marenco. F, op.cit, pp. 727

[14] FREUD. S, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Boringhieri, Torino 1966, p. 271

[15] Lacan.J, A cura di Di Ciacca. A Il seminario – Libro VI Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi Editore, Torino, 2016

[16] Focchi.M, Psicoterapia,società, https://www.marcofocchi.com/di-cosa-si-parla/cosa-impedisce-lazione, 17 Giugno 2014

[17] Marenco. F, op.cit, Amleto Atto III, Scena I, p.860

[18] “OFELIA: E io, delle donne la più mesta e sventurata, che succhiavo il miele delle sue armoniose promesse, ora vedo quella nobile ragione sovrana dissonare come tante campane che rintoccano stonate, quella incomparabile forma e figura di fiorente giovinezza consumata dalla demenza. Misera me, aver visto ciò che ho visto, vedere ciò che vedo”, F.Marenco, op.cit,  p. 865, Atto III, Scena 1

[19] Goethe. J.W, Wilhelm Meisters Lehrjahre, 1795, vol.IV, cap.XIII

[20] “Le désire est un rapport d’ être à manque. Ce manque est manque d’ être. Ce n’est pas manque de ceci ou de cela, mais manque d’ être par quoi l’ être existe. L’ être vient à exister en fonction même de ce manque”, Lacan.J, Le Séminaire, Livre II, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, Seuil, Parigi, 1978, p.261

[21] Squeo. F, L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza, Bibliotheka Edizioni, Roma, 2017, p.22

[22] Marenco. F, op.cit, p. 727

[23] Bachelard. G, L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Libraire José Corti,Parigi, 1942, p.100

[24] Marenco. F, op.cit, Atto IV, Scena 5, p. 949

Bibliografia

Bachelard. G, (1942), L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière. Parigi, Libraire José Corti.

Fagioli.A, Storia del fool, http://alessandrafagioli.com/storia-del-fool/

Focchi.M, (2014) Psicoterapia,società, https://www.marcofocchi.com/di-cosa-si-parla/cosa-impedisce-lazione

Foucault. M, La follia e la società. (1978), in “Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Etica dell’esistenza, etica, politica”, a cura di Pandolfi A., Milano, Feltrinelli, 1998.

FREUD. S, (1966), L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Torino, Boringhieri.

Gentili. V, (1979), Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano, in Shakespeare e Jonson: il teatro elisabettiano oggi, Roma, Officina.

Goethe. J.W, (1795), Wilhelm Meisters Lehrjahre, vol. IV.

Guidorizzi. G, (2010),  Ai confini dell’anima – I greci e la follia, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Lacan.J, (1978), Le Séminaire, Livre II, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, Seuil, Parigi.

Lacan.J ,a cura di Di Ciacca.A,(2016),  Il seminario – Libro VI Il desiderio e la sua interpretazione, Torino, Einaudi Editore.

Shakespeare.W, a cura di Marenco. F, (2018), William Shakespeare – Tutte le Opere- Le Tragedie, Firenze, Bompiani.

Squeo. F, (2017), L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza, Roma, Bibliotheka Edizioni.

Don Leo e il bivio impossibile

Claudio Saleri, laureato in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo alla Cattolica di Brescia, ha frequentato il corso di Giornalismo a Stampa, Radiotelevisivo e Multimediale. È iscritto all’Albo dei Giornalisti Pubblicisti della Lombardia e collabora con il Giornale di Brescia. Frequenta il corso di Culture Moderne Comparate presso l’Università degli Studi di Torino.

In questo suo articolo si concentra sul topos di Ercole al bivio nella contemporaneità, passando per la figura amletica di Don Leo, protagonista di “Bruciare tutto” di Walter Siti.

*

La storia della letteratura è costellata da storie di amori impossibili. Le hanno raccontate Omero e Shakespeare, poi ancora Flaubert e Tolstoj; la lista è troppo lunga per essere riportata qui. Esiste poi un altro tipo di rapporti erotici che va oltre a quello dell’amore impossibile, ne supera l’immanenza; è quello in cui Eros e dannazione si intersecano fino a diventare un binomio inscindibile: come non pensare ad Inferno V, ad un amore che trascende le candide parvenze stilnovistiche e si configura come desiderio travolgente e divoratore, che non può che condurre i due inseparabili amanti all’eterna sofferenza. Nel celeberrimo trittico di terzine legato dall’anafora “amore” (Inferno V, vv. 100-108) questa connotazione della passione erotica è evidente, l’amore “al cor gentil ratto s’apprende”, non nasce da una scelta consapevole, “a nullo amato amar perdona”, si impossessa con violenza del “lago del cor” (Inferno I, v. 20),(1) della parte più profonda dell’essere umano, e non l’abbandona più.

Don Leo convive con il desiderio, cerca di resistervi per tutta la vita aggrappandosi alla fede in un Dio che ad un certo punto smetterà di rispondergli, e alla fine anche lui non potrà che rimanere consumato dall’amore per Andrea. Mentalmente, spiritualmente, e corporalmente; nell’ardore delle fiamme distruttrici (e purificatrici?). Walter Siti ha scelto di andare oltre gli amori impossibili per concentrarsi su un tabù, sposo della dannazione per eccellenza, specialmente oggi.(2) Ha scelto di parlare di pedofilia, ha voluto mettere il dito in una piaga ancora sanguinolenta per la Chiesa, che l’ha coperta di una macchia difficile da tergere. Una macchia che ha cominciato a prendere forma all’inizio del ventunesimo secolo, con un’inchiesta avviata dal Boston Globe.Quest’ultima ha segnato soltanto il primo passo di una presa di conoscenza da parte dell’opinione pubblica di un lato oscuro (e ben celato, per la verità) della Chiesa Cattolica, poi dimostratosi un fenomeno diffuso a livello mondiale, insinuatosi nelle molteplici diramazioni dell’istituzione ecclesiastica. Un cancro metastatico al punto da diventare uno dei cavalli di battaglia della propaganda anticlericale, oltre che oggetto di numerosi studi in ambito psicanalitico e non. C’è chi, come il filosofo e sociologo Slavoj Žižek, sostiene che la pedofilia sia iscritta nell’identità stessa della Santa Madre Chiesa. Secondo lui il fenomeno è impresso nel suo funzionamento come istituzione socio-simbolica, il che non riguarderebbe quindi l’inconscio privato degli individui, bensì quello dell’istituzione stessa, nella forma di un ritorno del rimosso sotto forma di perversione, causato dalla transvalutazione valoriale della negazione di ogni pratica sessuale nel corpo dei sacerdoti. Žižek attua un parallelismo con i riti sessualizzati del nonnismo nell’esercito, che proprio come la Chiesa si pronuncia pubblicamente contro i rapporti omoerotici, ma nei fatti ne garantisce la perpetuazione in nome di un accordo sociale non scritto.(3) Un’effettiva condanna di queste pratiche dovrebbe smuovere attivamente la regione sotterranea che le cela, invece vengono brutalmente attaccate e bollate come oscenità esterne all’istituzione.(4) Secondo Žižek è proprio l’atteggiamento difensivo adottato dalla Chiesa che conferma l’appartenenza dei crimini alla sua identità istituzionale: la tendenza a minimizzare e isolare i casi, a liquidare le accuse come scandalismo e propaganda anticattolica, le ritrattazioni condizionali.(5) Le posizioni adottate dai due attuali pontefici, ovvero il papa emerito Benedetto XVI e il successore Francesco, seppur differiscano per qualche sfumatura, sono accomunate da questa tendenza di fondo. Bergoglio scende dal podio e si unisce ai contestatori, invocando l’ira divina sui colpevoli;(6) Ratzinger invece sostiene apertamente la natura alloctona di questo male diffusosi nella Chiesa, stigmatizzandolo come figlio dell’esaltazione della libertà sessuale del Sessantotto, che avrebbe visto la nascita di lobby omosessuali nelle diocesi e nei seminari.(7)

Pierre Dalla Vigna si sofferma sull’interessante tematica dell’iconografia cattolica e della sessualizzazione delle opere d’arte, che ritroviamo a più riprese anche nel romanzo di Siti: don Leo ha una fobia per le immagini sacre che lo ha sempre portato a disprezzare la storia dell’arte, ha paura che i piccoli e paffuti corpi dipinti possano risvegliare i suoi appetiti sessuali:

[…] la sua ignoranza in storia dell’arte dipende dal fatto che temeva di incontrarne il corpo perfino dipinto. (Runge, magnifico ruffiano; Spierincks e il suo sileno nudo tra piccini anch’essi nudi che lo legano con tralci d’edera.)(8)

E ancora:

Leo non aveva anticorpi, per questo le lumeggiature dei putti dagli affreschi della cattedrale, e i residui di cromia sui pomelli delle guance negli altorilievi, furono liberi di germinare indisturbati. La storia dell’arte cominciò a fargli paura: la Camera degli sposi a Mantova da sotto in su, gli amorini con le frecce intorno a Venere Pandemia, una lotta di angioletti nelle pagine del Seicento bolognese. Li rivedeva la notte, a occhi e libri chiusi: i san Giovanni elastici che dimostravano dai tre ai dodici anni, come se il corpo non li avesse ancorati a questa terra.(9)

Dalla Vigna sottolinea il contrasto tra la severa condanna della sessualità al di fuori dall’ambito matrimoniale da parte della Chiesa e l’estrema libertà d’azione concessa agli artisti occidentali nelle rappresentazioni sacre, forse dovuta all’impossibilità di una rappresentazione autentica del divino. L’esempio paradigmatico ce lo offre tutta l’iconografia su san Sebastiano: nonostante sia divenuto martire in età matura, sin dal Quattrocento siamo abituati a vederlo rappresentato come un giovane seminudo legato a un palo, che sprigiona un erotismo inconfessabile.(10) Dopo Botticelli sarà Giovanni Antonio Bazzi ad accentuarne l’aspetto efebico, in Saraceni il santo è semisdraiato in evidente orgasmo, con una freccia all’inguine che arrossa il tessuto che copre la pudenda; ma l’elenco potrebbe continuare: da Perugino a Raffaello, da Rubens a Guido Reni e via dicendo.(11)

Don Leo conosce solo un modo per resistere al desiderio e (quindi) al peccato, ovvero avere fede in Dio, affidarsi a lui e invocarne la pietà e il perdono. Spesso nei suoi pensieri torna alla sua debolezza, alla sua inettitudine: senza un aiuto dall’alto si sente incapace di far fronte alle difficoltà della vita, alle insidie grottesche che spesso questa gli pone dinnanzi. Per ciò, quando Dio smette di rispondergli dall’alto dei cieli, l’unico atto di libertà che può compiere per resistere alla tentazione erotica è quello di sparire definitivamente, annientando la sua volontà, perché il desiderio fa parte di lui e non può reprimerlo, non con le sue forze almeno. Nonostante la suggestiva simbologia connessa all’immagine del fuoco, la morte di Leo ha poco di estetico, è soltanto l’unica alternativa che sente di avere quando capisce di non avere la forza interiore di vivere, quella forza che ha sempre cercato all’esterno e che poi gli viene improvvisamente a mancare. Non ha scelta, è come un treno che non può fermarsi e finisce inevitabilmente col deragliare. È il bandolo della matassa dopo Nietzsche, dopo che “Dio è morto”. Coloro che hanno sempre cercato Dio al di fuori di sé sono rimasti soli, in un universo stupido (e quindi anche crudele). È il buco nel cielo di carta pirandelliano, di cui parla Anselmo Paleari ne “Il fu Mattia Pascal”:

Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.»

«Non saprei» risposi, stringendomi ne le spalle.

«Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.»

«E perché?»

«Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.»(12)

Al netto della caduta dei “lanternoni”, della secolarizzazione, la sfida dell’Homo postmoderno è quella di trovare dei valori in cui credere in un orizzonte nichilista. Non volgendosi all’indietro, riutilizzando impropriamente i vecchi ideali ormai decostruiti, cercando di rimettere insieme i cocci, le macerie lasciate dalla storia; ma costruendone di “nuovi”, che pur nella loro relatività in quanto figli di un mondo in cui tutto è frammentato, abbiano un che di universale, non quello in cui tutti devono credere, ma quello in cui l’io deve credere.

La personalità di don Leo è un fragile castello di carte tenuto insieme dalla fede. Dopo che il cielo di carta si è bucato, dopo la morte di Dio, non può che arrivare il momento del to be or not to be. L’uomo creato dal Dio cristiano porta con sé l’immagine del suo creatore, sente in sé stesso l’ispirazione al comportamento orientato alla carità. Dio ha deciso di conferirgli la libertà di scegliere se compiersi come sua creatura o meno, allontanando la voce del male.(13) Il dovere permanente della Chiesa è quello di scrutare i segni dei tempi e dei luoghi nella storia che indicano la volontà di Dio. Tutto ha origine nel principio, nella Genesi: Dio sa ciò che è bene e ciò che è male, l’uomo no e gli è proibito di cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza. Lo Spirito Santo, terza persona della Trinità e dono tra i doni di Dio, è prima di tutto pneuma heghemonikón, ovvero “spirito che guida”. Il discernimento è la prima operazione dello Spirito nell’essere umano, è un dono che viene dall’alto e che si unisce all’anima del cristiano: come tale va quindi desiderato e invocato. Non è una virtù posseduta dall’uomo, ma un’elargizione dell’amore di Dio, l’uomo deve far sì che lo Spirito possa agire in lui, lasciandosi guidare.(14)

Dopo la morte di Dio allora? Come discernere tra il bene il male, tra la virtù e il vizio? Don Leo è il protagonista di una tragedia contemporanea, nell’eterna attesa di un Deus ex machina che non arriverà mai, come in Beckett. Nell’epoca postmoderna si è giunti all’aporia del topos di Ercole al bivio, ovvero di quel momento decisivo in cui l’eroe si trova a dover scegliere tra l’invitante strada del Vizio e quella impervia della Virtù, narrazione che da una favola moralistica del sofista Prodico è diventata un tema ricorrente nelle arti (si pensi alla tela di Annibale Carracci, o alle opere di Raffaello e Tiziano)(15). Don Leo sembra alle soglie di un bivio in cui è possibile distinguere tra il bene e il male. È il dramma del contemporaneo: Ercole, seppur tentato dai piaceri del vizio, sa distinguerlo dalla virtù ed è libero di scegliere quale strada intraprendere. Il protagonista di Siti invece, seppur cerchi di agire rettamente soffocando il desiderio, “provoca” la morte di Andrea, che non accetta il suo rifiuto e si uccide. Michela Marzano nella sua recensione per “Repubblica” critica aspramente l’autore per questa scelta:

Che cosa suggerisce allora Siti in Bruciare tutto? Che è meglio dannarsi l’anima facendo sesso con un bambino che istigare a un suicidio?(16)

Il punto forse non è questo. Il punto è che in un mondo dove Dio non c’è i confini tra il giusto e lo sbagliato sfumano nella “zona grigia”(17) di cui parlava Primo Levi; e a volte, i risvolti possono essere tragici.

Bauman fa un discorso simile, seppur restando sul piano dell’immanenza, e in “Modernità liquida”cita una versione apocrifa di Lion Feuchtwanger dell’episodio dell’Odissea in cui Ulisse restituisce le sembianze umane ai marinai trasformati in porci dalla maga Circe. Elpenore, il primo a tornare umano, inveisce così contro il suo salvatore:

Vuoi tornare ad affliggerci e tormentarci, desideri ancora esporre i nostri corpi ai pericoli e costringere i nostri cuori a prendere sempre nuove decisioni? Com’ero felice; potevo sguazzare nel fango e crogiolarmi al sole; potevo trangugiare e ingozzarmi, grugnire e stridere, ed ero libero da pensieri e dubbi.(18)

L’età moderna ha invocato a gran voce la libertà, ma ben presto ci si è accorti che la coercizione sociale è la forza emancipatrice e la sola speranza di libertà che risparmi una “perpetua agonia di indecisione correlata a uno stato di incertezza”(19). I modelli imposti dalle pressioni sociali risparmiano la fatica di assumersi responsabilità e sostenere pressioni. Non solo non c’è contraddizione tra dipendenza e liberazione, ma la seconda, nella visione di Bauman, non esiste senza la prima. “Le regole possono dare o sottrarre autorità; l’anomia ha un effetto esclusivamente esautorante”.(20)

Quando però ogni speranza di totalità svanisce, con la modernità liquida, l’essere umano non è più caratterizzato (come in passato) dalla società, l’agenda dell’emancipazione è stata estinta e i grandi valori veicolati dalle istituzioni hanno perso il loro potere.

Note


(1) D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di G. Petrocchi, Bur, Milano 1989.

(2) W. Siti, Bruciare tutto, Bur, Milano 2017.

(3) S. Žižek, Pedofilia. Il segreto sessuale della Chiesa, Mimesis, Milano 2019, p.69.

(4) Ibidem, p. 75.

(5) Ibidem, p. 52.

(6) Francesco, benedetto XVI, Non fate male a uno solo di questi piccoli. La voce di Pietro contro la pedofilia, Cantagalli, Siena 2019, p. 102.

(7) Ibidem, pp. 33-58.

(8) Siti, Bruciare tutto, p. 172.

(9) Ibidem, p. 175.

(10) Žižek, Pedofilia, p. 29.

(11) Ibidem, pp. 31-32.

(12) L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a cura di Campailla Sergio, Newton Compton Editori, Roma 2015, p. 132.

(13) E. Bianchi, L’arte di scegliere, San Paolo, Milano 2018, pp. 15-16.

(14) Ibidem, pp. 45-48.

(15) E. Panofsky, Ercole al bivio e altri materiali iconografici dell’Antichità tornati in vita nell’età moderna, a cura di Ferrando Monica, Quaderni Quodlibet, Quodlibet, 2010.

(16) https://www.repubblica.it/cultura/2017/04/13/news/pedofilia_walter_siti-162874167/

(17) P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007, p. 24.

(18) Z. Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2011, p. 6.

(19) Ibidem, p. 9.

(20) Ivi.

Bibliografia

Alighieri Dante, La Divina Commedia, a cura di Petrocchi Giorgio, Bur, Milano 1989.

Bauman zygmunt, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2011.

Bianchi Enzo, L’arte di scegliere, San Paolo, Milano 2018.

Francesco, benedetto XVI, Non fate male a uno solo di questi piccoli. La voce di Pietro contro la pedofilia, Cantagalli, Siena 2019.

Levi Primo, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007.

Panofsky Erwin, Ercole al bivio e altri materiali iconografici dell’Antichità tornati in vita nell’età moderna, a cura di Ferrando Monica, Quaderni Quodlibet, Quodlibet, 2010.

Pirandello Luigi, Il fu mattia Pascal, a cura di Campailla Sergio, Newton Compton Editori, Roma 2015.

Siti Walter, Bruciare Tutto, Bur, Milano 2017.

Slavoj Zizek, Pedofilia. Il segreto sessuale della Chiesa, Mimesis, Milano 2019.

Sitografia

https://www.repubblica.it/cultura/2017/04/13/news/pedofilia_walter_siti-162874167/

Un mondo a rischio incendio. Gli incendiati di Antonio Moresco come una nuova forma di mitologia moderna

Luca Piscioneri studia Culture Moderne Comparate presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureato in Culture e Letterature del Mondo Moderno nell’a.a 2018-2019 con una tesi in Letteratura Italiana, legata all’ambito della critica letteraria, dal titolo Le letture politiche della Mandragola di Machiavelli: storia di un’interpretazione.

Il presente lavoro contiene una lettura critica del romanzo Gli incendiati di Antonio Moresco coerente con le linee di ricerca emerse durante il corso di Letterature Comparate (a.a. 2019-2020) della professoressa Chiara Lombardi. Passando in rassegna i temi del fuoco, del bruciare, del viaggio e della fuga dalla schiavitù, fortemente presenti nel romanzo, la lettura che Piscioneri propone de Gli incendiati di Moresco argomenta attraverso alcuni contributi critici, sulla semiotica della città e sulla funzione del mito secondo Wu Ming, come sia possibile individuare il messaggio complessivo dell’opera e le sue forti implicazioni nella società attuale, arrivando a suggerire che si possa interpretare il testo come una sorta di nuova forma di mito moderno.

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È difficile proporre un’interpretazione de Gli incendiati di Antonio Moresco senza analizzare il tema del fuoco e senza chiedersi quale sia il suo significato all’interno del romanzo. Quella del fuoco, infatti, è una presenza praticamente costante nell’immaginario di Moresco e il romanzo in questione non è un’eccezione[1]. Consapevoli di ciò, volendo tentare di descrivere il mondo rappresentato all’interno dell’opera, non si potrebbe fare a meno di aprire il discorso con alcune riflessioni in merito al tema dell’incendio introdotto sin dal titolo.

Se il titolo Gli incendiati implica un’azione compiuta, il mondo descritto nel romanzo è, al contrario, un mondo in compimento o, per meglio dire, che ancora deve compiersi. Perciò, per descriverlo, si potrebbero ragionevolmente usare gli stessi aggettivi che definiscono i possibili stati di vita del fuoco: spento e domato. Seguendo questo parallelo, per via della differenza dall’immagine in atto offerta dal titolo, in cui è evocata l’idea del fuoco acceso, il mondo descritto nel romanzo appare invece spento perché non è ancora incendiato oppure domato perché non è più incendiato.

In questo modo, il mondo descritto all’interno dell’opera risulta dunque connotato da un aspetto disforico, mentre il fuoco appare come una forza misteriosa che non possiede soltanto proprietà negative, bensì anche aspetti euforici. Infatti, al contrario di quanto vorrebbe l’immaginario comune, il particolare fuoco in questione non destabilizza soltanto nell’accezione negativa legata alla sua pericolosità, ma, essendo connotato positivamente e data l’aura vagamente vivificante con cui è descritto, destabilizza anche in un modo positivo. Cioè, oltre ad essere in grado di distruggere, è anche una forza in grado di generare.

Alla luce di quanto introdotto, si può dunque sostenere che, per questa sua natura ambigua, il fuoco descritto da Moresco appaia come il motore della storia raccontata nel suo romanzo. Data la sua centralità, il presente lavoro propone di analizzare l’immagine del “bruciare” al fine di tentare così l’individuazione del significato complessivo dell’opera e, per far ciò, verrà proposto di considerare l’immagine dell’incendio, specialmente per via della sua capacità di generare cambiamento e di essere così motore della storia, in relazione all’idea di mondo spento o domato descritta nel romanzo.

1. Il fuoco e l’avventura

Data la loro ambigua natura, le fiamme descritte da Moresco, proprio per via della sensazione di totale incertezza che pongono in essere nel romanzo, sono in grado di creare un stato di eccezione capace di innescare il processo che arriva a sovvertire l’ordine vigente, o per meglio dire, data la rappresentazione fortemente disforica dello scenario, il disordinevigente. Questo particolare stato d’eccezione che permette il realizzarsi delle condizioni da cui scaturiscono gli eventi nella trama lo si potrebbe chiamare avventura; così, si potrebbe dire che nel romanzo di Moresco l’avventura è generata dall’incendio.

Infatti, è proprio l’incendio a far sì che si realizzi il primo vero incontro del protagonista con la donna dai denti d’oro e, ad avvalorare l’idea di incendio come mezzo in grado di mettere in movimento la narrazione, si scopre leggendo che è proprio la stessa donna dai denti d’oro ad averlo appiccato volontariamente per conoscere il protagonista[2]. In generale, si può vedere che il fuoco è presente sotto forma di incendio dilagante in tutti i momenti di svolta della narrazione, ossia in quei momenti dove la trama segue un percorso e ne abbandona irreversibilmente un altro.

Per esempio, lo si può vedere anche in occasione del sogno in cui si realizza l’onirica prima notte di passione carnale fra i due protagonisti, dove l’incendio circonda i due amanti e fa da sfondo alla descrizione del loro pornografico amplesso; a seguito di quel sogno, l’ossessiva ricerca della donna dai denti d’oro da parte del protagonista maschile sembra suggerire l’irreversibilità del ritorno alla vita com’era prima dell’incendio che li ha fatti incontrare.

Tuttavia, il punto cruciale in cui il manifestarsi dell’incendio rappresenta maggiormente l’impossibilità di ritorno allo stato di cose precedente è quanto accade a seguito dell’esplosione della villa del Cacciatore di schiavi. In questa scena, il fuoco dell’esplosione creata dai due protagonisti, proprio perché innesca la loro immediata fuga in auto dalle labirintiche strade della città di notte e fa da preludio alla loro uccisione da parte dei mercenari del Cacciatore, può essere visto come emblema del processo inarrestabile e irreversibile della loro storia.

Alla luce di quanto detto sin ora, si è tentati di dire che in Moresco tutte le idee legate all’immagine del fuoco, quali l’idea di luce, di calore, di caos e persino di distruzione, siano indistintamente disegnate con tinte positive; tuttavia è necessaria una precisazione. La positività in questione non è riconducibile ai risultati che l’incendio ha posto in essere una volta terminato, bensì è una caratteristica intrinseca dell’incendio stesso inteso come processo in divenire. In sostanza, il positivo del fuoco di Moresco non è legato a ciò che resta dopo l’incendio, bensì  al bruciare dell’incendio in atto: allo stato di incertezza che sblocca la stasi e innesca l’avventura. Avventura che perciò sarà da intendere col significato di “ciò che accadrà” derivante dal latinismo adventura[3].

2. Il fuoco, la materia umana e la Storia

Per tutta la parte in cui i protagonisti sono in vita, nel romanzo non compare l’idea di nessun avvenire; la massa di esseri umani che viene descritta dalla voce narrante dell’eroe appare bloccata in uno stallo, una sorta di veglia incosciente che la fa apparire al lettore semplicemente come materia organica ambulante: materia sì vivente, ma di una vita vuota, una vita che si potrebbe definire non-vita. Gli individui descritti sono materia senza forma, la loro esistenza si trascina dunque senza un senso in un infinito presente senza passato e senza prospettiva futura. All’idea di materia senza forma e di condizione di vita senza finalità è collegato il tema schiavitù, prepotentemente presente nel romanzo.

Presentato al lettore attraverso l’ambigua figura della protagonista femminile, la donna circassa dai denti d’oro, il tema della schiavitù porta all’estremo l’idea di una  condizione umana intesa come vita-non-vita che caratterizza la società descritta nel romanzo. Sembra di poter dire che per Moresco, gli schiavi — uomini o donne che siano; caratterizzati dalla trasgressione estrema come quelli descritti nella villa del Cacciatore o dalla nullità più quieta come quelli “addormentati” della città o della località di mare —   rappresentino l’assenza di forma per antonomasia: sono dunque solo materia informe e praticamente inanimata, per di più neanche libera. Tuttavia, nel romanzo di Moresco, un modo di dare forma alla materia esiste ed è proprio su questo punto che sembra vertere tutto il peso del messaggio comunicato dal romanzo. La forma ha origine quasi casualmente, ma necessariamente, dal contatto fra due materie umane informi compatibili fra loro: dall’incontro del protagonista maschile e della protagonista femminile.

I due eroi, come due reagenti chimici compatibili, come il combustibile e l’aria comburente, reagiscono esattamente come in una reazione chimica. Proprio come nasce il fuoco, da due materie senza forma scaturisce una forma compiuta che è viva. La loro unione nel finale del libro, mistica unione di due anime vive contenute nella materia dei loro corpi uccisi, innesca un vero e proprio nuovo Big Bang che fa nascere una  nuova stella.

In sintesi, per via della sua essenza descritta all’inizio, ossia per il suo essere motore di storie, generatore di avventura e per le idee di processo e di divenire che evoca, il fuoco appare con le stesse caratteristiche di una reazione chimica. Del resto, il fuoco è una reazione chimica e, in quanto tale, innesca un processo che è in grado di generare qualcosa (fiamma, luce, calore, anidride carbonica, una stella!) partendo da qualcos’altro: la materia.

Il fuoco di Moresco, secondo la visione proposta, sembra dunque in grado di donare forma e vera vita alla materia umana informe che vita autentica non ha. È dunque un fuoco simbolico che accende ciò che è spento o che è stato domato e che, se distrugge, rimescola l’ordine — o il disordine­— del mondo. Le persone schiave e “addormentate” non si avvedono del suo incedere inesorabile, o, nel raro caso in cui se ne avvedano, non sono in grado di coglierne il senso e si limitano ad osservarlo incedere senza fare nulla e senza capire.

Sembra proprio questo il punto centrale del rapporto tra fuoco, uomini-schiavi e storia, in cui emerge la metafora de Gli incendiati di Moresco.

Se il fuoco rappresenta la storia, il suo bruciare è così lento da sembrare un rogo immobile e circoscritto. A prima vista, appare quasi come se fosse inesistente — “è solo un fuoco” sembra dire chi lo vede — ma, in realtà, il suo espandersi è costante e inarrestabile, talmente dilagante che arriva inevitabilmente a raggiungere le dimensioni dell’incendio. Per via della sua luce che quasi trasforma la notte in giorno e del suo tangibile calore, solo allora risulta evidente ed enorme. Solo a quel punto gli schiavi e la gente “addormentata” se ne avvedono e non possono fare altro che svegliarsi di colpo in preda al panico. Così, inevitabilmente, la folla reagirà come se il fuoco, che ormai è incendio, fosse apparso solo in quel momento. Cioè reagirà in maniera convulsa e incontrollata, totalmente in balia di quello stato di eccezione dato dalla consapevolezza di essere completamente impotenti di fronte alla forza distruttiva dell’incendio, che spezza così tutte le certezze, la routine e l’ordine — o il disordine — costituiti. Tuttavia, come si è detto, oltre a questa capacità distruttiva, il fuoco manifesta anche delle possibilità.

Per via della sua natura ancipite, che danneggia ma allo stesso tempo offre possibilità, sembra che l’immagine del fuoco di Moresco possa essere interpretabile come metafora della Storia. Infatti, la Storia, come la il fuoco, nel suo manifestarsi sotto forma di evento traumatico, risveglia i sensi dei corpi che in precedenza apparivano solo involucri vuoti e li pone di fronte ad un imprecisato avvenire. Per questo, in quanto stato di incertezza tra i più evidenti, l’incendio, nell’opera di Moresco, è osservabile in senso lato come l’emblema di ogni evento storico sovversivo dell’ordine vigente, ma, proprio per questo, appare anche foriero di possibilità in precedenza irrealizzabili.

È proprio qui, a mio parere, che si trova l’elemento positivo del romanzo; viene paradossalmente proposta in contrapposizione alla distruzione simboleggiata dall’incendio, la forza dell’incendio stesso, ma vista da un’altra prospettiva, ossia come forza purificatrice e vivificante.

Ne Gli incendiati, l’incendio-Storia appare così caratterizzato da una doppia connotazione, una disforica e una, molto meno evidente, ma non meno presente e importante, assolutamente euforica. Se si considera il fuoco di Moresco come metafora della Storia, si potrebbe dunque dire, riprendendo l’idea nietzschiana, che la Storia possa influire nelle alterne vicende degli uomini e del mondo sia in quanto danno e sia in quanto utile.

Alla luce di quanto osservato sin qui e procedendo verso la conclusione della trattazione, si può  finalmente riflettere su come interpretare questo potere distruttivo e allo stesso tempo generativo del fuoco-Storia all’interno della vicenda narrata da Moresco.

3. Il viaggio di nozze e l’apologia del nomadismo

Una letteratura che vuole essere specchio del suo tempo non può non tenere conto della polverizzazione del contesto che cerca di riflettere, non può astenersi dal rispettare la natura confusamente mosaicata dell’immagine che tenta di riproporre. È pertanto necessario che la letteratura sfidi apertamente il paradosso di […] affrontare la compiuta rappresentazione di una società incompiuta.[4]

Con queste parole di Pasquale La Forgia sembra essere descritto proprio l’obiettivo della scrittura di Moresco: “la compiuta rappresentazione di una società incompiuta”[5]. Ne Gli incendiati,infatti, si viene a contatto con un mondo illeggibile, un mondo estremamente organizzato, addirittura ordinato si potrebbe dire, ma retto da un ordine invisibile di cui non si riesce a cogliere il senso. Il mondo descritto da Moresco appare costituito da uno spazio prevalentemente cittadino, in cui le strade, gli incroci, gli edifici, danno un senso di reclusione in un labirinto senza uscita o, date le dimensioni annichilenti dello spazio urbano, dall’uscita lontanissima. Risulta particolarmente significativo il fatto che la coppia di eroi riesca ad uscire da questo labirintico mondo cittadino soltanto dopo aver trovato la morte nella sparatoria contro i soldati del Cacciatore di schiavi. Così, dopo la loro morte, una volta entrati nella loro nuova forma di vita — che nel testo appare provocatoriamente più viva rispetto alla precedente vita-non-vita — i due personaggi iniziano il loro simbolico viaggio di nozze.

La descrizione del mondo labirintico in cui viaggiano appare definibile secondo l’interpretazione semiotica dell’idea di città proposto da Guido Ferraro, secondo cui

“città” è un territorio strappato al dato naturale, proiezione di un volere progettuale, punto di arrivo di un percorso di generazione culturale, sicché “città” sarebbe il punto di arrivo di un progetto continuamente in corso e continuamente ridefinito. Perché in definitiva l’obiettivo di questo progetto è il mantenimento — magari anche finzionale, illusorio, ingannevole se vogliamo — di una bengodi della virtualità: lo spazio del possibile, dell’incrocio tra tutte le identità e tutti i linguaggi, fra tutte le prospettive e tutti i programmi di vita.[6]

La trama de Gli incendiati sembra essere stata costruita da Moresco al fine di evidenziare proprio l’aspetto “finzionale, illusorio, ingannevole” che, come ha spiegato Ferraro, è legato all’idea di vedere nel mondo “lo spazio del possibile” o “una bengodi della virtualità”. Con la loro epopea, i due eroi moreschiani, in lotta contro il mondo dei “vivi”, sembrano voler dire che la modernità, simboleggiata dallo spazio urbanizzato, ossia “lo spazio del possibile”, sia al contrario lo spazio dell’impossibile dove l’uomo è privato della sua singola identità, del linguaggio, delle prospettive e dei programmi di vita. Nella visione di Moresco, l’uomo moderno è dunque ridotto in schiavitù e secondo l’interpretazione proposta all’inizio del presente lavoro, è spento o domato. Alla luce di questa lettura dell’opera, si può proporre di vedere Gli incendiati di Morescocome una sorta di epopea o cosmogonia moderna.

Come sostiene Massimo Leone, “se si concepisce la città come un testo, passibile di continue scritture e riscritture, allora è lecito chiedersi se questo testo possa essere cancellato, e in che modo”[7]. Le modalità con cui nelle narrazioni viene descritta la cancellazione di una realtà urbana proposte da Leone sono: la profezia catastrofica, che “enuncia in un tempo futuro la cancellazione di una città presente, configurandosi, dunque, come racconto immaginario” e il resoconto del sopravvissuto, che “enuncia in un tempo passato, o in un presente storico, la cancellazione di una città passata o, per meglio dire, il tentativo di questa cancellazione”[8]. Ma non solo, Leone prosegue la sua trattazione sostenendo che ci sono altre due modalità; modalità che alla luce di quanto proposto nel presente lavoro sembrano essere più adatte ad identificare il tipo di narrazione de Gli incendiati.

L’annientamento del senso di un testo urbano può essere anche osservato e rappresentato secondo una prospettiva diametralmente opposta, che in un certo senso parteggi a favore dell’attante distruttore contro la città distrutta. Al pari della prima macro–categoria — quella che comprendeva profezie catastrofiche e resoconti del sopravvissuto — anche questa seconda può essere articolata in diversi tipi di testi; due sembrano meritare una particolare attenzione; li si potrebbe denominare “epopea di annichilimento” e “apologo del nomade”.[9]

Secondo questa proposta, si potrebbe rubricare Gli incendiati nel novero di queste particolari narrazioni identificate con le etichette di “epopea di annichilimento” e di “apologo del nomade”. In particolare, interpretando il viaggio di nozze dei due protagonisti come reazione contro il mondo labirintico e contro la condizione di vita-non-vita descritti nel romanzo di Moresco, l’etichetta più opportuna per identificare Gli incendiati appare  proprio quella di apologo del nomade, o meglio, apologo dei due nomadi. In sintesi, “l’annientamento del senso di un testo urbano è osservato e rappresentato dall’esterno non solo nelle epopee di conquista ma anche, […], in testi e racconti che, pur posizionando il proprio punto di vista al di là dei confini della semiosfera urbana, non esprimono una logica di conquista bensì un diverso atteggiamento culturale verso la città, qui denominato “apologo del nomade”“[10].

Sembra quindi di poter affermare che il viaggio di nozze dei due eroi moreschiani — viaggio che, come si è detto, può avere inizio soltanto nel momento in cui i due protagonisti vengono paradossalmente risvegliati dalla vita attraverso la loro morte — esemplifica proprio questa idea di “diverso atteggiamento culturale verso la città” e, si potrebbe anche aggiungere, verso l’obnubilante società in generale che caratterizza la modernità. In particolare, l’apologia del nomadismo evocata dal loro viaggio di nozze, specialmente nell’ultima parte del romanzo, diventa un atto sovversivo contro l’idea di città e di società descritte da Moresco e culminerà nel finale con la metafora del fuoco scaturito dall’incontro delle due materie umane dei due eroi. Nell’ultima pagina, infatti, si creano le condizioni ideali per il compimento della reazione chimica descritta in precedenza e può così avvenire l’estrema combustione da cui nasce la stella, simbolo positivo di un nuovo corso.

4. Conclusioni: una nuova forma di mito

Alla luce di queste proposte critiche, il fatto che Moresco non ancori le vicende che descrive al realismo, preferendo una costruzione della trama che volutamente non offre richiami chiari al mondo reale, ma che tuttavia, nonostante ciò, riesce efficacemente ad evocare, sembra permettere di sostenere che il romanzo Gli incendiati abbia un ché del mito. In particolare, per via del loro particolare stile, “quello che sembrano suggerire le opere di Moresco […] è che, al di là della contrapposizione fra una solidità romanzesca orientata al puro artificio finzionale e una comoda frammentazione narrativa che sa di scorciatoia, si estende un ampio e squassato territorio di scritture impure e ibridate, ma non per questo friabili o impersonali, che potrebbero rappresentare una stimolante alternativa, per chi oggi volesse tornare a misurare la propria scrittura con le imprevedibili mutazioni di un’Italia (e di un mondo) ancora in gran parte da raccontare”[11].

Con la sua scrittura Moresco offre un’idea di letteratura che sembra avvicinarsi molto a quella del collettivo bolognese Wu Ming.

Come riassume Stefano Giovannuzzi, nella posizione teorica del collettivo,

L’appello ai fatti e alla realtà non è infatti sufficiente, non garantisce nulla. Oltre che fuori della portata dei più, i fatti e i documenti in quanto tali sono inerti: non parlano, e dunque non esistono, se non vengono collocati in un racconto che dia loro senso. Ed è questo il passaggio critico: se le narrazioni sistemano i dati in una prospettiva, l’uso più o meno legittimo, a volte del tutto fraudolento, che di esse si può fare riguarda molti, produce a getto continuo un immaginario che si sostituisce alla realtà e ne orienta la percezione[12].

Sembra che a questo “immaginario che si sostituisce alla realtà e ne orienta la percezione” si possa associare tutta l’ideologia del potere e del possesso rappresentati dal Cacciatore di schiavi e dal tema della schiavitù trattati nel romanzo.

E se il discorso del potere (qualunque forma assuma) usa le narrazioni per alimentare l’immaginario bloccandolo entro paradigmi conformisti e totalitari, la finzione letteraria può rientrare in gioco per sbloccare l’orizzonte dell’immaginario, producendo narrazioni che disarticolano il processo di monumentalizzazione della storia e aprono il varco alla possibilità di una storia critica. Ciò non cambia la storia, ma ne modifica l’unilateralità della lettura e il conformismo in costruzioni aperte e continuamente modificabili dalla comunità dei lettori.[13]

Gli incendiati di Moresco, in ultima battuta, sembra costituire una grande allegoria proprio di come “la finzione letteraria può rientrare in gioco per sbloccare l’orizzonte dell’immaginario” e di come il narrare la Storia o le storie — elaborate partendo da fatti reali o costituite da elementi fantastici — possa modificare “l’unilateralità della lettura e il conformismo”[14], del mondo spento o domato, “in costruzioni aperte e continuamente modificabili dalla comunità dei lettori”[15].

L’operazione che Moresco ha voluto proporre con Gli incendiati sembra dunque molto simile, specialmente a livello di intenti, a quella di Wu Ming; Moresco infatti, come Wu Ming, “non presume di rappresentare la verità, ma di offrire una prospettiva che mette in crisi l’omologazione, i luoghi comuni, le narrazioni e le mitologie che si sono solidificate nel tempo”[16]. Viene realizzata così, “un’operazione che coinvolge il lettore, che gli impone un ruolo attivo nel ripensare la storia e, come in un cortocircuito, quello che siamo oggi”[17].

Alla luce dell’idea di fuoco, di storia, di narrazione e di mondo trattate nel presente lavoro, se si accetta la funzione che Wu Ming attribuisce al mito, ossia “permettere al singolo e all’umanità di attraversare la perdita del senso, verso la catarsi che darà inizio a un nuovo ciclo”[18], appare possibile sostenere che Moresco abbia reso i suoi eroi protagonisti di una sorta di nuovo mito moderno. Un mito moderno che, diversamente dal mito classico proiettato verso un passato remoto, appare invece proiettato verso una dimensione postuma in un imprecisato avvenire.

Bibliografia

Guido Ferraro, Oltre l’idea di città, in La città come testo: Scritture e riscritture urbane, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma, 2008, pp. 215-223.

Stefano Giovannuzzi, Realismo e letteratura: dalla parte di Wu Ming, in “Comparative Studies in Modernism”, n. 9, 2016, pp. 45-53.

Pasquale La Forgia, Apocalissi nostrane: la critica italiana e la tentazione della fine, in “Studi Novecenteschi”, Vol. 30, No. 66, pp. 305-355.

Massimo Leone, Signatim: Profili di semiotica della cultura, Aracne, Roma, 2015

Wu Ming 1, Breckenridge e il continuum, in Wu Ming, Giap!, a cura di Tommaso De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2003, pp. 16-18.

Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori, Milano, 2010.


[1] “Carla Benedetti – a tutt’oggi il critico letterario che ha dedicato a questo autore maggiore attenzione e che più di ogni altro ha contributo a far conoscere la sua opera, fornendone inoltre delle indispensabili chiavi di lettura – insiste dunque sul carattere “incendiario” dei Canti del caos e il discorso si può senz’altro estendere all’intero immaginario moreschiano. Non a caso, il volume che contiene i due pamphlet anticalviniani s’intitola Il vulcano e Gli incendiati è il titolo di un suo recente romanzo (Moresco 2010); va sottolineata, inoltre, la forte presenza dell’immagine del fuoco, sia nella sua narrativa che nella sua saggistica (nei casi in cui sia possibile distinguere un genere dall’altro); e termini afferenti allo stesso campo semantico popolano il suo linguaggio: in particolare, il verbo “esplodere” e l’aggettivo “esploso” vantano un altissimo numero di occorrenze” (Beniamino Mirisola, Lezioni di caos: Forme della leggerezza tra Calvino, Nietzsche e Moresco, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2015, p. 73).

[2] “Perché hai incendiato la costa?” ho provato a dirle, perché avevo sempre in mente l’immagine del suo volto come l’avevo visto la prima volta nel buio, illuminato dal bagliore del fuoco.

“Perché volevo bruciare con te!” (Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori, Milano, 2010, p. 58).

[3] Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/avventura/

[4] Pasquale La Forgia, Apocalissi nostrane: la critica italiana e la tentazione della fine, in “Studi Novecenteschi”, Vol. 30, N. 66, p. 310.

[5] Ibid.

[6] Guido Ferraro, Oltre l’idea di città, in La città come testo: Scritture e riscritture urbane, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma, 2008, p.216. (Corsivo mio).

[7] Massimo Leone, Signatim: Profili di semiotica della cultura, Aracne, Roma, 2015, p. 375.

[8] Ivi, p. 379.

[9] Ivi, p. 384. (Corsivo mio)

[10] Ivi, p. 390 (Corsivo mio)

[11] La forgia, Apocalissi nostrane, cit., p. 337.

[12] Stefano Giovannuzzi, Realismo e letteratura: dalla parte di Wu Ming, in “Comparative Studies in Modernism”, n. 9, 2016, p. 48.

[13] Ibid.: “ In questi termini, molto sinteticamente, ho riassunto la posizione teorica di Wu Ming in New Italian Epic, ripresa poi di recente anche in Utile per iscopo?, di Wu Ming 2 (2014)”.

[14] Ibid.

[15] Ibid.

[16] Ivi, p. 51.

[17] Ibid.

[18] Wu Ming 1, Breckenridge e il continuum, in Wu Ming, Giap!, a cura di Tommaso De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2003, p. 17. (Articolo pubblicato per la prima volta su l’Unità, sabato 14 settembre 2002, sezione Orizzonti).

Podcast: La peste di Camus e il Coronavirus. Riflessioni letterarie sulle reazioni umane

Veronica Pinti è una studentessa della laurea magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureata in Lettere nell’ a.a 2018, con una tesi in Geografia Linguistica dal titolo Tassonomia popolare di alcuni ittionimi di area abruzzese e molisana. Nel 2016 ha partecipato a Contro la guerra: l’Iliade riscritta da noi, a cura di C. Lombardi e M. Cravero.  Attualmente sta svolgendo un periodo di mobilità erasmus in Croazia, presso l’Università degli studi di Zara.

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In questo podcast, riflette sul tema della peste nel romanzo di Camus e lo compara con il nostro tempo, dipanando alcune riflessioni letterarie sulle relazioni umane. [qui la Lettura originale]

La peste di Camus e il Coronavirus. Riflessioni letterarie sulle reazioni umane.

Veronica Pinti è una studentessa della laurea magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureata in Lettere nell’ a.a 2018, con una tesi in Geografia Linguistica dal titolo Tassonomia popolare di alcuni ittionimi di area abruzzese e molisana. Nel 2016 ha partecipato a Contro la guerra: l’Iliade riscritta da noi (Mimesis), a cura di C. Lombardi e M. Cravero.  Attualmente sta svolgendo un periodo di mobilità erasmus in Croazia, presso l’Università degli studi di Zara.

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Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente,
tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso.[1]

Introduzione

Secondo Giambattista Vico, la storia è fatta di corsi e ricorsi, ovvero grandi e piccoli avvenimenti si ripresentano ciclicamente nel mondo, quasi come delle lancette di un orologio che percorrono i quadranti. Tuttavia è proprio dell’essere umano pensare all’hic et nunc, al qui ed ora, come centro o apice dell’evoluzione umana, mettendo se stesso e la sua epoca al centro della storia del mondo. D’altronde guai se così non fosse: se l’uomo perdesse il senso di potenza, probabilmente si arrenderebbe allo scorrere del tempo e la natura lo avrebbe già inghiottito. Dall’altro lato però, così pensando, l’uomo ritiene un unicum, un qualcosa di irripetibile vista la sua portata, tutto ciò che gli accade o che riguarda la società a lui contemporanea; è più facile avvertire il peso degli eventi vissuti sulla propria pelle rispetto a quello degli eventi passati in rassegna in un libro di storia.

E così nella primavera del 2020, l’umanità intera si trova a fronteggiare una pandemia che va sotto il nome di COVID-19. Ogni giorno che passa, ogni contagio comunicato, ogni paziente deceduto genera l’impressione che sia stato compiuto un ulteriore passo verso la fine del mondo. A cosa serve tutta questa sofferenza allora? Leopardi ci aveva avvertito: la Natura è matrigna, indifferente alla vita dell’uomo e delle sue creature, capace di spazzare via tutto, anche se stessa, con la lava di un vulcano. Noi non possiamo fare altro che chinare il capo come una piccola ginestra indifesa e accettare la nostra sorte comune. E quindi, nella serie di catastrofi naturali, ovvero quegli avvenimenti distruttivi che noi non possiamo prevedere o controllare, bisogna annoverare anche le epidemie. Perché ora? Perché noi? Una risposta non c’è: chiniamo il capo al caso. Arrendiamoci alla nostra “sfortuna” di essere qui sulla Terra in questo momento, come hanno fatto gli sfortunati di passaggio sulla Terra tra il 1347 e il 1353 con la Peste Nera, o tra il 1918 e il 1920, anni dell’influenza Spagnola; moltissimi sono stati i morti, ma la grande comunità umana è riuscita nel suo intento, non resistendo, ma adattandosi. È ciò che in fondo viene chiesto anche a noi oggi, ovvero mutare i nostri ritmi vitali e l’approccio nei confronti dell’altro. Il mondo va avanti con un senso che sfugge alla logica umana. Quindi perché essere così terrorizzati? Che sia il doversi adattare, il vedere la propria vita mutata d’improvviso a farci tremare maggiormente? Cosa ne sarà di noi dopo? Lo sappiamo, rinasceremo di nuovo ginestre.

La paura è conseguenza e fondamento di un’epidemia. Ma prima di tutto la paura è il primo programma mentale dell’essere umano, che gli permette di restare, scappare; lo scopo ultimo è sopravvivere. Noi ora non dobbiamo scappare, dobbiamo fisicamente restare, fermarci e adattarci per sopravvivere: adattare lo stile di vita a nuove esigenze, come già detto prima; adattare la ricerca scientifica a nuove cure e vaccini; adattare in sostanza la nostra mentalità, regredendo paradossalmente a quella più ancestrale e ferina. Avere paura significa adattarsi che significa sopravvivere.

I

Lo sapeva bene Albert Camus quando scriveva La peste, romanzo pubblicato nel 1947 in Francia e arrivato in Italia l’anno seguente. È una peste fittizia, che colpisce Orano, città nordoccidentale dell’Algeria, negli anni ’40 del Novecento. Una peste che tuttavia ricomprende le vicende di tutte le epidemie precedenti: cambia il virus, ma non la reazione umana. Dapprima avviene una moria di topi nella città: unico pensiero è il disgusto che provocano all’interno delle strade e dei palazzi dei residenti altolocati. Poi inspiegabilmente la morte di un paio di persone arrecanti gli stessi sintomi noti, seppur con qualche variante. Qualche giorno di delirio; poi la morte. Impossibile che fosse peste: era stata ormai debellata da tempo. Impossibile che fosse qualsiasi evento straordinario: le persone muoiono tutti i giorni e finché non è il turno dei nostri cari, ci appaiono quasi come tributi da consegnare per placare l’ira di un di un tiranno che ci governa.

I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli.[2] […]

Finché ciascun medico non era venuto a conoscenza di più di due o tre casi, a nessuno era giunto in mente di muoversi. Ma in fondo bastava che qualcuno facesse la somma. E la somma era impressionante. In pochi giorni i casi mortali si moltiplicarono e coloro che si occupavano di questa malattia singolare si resero conto che si trattava di una vera e propria epidemia.[3]

I primi ad accorgersi della portata di una malattia sono i medici: c’è chi piange il proprio marito, la propria figlia, la propria vicina di casa; c’è chi non piange nessuno e avverte il tutto come lontano da sé.

In un certo senso all’opinione pubblica mancavano i termini di paragone.[4]

I medici sono dinamici, si muovono nella città o nei paesi, ricevono telefonate di mamme preoccupate per i loro figli, anche solo per un minimo colpo di tosse. Nella loro mente si sommano i sintomi, appare evidente la loro ricorsività, il loro combinarsi, la loro frequenza. I medici hanno prima di tutto sangue freddo. Nonostante le statistiche, preferiscono aspettare l’evolversi della situazione cercando intanto di arginarla. Ma non c’è dubbio: se ritengono tali statistiche e il loro evolversi allarmante, lo comunicano alle autorità. Senza un decreto da parte di queste ultime, è difficile suscitare uno stato di allerta nei cittadini. E sembra proprio che le autorità di tutti i tempi abbiano come scopo primario la quiete pubblica, a vantaggio o svantaggio della società stessa, consigliandole di prestare attenzione.

Era difficile trarre da quei comunicati la prova che le autorità guardassero la situazione in faccia. Non era stata presa alcuna misura drastica e sembrava che lo scrupolo principale fosse quello di non destare allarme nell’opinione pubblica. L’ordinanza esordiva infatti annunciando che nel comune di Orano si erano verificati alcuni casi di una febbre perniciosa di cui non si poteva ancora dire se presentasse il rischio di contagio. Quei casi non eran per ora sufficientemente conclamati per essere davvero allarmanti e la popolazione avrebbe senz’altro preso alcune misure di prevenzione. Opportunamente recepite e applicate, tali misure erano in grado di debellare qualsivoglia rischio di epidemia. Di conseguenza il prefetto confidava che la cittadinanza avrebbe assicurato la più attiva collaborazione al suo sforzo personale.[5]

Come si può consigliare ad un’intera comunità di prestare attenzione senza destare allarmismo? L’uno esclude l’altro. Sono due atteggiamenti opposti e pertanto veicolano reazioni differenti. A Orano questa “forte febbre” c’è, miete qualche vittima, ma non è neanche certo che sia contagiosa.

Tuttavia, per evitare un possibile contagio, si suggerisce alla cittadinanza di prestare attenzione alle norme di pulizia; allo stesso tempo però si suggerisce di non cadere nel panico. L’uomo innalza così una barriera auto protettiva che lo porterà a focalizzarsi sull’aspetto positivo del messaggio: il contagio non è certo, in fondo pulisco già, non cadrò nel panico. Chi lo fa è debole.

L’8 marzo 2020 nel corso di una conferenza Walter Ricciardi, componente del Comitato esecutivo dell’Oms, affermava: “Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono praticamente spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, il 5% è gravissimo, di cui il 3% muore. Per altro sapete che tutte le persone decedute avevano già delle condizioni gravi di salute”.[6]

II

Continuavano così a girare per le strade e a sedersi ai tavolini da caffè. Nel complesso non erano spaventati, si scambiavano più battute che lamentele e sembravano accettare d buon grado certi inconvenienti evidentemente passeggeri. Le apparenze erano salve.[7]

Autorità e cittadini per la prima volta, in un breve momento, appaiono uniti contro la presunta minaccia comune: l’allarmismo. I primi cercano di allontanare o rimandare la possibilità di chiudere un’intera città, paese o regione, i secondi di non apparire deboli e spaventati di fronte a una cosa da poco, evitando di essere oggetti di burla o di essere additati come allarmisti. In questa prima fase è importante salvare la facciata di una comunità serena, anzi frenetica, con cose serie a cui pensare. Nulla si può fermare, l’economia va avanti, le spese quotidiane delle famiglie si susseguono, gli esami universitari si avvicinano, i giovani hanno bisogno di svagare. Se i medici accorti consigliano, anche solo per deformazione professionale, di mantenere le distanze in vista di accertamenti riguardo la possibilità di contagio, in quel momento le necessità individuali sono ancora al di sopra di quelle della comunità.

“Sì, ecco,” fece Rambert, “e adesso parlerà del bene comune. Ma il bene comune è fatto della felicità di ognuno”.[8]

Sono le parole del giovane reporter nel romanzo di Camus, rimasto bloccato a Orano senza la possibilità di tornare a casa dalla sua amata. Rambert chiede al medico protagonista Rieux un certificato per attraversare i confini bloccati. Le priorità sono ancora deviate: sono le proprietà di una società moderna e capitalista, frenetica nel lavoro e nei rapporti, una società che non permette a nulla di arrestare le proprie abitudini, perché se rallenti ti superano. E in questa prima e breve fase, si ritiene di dimostrare l’amore per l’altro proprio aggirando le leggi: si esce un po’ di soppiatto pur di salutare la propria fidanzata, di fare la spesa per un genitore anziano che vive da solo, di prendere un caffè con un’amica. Questo però è ancora un amore che si riflette su di sé, sul proprio valore personale, incanalato in un bisogno di fare del bene per dimostrare agli altri che quell’amore è così forte da non vacillare di fronte a un supposto rischio.

Il male presente nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza e la buona volontà, se non è illuminata, può può fare altrettanti danni della malvagità.[9]

Solo nelle fasi successive si apprenderà che la legge punta al benessere universale e solo rispettandola si dimostra di amare la sicurezza dell’altro. Oltre al fatto di restare chiusi in casa, di dover rinunciare a un concerto, a una passeggiata in riva al mare o a una giornata lavorativa, si inizia ad accennare al vero cambiamento instillato da un’epidemia: il modo di manifestare i propri sentimenti.

In quattro giorni, però, la febbre registrò quattro impennate clamorose: sedici morti, poi ventiquattro, ventotto e trentadue. Il quarto giorno fu annunciata l’apertura dell’ospedale ausiliario in una scuola materna. Per strada i nostri concittadini, che fino a quel momento avevano continuato a mascherare la preoccupazione dietro le battute, sembravano più silenziosi e tristi. Rieux decise di telefonare al prefetto.[10]

Il prefetto finalmente pare rispondere e con lui l’amministrazione. Così in Italia il presidente del consiglio dei Ministri promulgava il decreto dell’8 marzo 2020, riguardante le regioni italiane maggiormente colpite dal Coronavirus: “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo”[11]; “ ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37, 5° C) è fortemente raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante; “si raccomanda ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del presente decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie.” Ancora, gli impianti nei comprensori sciistici vengono chiusi, così come vengono sospese manifestazioni sportive, religiose, culturali, e le attività dei servizi educativi per l’infanzia. Vengono chiusi i musei e le attività commerciali, ad esclusione di quelle che vendono beni di prima necessità; i bar e servizi di ristorazione possono essere aperti al pubblico dalle 6.00 alle 18.00; si attuava la sospensione dei congedi del personale sanitario; si impone la chiusura di palestre e centri sportivi. Tuttavia nel resto del territorio nazionale venivano soltanto sospese la attività di gruppo non obbligatorie, come meeting, incontri di tipo sociale, religioso, sportivo; sale bingo, discoteche e musei venivano chiusi. Anche i servizi educativi venivano sospesi, ma si lasciava la possibilità di incontrarsi per strada o in un pub, purché si rispettasse al distanza di sicurezza.[12]

Quel giorno si contarono una quarantina di morti. Il prefetto si assume la responsabilità, come diceva lui, di imporre sin dall’indomani misure più severe. Furono mantenuti la dichiarazione obbligatoria e l’isolamento. Le abitazioni dei malati dovevano essere chiuse e disinfettate, i familiari sottoposti a quarantena, i funerali organizzati dall’amministrazione cittadina nelle condizioni che vedremo. Il giorno dopo arrivarono i sieri. Erano sufficienti per i casi attualmente in cura. Insufficienti se l’epidemia si fosse estesa.[13]

Certo, il decreto era chiaro; leggendolo si può percepire lo stato di allerta che sale non solo per le regioni “rosse”, ma per l’intera nazione. Ciò che è stato percepito dalla popolazione però, specie delle regioni non incriminate, era ancora qualcosa di lontano da sé: al di fuori di queste regioni nel nord Italia, il virus non era una grave minaccia. Non si considerava però il fatto che le persone dal nord Italia si mossero per tutto il territorio statale e non, chi per paura di essere contagiato, chi semplicemente di restare bloccato nella propria casa. Il movimento del singolo, l’istinto di scappare innescato dal nostro più ancestrale programma mentale, poteva sembrare in quel momento una risposta valida alla propria sopravvivenza; arricchito con un po’ di sano buon senso e di lungimiranza, avremmo capito che invece si sarebbe rivelato il contrario.

Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste. La loro prima reazione, per esempio, fu di prendersela con la pubblica amministrazione. La risposta del prefetto alle critiche riprese dalla stampa (“Non si potrebbe prevedere un alleggerimento delle misure adottate?”) fu alquanto inattesa.[14]

La risposta italiana ai provvedimenti presi contro l’espandersi del Coronavirus, lo sappiamo, fu più o meno la stessa. “Quante storie per un’influenza”; “e se anch’essa fosse così rischiosa, dovrei rinunciare a giornate intere della mia vita stando in casa?” Passando di qui, notiamo quasi con un sorrisetto come l’atteggiamento umano sia, di base, lo stesso a prescindere dalle epoche storiche.

 Il peggio doveva ancora venire e sarebbe arrivato proprio con l’isolamento obbligatorio di tutta la popolazione nazionale, senza differenziazione tra chi era malato, chi era stato esposto al virus o chi (apparentemente) era fuori rischio. Infatti il 9 marzo 2020 il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, amplia anche al resto della nazione italianale misure prese per le 14 province del nord maggiormente colpite dall’epidemia. Il provvedimento entrava in vigore il 10 marzo 2020 con scadenza il 3 aprile. Tuttavia era ormai chiaro che il decreto sarebbe rimasto in vigore ancora dopo quella data.

Le misure prese erano insufficienti, questo era chiaro. Quanto alle corsie “appositamente attrezzate”, le conosce: due padiglioni frettolosamente liberati dagli altri malati, con le finestre sigillate, circondati da un cordone sanitario. Se l’epidemia non si ferma da sé, non sarebbero state certo le misure prese dall’amministrazione a sconfiggerla. [15]

I medici e le autorità non possono più aiutare, ma hanno bisogno della collaborazione di tutti. Il piccolo sforzo che si richiede è quello, ancora, di fare attenzione; solo, più attenzione. Si chiede di restare nelle proprie case. Un piccolo sforzo sorretto dalla consapevolezza di non potersi più rimettere del tutto ai medici, di non poter più solo ascoltare le notizie di decessi o dei discorsi dei politici per poi discuterne concitatamente con i propri vicini; bisognava mettere in pratica delle norme per dare un aiuto valido. Quanto può pesare questa consapevolezza nella mente delle persone?

Mentre i nostri concittadini cercavano di abituarsi a quel subitaneo esilio, la peste metteva guardie alle porte e deviava le navi che facevano rotta su Orano. Dopo la chiusura, nessun veicolo era più entrato in città. Si aveva l’impressione, da quel giorno, che le auto girassero in tondo. Anche il porto, per coloro che lo guardavano dall’alto dei boulevard, presentava un aspetto singolare. La consueta animazione che ne faceva uno dei porti più importanti della costa si era bruscamente interrotta. Si vedeva ancora qualche nave tenuta in quarantena. Ma sui moli, alte gru in disarmo, i vagoncini rovesciati sul fianco, pile solitarie di fusti o di sacchi testimoniavano che anche il commercio era morto di peste.[16]

Non ci vuole la lungimiranza (quella che avremmo dovuto avere da subito quando ci è stato chiesto di restare in casa) per capire quanto sia grande l’impatto psicologico di tutto questo. Nel giro di un mese l’uomo è passato dal doversi muoversi nel mondo e nei propri impegni quotidiani al non poterlo più fare, dapprima con noia, poi con inquietudine e infine con terrore. Nel giro dello stesso mese l’uomo ha stravolto l’approccio interpersonale che deriva dal proprio bagaglio culturale: cambia la percezione della distanza, del modo di salutare, del prestare un oggetto, del preparare e regalare un dolce; cambia il modo in cui consideriamo l’immancabile sportivo che non riesce a rinunciare alla corsa nel parco, del premuroso padrone che fa lunghe passeggiate con il cane, della donna sempre ben vestita che non rinuncia alla cura delle proprie unghie e della propria pettinatura. Se qualcuno starnutisce non si esclama più “salute!”, ci si allontana minacciati. Non c’è nulla di più istintivo, di più “modalità sopravvivenza” di questo; eppure la cultura, la sensibilità umana ne avevano coperto le tracce. Nascerà un’intera letteratura sul mutare delle strutture mentali umane, sul ritorno della civiltà alla natura, sebbene con una consapevolezza lunga secoli. Involuzione? Evoluzione? Per ora possiamo solo notare gli effetti a breve termine della solitudine dell’isolamento.

Così, per esempio, un sentimento privato quale la separazione da una persona amata divenne improvvisamente, si dalle prime settimane, quello di un’intera popolazione e, insieme con la paura, il principale motivo di sofferenza di quel lungo periodo di esilio.

Una delle conseguenze più vistose della chiusura delle porte fu infatti l’improvvisa separazione in cui si ritrovarono persone che a questo non erano preparate. Madri e figli, coniugi, amanti che qualche giorno prima avevano creduto di dover affrontare una separazione temporanea che si erano salutati ai binari della nostra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi dopo qualche giorno o qualche settimana, cullati dall’assurda fiducia umana, a malapena distratti con quella partenza dalle preoccupazioni abituali, si videro d’un tratto inesorabilmente lontani, impossibilitati a ricongiungersi o a comunicare.[17]

Le famiglie che hanno salutato dopo le vacanze di Natale i figli in partenza per le proprie lontane città di residenza per motivi di studio o di lavoro, mai avrebbero pensato a questo scenario che si sarebbe verificato dopo poco più di un mese. Il momento di commozione è preceduto e subito seguito dal pensiero di quel servizio da fare, di quel cliente da richiamare, delle pagine da studiare. Credo che rientri anche questo tra i “meccanismi” di sopravvivenza umana, una sopravvivenza emotiva: il dolore viene sostituito da un altro pensiero più rassicurante, o semplicemente diverso. Cerchiamo distrazioni e forse proprio l’altro è una distrazione: uscire per un caffè, per salutare un amico, per incontrare la ragazza a cui si fa il filo o magari per pranzare con la propria nonna sono caramelle che l’uomo si concede per dolcificare l’amarezza della vita. La vita non è amara di per sé: la percepiamo come tale perché, nella nostra solitudine, dobbiamo svolgere il nostro lavoro e adempiere alle nostre responsabilità. Certe cose dobbiamo farle noi, non c’è spazio neanche per l’aiuto di qualcun altro. L’altro è svago. Anzi, l’altro è il vero svago, anche al di sopra delle azioni che svogliamo con lui, come un giro in bicicletta o una passeggiata in un prato. Sono sicuramente azioni ristoratrici di per sé, ma condivise hanno un’altra valenza, un altro sapore e lasciano un diverso ricordo. Ne abbiamo bisogno. E ce lo dimostra anche questo passo de La peste:

In realtà soffrivamo due volte- della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante.
In circostanze diverse forse i nostri concittadini avrebbero trovato una via di fuga in una vita più esteriore o più attiva. Ma la peste frattanto li imprigionava, e si riducevano a girare a vuoto nella loro città smorta, giorno dopo giorno in balia di scherzi illusori del ricordo. Giacché nelle loro passeggiate senza meta erano indotti a percorrere sempre gli stessi tragitti e, il più delle volte, in una città tanto piccola, questi tragitti erano proprio quelli che in un’altra epoca avevano percorso con l’assente.[18]

A Orano nel 1940 circa, come in Italia e nel resto del mondo nel 2020, l’uomo è bloccato in casa, non può uscire “neanche per fare una semplice passeggiata”. Camus ci fa riflettere: e se pur potessimo farla? Ci basterebbe? Ripercorrere le vie della nostra città natale o di quella in cui viviamo attualmente ci porterebbe inevitabilmente al ricordo dei giorni passati, in cui eravamo in quel posto con una persona a noi cara. E si sa che il bel ricordo impiega poco a trasformarsi in nostalgia. Detto in altre parole, la voglia che abbiamo di fare una passeggiata aiuterebbe di sicuro i nostri muscoli intorpiditi, ma quanto graverebbe sulla nostra mente? E quanto graverebbe poi dover rientrare nelle quattro mura della nostra casa, in cui ci sentiremmo ancora più soli? Mi riferisco a questo quando parlo del forte mutamento psicologico che sta affrontando l’umanità. Forse ci abitueremo di nuovo all’assenza.

III

Capisco questo benevolo ardore. Al principio di un flagello, e alla fine, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso non si è ancora persa l’abitudine e nel secondo la si è già ritrovata. Solo nel momento delle tragedie ci si abitua alla verità, cioè al silenzio. Aspettiamo.[19]

Aspettiamo nelle nostre case in una vita fatta di ciclicità, ora più che mai. La routine è scandita da pochi gesti elementari, come la preparazione dei pasti. La mattina, dopo la colazione, si pensa a cosa cucinare per pranzo; una veloce spesa al supermercato nel pomeriggio, la sera si sfornano pane

e pizze. Il ripiano su cui viene sistemato lievito di birra nei supermercati è costantemente vuoto: pare che cucinare prodotti da forno sia diventato uno degli hobby preferiti anche dai più giovani, anche dagli studenti universitari che, fino a qualche istante prima, preferivano ordinare un pasto veloce a domicilio e concentrare le loro energie in altre attività. La routine è scandita da questo, dalla riscoperta di attività che avevamo abbandonato o che tenevamo relegate ai ricordi d’infanzia: impastavamo con la nonna, leggevamo un buon libro con la mamma, disegnavamo, sistemavamo le vecchie foto. Qualche volta, immersi in queste lente ma intense attività, succede anche di riprendere coscienza per un attimo: “sto perdendo tempo”, questa frase tutta moderna (e postmoderna) ci torna in mente. L’epidemia costringe anche all’adattamento dei ritmi vitali, ormai scanditi da un’orologio sociale sempre troppo veloce, estenuante.

Questo disco è deprimente,” disse Rambert. “E poi oggi è la decima volta che lo ascolto.” “Le piace così tanto?”
“No, ma è l’unico che ho.”
E dopo un momento:
“Ve l’ho detto, la peste è un continuo ricominciare.”[20]

La quarantena ci dà l’opportunità di fare proprio questo, ricominciare. Di non lasciare mille cose in sospeso perché costretti ad intraprenderne di nuove, di mettere attenzione, cura, dedizione in ogni singola azione. Riprendiamo il contatto consapevole con ciò che davamo per scontato, che facevamo in maniera meccanica. Questo non vuol dire che sia facile o che sia sempre piacevole. Siamo costretti a fare un reset delle costruzioni mentali che abbiamo acquisito, altrettanto faticosamente, per star dietro al mondo di oggi, o meglio, al mondo di ieri.

Il sole della peste spegneva i colori e fugava ogni gioia.
Era questa una delle grandi rivoluzioni della malattia. Tutti i nostri concittadini accoglievano abitualmente l’estate con esultanza. La città si spalancava allora sul mare e riversava i giovani sulle spiagge. Quell’estate, invece il mare pur vicino era inaccessibile e il corpo non aveva più diritto alle sue gioie.[21]

Noi oggi siamo ancora in primavera, ma avvertiamo l’estate avvicinarsi perché il corpo e le nostre sensazioni si risvegliano. Non possiamo fare a meno di chiederci come la trascorreremo. Saremo ancora bloccati in casa? La risposta non può essere prevista: il fatto di non avere una scadenza fa parte della costrizione all’adattamento a cui siamo soggetti e non è facile non poter vedere una luce

in fondo al tunnel. C’è chi si rifugia nelle azioni quotidiane, c’è chi si rifugia nei ricordi, chi nella speranza del futuro. Chi si rimette a Dio. Sono note le toccanti immagini del Papa che prega da solo di fronte ad una platea vuota nella maestosa piazza del Vaticano. Chiede la fine della malattia, la serenità, pietà a Dio. È la stessa solitudine dell’anziano nella sua stanza da letto che, ogni sera, sgrana un rosario pregando per la sua famiglia. Messi in rapporto, ognuno nel suo contesto, portano sulle spalle una responsabilità spirituale di ugual peso.

[…] è una cosa che un uomo come lei capirà senz’altro, ma poiché l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse è meglio per Dio se non crediamo in lui e lottiamo con ogni forza contro la morte, senza alzare gli occhi verso il cielo dove lui tace.[22]

La preghiera di cui abbiamo bisogno non è una preghiera di richiesta. La preghiera non è mai una richiesta, o almeno non dovrebbe esserlo. È energia che mandiamo nell’universo, è uno sforzo attivo e sottile, che non sempre si manifesta come vorremmo, come ci aspetteremmo. Fa parte del gioco, di imparare a farlo. La preghiera è responsabilità, è il credere in qualcosa di superiore che abita dentro di noi. Non c’è niente di più esplicativo quando intendiamo descrivere la perfetta armonia uomo-cosmo. Come riporta anche Camus nel suo romanzo, troppo spesso si sente dire comunque sia, non può fare male; pregare così è comodo e la comodità non è quasi mai utile o proficua. Tantomeno basta solo agire su un piano e una volontà spirituale. Nel romanzo di Camus il medico protagonista, Rieux, e il prete Paneloux si trovano per la prima volta ad assistere alla straziante morte di un bambino, descritta accuratamente sia perché era il figlio di uno dei personaggi attivi del racconto, il giudice Castel, sia perché sperimentavano un nuovo farmaco. Dopo la descrizione quasi felliniana della scena, in cui vengono dettagliatamente descritti gli stadi grotteschi e vividi del corso della malattia, i due dialogano:

“Ah dottore,” fece con tristezza, “adesso capisco cos’è la grazia.” […]
“È quel che io non ho, lo so. Ma non voglio discutere di questo con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che ci accomuna l’al di là delle bestemmie e delle preghiere. Solo questo conta.”[23]

IV

Questa è la fase dove non c’è tempo per fare retorica. Lo sanno bene i medici e gli infermieri italiani, lo sanno bene quei 7000 e più civili che si sono offerti come medici volontari e con loro le intere nazioni che arrivano a portare aiuto, Cina, Cuba e Russia.

Tarrou, che guardava il rentier con sguardo benevolo, disse che conosceva i dati, che la situazione era grave, ma questo cosa dimostrava? Dimostrava solo che ci volevano misure ancora più eccezionali.

“Be’, le avete già prese.”
“Sì, ma ciascuno deve anche fare la sua parte.”[24]

Il Coronavirus è una guerra. C’è chi fa di questa affermazione un motto con cui iniziare o concludere una qualsiasi riflessione un po’ buttata lì durante la giornata, c’è chi ripudia questa idea. Certo, se intendiamo la guerra come uno stato di emergenza, in cui la battaglia contro il nemico riduce all’osso la popolazione e le sue risorse (fisiche e psichiche), allora questa in cui ci troviamo è di fatto una guerra. E il nemico non si vede, ci sfugge, ci sorprende.

Abbiamo carenza di materiale,” disse. “In qualunque esercito del mondo, la carenza di materiale si compensa con gli uomini. Ma noi siamo carenti anche di uomini.”
“Sono venuti medici da fuori, e anche personale sanitario.”
“Sì,” disse Rieux. “Dieci medici e un centinaio di uomini. Sembrano tanti. Ma per lo stato attuale della malattia sono appena sufficienti. E saranno insufficienti se l’epidemia si estenderà”.[25]

L’esercito di questa guerra è composto da schiere di medici dai turni estenuanti: la popolazione, per quanto “inattiva”, sperimenta le corse per accaparrarsi le ultime mascherine o l’ultima bottiglia di latte. E la loro assenza sugli scaffali della farmacia o del supermercato sono incassati come l’ennesima conferma del baratro in cui stiamo cadendo. Ma quante volte ci è capitato di andare al supermercato e di non trovare ciò che cercavamo? Una noia senza dubbio, ma tornavamo a casa senza alcun senso di emergenza in più. Il Coronavirus è una guerra dell’emergenza: la lotta è convivere con la percezione che qualsiasi mancanza o presenza, non necessariamente distante da quelle che potevano esserci qualche mese fa, siano causati dalla pandemia. E si cade, proprio come avviene in guerra, nell’isteria.

Volontari spinti da un sentimento di solidarietà, empatia, dalla consapevolezza che questa volta la situazione di crisi è toccata all’Europa, ma è un puro caso. L’aiuto deve arrivare su tutti i fronti come frutto di una collaborazione, di energie.

In questo stava il vero pericolo, poiché era proprio la lotta contro la peste a renderli più vulnerabili alla peste. Scommettevano sul caso e il caso non appartiene a nessuno.[26]

Se stare in casa può apparire come il modo migliore per impazzire, cercare di evadere può essere peggio.

Con il caldo e la peste, infatti, alcuni nostri concittadini avevano perso la testa e cedendo alla violenza avevano cercato di eludere la sorveglianza dei posti di guardia per scappare fuori dalla città.[27]
[…]

Così non c’erano più destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti. Il più forte era quello della separazione e dell’esilio, con tutto ciò che comportava in termini di paura e rivolta.[28]

L’unico modo per assicurarsi il rispetto delle leggi da parte della popolazione, a quanto pare, è farne un discorso monetario. Come potrebbe sorprenderci, visto che tutto il nostro mondo capitalista si basa su di esso? Nessuno mai suggerirebbe a qualcuno di agire in base all’etica, in base alla propria coscienza, al buon senso o al rispetto degli altri; in fondo, si agisce per i soldi, per guadagnarne e per non perderne. Si studia per i soldi, si lavora per i soldi; persino i rapporti sociali sono stabiliti in base al “partito” o se l’altro possa essere un potenziale cliente o possa investire nella nostra società. Si compra risparmiando, si mette da parte il denaro non si sa più neanche per cosa. Il Consiglio dei ministri, dal 24 marzo 2020, inasprisce le sanzioni: chi lascia la propria abitazione senza un valido motivo e senza nulla per certificarlo dovrà pagare dai 400 ai 3000 euro di multa. Il denaro controlla tutto, anche quello che ritenevamo essere fuori dalla sua portata: la volontà e libertà di uscire di casa.[29]

A cosa porterà questa nostra guerra? Bisognerà rimboccarsi le mani sul lato economico: le poche aziende e società rimaste in piedi faranno fatica a trainare loro stesse e la nazione che portano sulle spalle. I prezzi di alcuni prodotti comuni saliranno alle stelle, modificando lo scenario gerarchico di merci e servizi.

Non mancavano però altri motivi di preoccupazione, a seguito delle difficoltà crescenti di approvvigionamento. Queste avevano favorito la speculazione e alcuni prodotti di prima necessità che scarseggiavano nel mercato legale si offrivano ora a prezzi astronomici. Le famiglie povere si trovavano così in grandi ristrettezze, mentre le famiglie ricche non mancavano pressoché di nulla. Mentre la peste, con la sua efficace imparzialità, avrebbe dovuto rafforzare l’uguaglianza fra i nostri cittadini, per il normale effetto degli egoismi rendeva invece più acuto nel cuore degli uomini il sentimento d’ingiustizia. Rimaneva, certo, l’ineccepibile uguaglianza della morte, ma questa nessuno la voleva.[30]

La politica nazionale dovrà ricreare ex novo un assetto legislativo e amministrativo atto a tornare alla situazione precedente, tenendo però conto dei forti mutamenti che questa crisi generale ha creato. E le persone? Sfogheranno le energie accumulate ballando per le strade, salutando amorevolmente cittadini e in un rinnovato ed evoluto spirito di fratellanza? Questa sarebbe la conclusione più ovvia: stando in casa si ha tempo di riflettere sulla condizione di segregazione e di emarginazione, di paura e di voglia di evadere; ci si immedesima così in tutte quelle categorie di persone che fino a poco fa denigravamo, dall’immigrato dal continente africano alla vicina sola e petulante del palazzo di fronte.

L’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa.[31]

Oppure saremo ingrigiti dal tempo trascorso tra le mura di casa, un tempo che sembra non appartenerci più, sospeso e trascorso troppo velocemente allo stesso tempo, senza di noi? Ci sentiremo più o meno parte di questo mondo?

Quanto agli altri, assorbiti giorno e notte dal lavoro, non leggevano i giornali né ascoltavano la radio. E se qualcuno annunciava loro un risultato, facevano mostra di interessarsi, ma in realtà lo accoglievano con l’indifferenza distratta che immaginiamo nei combattenti delle grandi guerre, stremati dalla fatica, concentrati soltanto sul dovete quotidiano e ormai privi di qualunque speranza tanto nell’operazione decisiva quanto nel giorno dell’armistizio.[32]

Ma poco dopo l’autore ci presenta una scena importante, quella in cui Rambert, già incontrato prima come difensore del bene individuale, decide di restare a Orano e di continuare a servire la cittadina come medico volontario.

“Non è questo,” disse Rambert. “Ho sempre pensato di essere uno straniero in questa città, e di non avere niente a che fare con voi. Ma adesso che ho visto quel che ho visto, so che appartengo a questo posto, che lo voglia o no. È una vicenda che ci riguarda tutti.”[33]

Rambert è il giornalista che fa di tutto per tornare a casa dalla propria amata; si unisce addirittura ad un gruppo che si occupa di contrabbando pur di attraversare le frontiere. Ma si sa, le azioni illecite richiedono cautela e tempo per essere organizzate. Così il viaggio viene rimandato più e più volte e Rambert, ormai legato al medico Rieux, decide che nel frattempo potrebbe offrire il suo aiuto in campo sanitario. Impegnarsi in una situazione tanto difficile, ma che tuttavia prevedeva uno scopo comune, permette a Rambert di trovare un piccolo posto in quella società. Da reporter straniero, occhio critico e superiore, a medico volontario e forza motrice della società. Dall’alto al basso, scendendo nel magma di quel vulcano, viene avvolto da quel calore bruciante da cui non riesce più a staccarsi. Ormai ne è avvolto, ormai è coinvolto in una sentimentalità che non può più ignorare, neanche quando si tratta di mettere se stesso al secondo posto. Cambiano le priorità. Forse ci attende la stessa sorte.

Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimento che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione, ma che era comunque una specie di temporaneo consenso. I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si suol dire, perché non c’era modo di fare altrimenti.[34]

V

“Tutti dicono: È la peste, abbiamo avuto la peste. Poco ci manca che vogliano una medaglia. Ma cosa vuol dire la peste? È la vita, punto e basta.”[35]

Perché siamo così spenti in questi giorni? Nel 2020 non dovrebbe turbarci più di tanto stare in casa, rinunciare a una passeggiata per guardare un film dal nostro portatile o scrollare la bacheca di un social network. È evidente che non siamo più quei bambini che passavano i pomeriggi con la bici dietro casa, o quei ragazzi che si citofonavano per uscire senza darsi appuntamento. Certo, la ripetizione è noiosa, soprattutto per noi che siamo la generazione dello switching continuo, dello zapping e di tutti questi altri concetti dell’iperattività. Tarrou, il coprotagonista de La peste, afferma che tutti quanti abbiamo un po’ di peste, di flagello, dentro di noi: tutti siamo duplici, flagelli e vittime allo stesso tempo. E sta a noi mediare le due posizioni, preferibilmente verso quella delle vittime, sebbene il mondo di oggi adotti la mentalità dello squalo che mangia il pesce più piccolo. Siamo tutti spinti verso la forza, a costo di far del male all’altro per scavalcarlo. Che strada bisogna prendere per giungere alla pace? Tarrou ci dice quella della compassione.

“[…] In fondo, è stupido vivere soltanto nella peste. Un uomo deve battersi per le vittime, certo. Se però poi smette di amare tutto, a che serve che si batta?”[36]

Toccato il fondo, si risale. Esplorata la più bassa condizione fisica dell’essere umano, straziato nel letto dalla peste o attaccato ad un respiratore in ospedale; esplorato il fondo sfaccettato, complesso, smerigliato del cuore e del pensiero, l’uomo catarticamente nuota verso la superficie. Non avverrà dall’oggi al domani, servirà tempo affinché la malattia venga debellata del tutto, affinché non rappresenti più un rischio neanche per i più deboli; e servirà tempo per metabolizzare ciò che abbiamo attraversato.

Se i mesi appena trascorsi avevano accresciuto il loro desiderio di liberazione, avevano anche insegnato la prudenza e li avevano abituati a far sempre meno assegnamento su una fine imminente.[37]

Ci godremo il recupero; ci concederemo tempo, dopo anni di corse e affanni tipiche della nostra epoca, di assaporare la lentezza della risalita, come quando nuotiamo e facciamo i conti con la forza di gravità. Ci daremo il permesso di stupirci di fronte alle navi che solcano il mare e che sbarcano di nuovo nei porti. Non ci vergogneremo di abbracciare qualcuno all’aperto. Cercheremo, anzi, ci dovremo sforzare di incentrare un discorso su qualcosa di diverso dall’epidemia. Saliremo sul treno per tornare nelle nostre città, da chi amiamo, oppure ne visiteremo una sconosciuta per ritrovare l’amore. Non ci sarà bisogno di colpevolizzarsi se dovremo ripartire da capo, se avremo subito una battuta d’arresto, se saremo indietro su una presunta tabella di marcia. Sarebbe un’ottima cosa ripartire da zero, dice Cottard.

Sì, la peste era finita e con essa il terrore, e quelle braccia che si allacciavano dicevano che era stata esilio e separazione, nel suo significato più profondo.[38]

Tutto questo ricominciare è possibile solo perché c’è stato un “prima”. Non possiamo dimenticare ciò che abbiamo passato, questo è ovvio, è giusto. Bisogna anzi farne tesoro: prendiamo la vita come la conoscevamo fino a pochi mesi fa e facciamone una tesi; prendiamo la vita durante il Coronavirus e rendiamola un’antitesi. Con un po’ di quella magia che chiamano matematica, facciamo una somma, anzi, una media ponderata del tutto e traiamo la nostra sintesi.

La specie che sopravvive è quella che si adatta, quella che cambia, ma anche quella che impara dalla storia. Leggere il romanzo di Camus è rileggere la storia dei giorni che si snodano nelle nostre vite attuali. Apprendiamo in anticipo, prima che la pandemia sia finita, sepolta, prima di poterla elaborare, cosa accadrà fuori e dentro di noi. Dal divano del nostro salotto, abbiamo in mano una sintesi già confezionata, pronta all’uso. Facciamola nostra e ripartiamo da lì.


[…] piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

(Leopardi, La ginestra)

Bibliografia
CAMUS, A., La peste, s. l.,  Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle.

Sitografia
Ministero della Salute, http://www.salute.gov.it/portale/home.html

«La Repubblica», https://www.repubblica.it

«La Stampa», https://www.lastampa.it


[1] CAMUS, A., La peste, s. l., Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle. pos. 477

[2] ivi, pos. 484

[3] ivi, pos. 457

[4] ivi, pos. 971

[5] ivi, pos 662

[6] La stampa, https://video.lastampa.it/cronaca/coronavirus-ricciardi-oms-dobbiamo-ridimensionareallarme-95-per-

cento-malati-guarisce/110423/110429, ultima apertura 10/04/2020

[7] CAMUS, A., La peste, s. l., Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle. pos. 971

[8] ivi, pos. 1091

[9] ivi, pos. 16045

[10] ivi, pos. 792

[11] regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia.

[12] Ministero della Salute, http://www.trovanorme.salute.gov.it/norme/dettaglioAtto?id=73594, ultima apertura

10/04/2020

[13] CAMUS, A., La peste, s. l., Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle. pos 801

[14] ivi, pos. 962

[15] ivi, pos. 782

[16] ivi, pos. 955

[17] ivi, pos. 824

[18] ivi, pos. 875

[19] ivi, pos. 1146

[20] ivi, 2062

[21]  ivi, pos.1062

[22] ivi, pos. 1605

[23] ivi, pos. 2739

[24] ivi, pos. 2001

[25] ivi, pos. 1892

[26] ivi, pos. 2404

[27] ivi, pos. 1313

[28] ivi, pos. 2101

[29] «La Repubblica», https://www.repubblica.it/politica/2020/03/24/news/coronavirus_multe_fino_a_4mila_euro_per_chi_non_rispetta_i_divieti_ecco_la_bozza_all_esame_del_cdm-252168876/, ultima apertura in data 11/04/2020

[30] ivi, pos. 2969

[31] ivi, pos. 2287

[32] ivi,pos. 2350

[33] ivi, pos. 2606

[34] ivi, pos. 2287

[35] ivi, pos. 3832

[36] ivi, pos. 3211

[37] ivi, pos. 3339

[38] ivi, pos. 3726

Italiano: la libertà di una lingua classica

Venerdì 18 ottobre 2019
Incontro al Circolo dei lettori con Gian Luigi Beccaria

La lingua italiana è nata e si è sviluppata fortemente ancorata al suo retroterra greco-latino, ma non necessariamente questo modello illustre ha costituito una costrizione o un ostacolo al suo evolversi; l’intervento di Gian Luigi Beccaria al Circolo dei lettori sviscera in una prospettiva storica la ricchezza, la fecondità e la libertà di quella che può essere definita, in tutti i sensi, una lingua classica. 

*

La lingua dei classici non ha costituito per l’italiano un impaccio, ma ha collaborato a mettere a disposizione una più libera e ricca varietà di registri, agendo anche come spinta al rinnovamento neologico sia nella forma che nel significato.

Rispetto alle altre lingue europee l’italiano contiene una straordinaria quantità di tratti greco-latini, che non hanno costituito una verniciatura di stantio, bensì un segno distintivo di nobiltà. Se le altre lingue sorelle hanno in molti casi adottato parole dal sapore più quotidiano e dimesso, l’italiano ha invece amato coloriture dotte e anticheggianti. Le opposizioni tra parole italiane dall’origine dotta e parole francesi più umili sono innumerevoli: basti pensare alla nostra cipria, che prende il nome dall’isola di Cipro mentre l’equivalente francese poudre può vantare un’origine molto meno nobile, oppure al piroscafo, chiamato più semplicemente dai francesi bateaux, o al nostro solenne fiammifero paragonato al più dimesso alumette.

Molte rivalità lessicali hanno rivolto il conflitto a favore della soluzione anticheggiante: il telescopio venne preferito al cannocchiale di Galileo, e il dotto Pietro Giordani, che nell’Ottocento suggeriva di utilizzare radici italiane per modellare nuovi termini scientifici, sostituendo grecismi come termometro e anemometro con coniazioni italianeggianti come segnacaldo, misuravento, non vide realizzato il suo desiderio.

Innumerevoli cultismi e latinismi sono entrati nell’uso medio-alto della nostra lingua, tanto incombenti da portare a un’esibizione del latino foneticamente non adattato (aurea medietas, est modus in rebus), che nel pomposo italiano avvocatesco conobbe il suo terreno più fertile. Negli scrittori la classicità ha poi ricoperto svariate funzioni: non solo ha steso una patina anticheggiante sul lessico e sulla sintassi, ma è diventata un ingrediente essenziale del ribollio espressionistico di tanti autori che hanno voluto intenzionalmente accostare l’alto e il basso, il sublime e l’antico con il dialettale, da Dante a Gadda a Michele Mari.

L’antico ha insomma costituito un elemento fondamentale della nostra tradizione letteraria e le ha fornito una gravità segreta che pescava dal passato, una scelta anticheggiante che sembra minore nella tradizione di altri paesi: l’italiano ha conservato più a lungo il senso robusto del periodo, l’onda lunga latineggiante e compatta che ricerca la simmetria, gli effetti retorici delle clausole medievali, il parallelismo delle rispondenze di concetti e di ritmi. Il latino ha arricchito sin dalle origini le risorse del volgare, e la prosa medievale nasce già ricca dell’ornatus ciceroniano, il cui impianto durerà fino ai prosatori dell’Ottocento.

In particolare è nell’ambito della poesia che in Italia si è guardato alla tradizione classica: Alfieri amava in maniera appassionata i costrutti con sapore latino e greco, si estasiava di fronte alle inversioni, alla posizione innaturale dell’aggettivo prima del nome. Eloquente è la sua annotazione autografa sul sonetto 162, “Ad alte cose io nato me sentiva”, e ancora di più lo è il modo in cui definisce l’ordine non marcato della frase: “fiacchissimo verso”.

Dovremmo parlare di un modello o piuttosto di una costrizione? Che tipo di libertà può avere una lingua che guarda costantemente all’indietro?

La realtà è che i modelli antichi non hanno mai stretto in ceppi la nostra lingua, ma al contrario le hanno dato vigorose spinte verso un progressivo miglioramento. La frequenza dei latinismi lessicali e sintattici non è causata dalla debolezza di una prosa neonata che si va formando e che ha bisogno di stampelle, ma dalla ricerca consapevole e libera di una guida forte. Non a caso i grecismi e i latinismi apportano una fortissima spinta alla neologia, non solo di forma ma anche di significato: il latino captivus passa dal significato di “prigioniero” a quello di “malvagio”, sotto l’influsso del cristianesimo; sul significato di tradire il cristianesimo opera poi un passaggio semantico notevole, da “consegnare” a “consegnare qualcosa al nemico con l’inganno” – ai tempi delle persecuzioni infatti i vescovi traditores consegnavano i libri sacri alle autorità.

L’impronta latina sul significato delle parole nei primi secoli della letteratura italiana è particolarmente evidente in quanto conferisce ai singoli termini una potenza etimologica che col tempo è andata lentamente svanendo: nella Commedia gli aggettivi molesto e mesto compaiono in situazioni di particolare drammaticità e il loro valore è notevolmente più connotato in senso gravoso rispetto a quello odierno, è più forte in quanto desunto direttamente dal latino. Il latinismo quindi non fornisce solo una patina di vetusto e arcaico, ma riporta la parola ad un significato potente originario, per forza di etimo, che viene sfruttato sapientemente dagli scrittori per conferire sfumature ai loro testi.

La ripresa neoclassica ottocentesca e il conseguente incremento dell’uso del latino costituiscono una spinta di ardimento innovativa, che sarà intensificata con i contributi di D’Annunzio e Carducci – quest’ultimo in particolare esprime la sua preferenza nei confronti dei latinismi anche nello schema accentuale dei termini da lui scelti, tendenzialmente proparossitoni (colubro, adamantino, cuculo).

Gli agganci alla classicità continuano ancora nella seconda metà del Novecento; proprio quando tutte le vie per segnare la distanza dal passato sono state attraversate gli echi del passato continuano ad affiorare, anche quando si dà l’addio al tono liricamente aulico non ci si riesce a staccare dall’ancoraggio all’antico. Un esempio lampante di questa persistenza è l’iperbato, figura nobile e anticheggiante che viene ripresa spesso nel secondo Novecento, proprio quando la poesia simula maggiormente il parlato e l’oralità. Gli autori del secolo scorso quando scendono verso il parlato non vogliono mostrare nessun sintomo di depressione stilistica, e corrono a mettersi al riparo di coperture anticheggianti: Sereni e Caproni preferiscono spesso una sintassi antilineare, che però non assume il significato di esposizione di antiquariato, bensì viene applicata all’interno dei loro andamenti più colloquiali, per innalzare il tenore di una sintassi che tende all’oralità.

Se il Novecento è caratterizzato da versi moderni che scrivono a tratti all’antica in una voluta ed esibita innaturalità, possiamo ravvisare in Leopardi l’ultimo ad aver scritto per arcaismi nel modo più naturale, ad aver saputo coniugare l’attualità e la spontaneità con il cultismo, ad aver espresso messaggi di contenuto nuovo tramite strumenti antichi. La libertà e l’antico in lui collimano, nella sua poesia si condensano tutta la tradizione antica e quella moderna e i classici si fanno davvero carne, non solamente sterili citazioni: i fuochi di Troia e le luci di Recanati diventano la stessa cosa, la sua luna domestica coincide con quella di Virgilio e di Omero.

Volgendo il capo ai predecessori Leopardi ha saputo raccogliere i frutti migliori, i cosiddetti “frutti freschi fuori di stagione”, come lui definiva gli arcaismi, pensando la letteratura italiana come una corrente dal suono familiare e insieme antico. In lui più di ogni altro la lingua dei classici non ha rappresentato una prigione o un freno, ma ha suscitato una continua libertà espressiva.

Linda Dellacroce

Intervista a Patrick Kingsley

Federica Bassignana, per la sua tesi di laurea magistrale (Oltre i confini. Il reportage narrativo tra letteratura e giornalismo, relatrice: prof.ssa Chiara Lombardi. discussa il 26/11/2019, 110/110L), intervista il giornalista Patrick Kingsley, autore di The New Odyssey: The Story of Europe’s Refugee Crisis (Guardian Books, 2016). L’intervista ha ricevuto l’approvazione ai fini della ricerca dal New York Times Management Departement.

* * *

Patrick Kingsley (Londra, 1989) è attualmente giornalista del «New York Times» come corrispondente per gli affari internazionali ed è stato precedentemente giornalista per il «Guardian», che lo ha nominato nel 2015 il primo corrispondente di migrazione. Per conto del celebre quotidiano britannico è stato corrispondente da Il Cairo, Istanbul, ha seguito il traffico di esseri umani dalla Libia all’Egitto, dalla Turchia al Niger e insieme al collega David Hearst ha condotto l’ultima intervista a Mohamed Morsi come presidente d’Egitto prima della sua destituzione nel 2013.  Per lo spessore delle sue inchieste e la meticolosità dei suoi reportage, nel 2015 Kingsley è stato nominato giornalista dell’anno per gli affari esteri in occasione dei British Journalism Awards; tra i numerosi premi, gli è stato conferito il Frontline Club Award nel 2013 per il suo reportage Killing in Cairo – the full story of the Republican Guards’ club shootings[1]. Nel 2012 viene pubblicato il suo primo libro How to be Danish[2], un viaggio di esplorazione nel cuore della cultura danese e nel 2016, in seguito alla sua esperienza di corrispondente di migrazione per il «Guardian», racconta la storia della contemporanea crisi dei rifugiati in Europa in The New Odyssey[3], su cui verte la seguente intervista. 

The title of your book is The New Odyssey. The Story of Europe’s refugee crisis. What’s the reason that led you to compare the classic epic to the contemporary European migration crisis?      
There are two main reasons: the first reason is that the journey that Odysseus goes on from a war, torn apart Asia minor, trough dangerous adventures in the east of the Mediterranean towards Greece. It is obviously very similar to the journey that lot of refugees are making in 2015 and indeed continue to make today. Refugees are leaving from Turkey not too far actually from where Troy was supposed to have been built a thousand of years ago. They are attempting to get to a Greek island not unlike Odysseus was trying to reach the Greek Island Ithaca. And the second reason is an editorial reason: by framing migrants as Greek heroes I hope someone shift the narrative about who these people are or why they are moving. In certain sections of public opinion migrants are often considered bad and problematic, but I wanted to show how in another light what they are doing is heroic.

Aeneas, as well as Odysseus, has fled the war but he is fulfilling his destiny of setting up a new dynasty, finding a new home, rather than going back home as Odysseus. Why did you decide to change the first chosen title The New Aeneid to The New Odyssey?

I would have called The New Aeneid if more people in the English-speaking world had heard of the Aeneid. As I said in the book and as you repeat in your question, Aeneas is more a refugee than Odysseus because Aeneas is fleeing his home in search of a new one whereas Odysseus is fleeing a warzone in order to go back home. Instead of that, the reason why I didn’t call The New Aeneid but The New Odyssey is that not many people have heard of The Aeneid but they have heard of The Odyssey because it is more famous in the English speaking world.

To what extent Aeneas and Odysseus represent the refugee experience and how? You said that central narrative in The Aeneid is about a refugee called Aeneas. Is Odysseus then, in your opinion, a different symbol of the migration experience?

Aeneas and Odysseus are both on the move and they shared the travel experiences –  tough experiences –  but one of them, Odysseus, is going home, and the other, Aeneas, is leaving home and trying to find a new one, and that is much more comparable to the contemporary migrants experience. I don’t think Odysseus journey has a particularly close contemporary comparison, maybe you might compare Odysseus’ journey home to a migrant in Libya who decides, instead of going to Italy, to go back home but going back through the Sahara desert is just as dangerous as trying to go through the Sahara in the first place, and trying to get to Libya. So maybe one might compare their experience: an African migrant experience trying to get back to Nigeria or Senegal to Odysseus and his journey back to Ithaca, but I don’t think it is a particularly close resembles.

Your reporting is based on a thematic focus, rather than one geographical location. What are the pros and cons of this specific focus?

I think it does look at themes that make me to go to specific geographic locations like Libya, Egypt, Niger, Greece, Italy, Turkey and I would hope that by exploring themes you do actually get a good sense about placing and about the environment in which people are coming from and do some moving through.

Your text is a narrative report about travel and emigration, offering its readers a clear and detailed full experience of nowadays emigration. What’s the book genesis? 

I was the migration correspondent for “The Guardian” and I had the opportunity to see the refugee crisis of 2015/16 and I was able to travel through several countries: from Sahara to Niger, from Sweden, to Turkey, from Italy to Greece.  In the end for the book I choose 17 countries but in the course of my report I poorly went to 24/25 and during my reporting, I felt that I had the privilege to see the crisis in more detail than most other people. I wanted to be able to put all the things that I have learnt in a single narrative that hopefully might open some people’s eyes to a more new understanding of why people are on the move and how they move in the first place, and it was an attempt to use all the things that I have learnt to help enhance public discuss.

Your book moves from report to literature, using prose’s characteristics while fulfilling the facts and the reality though Hashem al-Soukis’s story. Is there any editorial aim behind this choice? Or does it specifically want to show a connection between one single life to a universal common destiny?

This decision to use a little more literally  form of writing for Hashem al-Soukis’ storywas just an attempt to make it more vivid and engrossing and to make you feel like you are there with him, and by writing not only in a factual way but in a way that was written like a novel. I hoped that a reader might be able to identify more with him slightly more because the journalistic prose might be more alienating to the reader than the more fluid and warm-hearted literary style.


[1] Patrick Kingsley, Killing in Cairo – the full story of the Republican Guards’ club shootings, The Guardian, 18 luglio 2013.

[2] Patrick Kingsley, How to be Danish, Marble Arch Press, New York, 2014.

[3] Patrick Kingsley, The New Odyssey. The story of Europe’s refugee crisis, Guardian Books and Faber & Faber, Londra, 2016.

Omnia mutantur, nihil interit. Le influenze ovidiane nella filosofia della natura di Leonardo da Vinci

di Andrea Pace

Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.

Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne, senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran parte della sua concezione naturale.

Omo sanza lettere, come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi scrittori del passato, da lui definiti altori, anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane sono il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1] da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.

Le Metamorfosi

Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo scrittore, narra di forme mutate in corpi nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti, amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.

Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque, dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.

Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti aspetti simile a quella biblica[2], deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica. La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale, descritto come rudis indigesteque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4] –, è troppo simile alle anassagoree omeomerie (termine dato da Aristotele ai semi originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi ordinate da un non meglio determinato Nous, una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a comprendere che tutto è in tutto, che in natura ogni cosa è unita alle altre.

La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5] discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano, così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna, le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una sola è la verità che permane nel tempo: Omnia mutantur, nihil interit[6].

La filosofia della natura di Leonardo

A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti di Leonardo) e

trovano espressione in quei fogli del primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]

In quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al presente discorso tenerne a mente tre: Il mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento della terra (Atl.715) e La caverna (Ar. 155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni e ora il mostro disfatto dal tempo, paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].

Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?[10] La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce, ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da Leonardo in Atl. 1067[11] – e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.

Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già parlato nei suoi scritti con questi termini:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]

Una caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza che, in quanto omo sanza lettere, deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].

La Gioconda

Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.

L’esperienza – unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni, alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti e negli infiniti disegni e abbozzi[15], che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere considerato un trattato di filosofia della natura[16]. Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una nell’altra in una coincidentia oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo prende il nome di recto contrario ed elimina la concezione del simile conosce il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio, interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).

Nella Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica, la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile e non commentabile. Il suo volto si fa specchio, si lascia guardare, ma prima di tutto guarda: ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi: montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride, quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita, necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo, anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste, eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse è la personificazione di quel naturae vultus descritto da Ovidio.

Sulle orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione, poiché i corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più[18], idea che per Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo, che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e facilmente comprensibile.

Insomma il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale, ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.

Bibliografia

Ovidio (2015), Metamorfosi, trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.

L. da Vinci (1992), Scritti, a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.

G. Cuozzo (2013), Dentro l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.

Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed. Dehoniane.


[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice, pag. 156.

[2] Si vedano, come più lampanti esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la creazione di un uomo a Sua immagine e somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene attraverso la terra ancora recente, che ancora ha in sé parte del cielo divino.

[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi discordi di cose mal combinate.

[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque egli fosse.

[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione.

[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto si trasforma, nulla perisce.

[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.

[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.

[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg. 164-65.

[10] Ivi, L’accrescimento della terra, pagg. 163-64.

[11] Anassagora. Ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

[12] Ivi, La caverna, pag. 162.

[13] Ovvero coloro i quali non fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.

[14] Si pensi anche solo a Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.

[16] Come sostiene G. Cuozzo (2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

[17] Ivi, pag. 121.

[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.