Nel presente articolo, Sofia Ranca (Università degli Studi di Torino) analizza e indaga la scrittura del sé nell’opera del premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio

(Settembre 2023)

Davanti allo specchio tropo bianco della pagina vuota

Davanti allo specchio troppo bianco della pagina vuota, sotto il paralume che diffonde una luce segreta
(Jean-Marie Gustave Le Clézio)

Introduzione

Il Dio della Bibbia è un Dio che parla, un Dio che incarna la parola. L’incipit del vangelo di Giovanni lo sottolinea con forza quando afferma che «in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»[1]. La legge del Dio giudaico è infatti la Legge della Parola che illumina il caos originario dell’indifferenziato, e dona vita al creato:

Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu[2].

Nella Genesi la divina Creazione si compie attraverso la parola di Dio. Quest’ultima non nomina, non designa solamente le cose del mondo: dona loro esistenza, ne rivela l’essere, le molteplici verità. La parola di Dio è logos, è verbo che si fa carne «e [viene] ad abitare in mezzo a noi»[3]; è dunque creatrice di relazioni, concetti, teorie e realtà.

Quale sia il rapporto tra lingua e pensiero è d’altronde una delle questioni più discusse dalla teoria più recente. Ma se la lingua, ogni lingua diversa, è in grado di organizzare e modellare la teoria del mondo – dunque di comprendere la realtà, attribuendole significato -, si può affermare di essere fatti della stessa sostanza delle parole? È questo il significato del Dio della Bibbia che incarna la parola? «Ritornavo al mio sesto piano simbolico, vi respiravo […] l’aria rarefatta delle Belle Lettere, l’Universo si disponeva a piani sotto di me, e ogni cosa umilmente mi sollecitava un nome, dare ad esse un nome era al tempo stesso crearle e prenderle»[4], sembrerebbe rispondere Jean-Paul Sartre, uno dei più influenti maestri del linguaggio umano a lungo interessatosi alla natura creatrice delle parole, «quintessenza delle cose»[5]. Tuttavia, non è possibile pensare che le verità veicolate dalle parole possano risolversi unicamente nella mistica ispirazione o nel “dono provvidenziale” poiché esse sono anche il risultato di uno spazio storicamente e culturalmente determinato e che l’essere umano, attraverso il proprio vissuto, tenta di colmare. In tal senso, la letteratura «est un phenomene double»[6]: nell’individuo, e più nello specifico nello scrittore e nel lettore, lo sviluppo psicologico si incontra e/o si scontra con quello storico, sociale e culturale.

Riflettere sul linguaggio, in particolare letterario, significa certamente affrontare una storia lunga, tempestosa ed intricata; in A libro aperto: una vita è i suoi libri, il noto filosofo e psicoterapeuta italiano Massimo Recalcati scrive che «ogni lettore che è stato letto dal libro porta stampate su di sé le tracce di queste letture, […] impariamo qualcosa di chi siamo dal libro che leggiamo perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto»[7]. Scrivere, allora, può voler dire farsi libro? E leggere, può significare essere letti dal libro stesso? E ancora, in che modo lo scrittore ed il lettore si servono della materia sensibile e reattiva della parola? È forse questa stessa materia che, più di ogni altra (pur rassomigliando alla Musica), avvolge l’esistenza umana e differenzia l’opera letteraria da tutte le altre opere artistiche?

Il presente lavoro vuole avviare una riflessione a partire dai quesiti posti per comprendere come, e quanto, si possa interrogare la legittimità della parola nella sua duplice funzione di verità e finzione, di ricerca interiore e necessità, di certezza ed illusione. Al sorgere di tale idea di ricerca ha contribuito l’attenta lettura de L’Extase matérielle di Jean-Marie Le Clézio, la cui “identità” narrativa ha permesso un personale e stimolante arricchimento intellettuale.

Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche parte, sopra le infinite Tavole del Verbo; […] se combinavo ingegnosamente le parole, l’oggetto si impegolava nei segni, era mio.
(Jean-Paul Sartre, Les Mots)


L’Extase matérielle’, Jean-Marie Gustave Le Clézio, 1967

Può certamente indurre a un’immediata riflessione il fatto che un’intima, quasi viscerale, e oscura indagine esistenziale, quella di Jean-Marie Gustave Le Clézio, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2008, abbia trovato la propria espressione letteraria nell’ibrida forma del saggio filosofico-romanzesco, non a caso intitolato L’Extase matérielle. «Autore di nuove partenze, avventura poetica ed estasi sensuale, esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civiltà regnante»[8], Le Clézio comincia l’esplorazione della propria esistenza dalla sua stessa non esistenza, dal suo evidente non essere nel tempo e nello spazio, quando il vuoto era la sua carne e «c’era unicamente questo: uscita dal silenzio e ritorno al silenzio»[9].

Questo mondo era uno e plurimo, […] era più che una verità; perché al di là di ogni linguaggio, era l’impossibile identità di ogni manifestazione[10].

L’autore, e questo è forse l’aspetto che più contraddistingue la scrittura di Le Clézio, affronta la narrazione da una retrospettiva del tutto nuova, straniante e ancora inesplorata: la voce è di chi – come «seme confuso fra i semi»[11]-, non è ancora vivo, ma non ancora morto. Da questa particolare posizione, la narrazione, che non è ancora dotata di immaginazione umana, tecnicamente si traduce in un processo di associazione ed invenzione di nuove forme (saggio, filosofia, forma lirica, teoria della letteratura) esplorabili unicamente attraverso la trasgressiva rappresentazione di un Io che, spersonalizzandosi, è in grado di collocarsi nella dimensione dell’umanamente inesprimibile: uscendo dalla stasi (da qui, l’estasi), esso accede alla gioia invincibile dell’ essere nella materia. È qui, in questa “zona” senza volto, situata tra l’estasi e la materia, che l’autore può avvicinarsi all’intuizione e alla percezione delle potenzialità dell’esistenza; è qui, in quello che egli definisce l’infinitamente medio (a cui è dedicato il primo capitolo), che lo scrittore fa esperienza della sostanza delle parole: l’incipit, l’«istante [in cui] può nascere il sentimento vero di vivere veramente»[12]. Avvicinandosi alla riflessione heideggeriana secondo la quale l’essenza (essentia) dell’Esserci [il Dasein] consiste nella sua esistenza [existentia][13], Le Clézio sembra svelare come quest’ultima non dipenda da un’essenza data a priori, bensì si determini solo nel momento in cui essa si apre traumaticamente all’orizzonte del mondo attraverso gli atti e le forme attribuite al proprio essere. In tal senso, e qui subentra la riflessione sartriana, l’uomo è prigioniero della libertà: egli non ha creato se stesso, tuttavia non può sfuggire dalla responsabilità della scelta, dunque della creazione della propria esistenza; quest’ultima, allora, si traduce in una ricerca del proprio e più autentico significato. Così, tra la realtà ed il mistero, tra la trascendenza e l’immanenza, lo Scrivere (che è anche il titolo del quarto capitolo de L’Extase matérielle), rappresenta per Le Clézio «lo sguardo [che] dà moto al mondo»[14], che attiva il passato – esplorandone le verità individuali e più personali -, e che intuisce la Verità – quella assoluta, indicibile, se non intelligibile. In tal senso, «la scrittura è la sola forma perfetta del tempo. C’era un principio, ci sarà una fine. C’è un segno, ci sarà un significato»[15] in grado di rivelare il fine ultimo del non linguaggio, del silenzio:

Ogni arte che non abbia come necessità il superamento del proprio messaggio,
cioè la propria morte, è inefficace[16].

Allora, è dietro tale irriducibile modo di guardare al valore delle parole e al loro modo di concepire e donare senso, unità e significato che merita di essere indagata l’estasi materiale di cui parla lo scrittore: «questo mistero più di ogni altro vorrei chiarire. Perché porta con sé la chiave del linguaggio, e forse anche la ragione originaria»[17], il contatto con l’al di là del tempo. Così, nonostante la voce dell’Io non racconti alcunché di sé stessa, le pagine dell’opera sembrano incarnarne la personale dichiarazione di esistenza nel mondo: quella che nasce dalla propria melodia e dal suo accordarsi all’universalità della scrittura, per poi fare ritorno nell’eterno silenzio dell’armonia del Tutto.

Per me non c’è nient’altro, nient’altro che il linguaggio. È il solo problema, anzi la sola realtà tutto vi si ritrova, tutto vi è coordinato. Io vivo nella mia lingua, è essa stessa che mi costruisce. Le parole sono realizzazioni, non strumenti. […] Come tutte le illusioni, quella alimentata dal linguaggio oltrepassa se stessa; diviene natura della mia fuga, forza della mia ascensione, forse anche ascesi[18].

È attraverso la scrittura che egli prende coscienza di sé, della realtà e di sé nella realtà: egli è figlio della parola creatrice, del verbo che è causa ed effetto della relazione, misura della libertà, ma anche alienazione ed inganno; ne percepisce forte tutta la contraddittorietà, l’estraneità, sino alla più perturbante sofferenza. Egli esiste grazie alla scrittura: autenticità e illusione del suo vissuto; «mi ci è voluta la durata della maggior parte di questa esistenza per comprenderne il significato»[19] dichiara l’autore nella sua prolusione durante la cerimonia del Nobel.  

Come d’altronde ricordava Wittgenstein, sono i confini del proprio linguaggio a determinare quelli del proprio mondo. Il binomio esistenza-scrittura rimanda nuovamente a uno dei testamenti umani e letterari di Sartre: Les Mots (pubblicato prima su Les Temps Modernes alla fine del 1963 e poi da Gallimard nel 1964):

Sono nato dalla scrittura: prima, c’era solo un gioco di specchi; […] Scrivendo, esistevo, mi sottraevo alle persone grandi; ma non esistevo che per scrivere, e se dicevo: io, ciò significava: io che scrivo[20].

Forte di una vita trascorsa tra la lettura e la scrittura (non a caso la sua autobiografia si compone di due soli capitoli: Leggere, il primo, e Scrivere, il secondo), Jean-Paul Sartre dichiara la propria esistenza nel mondo attraverso, appunto, les mots e termina il suo testamento consegnando al lettore e alla posteriorità non solo la storia di un uomo ed il ricordo di una vita esemplare, ma anche una profonda riflessione sull’universalità della scrittura.

È forse questo il ruolo della letteratura, quello di farsi carico dell’esperienza vissuta? Quello di lasciare un’impronta che – come disse Neil Armstrong nel momento in cui mise piede sulla luna -, è sì, un piccolo passo per un uomo, ma anche un grande balzo per l’umanità? Attraversando lande amene e desolate, anche la mano di Jean-Marie Gustave Le Clézio scrive per «accumulare le parole come colpi, per velare la faccia della verità, per dissimulare l’abisso di gioia e d’infelicità. Questa mano che avanzava sola sul bordo del tavolo, contratta sul corpo di materia plastica della penna a sfera, sapeva davvero quello che faceva? […] Le parole avevano preso corpo, esistevano sotto forma di esili fili sconnessi, odoranti, violenti, grotteschi, precisi. Dove avevano preso questo dramma?»[21]. Queste sono le domande che frantumano il sé durante il viaggio nel verbo, nella materia (e nelle sue molteplici trasformazioni e costruzioni), in quella che Le Clézio chiama foresta di paradossi. Non a caso la narrazione de L’Extase matérielle è prolissa, discontinua, disordinata. Le interruzioni, i paralogismi, le discese abissali e l’ardita speculazione ne caratterizzano l’esposizione, come pure il lirismo e le elevazioni dell’anima; tuttavia, il fine ultimo di questo déchirement, di questo assoluto senza gioia, di questo luogo dal quale l’artista non deve cercare di scappare – «ma al contrario nel quale egli deve “essere accampato” per riconoscervi qualche dettaglio, per esplorare ogni sentiero, per dare il nome proprio a ogni albero»[22] -, il fine ultimo di tutto questo, dicevamo, è la più piena e matura consapevolezza e ricostituzione del sé. La forza di tale estenuante percorso coincide con quella di un ardito desiderio:

Lo scrittore è un creatore di parabole. Il suo universo non nasce dall’illusione della realtà, ma dalla realtà della finzione. Procede così, splendidamente cieco, a scatti,
a inganni,a menzogne, a piccole condiscendenze. […] Deve avere la potenza dell’imperfezione. E deve essere dolce all’ascolto, dolce e commovente come un’avventura immaginata[23].

«Io devo alla foresta una delle più grandi emozioni letterarie della mia età adulta»[24], sostiene Le Clézio, il quale vede nel linguaggio “l’invenzione” più straordinaria e solidale dell’umanità. Lo scrittore, il poeta, il romanziere ne sono i celebratori ed i guardiani: tramite le parole – che essi non utilizzano, bensì servono -, creano bellezza, pensiero, immagine; rendono vivo il linguaggio, lo arricchiscono, lo trasformano, ne riscattano l’esistenza attraverso il fenomeno estetico: deriva forse da qui la passione per la Bellezza? Nella sua esplorazione, lo scrittore francese giunge sino al cuore, l’organo che lo inquieta di più: «spesso mi domando come possa battere, questo piccolo muscolo chiuso su se stesso. Perché non si arresta mai? Qual è la forza che lo fa trasalire così, cadenzatamente, regolarmente, e gli fa gettare il suo fiotto di sangue rosso ai quattro angoli del mio corpo? C’è qualcosa in queste fibre, una minuscola onda elettrica che d’improvviso le percorre, e lui sobbalza. Tuttavia non lo comando. Non lo sento nemmeno»[25]. Per Le Clézio, l’essenza del cuore risiede perciò nel suo battito ingovernabile: la sua voce non conosce che la scansione di un ritmo che alterna presenza ed assenza, senza pause. È a partire dal cuore, dall’ascolto di esso, che si può andare al di là della percezione, verso l’ideale sacramento della parola: dall’esistenza all’essenza.

La filosofia non mi interessa se non è anche preghiera[26].

Il «traguardo supremo del linguaggio e della coscienza»[27] è infatti per l’autore il silenzio, «quello da dove si viene e quello dove si va»[28]. Giunto al capitolo conclusivo del suo lavoro, lo scrittore sostiene che non vi è che l’“assenza” di suono a dare senso alle parole, così come non vi è che l’“assenza” della vista a dare senso alle visioni: «tutto ciò che si dice o si scrive, tutto ciò che si sa, è a questo fine, veramente a questo fine: il silenzio»[29]. Quest’ultimo non è luogo, non è vuoto, non è assenza, bensì presenza, «presenza illimitata di tutti i ritmi, di tutti gli accordi, di tutte le melodie»[30]. L’Io che parla, il soggetto lirico, diviene limite, soglia, porta del mondo, margine di un continuo interscambio con un oltre che diviene pensabile ed esprimibile solo attraverso la morte. Quest’ultima non è l’ultima melodia dell’esistenza, «non [è] il nulla, ma l’unione reale di tutto ciò che era vivo, di tutto ciò che era esistente, non più per l’espressione, ma per il silenzio, non più per l’uomo, ma per tutti, non più per tutti, ma per sé, ma nell’universo. Questo era l’evidenza»[31]: un’immanenza che sovrasta[32], come la definirebbe Martin Heidegger. Le Clézio concepisce dunque una morte che gradualmente rende evidente la sua eterna presenza, ciò che è sempre stata e che esige di essere assunta anche quando la letteratura sembra illusoriamente edificare una realtà dalla quale sono escluse l’esperienza ingovernabile della vita e quella inaggirabile della morte: «questa idea di morte era ciò che c’era stato di più acuto nel godimento, […] era stato segreto e tuttavia l’avevano conosciuto tutti. […] In me, in ogni istante, c’era l’uomo morto»[33].

Uomo che hai distrutto ogni volta che io operavo, uomo che hai cancellato
ogni volta che scrivevo, non mi hai lasciato mai […] come un dio[34].

Quello che bisognerebbe fare per penetrare veramente il mistero della scrittura, scrive Le Clézio, è «scrivere fino ai limiti delle proprie forze. Pensare, e definire il pensiero con segni instancabilmente, fino a cadere addormentato, svenuto, morto»[35]. Tuttavia, analogamente a Sartre[36], egli è amaramente consapevole di essere, più che un testimone, un semplice spettatore: desidera agire piuttosto che testimoniare, desidera «scrivere, immaginare, sognare perché le sue parole, le sue invenzioni, i suoi sogni intervengano sulla realtà, cambino gli spiriti e i cuori, aprano la porta a un mondo migliore. E tuttavia, nello stesso istante, una voce gli sussurra all’orecchio che questo non si potrà fare, che le parole sono parole che il vento della società porta via, che i sogni non sono che delle chimere. […] La solitudine sarà il suo premio. Lo è sempre stato […] felicità contraddittoria, miscuglio di dolore e di piacere, un trionfo ridicolo, un male sordo e onnipresente, come una piccola musica assillante. Lo scrittore è l’essere che, meglio di ogni altro, sa come coltivare la pianta vitale e velenosa, quella che cresce solo sul suolo della sua impotenza. Egli vorrebbe parlare per tutti, per tutti i tempi: eccolo, eccola nella sua stanza, davanti allo specchio troppo bianco della pagina vuota, sotto il paralume che diffonde una luce segreta. Davanti allo schermo troppo vivo del suo computer, ad ascoltare il suono delle sue dita che battono sui tasti. È quella la sua foresta. Lo scrittore ne conosce fin troppo bene ogni sentiero. Se qualche volta qualche cosa se ne fugge, come un uccello che si leva in volo all’alba disturbato da un cane, lo è sotto il suo sguardo sbalordito – era a caso, era malgrado lui, malgrado lei»[37]. Dunque, prima di essere scrittore e lettore, l’autore sembra riconoscersi nella stessa natura del libro: quello scritto dalla lingua più privata, inconscia, straniera e che Jaques Lacan ha definito lalangue (la lingua primaria che ha sancito il singolare rapporto che esiste tra le parole e la propria memoria più antica, che ha perciò unito il significante al corpo: la «spina del corpo[38]»). Il neologismo coniato dal Lacan esprime perfettamente nel suo stesso suono l’impatto con il Verbo (lo stesso Verbo della Genesi). Fenomeno verbale e intellettivo, il primo è incarnato nel secondo e viceversa. Anche Sartre offre una mirabile visione dell’incarnazione della lingua nel corpo, della cristallizzazione della memoria antica della voce ormai indelebilmente sedimentata. In tal senso si può allora comprendere il significato del titolo Una vita è i suoi libri che Massimo Recalcati affida al suo testo (vi si è fatto riferimento in apertura). Egli stesso, d’altronde, sostiene che «dove c’è ancora un libro […] gli uomini restano ancora umani, dove c’è ancora un libro la vita resta ancora nel solco della Legge della parola»[39].


Conclusioni

Giunti al termine di questa breve ricerca si vogliono richiamare alla memoria gli interrogativi dai quali si è partiti, al fine di comprendere come da questi si sia brevemente sviluppata la riflessione che vi è seguita. L’accenno analitico sul significato originario della parola nella Parola ci ha interrogati su cosa voglia dire scrivere, cosa voglia dire leggere e quale sia il rapporto tra questi due processi. Giunti alla figura di Jean-Marie Gustave Le Clézio – rapportata in certe occasioni a quella di Jean-Paul Sartre (con il quale si sono riscontrate delle somiglianze espressive) -, la lettura di alcuni estratti dell’esperienza umana documentata dalla sua scrittura ha permesso di osservare come il peculiare rapporto con il linguaggio scritto, e la trasgressività delle sue forme, lo abbia avvicinato a tematiche quali l’assurdo, la fatalità, la ricerca di autenticità, la libertà, la noia, l’illusione, la nausea in quanto eccesso di esistenza (dove quest’ultima non è più categoria astratta, ma materia stessa delle cose).

Riflettendo sull’inesauribile rapporto che corre tra la parola letta, la parola scritta e le loro innumerevoli possibilità di significazione, l’intento del breve lavoro è quello di aver accompagnato l’osservazione di come la letteratura non solo faccia dell’identità un tema, ma giochi anche un ruolo significativo nella costruzione dell’identità dei lettori.

Fornire un’unica, definitiva e statica concezione di letteratura non è possibile, in nessun luogo e nessun tempo. Ciò significherebbe scegliere la via dell’appiattimento letterario, artistico e culturale; dunque, la strada verso una visione identitaria che cancella il modo in cui occhi unici, perché diversi, osservano, vivono, leggono e poi raccontano la propria storia. Molteplici, perciò, sono i valori di cui la letteratura è portatrice e certamente è proprio nella ricerca di questi e delle infinite Verità che ogni vita letteraria è in grado di custodire – trovando testimonianza e infiniti riflessi negli occhi di chi oggi dona, e domani donerà, voce a quella singolare esistenza -, che si pone la condizione essenziale per la sopravvivenza della Letteratura. Una futura ricerca potrebbe allora offrirne un’interpretazione di più ampio respiro; tuttavia, scopo ultimo del presente lavoro è omaggiarne l’originario significato etimologico della parola, nonché l’arte di leggere e scrivere[40]; significato che la personale ed attenta lettura prima de Les Mots e dopo de L’Extase matérielle ha potuto ritrovare tra le parole e l’essenza identitaria di Jean-Paul Sartre e di Jean-Marie Gustave Le Clézio.

                                 L’arte si raggiunge scrivendo, scrivendo per sé e per gli altri, senz’altra mira che quella di essere se stesso.
(Jean-Marie Gustave Le Clézio,
L’Extase matérielle)


[1] Gv 1,1-3.

[2] Gen. 1:3.

[3] Gv 1, 14-18.

[4] J.-P. Sartre, Les Mots (1963); trad. it. Le parole, a cura di L. de Nardis, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 41.

[5] Ivi, p. 27.

[6] J.-P. Sartre, A. Astruc, M. Contat, Sartre: un film, Gallimard, 1997, p.61.

[7] M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli, Milano 2020.

[8] Motivazione conferimento Premio Nobel per la Letteratura 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio (https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2008/summary/).

[9] J.-M. G. Le Clézio, L’extase matérielle (1967); trad. it. Estasi e materia, trad. it. M. Binazzi e M. Maglia (a cura di), Rizzoli, Milano 2019, pp. 10-15.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 9. 

[12] Ivi, p. 35.

[13] M. Heiddeger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p .24.

[14] J. -M. G- Le Clézio, op.cit., p. 91.

[15] Ivi, pp. 85-86.

[16] Ivi, p. 171.

[17] Ivi, p. 34.

[18] Ivi, p. 29.

[19] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 2, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[20] J.-P. Sartre, op.cit., p.109.

[21] J. -M. G. Le Clézio, op. cit., pp. 233-235.

[22] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p.3, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[23] Ivi, p. 85-86.

[24] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 8, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[25] J. -M. G. Le Clézio, op.cit. p. 112.

[26] Ivi, p. 108.

[27] Ivi, p. 255.

[28] Ivi, p. 101.

[29] Ivi, p. 255.

[30] Ivi, p. 236

[31] Ibidem.

[32] M. Heiddeger, op. cit., p. 305.

[33] J. -M. G. Le Clézio, op.cit., pp. 260-261.

[34] Ibidem.

[35] Ivi, p. 107.

[36] Se è vero che al Jean sans terre si sostituisce lo scrittore impegnato che legge nella propria vicenda personale il percorso di tutta una generazione di intellettuali, è altrettanto vero che egli non cerca la gloria per i suoi scritti poiché ciò che più gli interessa è la comunicazione che, attraverso i suoi libri, egli è in grado di instaurare. Sartre desidera che questi possano continuare ad essere letti anche a seguito della sua morte, ma è consapevole di come questo non dipenda unicamente dal suo impegno o dalla sua notorietà, bensì da quanto la società, in costante evoluzione, possa essere in grado di tutelarne la circolazione e la divulgazione.

[37] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 5, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[38] J. Lacan, La terza, in Psicoanalisi n. 12, Astrolabio, Roma1992, p. 24.

[39] M. Recalcati, op. cit., pag. 179.

[40] Vocabolario online Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/letteratura/ (ultima data di consultazione: 28/05/2023): [dal lat. litteratura, der. di littĕra e littĕrae, secondo il modello del gr. γραμματική (v. grammatica)]. – 1. In origine, l’arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi in genere cultura, dottrina. Oggi s’intende comunem. per letteratura l’insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici, o, pur non proponendoseli, li raggiungano comunque; e con sign. più astratto, l’attività intellettuale volta allo studio o all’analisi di tali opere.

Bibliografia

La Sacra Bibbia, CEI-UECI (a cura di), Roma 1974

M. Heiddeger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976

J.-P. Sartre, Les Mots (1963); trad. it. Le parole, L. de Nardis (a cura di), Il Saggiatore, Milano 1982

J.-P. Sartre, A. Astruc, M. Contat, Sartre: un film, Gallimard, 1997

M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli, Milano 2020

J.-M. G. Le Clézio, L’extase matérielle (1967); trad. it. Estasi e materia, trad. it. M. Binazzi e M. Maglia (a cura di), Rizzoli, Milano 2019

J. Lacan, La terza, in Psicoanalisi n. 12, Astrolabio, Roma1992

L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, trad. it. L. Mecacci (a cura di), Laterza, Urbino 2019

Sitografia

Motivazione conferimento Premio Nobel per la Letteratura 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio (https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2008/summary/)

Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf)

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