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Caproni recensore: un laboratorio di poetica

In questo articolo, Gaël Pernettaz propone un’interessante analisi della figura di Giorgio Caproni recensore. Attraverso lo spoglio di articoli e dichiarazioni si ricercano costanti di questo aspetto secondario dell’attività dello scrittore, delineando in modo più completo la sua poetica attraverso l’illustrazione del rapporto che intercorre fra le recensioni e i componimenti in versi.

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Poeta, fra i principali esponenti della corrente antinovecentista. Un uomo magro, dal fisico schietto e nodoso, grande fumatore e amante della musica e della poesia, a cui dedicò tutta la sua vita. Questo fu Giorgio Caproni, e molto altro ancora: fra le altre cose, scrittore di narrativa, traduttore e critico, o piuttosto recensore, come lui stesso preferiva definirsi.

Egli rifuggiva infatti l’epiteto forse troppo magniloquente di “critico letterario”, probabilmente perché sentiva che tale vestito cadeva largo, troppo largo, sulle sue minute fattezze. Forse per tale ragione ha costellato la sua intera carriera di momenti in cui autosvalutava il suo lavoro, preferendo mostrarsi come un semplice omino dedito al suo lavoro con zelo e calma, piuttosto che imbellettarsi con quell’artificiosa immagine di arbiter elegantiae e al contempo di giudice infernale che contorna la figura, tanto temuta, del critico letterario.

Ora non ci si fraintenda: Caproni non portava avanti una battaglia contro la critica, che invece amava e apprezzava, quando ben fatta (ovvero, secondo lui, quando fatta da altri), e queste prese di distanza non sono da intendersi né come espressioni di falsa modestia, né come attacchi all’attività critica, quanto piuttosto come la constatazione sine ira et studio di un uomo che ha già trovato altrove la sua vera voce -o la sua musa, se si preferisce- e che si occupa di recensioni solo per dovere, seppur con la passione e il fresco entusiasmo del non specialista. Passione e entusiasmo che non lo abbandonarono mai per gli oltre cinquant’anni di esperienza, durante i quali collaborò a diverse testate fra cui «La fiera letteraria», «Italia socialista», «Il lavoro nuovo», «Mondo operaio», «La Giustizia», «Il Punto» o ancora «La Nazione».

È indubbio il fatto che nelle recensioni Caproni parli dei libri come ne parlerebbe con un amico davanti a un caffè, o come un ammiratore e non piuttosto in qualità di giudice, con il rigore e il distacco del critico, così come la mai sconfessata difficoltà nello scrivere recensioni, che a volte assume i caratteri molto più netti del rifiuto frontale se si pensa a certi versi del 1963 «Come sono felice/ dopo una recensione/ porre il libro lodato/ – Merda! «in un cassettone»./ Il pianto che m’è costato,/ il sudore, il groppone,/ il cuore che c’ho consumato/ a leggerlo/ che maledizione!/ […] Anch’io sarò divorato dai topi: è la condizione». Questo non basta però ancora a privare di interesse la figura tanto bistrattata (dallo stesso in primis) del Caproni recensore; e non solo per il valore documentario, di “dietro le quinte”, di laboratorio di poetica, che permea tutte le sue recensioni (una su tutte l’articolo Versi come utensili, apparso nel giorno di Natale del 1948 su «Mondo operaio» e poi divenuto celeberrimo), ma soprattutto perché in poche figure l’interdipendenza fra poesia e vita è infatti tanto stretta quanto lo fu per Caproni.

Proprio questa sua attitudine, che puntellò l’intera sua opera (per non dire l’intera sua vita) a ridurre tutto alla poesia, è ciò che lo portò non solo a riversare nell’attività di recensore tutta la sua esperienza da scrittore in versi, ma anche a cercare nei libri analizzati- per la maggior parte raccolte o antologie poetiche- i temi cari alla sua poesia. Senza dubbio l’esempio più evidente è l’articolo Poesie di Pasolini, apparso su «La fiera letteraria» del 20 marzo 1947, in cui Caproni loda artifici retorici della poesia di Pasolini (quali l’utilizzo del vezzeggiativo, la ripetizione del nome, la musicalità cavalcantiana) di cui lui stesso si servirà, dodici anni più tardi per cantare la madre Annina nei Versi livornesi, sezione de Il seme del piangere. Ad ogni modo nessuno degli autori recensiti, negli oltre cinquant’anni, sia i meno conosciuti (Ferri, Sbaraglia, Manzini, Reale, Belleli, Carra, Zoni o Verginelli per citarne alcuni) che i più affermati, italiani (quali gli amati liguri Montale, Roccatagliata Ceccardi, Novaro, Boine Grande o Barile, o ancora Rebora, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Penna e Sereni) o stranieri (Jacobi, Guillén, Salinas, Machado, Pound, Brecht, Joyce o Apollinaire ), è potuto sfuggire a questo vaglio critico; così Caproni, nell’aprire una poesia di Saba o una di Montale, come una di Machado o di Pound sempre ha cercato -a titolo di esempio- i minimi che lo ossessionavano, quei tenui barbagli («Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata, nemmeno come lettore») che permettevano alla Poesia di rifulgere, conferendo al testo letto quel carattere di universalità che è proprio della grande lirica.

In parallelo a questa ricerca, Caproni rivolgeva grande attenzione anche alla musicalità del verso e alla sua costruzione poiché, a suo parere, la forma era di primaria importanza e intimamente connessa alla poetica di un autore, e non mera tecnica applicata. Per tale ragione egli, trattando degli autori più disparati, si concentrò sul ritmo e la musicalità del verso, non risparmiando concetti, quali tonica, dominante, settima diminuita, che per il lettore che non si intende di musica, risultano incomprensibili. Questo perché, i vocaboli posseggono due nature, una fonica e una semantica, e la poesia, a differenza della prosa, si serve di ambedue, coniugandole o facendole stridere a seconda dell’intenzione del poeta.

A tale istanza di attenzione alla forma, e al suo legame con il testo, si collega inoltre il rifiuto per quelle che egli definisce le «poetiche a priori», riferendosi a quell’insieme di poetiche appunto, che, durante il secondo Dopoguerra, in opposizione alla precedente stagione ermetica, accusata di solipsismo e ignavia, fecero della poesia un mezzo per proporre -o per meglio dire “imporre”- idee, e non la considerarono invece quell’attività igienica che nasce da un bisogno interiore quale è e quale la intendeva il poeta. Non stupiscono quindi alcune pointes polemiche contro la poesia neorealista, rea di non aver raggiunto i risultati della prosa in quanto sterile esperimento in vitro e per tale motivo rivelatasi più perniciosa che altro. E sempre per la stessa ragione, non sorprende che Caproni in tutti gli autori analizzati cerchi l’afflato di vita, sia quello più palmare – quello, per intendersi dei suoi primi componimenti, in cui le donne erano ancora sapide («Sono donne che sanno/ così bene il mare…») e il fuoco bruciava ancora vivo («Bruciano alla bramosia/ segreta, le carnagioni/ giovani…») nelle vene del giovane poeta-, sia quello, più difficile a cogliersi, delle poesie permeate da una maggiore riflessione, quelle che Schiller definirebbe «sentimentali»: una su tutte La casa dei doganieri, il componimento montaliano da lui prediletto.

Infatti, la poesia non è certo equivalente a un saggio o a un discorso in prosa; non deve mostrare nulla di nuovo al suo lettore, quanto piuttosto, attraverso una forma originale, fare risorgere nel lettore quel je ne sais quoi appunto di poetico, che Caproni stesso non si vergogna di chiamare, con una punta di compiaciuta ingenuità, “emozione” o “sentimento”. Così, anche verso la fine della sua vita egli si riscalda quando sente che la poesia è morta, come dimostra l’articolo intitolato Poesia e scienza: si può ancora cantare la Luna (apparso sul «Tuttolibri» del 6 giugno 1987). Qui agli attacchi mossi da Giorgio Salvini, «illustre Fisico», che aveva osservato come nel mondo odierno, dominato dalla techné e dalla conoscenza, non ci fosse più spazio per la poesia essendo il mistero del mondo ormai svelato, egli risponde difendendo la magia dello scrivere versi, chiudendo con una citazione tratta da Apollinaire che racchiude e sintetizza magistralmente la figura di Caproni, nelle vesti del recensore, del poeta, ma, soprattutto, dell’uomo comune: «Poesia bella, amore mio,/ ci siamo amati storditamente./ Senti che razza di scampanio./ E vuoi non si crucci la gente?»

Gaël Pernettaz

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Bibliografia

Giorgio Caproni,  Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, Aragno, Torino, 2012.

Giorgio Caproni, L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, Mondadori, Milano, 2005 (1998).

Raffaella Scarpa, Secondo Novecento. Lingua stile metrica, dell’Orso, Alessandria, 2011.

“Continuare a imparare”: intervista a Salvatore Renna

Salvatore Renna, dottorando presso le Università di Bologna e dell’Aquila, ci racconta “gioie e dolori” dell’accesso in dottorato.

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Dove stai seguendo il tuo corso di dottorato? Trovi che ci siano differenze tra i programmi di dottorato dei diversi atenei italiani?

Sto seguendo il mio dottorato in Letterature comparate tra l’Università di Bologna e l’Università dell’Aquila. Non credo ci siano notevoli differenze tra i diversi dottorati in Italia. Mentre queste sono enormi rispetto ad altri paesi non solo europei ma anche rispetto agli Stati Uniti (durata, attività didattiche ecc. ecc.), tra i corsi di dottorato italiani le diversità si giocano tutte sui corsi offerti ai dottorandi dall’Università (molto spesso ad hoc, come l’insegnamento di lingue straniere specificatamente per l’ambito accademico o corsi di scrittura scientifica), la quantità di ore obbligatorie da spendere in missioni di ricerca (essenzialmente convegni) o corsi di laurea magistrale da seguire, e obblighi di consegna intermedi di capitoli della tesi (in alcuni dottorati bisogna, per esempio, ultimare il primo capitolo entro il primo anno, in altri il secondo capitolo entro il secondo anno mentre altri ancora non hanno alcuna consegna sino alla definitiva chiusura della tesi).

Quali sono le differenze rispetto ad un corso di laurea magistrale?

Le differenze sono molte e profonde. In primis le ore di didattica sono, con le menzionate differenze, infintamente inferiori a quelle di qualsiasi corso di laurea: la maggior parte del lavoro consiste nello sviluppo del proprio progetto di ricerca, condotto per la gran parte in solitaria. Non mancano certo incontri, spesso di altissimo livello: lezioni da parte di docenti della propria facoltà e di altre Università solo per i dottorandi e convegni a cui, solitamente, non si partecipa durante i corsi di laurea. Queste sono occasioni importanti soprattutto per quanto riguarda la metodologia della ricerca: offrono spunti, prospettive diverse e allargano orizzonti che rimarrebbero ristretti se si lavorasse unicamente in una torre d’avorio. Al contempo, però, il grosso della ricerca va compiuto da soli con l’aiuto del proprio tutor e, a differenza degli esami universitari, la ricerca della bibliografia, il suo studio e il continuo aggiornamento sono lasciati interamente ai dottorandi: da studenti si cerca di diventare studiosi.

Che cosa ti ha spinto a fare domanda?

Innanzitutto una grandissima passione: questa dev’essere sempre il primo motore, perché altrimenti la quantità di lavoro diventa difficilmente gestibile e forse lo studio in sé perde di senso e qualità. L’idea di continuare a studiare e approfondire mi stimolava molto e un corso di dottorato mi sembrava l’occasione migliore per provare a farlo.

Secondo quali criteri hai scelto il tuo corso di dottorato?

In base a due elementi: le linee di ricerca dell’Università e il tutor. Le prime, solitamente pubblicate nei bandi, sono importanti per capire non solo se il proprio progetto possa interessare e quindi essere accettato, ma anche per lavorare in un ambiente stimolante a arricchente. In questo senso è anche molto importante immaginare un possibile tutor che abbia compiuto studi su ambiti perlomeno vicini a quello in cui si pensa di lavorare e che possa ragionevolmente seguire la ricerca. Il dialogo e il rapporto col docente di riferimento sono infatti tra i fattori più importanti per la propria crescita intellettuale e per compiere un buon lavoro nei tre anni.

Come prepararsi per l’esame d’accesso?

Essendo il dottorato in letterature comparate e critica letteraria, ho cercato di prepararmi su testi abbastanza generali, in modo da poter aver un discreto quadro generale su cui orientarmi in sede d’esame. A posteriori posso però dire che il un buon 80% delle competenze utilizzate nell’esame le avevo acquisite durante i 5 anni di corsi universitari.

In che cosa consisteva l’esame?

L’esame consisteva di uno scritto e un orale. Il primo era di carattere piuttosto generale e permetteva a tutti, nonostante le diverse specializzazioni, di poter avere qualcosa di sensato da dire. Superato lo scritto da circa il 15% dei partecipanti, l’orale verteva maggiormente sul progetto di ricerca. La commissione valutava generalmente il suo grado di innovazione, se fosse un argomento su cui si aveva già una certa consuetudine (spesso sono infatti proseguimenti di studi iniziati con la tesi magistrale) e quanto si fosse preparati sulla bibliografia, oltre al grado di motivazione nel presentare il progetto e nell’intenzione di proseguire la ricerca. L’ultima parte dell’esame consisteva in un breve accertamento della conoscenza di una lingua straniera, scelta dal candidato (inglese, francese, tedesco o spagnolo).

Avevi esperienze pregresse di pubblicazioni o collaborazioni di valore scientifico?

No, mi ero laureato da circa due mesi e non avevo ancora alcuna esperienza di pubblicazione scientifica.

Quali aspettative nutri su questo dottorato?

A costo di risultar banale, credo che l’aspirazione più grande sia quella di continuare a imparare e conoscere: senza questa profonda e sincera curiosità credo che nessuna ricerca autentica sia possibile e si corra invece il rischio di un’erudizione fine a sé stessa. Oltre a ciò, spero di condividere il più possibile- con docenti più esperti, colleghi e studenti- i miei studi e le mie idee: insieme alla curiosità, sono il dialogo continuo e la condivisione del sapere a stimolare e a dare senso a un percorso di questo tipo.

E per il futuro?

Domanda difficile, ma credo che continuare a studiare cercando di comprendere in profondità, mettere in comune idee e punti di vista ed essere a mia volta spinto in territori inesplorati potrebbero essere le componenti adatte per essere felici vivendo immersi nella letteratura (e non solo, come la buona comparatistica insegna).