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Omnia mutantur, nihil interit. Le influenze ovidiane nella filosofia della natura di Leonardo da Vinci

di Andrea Pace

Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.

Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne, senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran parte della sua concezione naturale.

Omo sanza lettere, come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi scrittori del passato, da lui definiti altori, anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane sono il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1] da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.

Le Metamorfosi

Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo scrittore, narra di forme mutate in corpi nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti, amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.

Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque, dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.

Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti aspetti simile a quella biblica[2], deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica. La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale, descritto come rudis indigesteque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4] –, è troppo simile alle anassagoree omeomerie (termine dato da Aristotele ai semi originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi ordinate da un non meglio determinato Nous, una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a comprendere che tutto è in tutto, che in natura ogni cosa è unita alle altre.

La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5] discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano, così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna, le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una sola è la verità che permane nel tempo: Omnia mutantur, nihil interit[6].

La filosofia della natura di Leonardo

A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti di Leonardo) e

trovano espressione in quei fogli del primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]

In quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al presente discorso tenerne a mente tre: Il mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento della terra (Atl.715) e La caverna (Ar. 155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni e ora il mostro disfatto dal tempo, paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].

Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?[10] La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce, ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da Leonardo in Atl. 1067[11] – e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.

Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già parlato nei suoi scritti con questi termini:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]

Una caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza che, in quanto omo sanza lettere, deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].

La Gioconda

Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.

L’esperienza – unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni, alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti e negli infiniti disegni e abbozzi[15], che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere considerato un trattato di filosofia della natura[16]. Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una nell’altra in una coincidentia oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo prende il nome di recto contrario ed elimina la concezione del simile conosce il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio, interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).

Nella Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica, la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile e non commentabile. Il suo volto si fa specchio, si lascia guardare, ma prima di tutto guarda: ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi: montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride, quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita, necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo, anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste, eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse è la personificazione di quel naturae vultus descritto da Ovidio.

Sulle orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione, poiché i corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più[18], idea che per Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo, che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e facilmente comprensibile.

Insomma il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale, ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.

Bibliografia

Ovidio (2015), Metamorfosi, trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.

L. da Vinci (1992), Scritti, a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.

G. Cuozzo (2013), Dentro l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.

Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed. Dehoniane.


[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice, pag. 156.

[2] Si vedano, come più lampanti esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la creazione di un uomo a Sua immagine e somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene attraverso la terra ancora recente, che ancora ha in sé parte del cielo divino.

[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi discordi di cose mal combinate.

[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque egli fosse.

[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione.

[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto si trasforma, nulla perisce.

[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.

[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.

[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg. 164-65.

[10] Ivi, L’accrescimento della terra, pagg. 163-64.

[11] Anassagora. Ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

[12] Ivi, La caverna, pag. 162.

[13] Ovvero coloro i quali non fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.

[14] Si pensi anche solo a Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.

[16] Come sostiene G. Cuozzo (2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

[17] Ivi, pag. 121.

[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.

Linee e profili: la poesia di Franco Buffoni

Il collettivo Sul Ponte DiVersi. I poeti d’oggi organizza il terzo incontro di una rassegna dedicata ai poeti italiani contemporanei. L’evento fa parte del Salone Internazionale del Libro Programma #SaloneOFF 2018 e si terrà sabato 12 maggio alle ore 19 presso la libreria Il Ponte sulla Dora in Via Pisa 46 (Torino). Ospite della serata sarà Franco Buffoni, poeta scrittore, traduttore e saggista. Dialogano con lui Riccardo Deiana, Federico Masci, Jacopo Mecca e Francesco Perardi.

Le informazioni relative all’evento sono reperibili al seguente link:

https://www.facebook.com/pontediversi/ 

 

Caproni recensore: un laboratorio di poetica

In questo articolo, Gaël Pernettaz propone un’interessante analisi della figura di Giorgio Caproni recensore. Attraverso lo spoglio di articoli e dichiarazioni si ricercano costanti di questo aspetto secondario dell’attività dello scrittore, delineando in modo più completo la sua poetica attraverso l’illustrazione del rapporto che intercorre fra le recensioni e i componimenti in versi.

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Poeta, fra i principali esponenti della corrente antinovecentista. Un uomo magro, dal fisico schietto e nodoso, grande fumatore e amante della musica e della poesia, a cui dedicò tutta la sua vita. Questo fu Giorgio Caproni, e molto altro ancora: fra le altre cose, scrittore di narrativa, traduttore e critico, o piuttosto recensore, come lui stesso preferiva definirsi.

Egli rifuggiva infatti l’epiteto forse troppo magniloquente di “critico letterario”, probabilmente perché sentiva che tale vestito cadeva largo, troppo largo, sulle sue minute fattezze. Forse per tale ragione ha costellato la sua intera carriera di momenti in cui autosvalutava il suo lavoro, preferendo mostrarsi come un semplice omino dedito al suo lavoro con zelo e calma, piuttosto che imbellettarsi con quell’artificiosa immagine di arbiter elegantiae e al contempo di giudice infernale che contorna la figura, tanto temuta, del critico letterario.

Ora non ci si fraintenda: Caproni non portava avanti una battaglia contro la critica, che invece amava e apprezzava, quando ben fatta (ovvero, secondo lui, quando fatta da altri), e queste prese di distanza non sono da intendersi né come espressioni di falsa modestia, né come attacchi all’attività critica, quanto piuttosto come la constatazione sine ira et studio di un uomo che ha già trovato altrove la sua vera voce -o la sua musa, se si preferisce- e che si occupa di recensioni solo per dovere, seppur con la passione e il fresco entusiasmo del non specialista. Passione e entusiasmo che non lo abbandonarono mai per gli oltre cinquant’anni di esperienza, durante i quali collaborò a diverse testate fra cui «La fiera letteraria», «Italia socialista», «Il lavoro nuovo», «Mondo operaio», «La Giustizia», «Il Punto» o ancora «La Nazione».

È indubbio il fatto che nelle recensioni Caproni parli dei libri come ne parlerebbe con un amico davanti a un caffè, o come un ammiratore e non piuttosto in qualità di giudice, con il rigore e il distacco del critico, così come la mai sconfessata difficoltà nello scrivere recensioni, che a volte assume i caratteri molto più netti del rifiuto frontale se si pensa a certi versi del 1963 «Come sono felice/ dopo una recensione/ porre il libro lodato/ – Merda! «in un cassettone»./ Il pianto che m’è costato,/ il sudore, il groppone,/ il cuore che c’ho consumato/ a leggerlo/ che maledizione!/ […] Anch’io sarò divorato dai topi: è la condizione». Questo non basta però ancora a privare di interesse la figura tanto bistrattata (dallo stesso in primis) del Caproni recensore; e non solo per il valore documentario, di “dietro le quinte”, di laboratorio di poetica, che permea tutte le sue recensioni (una su tutte l’articolo Versi come utensili, apparso nel giorno di Natale del 1948 su «Mondo operaio» e poi divenuto celeberrimo), ma soprattutto perché in poche figure l’interdipendenza fra poesia e vita è infatti tanto stretta quanto lo fu per Caproni.

Proprio questa sua attitudine, che puntellò l’intera sua opera (per non dire l’intera sua vita) a ridurre tutto alla poesia, è ciò che lo portò non solo a riversare nell’attività di recensore tutta la sua esperienza da scrittore in versi, ma anche a cercare nei libri analizzati- per la maggior parte raccolte o antologie poetiche- i temi cari alla sua poesia. Senza dubbio l’esempio più evidente è l’articolo Poesie di Pasolini, apparso su «La fiera letteraria» del 20 marzo 1947, in cui Caproni loda artifici retorici della poesia di Pasolini (quali l’utilizzo del vezzeggiativo, la ripetizione del nome, la musicalità cavalcantiana) di cui lui stesso si servirà, dodici anni più tardi per cantare la madre Annina nei Versi livornesi, sezione de Il seme del piangere. Ad ogni modo nessuno degli autori recensiti, negli oltre cinquant’anni, sia i meno conosciuti (Ferri, Sbaraglia, Manzini, Reale, Belleli, Carra, Zoni o Verginelli per citarne alcuni) che i più affermati, italiani (quali gli amati liguri Montale, Roccatagliata Ceccardi, Novaro, Boine Grande o Barile, o ancora Rebora, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Penna e Sereni) o stranieri (Jacobi, Guillén, Salinas, Machado, Pound, Brecht, Joyce o Apollinaire ), è potuto sfuggire a questo vaglio critico; così Caproni, nell’aprire una poesia di Saba o una di Montale, come una di Machado o di Pound sempre ha cercato -a titolo di esempio- i minimi che lo ossessionavano, quei tenui barbagli («Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata, nemmeno come lettore») che permettevano alla Poesia di rifulgere, conferendo al testo letto quel carattere di universalità che è proprio della grande lirica.

In parallelo a questa ricerca, Caproni rivolgeva grande attenzione anche alla musicalità del verso e alla sua costruzione poiché, a suo parere, la forma era di primaria importanza e intimamente connessa alla poetica di un autore, e non mera tecnica applicata. Per tale ragione egli, trattando degli autori più disparati, si concentrò sul ritmo e la musicalità del verso, non risparmiando concetti, quali tonica, dominante, settima diminuita, che per il lettore che non si intende di musica, risultano incomprensibili. Questo perché, i vocaboli posseggono due nature, una fonica e una semantica, e la poesia, a differenza della prosa, si serve di ambedue, coniugandole o facendole stridere a seconda dell’intenzione del poeta.

A tale istanza di attenzione alla forma, e al suo legame con il testo, si collega inoltre il rifiuto per quelle che egli definisce le «poetiche a priori», riferendosi a quell’insieme di poetiche appunto, che, durante il secondo Dopoguerra, in opposizione alla precedente stagione ermetica, accusata di solipsismo e ignavia, fecero della poesia un mezzo per proporre -o per meglio dire “imporre”- idee, e non la considerarono invece quell’attività igienica che nasce da un bisogno interiore quale è e quale la intendeva il poeta. Non stupiscono quindi alcune pointes polemiche contro la poesia neorealista, rea di non aver raggiunto i risultati della prosa in quanto sterile esperimento in vitro e per tale motivo rivelatasi più perniciosa che altro. E sempre per la stessa ragione, non sorprende che Caproni in tutti gli autori analizzati cerchi l’afflato di vita, sia quello più palmare – quello, per intendersi dei suoi primi componimenti, in cui le donne erano ancora sapide («Sono donne che sanno/ così bene il mare…») e il fuoco bruciava ancora vivo («Bruciano alla bramosia/ segreta, le carnagioni/ giovani…») nelle vene del giovane poeta-, sia quello, più difficile a cogliersi, delle poesie permeate da una maggiore riflessione, quelle che Schiller definirebbe «sentimentali»: una su tutte La casa dei doganieri, il componimento montaliano da lui prediletto.

Infatti, la poesia non è certo equivalente a un saggio o a un discorso in prosa; non deve mostrare nulla di nuovo al suo lettore, quanto piuttosto, attraverso una forma originale, fare risorgere nel lettore quel je ne sais quoi appunto di poetico, che Caproni stesso non si vergogna di chiamare, con una punta di compiaciuta ingenuità, “emozione” o “sentimento”. Così, anche verso la fine della sua vita egli si riscalda quando sente che la poesia è morta, come dimostra l’articolo intitolato Poesia e scienza: si può ancora cantare la Luna (apparso sul «Tuttolibri» del 6 giugno 1987). Qui agli attacchi mossi da Giorgio Salvini, «illustre Fisico», che aveva osservato come nel mondo odierno, dominato dalla techné e dalla conoscenza, non ci fosse più spazio per la poesia essendo il mistero del mondo ormai svelato, egli risponde difendendo la magia dello scrivere versi, chiudendo con una citazione tratta da Apollinaire che racchiude e sintetizza magistralmente la figura di Caproni, nelle vesti del recensore, del poeta, ma, soprattutto, dell’uomo comune: «Poesia bella, amore mio,/ ci siamo amati storditamente./ Senti che razza di scampanio./ E vuoi non si crucci la gente?»

Gaël Pernettaz

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Bibliografia

Giorgio Caproni,  Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, Aragno, Torino, 2012.

Giorgio Caproni, L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, Mondadori, Milano, 2005 (1998).

Raffaella Scarpa, Secondo Novecento. Lingua stile metrica, dell’Orso, Alessandria, 2011.