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Omnia mutantur, nihil interit. Le influenze ovidiane nella filosofia della natura di Leonardo da Vinci

di Andrea Pace

Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.

Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne, senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran parte della sua concezione naturale.

Omo sanza lettere, come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi scrittori del passato, da lui definiti altori, anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane sono il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1] da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.

Le Metamorfosi

Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo scrittore, narra di forme mutate in corpi nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti, amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.

Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque, dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.

Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti aspetti simile a quella biblica[2], deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica. La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale, descritto come rudis indigesteque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4] –, è troppo simile alle anassagoree omeomerie (termine dato da Aristotele ai semi originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi ordinate da un non meglio determinato Nous, una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a comprendere che tutto è in tutto, che in natura ogni cosa è unita alle altre.

La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5] discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano, così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna, le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una sola è la verità che permane nel tempo: Omnia mutantur, nihil interit[6].

La filosofia della natura di Leonardo

A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti di Leonardo) e

trovano espressione in quei fogli del primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]

In quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al presente discorso tenerne a mente tre: Il mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento della terra (Atl.715) e La caverna (Ar. 155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni e ora il mostro disfatto dal tempo, paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].

Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?[10] La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce, ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da Leonardo in Atl. 1067[11] – e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.

Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già parlato nei suoi scritti con questi termini:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]

Una caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza che, in quanto omo sanza lettere, deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].

La Gioconda

Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.

L’esperienza – unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni, alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti e negli infiniti disegni e abbozzi[15], che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere considerato un trattato di filosofia della natura[16]. Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una nell’altra in una coincidentia oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo prende il nome di recto contrario ed elimina la concezione del simile conosce il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio, interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).

Nella Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica, la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile e non commentabile. Il suo volto si fa specchio, si lascia guardare, ma prima di tutto guarda: ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi: montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride, quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita, necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo, anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste, eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse è la personificazione di quel naturae vultus descritto da Ovidio.

Sulle orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione, poiché i corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più[18], idea che per Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo, che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e facilmente comprensibile.

Insomma il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale, ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.

Bibliografia

Ovidio (2015), Metamorfosi, trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.

L. da Vinci (1992), Scritti, a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.

G. Cuozzo (2013), Dentro l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.

Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed. Dehoniane.


[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice, pag. 156.

[2] Si vedano, come più lampanti esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la creazione di un uomo a Sua immagine e somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene attraverso la terra ancora recente, che ancora ha in sé parte del cielo divino.

[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi discordi di cose mal combinate.

[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque egli fosse.

[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione.

[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto si trasforma, nulla perisce.

[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.

[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.

[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg. 164-65.

[10] Ivi, L’accrescimento della terra, pagg. 163-64.

[11] Anassagora. Ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

[12] Ivi, La caverna, pag. 162.

[13] Ovvero coloro i quali non fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.

[14] Si pensi anche solo a Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.

[16] Come sostiene G. Cuozzo (2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

[17] Ivi, pag. 121.

[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.

Pasolini Pittore

Il breve articolo di Federico Masci segue sommariamente parte del percorso artistico pasoliniano, soffermandosi su alcuni tratti della sua produzione pittorica, nel tentativo di stabilire costanti con altre modalità d’espressione.

* * *

Potrei anche tornare alla stupenda fase
della pittura…..
Sento già i cinque o sei
miei colori amati profumare acuti
tra la ragia e la colla
dei telai appena pronti…..”

P. P. Pasolini, La ricerca di una casa, in Poesia in forma di rosa

P.P. Pasolini, Autoritratto col fiore in bocca (1947)

Tra le varie suggestioni che contribuiscono a definire la magmatica tensione produttiva di Pasolini, risalta, con ingenua e limpida evidenza, la pittura. Questa è intesa non solo come lucido interesse e saldo punto di confronto con una certa parte della storia dell’Arte italiana, ma anche, più in particolare, come una costante abitudine a prodursi “tecnicamente” nell’attività pittorica, parallelamente alle altre espressioni artistiche (poesia, cinema, narrativa).

Le prime acerbe esperienze si collocano durante l’infanzia (inizia a disegnare ancora prima di comporre versi), ma è solo all’università di Bologna che, tramite l’incontro fondamentale con Roberto Longhi, questa sotterranea “vocazione” assume un aspetto più definito.

Le lezioni e le ricerche dell’illustre critico d’arte, che allora spaziavano dai fatti di Masolino e Masaccio a Piero della Francesca, dalla pittura duecentesca e trecentesca al Caravaggio, furono quasi un’illuminazione per il giovane e timido studente friulano: “...Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.1; egli esprime la sua gratitudine e precisa i termini di questa decisiva influenza in una sua recensione per il volume Da Cimabue a Morandi, curato da Contini, che antologizza gli scritti del vecchio professore.

Le sue “meravigliose capacità istrioniche”2, le sue “gioiellerie severe”3, consumate nelle anguste aule di via Zamboni, corrispondono in toto con un “lucido, umile ascetismo di osservatore del moto delle forme”4.

Ciò che Pasolini filtra dalla lezione Longhiana è proprio un tentativo di approccio, privo di utopie o terrorismi progressisti, ad una storia dell’Arte che in sé e per sé si realizza come struttura ed evoluzione delle forme che la reggono e la compongono, secondo una rigida logica interna.

Un’evoluzione da intendere in senso “puramente critico, vitale, concreto della parola”, 5in completa coincidenza con l’aspetto che la realtà assume nella visione dei pittori lungo i secoli, e nella quale verità critica e verità sempre si accompagnano.

Quasi contemporaneamente a questa riconosciuta filiazione, si avviano i primi consapevoli esperimenti pittorici pasoliniani, i quali presentano disegni a inchiostro, bozzetti di figure che ritraggono la vita quotidiana della gioventù con la netta e semplice evidenza, dal sapore pascoliano, di una realtà familiare, tenera, a tratti idillica.

“Ragazzo che legge”, 1942.

“Ragazza di San Vito”, 1943.

“Donna nel canneto”

A distanza di qualche anno, ecco altri tentativi che risentono dell’influenza dei paesaggi alla De Pisis, o a una verificata ammirazione per alcune opere di Bonnard.

“Autoritratto con la vecchia sciarpa” 1946

“Casarsa”

Forse meno visibile, ma comunque estremamente importante, l’effetto che la frequentazione della bottega longhiana e la conseguente formazione artistica hanno sul Pasolini narratore puro, cioè il cineasta.

In veste di regista, Pasolini abilmente recupera e utilizza questa sensibilità per strutturare formalmente le scene, a favore dunque di una scenografica visibilità, arricchendola di connessioni con la più importante cultura pittorica italiana. A partire dalla sua prima prova, Accattone, del 1961, Pasolini riconosce proprio l’influenza di Masaccio (“Mentre lo giravo il solo autore al quale ho pensato è stato Masaccio”6), che sembra tradursi in un’ansia di figurativa e austera sacralità tale da non poter che produrre scene virginali, vivide e epiche, nel senso di “epicità naturale,che si lega alle cose, ai fatti, ai personaggi7.

Il mondo pre-borghese di Accattone, quindi, immerso in una congèrie epica-mitica-fantastica, sconta i suoi debiti con una certa tradizione figurativa e vorrebbe, nelle intenzioni dell’autore, porsi in opposizione al contesto a tratti liricizzato e soggettivo, a tratti pseudo-naturalistico, del neorealismo, di cui comunque può essere considerato un ambiguo prodotto.

Come Accattone è tutto “sottoproletariato”, Mamma Roma, dedicata a Longhi,(1962) è quasi “piccolo borghese”. Se da una parte baraccopoli e rovine dominano lo spazio , dall’altra si stagliano all’orizzonte caseggiati, si sentono rumori di Tv e radio provenire da lontano. In quest’ultima fatica si segue l’itinerario che il vecchio sottoproletariato percorre, icasticamente rappresentato dal rapporto tra Bruna e il figlio Ettore ,quando inizia a trasformarsi in piccola borghesia, in una piccola borghesia meschina, fascista, conformista. Anche qui si staglia netta (in particolare nella scena finale del film, dove viene ripresa la morte del giovane Ettore) una precisa parentela artistica che però lo stesso Pasolini duramente corregge invece di suggerire, riferendosi agli erronei tentativi di individuazione da parte di alcuni critici:

Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore [canottiera bianca e faccia scura] è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?… 8

Per quanto riguarda La Ricotta (1963), invece, una simile vocazione,viva in un senso felicemente costruttivo, arriva a opporsi al disordine cialtronesco e buffonesco che presiede l’organizzazione delle riprese per un fantomatico film sulla passione di Cristo. In mezzo al folleggiare delle comparse, alle ciniche considerazioni di un falso regista, impersonato da Orson Welles, che terminano nella recita di una poesia tra le più conosciute ed eloquenti di Pasolini (“Io sono una forza del passato…”) si stagliano, monumentalmente, scene dalla cristallina e diretta ascendenza artistica; che letteralmente ricalcano opere di Rosso Pontormo e di Rosso Fiorentino.

Immagine dal film “La Ricotta”- “Deposizione ”, Rosso Pontormo (1525-1528)

Immagine dal film “La Ricotta”- “Deposizione di Cristo” di Rosso Fiorentino ( 1521)

Il materiale che invece appare nella messa in scena del Vangelo secondo Matteo viene utilizzato con una diversa funzione, utile al raggiungimento di una distanza “critica”. Nel tentativo di non proporre solo una ricostruzione storica per via cinematografica, Pasolini, in un intervista dove gli si chiede di ripercorrere l’itinerario dei suoi riferimenti estetici ,afferma di aver ricercato la “massima sincerità”, e di averlo fatto evitando programmaticamente la sistemazione delle scene come quadri: “Uno di questi momenti di sincerità era evitare la ricostruzione di quadri, in tutto il Vangelo non c’è mai un quadro ricostruito.9 Tuttavia, poco dopo, confessa che nella creazione del film risulta comunque essere determinante il rapporto con una certa cultura pittorica, perché “ io studiavo a Bologna col professor Longhi, dovevo laurearmi con lui, quindi l’elemento pittorico per me è un elemento molto importante della mia cultura” 10 e ancora: “ non potevo dimenticarmi di conoscere e quindi amare, addirittura venerare, i pittori dell’Umanesimo, del Rinascimento o del Trecento italiano, non lo potevo dimenticare”.11

Se quindi, questo confronto da una parte apre ai pregiudizi e alle problematiche di un certo tipo di rappresentazione estetizzante, dall’altra è anche un punto di riferimento imprescindibile per raffinare e definire in maniera polemica un atmosfera non documentaria, tutta giocata sul “gusto”, sullo sfumato pastiche di stili che suggerisce un epoca, piuttosto che visibilmente (e falsamente) restaurarla. 

Più che continuare su questa linea, adesso, dopo aver parzialmente evidenziato la ricezione della dimensione artistica in una parte dell’opera pasoliniana, andrebbero evidenziati gli ultimi risultati, tra il ritratto e l’informale, in cui si realizza il lavoro pittorico. L’ultimo Pasolini, audacemente, non cessa di sintetizzare da un empito vitale un continuo tentativo di espressione, di tradizionalmente collaudata sperimentazione, sulle forme, per le forme, dalle forme. Questa sorta di eccitazione, causa e conseguenza del pericoloso cortocircuito comunicativo che sembra permeare i rivolgimenti amaramente confessionali in cui si esaurisce la sua più tarda produzione poetica, può trovare un incerto corrispettivo nelle tele che le sono coeve. Ecco infatti , da contrapporre alla pacata omogeneità delle prove giovanili, la scelta intrepida di materiali e tecniche, tutti elementi in un primo momento sfruttati, poi abbandonati e ripresi dopo almeno trent’anni ( dagli anni’40 agli anni’70).

Invece di utilizzare matite o chine, dipinge con la colla, caratterizza volti e immagini con dita macchiate direttamente dal colore, si ritrae e ritrae anche nuovi amici, amori e antichi maestri (Laura Betti, Ninetto Davoli, Roberto Longhi) ,punteggiando e schizzando in libertà, a volte sfruttando sacchi e cellophane:

Anche trent’anni fa mi creavo delle difficoltà materiali. Per la maggior parte i disegni di quel periodo li ho fatti col polpastrello sporcato di colore direttamente dal tubetto, sul cellophan; oppure disegnavo direttamente col tubetto, spremendolo. Quanto ai quadri veri e propri, li dipingevo su tela di sacco, lasciata il più possibile ruvida e piena di buchi, con della collaccia e del gesso passati malamente sopra. Eppure non si può dire che fossi (e eventualmente sia) un pittore materico. Mi interessa più la «composizione» — coi suoi contorni — che la materia. Ma riesco a fare le forme che voglio io, coi contorni che voglio io, solo se la materia è difficile, impossibile; e soprattutto se, in qualche modo, è «preziosa». 12

“Pali e reti del Safòn”,1970,tecnica mista su carta

“Ritratto di Roberto Longhi”,1975, pastello su carta

“Ninetto e Laura”, 1975

L’ingenuità ambiziosa con cui tenta di reinventare e ridefinire praticamente il linguaggio pittorico che dovrà usare risulta comunque coerente con la tensione sperimentale (e sotterraneamente distruttiva nei confronti di strumenti già acquisiti) della sua poetica:”Solo l’idea di fare qualcosa di tradizionale mi dà la nausea, mi fa stare letteralmente male”.13 La quale, in lungo e in largo, (come ha peculiarmente osservato Walter Siti nella curatela per i meridiani mondadori) attraversa e sorregge tutti gli sforzi Pasoliniani, rammentando, se vista “dall’alto”, una mostruosa progettualità: “Perché realizzare un opera quando è così bello sognarla soltanto?”.14

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NOTE

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano, 2016, cit. p.331.

Ibidem, p.335.

Ibidem.

Ibidem.

Ibidem, p.334.

Pier Paolo Pasolini, Marxismo e Cristianesimo, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, 1999, cit. p. 809.

Ibidem.

8  Vie Nuove, n. 40, a. XVII, 4 ottobre 1962, ora in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, cit., p. 198.

Pier Paolo Pasolini, Pasolini su Pasolini in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, 1999, cit. p. 1338.

10 Ibidem.

11 Ibidem.

12 Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, 1984, Balance Rief SA, Basilea .

13 Ibidem.

14 Citazione tratta dal film “Il Decameron”, 1971.

BIBLIOGRAFIA

Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, Balance Rief SA, Basilea, 1984.

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano, 2016.

Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999.

Ulysses e la pittura di Boccioni: affinità non dichiarate

Ponendo per la prima volta a confronto Ulysses e alcuni dipinti di Boccioni, questo articolo intende offrire nuove suggestioni al rapporto, mai esplicitamente dichiarato da Joyce ma noto alla critica, tra una delle sue opere più rivoluzionarie e il Futurismo.

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Dal movimento futurista, che egli stesso definiva senza passato né futuro, sterile e suicida (1), Joyce non poteva che voler discostare fermamente, almeno a parole, la sua produzione e, in particolare, Ulysses, che aveva visto i primi bagliori proprio nella Trieste definita dai Futuristi «la nostra bella polveriera» (2), ma che, a detta del fratello Stanislaus, non «gli aveva suggerito nulla. Dei nomi propri forse» (3). L’artificiosità di tali volontà e affermazioni risulta ormai evidente agli occhi dello studioso: i legami tra Ulysses e il Futurismo sono innegabili, nonostante Joyce stesso non volesse renderli manifesti, convenendo con l’amico Frank Budgen «sulla collocazione della propria opera piuttosto in un ambito cubista» (4).

Sui motivi di tale preferenza è facile esprimersi: il Cubismo era senz’altro meno irruente e aggressivo della sua evoluzione italiana, dalla quale Joyce voleva mostrarsi con tanta ostinazione indipendente perché non ne condivideva la furia entusiastica per gli ideali di interventismo. È evidente, tuttavia, che questa preferenza non sia nient’altro che uno specchio per le allodole, poiché, rispetto a quelli con il Cubismo, i legami di Ulysses con il Futurismo sono decisamente più stretti e sostanziali. A sostegno di questo confronto, si rivelerà utile estendere il discorso sul fronte pittorico, per mostrare in che modo il Futurismo sia intimamente e indubbiamente congiunto alla citata opera joyciana.

Il Cubismo rivela al Futurismo la sua più grande innovazione, che il Futurismo, a sua volta, ha saputo rielaborare e fare propria. Entrambi i movimenti, cioè, mirano ad aprire lo spazio bidimensionale – o tridimensionale, grazie alla prospettiva – della tela alla quarta dimensione, il tempo, attraverso l’intuizione di uno sguardo analitico capace di muovere le tre dimensioni tradizionali. Ciò che ne deriva è una visione multipla, dinamica, che sulla tela si traduce nella scomposizione dell’oggetto in più piani prospettici, attraverso la quale risultano simultanee la percezione visiva e quella del movimento attraverso il tempo. I Cubisti erano però più intenti a risolvere i problemi formali legati a questo rinnovamento della rappresentazione che a esplorarne le reali potenzialità; le loro opere sono certamente rivoluzionarie, ma tendenzialmente statiche; in esse il movimento è inteso più come sviluppo di un solido che come spostamento nello spazio, e non è un caso se i soggetti rappresentati più di frequente siano nature morte o ritratti. I Futuristi, al contrario, vedono in questa rivoluzione figurativa l’opportunità per celebrare anche in pittura la «bellezza della velocità» (5): il risultato si concreta in immagini molto più dinamiche, in cui le forme si dilatano l’una nell’altra. Il Futurismo rielabora la lezione cubista anche più in profondità: la forza del movimento non è intesa solo come dinamismo proprio degli oggetti rappresentati, ma anche come quello interno ai soggetti che dipingono o che osservano la tela. Quello che più importa ai Futuristi è che a un movimento “figurativo” corrisponda un movimento “emotivo”: in assenza di tale correlazione l’opera perderebbe gran parte del suo significato.

Tav. 1 – Umberto Boccioni, Materia, 1912. Olio su tela, 225×150 cm. Collezione privata.

Questi tratti del Futurismo emergono con chiarezza e risultano esaltati in Materia, un dipinto del 1912 di Umberto Boccioni (tav. 1), attraverso il quale è possibile sviluppare sul fronte pittorico un confronto parallelo tra i principi futuristi e alcuni passi di Ulysses. L’attenzione di chiunque si ritrovi di fronte a questo imponente dipinto è immediatamente attratta dalle grandi dita intrecciate al centro, che incombono verso l’esterno, quasi a voler sfondare la tela stessa. Lo sguardo dello spettatore, allora, non può far altro che risalire, oltre alle mani, lungo le braccia, che formano un cerchio sul quale è appoggiata la testa di una donna, la madre del pittore, e da lì seguire le varie linee che ne tagliano la figura congiungendola con le case dello sfondo. A proposito del suo dipinto, Boccioni faceva notare come «i bordi dell’oggetto fuggono verso una periferia (ambiente) di cui noi siamo il centro» (6). Il centro dello spazio figurativo, quello che attrae immediatamente l’attenzione dello spettatore, è dunque ciò da cui sorge l’intera immagine, il fulcro da cui si diffondono linee di forza che descrivono il movimento: pur ritraendo una figura imponente e pesantemente seduta, il dipinto è tutt’altro che statico, perché obbliga lo sguardo di chi l’osserva a muoversi incessantemente per tutta la sua superficie. Si costituisce quindi il doppio movimento – figurativo ed emotivo – cui si accennava più sopra: quello proprio degli oggetti dipinti – oltre il balcone, intravediamo una figura umana e un cavallo, rispettivamente a destra e a sinistra della donna – e quello compiuto dall’occhio dello spettatore, che, vagando per la tela senza trovare quiete, genera una sensazione di vertigine, di visione confusa e disorientata.

Se si parla di centro e di movimento, il rimando a Wandering Rocks, decimo capitolo di Ulysses, è inevitabile. A proposito di questo episodio, Carla Vaglio Marengo scrive: «Wandering Rocks è collocato al centro di Ulysses. La centralità di Wandering Rocks, indicato nello schema Linati come: “Punto centrale. Ombelico” di Ulysses, è da Joyce segnalata […] nell’idea di “labirinto mobile tra due sponde” che compendia errare e consistere […]» (7). Nella sua funzione di ombelico, Wandering Rocks diventa quindi il punto centrale del romanzo, tanto da essere definito come una sua «microimmagine riflessa», in cui i diciotto episodi di Ulysses si specchiano in altrettanti «episodi in miniatura» che, con l’aggiunta di una coda finale, compongono l’intero capitolo (8). Partendo da questo «ombelico», il lettore di Wandering Rocks inizia a percorrere, come i tanti personaggi dell’episodio, le strade di un «labirinto mobile», che non è nient’altro che l’insieme delle vie di Dublino: un percorso che riproduce in scala quello compiuto dall’occhio dello spettatore di Materia lungo le varie linee del dipinto.

Un ulteriore riscontro con quanto detto finora è dato ancora una volta dagli schemi Linati e Gilbert, secondo i quali l’«organo» dell’episodio è il sangue: pompato dal cuore – che, pur non essendo l’ombelico, è dell’uomo l’organo centrale, nonché il più prezioso e intimo – il sangue si irradia in tutto il corpo, dal centro alla periferia, per dirla con le parole di Boccioni. È facile allora comprendere come i personaggi che “circolano” per Dublino non siano nient’altro che il suo “sangue”, la sua anima: più che il loro palcoscenico, Dublino si fa una loro emanazione, plasmata su ogni personaggio che l’attraversa, e di conseguenza personalissima, multipla, scomposta. Mantenendo aperto il confronto con Materia, le case alle spalle della madre del pittore sono dipinte ognuna da un punto di vista differente, risultando anch’esse scomposte su piani prospettici individuali; da ciascuna parte una linea luminosa che, sovrapponendosi alla donna, annulla la scansione dei piani, fondendo e amalgamando la figura con lo sfondo.

La fusione tra corpo e realtà circostante era stata d’altronde teorizzata nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910, firmato, tra gli altri, dallo stesso Boccioni: «i nostri corpi entrano nei divani, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano». In ottica futurista si possono dunque leggere alcuni passi tratti dal più cangiante episodio di Ulysses, Proteus – proprio, e non a caso, come il nome della multiforme divinità marina che profetizza a Menelao il ritorno a Sparta – in cui la fusione diventa una vera e propria metamorfosi, che è infatti uno dei simboli negli schemi:

Dio si fa uomo si fa pesce si fa bernacla si fa montagna ammantata di piume. (9)

Il loro cane gironzolava intorno a un banco di sabbia assottigliantesi al trotto, annusando da tutte le parti. In cerca di qualcosa di perduto in una vita passata. All’improvviso, scappò via come una lepre saltellante, le orecchie all’indietro, alla caccia dell’ombra di un gabbiano in volo radente. Il fischio acuto dell’uomo raggiunse il suo orecchio floscio. Si voltò, saltellò indietro, si fece vicino, trottò sulle zampe guizzanti. Su un campo, bruno fulvo un cerbiatto che cammina, a colori naturali, senza corna. All’orlo di pizzo della marea si fermò con gli zoccoli anteriori rigidi, le orecchie puntate verso il mare. Il muso in alto, abbaiò al rumor delle onde, branchi di trichechi. (10)

In Proteus avviene dunque una vera e propria fusione tra ogni campo del reale – divino, umano, animale, vegetale, organico e inorganico – la quale inevitabilmente sfocia in metamorfosi, arrivando persino a farsi una blasfema parodia della trasformazione più elevata, quella che avviene nella transustanziazione. Il concetto di fusione è intimamente legato a quello di metamorfosi anche nel Futurismo: «per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe, ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari» (Manifesto tecnico, 1910). Se si riporta lo sguardo a Materia, nella compenetrazione totale tra figura e sfondo, nessun elemento ha mantenuto inalterati i propri tratti: tutto si è trasformato in una sovrapposizione di forme geometriche.

Nella pittura futurista, l’aspetto formale è dunque un mezzo per portare a compimento i propri intenti, approdando a un risultato ulteriore: la forma diventa essa stessa parte integrante del contenuto. In effetti anche Joyce giunge a esiti simili, poiché ogni metamorfosi che avviene in Proteus non solo è chiaramente legata al carattere dell’episodio – la volubilità dello stesso Proteo – ma al medesimo tempo si riflette nelle varie trasformazioni del linguaggio: il significante viene a coincidere con il significato. Secondo gli schemi di Ulysses, nota Carla Vaglio Marengo, l’arte dell’episodio è la filologia e la parola è uno dei simboli (11). Il linguaggio di Joyce, mutevole e cangiante come la multiforme e mercuriale divinità marina, è politropo come quello di Odisseo, capace di adattarsi a qualsiasi situazione: ogni episodio di Ulysses è infatti caratterizzato da una tecnica precisa, che si plasma sulla realtà con cui di volta in volta viene a contatto. Mirabolanti evoluzioni del linguaggio, dunque, tanto vicine ai folli balzi del saltimbanco futurista da valere a Joyce l’epiteto di “funambolo della parola” (12). Il lettore di Ulysses e lo spettatore di Materia saranno entrambi in balia delle febbrili convulsioni dell’opera e si sentiranno un po’ come un bambino al circo, che, guardando le vorticose acrobazie dei trapezisti, prova una confusa e ineffabile sensazione di vertigine.

Parlando di tecniche formali veicolo di molteplici contenuti, non si può certamente tralasciare l’adozione, in Ulysses, della rivoluzionaria tecnica del monologo interiore, ricavata da Édouard Dujardin, senza la quale Joyce non avrebbe potuto con tanta icasticità riflettere nel linguaggio le numerose trasformazioni proteiformi che costellano il suo romanzo. Come scrive lo stesso Joyce, «I try to give the unspoken unacted thoughts of people in the way they occur. I took it from Dujardin» (13). Attraverso il monologo interiore, Joyce tenta di riprodurre in maniera diretta i pensieri dei propri personaggi nel momento stesso in cui sono formulati. Il fatto che questi siano unspoken e unacted li rende in realtà totalmente privi, almeno in apparenza, di logica, perché non ancora metabolizzati dal conscio: la metamorfosi del cane riportata sopra, che non è altro che uno stralcio dei pensieri formulati da Stephen in Proteus, è un buon esempio di monologo interiore joyciano. Il tentativo di riportare direttamente sulla carta i pensieri dei personaggi così come l’evento esterno li ha generati – prima ancora, dunque, che raggiungano una compiuta formulazione logica e razionale – non è lontano dai propositi di Boccioni perseguiti con La città che sale (tav. 2), un dipinto di un anno precedente a Materia, che, ritraendo anch’esso la madre al balcone, vi può essere legittimamente accostato:

Dipingendo una persona al balcone, vista dall’interno, noi non limitiamo la scena a ciò che il quadrato della finestra permette di vedere, ma ci sforziamo di dare il complesso di sensazioni plastiche provate dal pittore che sta sul balcone: brulichio soleggiato della strada, doppia fila delle case che si promulgano a destra e a sinistra, balconi fioriti, ecc. Il che significa simultaneità d’ambiente e quindi dislocazione e smembramento degli oggetti, sparpagliamento e fusione dei dettagli, liberati da ogni logica comune e indipendenti gli uni dagli altri. (14)

Tav. 2 – Umberto Boccioni, La città che sale, 1910-1911. Olio su tela, 199,3×301 cm. Museum of Modern Art, New York.

Risulta ancora più chiaro, così, come il Futurismo abbia portato la tecnica cubista alle proprie estreme conseguenze, rendendola il mezzo attraverso il quale trasferire direttamente sulla tela le sensazioni del pittore nell’atto stesso di dipingere, proprio come Joyce utilizza il monologo interiore per riferire i pensieri dei suoi personaggi. Comunanza di intenti, quindi, ma anche di risultati: «i dettagli liberati da ogni logica comune e indipendenti gli uni dagli altri» sono, da un lato, le sfaccettature degli oggetti che hanno perso la loro compattezza, e dall’altro, i disconnessi enunciati dei monologhi joyciani, che altro non vogliono essere che la trascrizione fedele di pensieri appena abbozzati.

Considerando, d’altra parte, la razionalità soggiacente ai dipinti futuristi, tenendo presenti quei pochi confini definiti tra un oggetto e l’altro, che ne consentono non solo la distinzione, ma anche la leggibilità – d’altronde non siamo ancora in ambito astrattista –, la scomposizione di un oggetto in tanti piani prospettici potrebbe essere intesa come la rappresentazione simultanea, sul piano bidimensionale, dei tanti punti di vista alla base del principio di parallasse caro a Joyce. In Materia, la tridimensionalità del volto della donna, per fare solo un esempio, è scomposta grazie all’accostamento di piccoli e fitti piani, che “stendono” sulla tela le sfaccettature di ogni lineamento, così come visto da diversi punti d’osservazione. In effetti, in Ulysses, la visione sul mondo esterno non è mai univoca, ma, al contrario, la realtà è sempre esplorata da punti di vista, se non opposti, decisamente distinti tra loro: la risultante è perciò una realtà cangiante, allo stesso tempo coincidente con la somma delle sue parti e con nessuna di esse.

In Nausicaa – l’episodio che a questo proposito sembra il più evocativo, nei cui schemi come arte figura proprio la pittura – Bloom è osservato principalmente secondo due prospettive, da lontano, attraverso l’occhio idealizzante di Gerty, e poi da un punto di vista più ravvicinato, che ci rivela la sua identità. Attraverso questa doppia visione, lo stesso Bloom ci appare prima un affascinante uomo in nero, poi un uomo comune vestito a lutto. La medesima duplicità di visione si ottiene se, anziché il punto di vista, è l’oggetto osservato a spostarsi. Agli occhi di Bloom, inizialmente, Gerty – già presentata al lettore nella coda di Wandering Rocks sotto un ulteriore punto di vista, in un colorato quadretto incorniciato dagli edifici di Dublino – pare una seducente ed eccitante ninfa seduta su uno scoglio, ma, non appena si alza per raggiungere le amiche ormai lontane, la ragazza rivela un nuovo dettaglio, che turba la percezione iniziale di Bloom: «Stivali stretti? No. È zoppa! O!» (15).

Il lettore immerso in Ulysses, così come i personaggi che vi gironzolano tra le pagine, non arriverà mai a una conoscenza definitiva del dato reale, soggetto com’è a continui mutamenti prospettici; incarnerà semmai, al limite, uno degli infiniti punti di vista attraverso cui accostarsi alla realtà, della quale però non potrà accedere che a una sola faccia; diventerà allora uno dei volti di Visione simultanea – altro dipinto di Boccioni, di un anno precedente a Materia (tav. 3) – che incombono colossali sulla via, nella quale sfilano neri omini privi di identità.

Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911. Olio su tela, 70×75 cm. Wuppertal, Von der Heidt Museum.

A ben guardare, da quei volti traspare una certa supponenza, quasi un sorrisetto di sufficienza, che sembra rivelare la presunzione di poter abbracciare da lì, così dall’alto, la realtà nella sua interezza. Una presunzione che solo lo spettatore del dipinto – o, fuor di metafora, il lettore di Ulysses ormai disincantato e consapevole della propria impotenza – potrà sfatare: per quanto giganteggino sulla strada, quei volti non ne avranno che una visione parziale, limitata al loro punto di vista. E di quella stessa strada, lo spettatore esterno al dipinto avrà a sua volta una cognizione ridotta, essendo anch’egli parte dell’infinito gioco di sovrapposizioni di piani e mutamenti prospettici su cui si fonda, proprio come in un dipinto futurista, la percezione umana.

Chiara Lanzavecchia

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 NOTE

  1. Budgen 1964: 153.
  2. Titolo del manifesto del marzo 1909.
  3. Crise 1967: 19.
  4. Vaglio Marengo 1996: 143. Per i contributi critici circa il rapporto tra Ulysses e il Futurismo, si veda Vaglio Marengo 2006, Ead. 2007, Ead. 2010a, Ead. 2010b.
  5. Marinetti 1909.
  6. Boccioni 1914: 174.
  7. Vaglio Marengo 2010b: 1048.
  8. Si citano qui alcune espressioni utilizzate da Enrico Terrinoni nell’introduzione a Wandering Rocks in Joyce 2015: 803.
  9. Ivi, p. 76.
  10. Ivi, p. 72.
  11. Vaglio Marengo 2001: 291.
  12. Joyce 2015: 13.
  13. Budgen 1964: 92.
  14. Boccioni et al. 1980: 63.
  15. Joyce 2015: 364.

 

BIBLIOGRAFIA

Boccioni et al., “Prefazione al catalogo delle esposizioni di Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, Monaco, Amburgo, Vienna, ecc.”, in Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del futurismo 1909-1944, a cura di Luciano Caruso, Firenze, Spes-Salimbeni, 1980, vol. 22, pp. 60-68.

Boccioni, Umberto, Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico), Milano, Edizioni Futuriste di “Poesia”, 1914.

Budgen, Frank, James Joyce and the making of «Ulysses», Bloomington, Indiana University Press, 1964.

Crise, Stelio, Epiphanies and Phadographs: Joyce and Trieste, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1967.

Joyce, James, Ulisse, traduzione italiana di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi, Roma, Newton Compton, 2015.

Marinetti, Filippo Tommaso (1909), “Le Futurisme”, «Le Figaro», 20 febbraio.

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Ead., “«Noisetuning»: Joyce and Futurism”, in Joyce’s Victorians, a cura di Franca Ruggieri, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 331-354.

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