Corso Re Umberto – marciapiedi

Citato in
Segni sulla pietra, 1979, poi in AM, II: 848-849

Passo
In vari punti della città le lastre di pietra conservano le tracce delle incursioni aeree della seconda guerra mondiale. Le lastre spezzate dalle bombe dirompenti sono state sostituite, ma sono state lasciate in sito quelle che erano state perforate dagli spezzoni incendiari. Questi ordigni erano prismi d’acciaio che venivano lanciati alla cieca dagli aerei, ed erano disegnati in modo da cadere verticalmente, con tale impeto da perforare tetti, solai e soffitti; alcuni di essi, caduti sui marciapiedi, hanno forato nettamente la pietra spessa dieci centimetri, come punzoni di trancia. È probabile che chi si prendesse la briga di sollevare i lastroni forati vi troverebbe sotto lo spezzone; due di queste forature, a pochi metri di distanza l’una dall’altra, si trovano ad esempio davanti al numero 9 bis di corso Re Umberto. Al vederle, tornano a mente le voci macabre che circolavano in tempo di guerra, di passanti che non avevano fatto a tempo a rifugiarsi, ed erano stati trafitti dalla testa ai piedi.

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Nell’Altrui mestiere, la raccolta pubblicata nel 1985 che conteneva gli articoli pubblicati su «La Stampa» a partire dal 1976, Primo Levi dà sfogo al suo caledoscopico talento di scrittore, compiendo invasioni di campo che lo portano a speculare su settori assai diversi dalla memorialistica e dalla chimica, di cui era ormai divenuto campione. Nelle pagine di questa raccolta è all’opera un talento poliedrico interessato alle manifestazioni della cultura in tutte le sue forme: dalla linguistica alla critica letteraria, dalla chimica alla biologia e all’entomologia, dalla geografia alla storia, il vagabondaggio del letterato curioso e chimico ormai in pensione segna una delle tappe di riflessione più interessanti del secondo Novecento. In particolare, possiamo vedere qui all’opera una tendenza archeologica: il tarlo metodologico di Levi sembra portarlo costantemente verso la pratica di scavo nel passato, specialmente in relazione alla sedimentazione delle parole, componendo un’assidua e originale ricerca (e ricomposizione) della loro storia perduta. Quasi come uno storico che interroga i segni lasciati dall’ineffabile flusso degli eventi che dietro di sé non lascia che disunite tracce da interrogare, il chimico-scrittore ragiona su quanto osserva e stende i propri testi offrendo ai suoi lettori i risultati delle sue elucubrazioni e ricostruzioni.

L’articolo da cui proviene l’estratto succitato, Segni sulla pietra, mantiene il suo nome anche dopo la conversione nella raccolta di saggi (a differenza di molti altri testi). Iniziando dapprima con un’attenta disamina della storia torinese che si può osservare sulle superfici pietrose e rocciose che occupano i lati delle strade cittadine, termina infine con la presa in considerazione dell’azione dirimente e deturpante della modernità su quella parte della facciata urbana di Torino che sembra essere lì da tempi immemori. Oggetto di osservazione privilegiato sono proprio i marciapiedi, le cui superfici lastricate che furono posizionate moltissimo tempo fa (in specie agli albori della città in epoca moderna), e resistono tutt’oggi, affiancati dai loro nuovi compagni in asfalto e cemento. «I marciapiedi della mia città (e, non ne dubito, quelli di qualsiasi altra città) sono pieni di sorprese» (Segni sulla pietra, 1979, poi in AM,II: 847), scrive esattamente: sono dunque pieni di segni da inventariare che possono essere fecondamente interrogati, tanto guardando al passato quanto immaginando il futuro. Così come noi oggi possiamo leggere le trame e gli avvicendamenti della Storia che proprio su questa parte del quadro urbano hanno lasciato la loro traccia, anche gli archeologi del futuro potranno infatti ritrovare quanto noi oggi lasciamo distrattamente e imprudentemente dietro di noi in seguito al nostro passaggio. Levi immagina che, nel futuro, tutte le scorie da noi depositate verranno ritrovate, saranno restituite dal sottosuolo e, come fossili, interrogate da appositi studiosi interessati a ricostruire le nostre abitudini, e non da meno tutto quello che fa parte della nostra quotidianità senza che noi ce ne accorgiamo, mentre nelle nostre frenetiche vite scalpicciamo su questi luoghi, lasciando traccia del nostro passaggio.

Uno splendido esempio di questa pratica è costituito proprio dall’analisi dei marciapiedi più antichi in cui il chimico-scrittore si cimenta nel suo articolo: in corso Re Umberto, non molto distante dalla sua abitazione, poteva infatti vedere una prova dovuta agli avvicendamenti storici che travolsero Torino durante la Seconda Guerra Mondiale. La città fu infatti bombardata e subì molti danni: la sua estetica venne sfregiata irrevocabilmente e, ancora oggi, è possibile vedere gli effetti di questo distruttivo strascico. Lo testimonia proprio il marciapiede all’angolo con corso Matteotti, alcune lastre del quale sono state fortemente danneggiate (e mai più riparate, quasi come se dovessero fungere da monito del brutale scompiglio in cui la città si trovò gettata nella metà del Novecento) dagli ordigni che vennero sganciati dal cielo torinese. Addirittura ricostruendo la fisionomia di tali armamenti, Levi focalizza quanto la loro azione debba essere stata devastante: la caduta di uno solo di loro, sganciata dalle flotte aeree in volo sopra le nubi, era in grado di spaccare una lastra di dura pietra viva in due, come un guscio di noce, frantumando la sua supposta inalterabile unità. E, ovviamente, di annientare qualunque essere umano che si fosse trovato sulla traiettoria dell’impatto: «Al vederle, tornano a mente le voci macabre che circolavano in tempo di guerra, di passanti che non avevano fatto a tempo a rifugiarsi, ed erano stati trafitti dalla testa ai piedi».

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