Goethe Institut

Citato in
Tornare a scuola, 1981, poi in AM, II: 822

Passo
Ho superato le barriere della timidezza e della pigrizia, ed a sessant’anni compiuti mi sono iscritto ai corsi di un istituto molto serio dove si insegna una lingua straniera che conosco male. Volevo conoscerla meglio, per pura curiosità intellettuale: ne avevo imparato gli elementi ad orecchio, in condizioni disagiate, e l’avevo poi usata per anni per ragioni di lavoro, badando al sodo, cioè a capire e a farmi capire, e trascurandone le singolarità, la grammatica e la sintassi.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=3757198284326557&set=gm.1335864760110502

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Manca, nell’estratto appena visto, una citazione letterale del famoso Goethe Institut di Torino (situato ancora oggi nella centralissima piazza San Carlo), e con essa una descrizione geocritica propriamente dicibile: con tatto e riservatezza, Levi parla soltanto sommariamente del luogo presso cui si reca per studiare, misteriosamente, «una lingua straniera che conosco male». Non lascia insomma alcuna informazione al suo lettore tramite cui si possa capire più precisamente di quale lingua e quale posto stia parlando; tutto ciò che sappiamo riguarda invece il posizionamento cronologico: siamo nel 1978, poco dopo il sessantesimo anno di età, a cinque anni dalla pensione e nel pieno di un periodo di fervente produzione letteraria.

Ancora più curioso è il rapporto di Levi con questa lingua misteriosa, che è proprio il tedesco: oltre che su libri e trattati consultati durante gli anni alla Facoltà di Chimica, l’aveva imparato in Lager, venendo a conoscenza di un’infinità di storpiature, variazioni dialettali, socio-culturali e geografiche che contribuivano a rendere il segreto del rizoma di questa lingua sempre più difficile da capire. Non ostante, dopo aver abbandonato i banchi scolastici da diversi anni, Levi sente questo irrefrenabile desiderio di consolidare ancora meglio quanto uno dei più bei episodi della storia del Novecento gli aveva lasciato in eredità.

Nell’articolo da cui estratto proviene, infatti, Levi si cimenta in una cronaca del suo apprendistato presso la prestigiosa scuola di lingue torinese: spiega che non è affatto facile imparare le fondamenta del tedesco a un’età così avanzata, specie avendo una grande e indistinta confusione in mente. Il tedesco di Auschwitz era infatti un grande caos: «i barbarici latrati dei tedeschi quando comandano» (come leggiamo ne I sommersi e salvati), la lingua da caserma buona per impartire rabbiosi ordini, i neologismi disumanizzanti che dovevano essere imparati a memoria, la brutalità di un codice comunicativo imposto a cui non si dava alternativa, lo stesso Lager-jargon evolutosi da questa variante del tedesco; tutto ciò fu quanto Levi dovette affrontare, a cui riuscì a sopravvivere, da cui riuscì a imparare.

Sì, perché Grande era la sua attenzione ai dettagli linguistici della vita del campo: troviamo traccia di questa sua attitudine nello stesso articolo, quando spiega di essere uno studente particolare poiché assai particolari erano state le condizioni in cui era venuto a contatto con la lingua oggetto di studio. A questo potremmo aggiungere anche la sua attenzione archeologica per le parole, il suo spiccato interesse per l’etimologia, e le potenzialità linguistiche che si nascondono dietro ad ogni parola, tanto in italiano quanto anche, ovviamente, in tedesco.

E il tedesco era per Levi anche la lingua del suo primo mestiere: il manuale del chimico Gattermann, il libro su cui si era formato, quello che ritroviamo citato nell’Esame di chimica in Se questo è un uomo e anche in quel suo interessantissimo testamento intellettuale che è La ricerca delle radici, era scritto nella lingua del Reich, e obbligava chiunque lo leggesse a masticare almeno un po’, almeno passivamente, quel codice linguistico in cui era stato scritto così tanto diverso dall’italiano. Tali insegnamenti gli sarebbero tornati utilissimi in età matura, durante i suoi viaggi di lavoro in Germania, quando doveva interloquire negli incontri con i clienti stranieri che si rivolgevano alla SIVA, l’azienda torinese per cui lavorava (tra cui la Bayer, la stessa casa farmaceutica che durante il Terzo Reich fu segretamente collusa con il nazismo; tra cui l’incontro con il dottor Meyer-Müller, uno dei suoi aguzzini nel Labor di Auschwitz).

Ma non è tutto: anche per svolgere il suo secondo mestiere questa lingua fu molto importante. Basta pensare a tutte le traduzioni delle liriche di Rilke (nel 1946) o di Heine, al carteggio con il traduttore tedesco di Se questo è un uomo, meticolosamente seguito parola per parola (negli anni Sessanta), alla mediazione della sua propria traduzione tedesca durante la trasposizione italiana della Notte dei girondini di Presser (1976; scritta in olandese in originale), alla citazione di Paul Celan nella Ricerca (nel 1981), alla traduzione del Processo di Kafka (nel 1983): tutte prove del fatto che, pur in un campo tanto diverso rispetto a quello della chimica, il rapporto di Levi con il tedesco fu fondamentale per permettergli di ampliare sempre più il suo bagaglio culturale, per conoscere da vicino e in prima persona nuovi libri, idee, concetti e persone, ma soprattutto la lingua e la letteratura di una cultura molto diversa da quelle che erano invece naturalmente sue.

Fino ad arrivare al capitolo Lettere di tedeschi nei Sommersi e i salvati, frutto della corrispondenza con tanti lettori tedeschi di Se questo è un uomo che portò all’elaborazione dell’intero ultimo volume; era uno sforzo pluriennale di comprendere tutti coloro che avevano partecipato alla catastrofe della deportazione e dello sterminio (o che vi avevano rinunciato). Per la realizzazione pratica del materiale di quel capitolo, infatti, la conoscenza del tedesco da parte di Levi fu necessaria: senza, non sarebbe forse riuscito a raggiungere un insight dalla potenza tanto straordinaria di permettergli di vedere le pieghe della Storia dagli occhi dei suoi interlocutori, che appunto gli scrivevano in tedesco, ai quali spesso lui stesso rispondeva parlando la loro lingua, quella che era stato obbligato ad apprendere ma che aveva scelto di riprendere e approfondire. Non mancano infatti nei suoi testi delle valide considerazioni che giustifichino quanto dietro al suo studio del tedesco ci fossero una passione genuina costantemente alimentata da una curiosità intellettuale frizzante e vispa, tanto forte da superare il trauma e parlare, ascoltare e comprendere ancora, anche fuori dai reticolati di filo spinato, la lingua degli oppressori.

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