Citato in
Zinco, SP, I: 881
Passo
Si mormoravano sul suo conto [del Professor P.] le leggende assai sospette di spilorceria maniaca nella conduzione dell’Istituto Chimico e del suo laboratorio personale: che conservasse in cantina casse e casse di fiammiferi usati, che proibiva ai bidelli di buttare via; che i misteriosi minareti dell’Istituto stesso, che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo, li avesse fatti costruire lui, nella remota sua giovinezza, per celebrarvi ogni anno una immonda segreta orgia di ricuperi, in cui si bruciavano tutti gli stracci e le carte da filtro dell’annata, e le ceneri le analizzava lui personalmente, con pazienza pitocca, per estrarne tutti gli elementi pregiati (e forse anche i meno pregiati) in una sorta di palingenesi rituale a cui solo Caselli, il suo tecnico-bidello fedelissimo, era autorizzato ad assistere.
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Paradossalmente, il soggetto di questo estratto compare sottinteso: e quasi incoerente con la statura del suo personaggio, trattandosi di Giacomo Ponzio, allora rettore dell’Istituto di chimica e nonché professore di un estremamente giovane Levi, chimico in erba nei suoi primi anni di apprendistato universitario. Ponzio, il “professor P.”, era già scomparso all’epoca della pubblicazione, eppure Levi volle mantenere l’anonimato su una presenza tanto importante quanto la sua: sarà infatti proprio lui, dopo diverse citazioni nei capitoli del Sistema periodico che narrano gli anni alla facoltà di Chimica, l’unico professore ad accettarlo come tesista nonostante le leggi razziali dello stato fascista, alle quali non credeva, di cui anzi sembrava infischiarsene rinserrandosi sicuro dentro le mura del suo regno.
Sicuramente la storia è stata romanzata dallo scrittore maturo, tanto più che venne scritta circa trent’anni dopo essere stata vissuta: è molto probabile che la storia sia stata arrotondata e che il personaggio abbia risentito di una caratterizzazione relativamente forte. Ciononostante, Ponzio era un personaggio del tutto singolare: il classico tipo di professore vecchio stampo, che fece sudare sette camicie a molti degli studenti che passarono tra le sue grinfie. Così non fu per Levi, il quale iniziò a stimarlo sin da subito, avendo capito che si poteva trarre una morale di vita dalle sue lezioni di chimica (come ad esempio l’elogio dell’impurezza, prima grande lezione da mandare a memoria). Tale apprezzamento era anche ricambiato, poiché il docente e guardava al giovane come un allievo pieno di potenzialità e naturalmente predisposto all’imparare i misteri che la sua disciplina sondava.
Sono però questi anni in cui il giovane Primo non ha incredibilmente chiaro il percorso che si para davanti ai suoi passi: ai suoi occhi, le materie che gli vengono insegnate all’università sono quasi tutte favolose e affrontano il mondo in maniera esemplare, fornendosi dei nobili strumenti che hanno via via sviluppato e migliorato nel tempo, acuendo sempre più il genio della specie umana (ricordiamo ad esempio la figura dell’Assistente di Potassio, e con essa l’avvicinamento molto sentito di Levi alla disciplina fisica, la quale volle coniugare alla chimica nella sua stessa tesi di laurea).
In ogni caso, e specialmente dopo aver superato il test d’ingresso alla facoltà, Primo si sentiva una sorta di eletto: dai suoi studi sarebbe stato in grado di rifarsi delle verità rivelate propinategli durante il liceo, avrebbe potuto conoscere la materia dallo scontro a tu per tu (in particolare durante le lezioni di Ponzio, nelle estenuanti ore passate in laboratorio), avrebbe ottenuto la chiave per sondare i sommi capi dell’universo. E come tale la chimica si presentava quasi alla pari di un mistero iniziatico: Ponzio era colui che, facendo da cerimoniere, avrebbe guidato ogni partecipante alle sue lezioni alla scoperta della verità ultima che soggiace agli elementi e alla loro interazione atomica.
Nell’estratto qui riportato, si intravede infatti una parte fondamentale dell’Istituto Chimico che spicca nella linea dell’orizzonte torinese in corrispondenza del parco del Valentino: «i misteriosi minareti […] che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo», tali ancora oggi (seppure il dipartimento sia ora ubicato nell’edificio dirimpetto). Sarebbero dunque le stesse torri che, nella loro origine mitica – quasi leggendaria – si diceva che Ponzio avesse fatto costruire apposta per tenere sotto controllo qualsiasi reazione chimica innescata tra le mura del suo dominio, al fine di tenere (maniacalmente) sotto controllo il suo regno e guadagnare recuperando gli scarti fino all’osso.