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La Torino di Primo Levi

– Quali sono i luoghi della città a cui si sente più legato?

– Quelli che compaiono qua e là nei miei libri. Le parti di casa, di scuola, vale a dire il D’Azeglio, l’Università, un po’ al Valentino un po’ in via Po, dove tra l’altro abitava la mia nonna paterna. Anche via Roma vecchia, che però ricordo vagamente. Uno dei miei nonni leggendari aveva un negozio di stoffe in via Roma vecchia e a carnevale era possibile salire al balcone dell’ammezzato per assistere alla sfilata dei carri. Nell’elenco metterei anche il percorso che ho fatto per 20 anni da Torino a Settimo e da Settimo a Torino. Proprio durante uno di questi percorsi pendolari scoprii in un’insegna di negozio lo pseudonimo [Damiano Malabaila] che adottai per Storie naturali.

Fu proprio questa citazione, dall’intervista rilasciata a Giovanni Tesio del 1980, che il mio progetto ha avuto inizio, qualche mese fa. Nasce da questa rassegna di luoghi e percorsi l’idea di creare una mappa letteraria della Torino di Primo Levi: non solo da questa, certo, bensì da un insieme più ampio di iniziative letterarie ed editoriali su cui ho ragionato e che mi hanno portato alla realizzazione di un progetto più articolato. Iniziative, innanzitutto, come due fondamentali volumi dedicati al rapporto tra il capoluogo piemontese e la letteratura: Una mole di parole: passeggiate nella Torino degli scrittori, a cura di Alba Andreini, Torino, CELID, 2006, che si presenta come una lunghissima passeggiata che porta il lettore a spaziare tra le opere di scrittori e scrittrici che hanno immortalato alcuni e tanti scorci torinesi nelle loro pagine; e anche il fondamentale volume di Alessandra Chiappori, Torino di carta: guida letteraria della città, Palindromo, Palermo, 2019, che evoca il capoluogo piemontese negli scritti di molti uomini e donne di penna che ricordano l’uno e l’altro angolo della preziosa città sabauda, rispolverando evocativi quadri memoriali loro ricordi più genuini. Ma c’è anche un’altra mappa, più simile a quella che mi accingo a presentare e specificamente dedicata all’opera di Primo Levi, che è quella organizzata dal Centro Studi nell’Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa (Einaudi, 2017, pp. 284-289): in queste poche pagine il centro della città viene scandagliato alla ricerca di quei luoghi che appaiono citati nell’opera del chimico-scrittore. Ma l’antecedente più importante del presente progetto è un altro: ho colto la sfida lanciata da una mia collega, Jasmine Mulliken, di origini irlandesi ma addottoratasi a Stanford (USA). Nel suo fondamentale progetto Mapping Dubliners, Mulliken ha preso in analisi i racconti che compongono Gente di Dublino di James Joyce, ha tracciato una vera e propria mappa di ogni spostamento di cui si trova notizia nelle pagine della raccolta, e ha puntellato di segnaposti la mappa del mondo intero (di Dublino in particolare, ma anche dell’Europa e dell’America) per permettere ai suoi fruitori di aggirarsi nei meandri geo-letterari dell’opera seguendo gli spostamenti descritti nei racconti che la compongono. Proprio a questa felice realizzazione il corrente progetto deve il suo impianto fondamentale: con la differenza che Primo Levi occupa il posto di James Joyce, e Torino si sostituisce a Dublino.

Per realizzare il progetto mi sono appoggiato al modello tridimensionale del capoluogo piemontese su Google Earth, ne ho evidenziato i luoghi che troviamo citati nell’opera del chimico-scrittore e li ho raccolti creando un quadro generale. Lungi dall’essere terminato (le scoperte si succedono sulla scala del quotidiano ancora dopo diversi mesi dall’inizio della ricognizione!), il progetto è composto da più di trenta schede di lettura, ognuna relativa ad un luogo specifico (a volte ripreso anche due volte, secondo le diverse sfaccettature che guadagna nell’opera di Levi): ogni luogo è inventariato in base alla relazione che intrattiene con la vita e con l’opera di Levi e la catalogazione segue una legenda precisa (che si trova più avanti qui sotto). Ogni scheda riporta nel proprio riquadro di informazioni il riferimento con il rimando alla fonte del passo citato, a cui seguono la citazione testuale e un link di rimando a un sito esterno. Cliccando quest’ultimo, si verrà automaticamente reindirizzati ad un’apposita pagina dedicata sul Blog degli studenti di Culture e Letterature Comparate di Torino, voluto e coordinato dalla professoressa Chiara Lombardi e del cui comitato di redazione sono membro sin dai primi momenti della sua nascita. In ogni pagina, oltre alle coordinate generali già presenti nel Progetto su Earth, si trova l’inquadratura ragionata per ogni estratto in cui Levi cita un luogo. Il tutto è corredato da un apparato di foto storiche, quasi interamente in bianco e nero o color seppia: si tratta di immagini ampiamente reperibili online che ho trovato sul web (segnalandone rigorosamente la fonte) e inserito con lo scopo di mostrare la vecchia Torino, le cui vestigia oggi rimodernate possiamo scorgere (o rivedere con gli occhi dell’immaginazione) passeggiando nel centro storico, tra le vie e i corsi, o nei comuni confinanti. Il tutto a portata di smartphone, tablet o pc: il progetto è infatti pensato per essere principalmente fruito in mobilità, magari passeggiando negli stessi luoghi in cui passeggiava e in cui si scandiva la vita di Primo Levi, ripensando a quali potessero essere i suoi percorsi all’interno del centro storico cittadino, rivedendo quali scene, immagini, oggetti o presenze abbiano ispirato le tante occasioni letterarie che riportano in vita l’uno o l’altro angolo della capitale piemontese.

Il risultato più evidente del progetto sarà proprio questo: fornire alla cittadinanza, ai gruppi turistici (o a chiunque ne fruisca) uno strumento utile che possa permettere loro di conoscere un altro lato della città, inedito in buona parte, che passa spesso inosservato tra i tanti temi che popolano l’opera del chimico-scrittore. Il Progetto su Google Earth sarà infatti fruibile in modalità online e offline e prenderà la forma di un oggetto utile a orientarsi nella conoscenza del patrimonio storico, artistico, urbanistico e letterario del centro di Torino (e immediati dintorni).

Prenderà insomma la forma di un particolare (e interattivo) vademecum letterario per chiunque voglia godere di una passeggiata (reale o virtuale) non solo tra le strade di Torino, ma anche tre le varie trasformazioni che l’hanno attraversata e ne hanno cambiato il volto: tutti processi di cui Primo Levi è stato – consapevolmente o meno, programmaticamente o no – testimone attento e intelligente. Ripercorrere i percorsi della sua opera che portano traccia di questi cambiamenti permetterà dunque ai fruitori di familiarizzare non soltanto con i suoi racconti, poesie, articoli e libri riscoprendone punti spesso messi in secondo piano, ma anche con la veste storica del centro cittadino, di cui metterà a nudo la sedimentazione storica spiegando come le cose erano prima che divenissero tali come sono oggi. Il tutto, ovviamente, inserito in un quadro più generale che rivela come Torino sia stata, agli occhi di Levi, non soltanto sua città natale e palestra di formazione educativa e lavorativa, ma anche città vespertina e brulicante di vita notturna, piena di scorci che meritavano di diritto una decantazione poetica, una riflessione giornalistica o che ben si prestavano, alla penna del chimico-scrittore, come un momento di creazione letteraria.

L’obiettivo principale del progetto è pertanto quello di creare una mappa; non una vera e propria cartina con degli itinerari (o per lo meno, non ancora), quanto più (in questa fase iniziale) un inventario geografico comune che, con un grande numero di segnaposti, illustri in maniera semplice e immediata la materia del discorso a chiunque lo fruisca. L’intento è permettere anche chi non studia sistematicamente i fenomeni letterari di avvicinarsi e familiarizzare con l’opera di Levi: quasi al termine del mio percorso di dottorato in Lettere presso l’ateneo torinese, ho voluto creare uno strumento che potesse essere accessibile (e soprattutto facilmente comprensibile) a chiunque, che permettesse di rivelare quanto Torino è intrisa di letteratura, e quanto la letteratura che ne parla sia una prova della sua radicale importanza come stimolo per la scrittura. L’opera di Levi, come spero che questo progetto dimostri, si pone come una delle vene sotterranee che scorrono sotto alla superficie della città: vene che hanno scandito la sedimentazione storica e identitaria dei suoi quartieri, edifici e strade e che, se interrogate correttamente, rivelano ancora oggi un interessante reticolo di informazioni ancora in buona parte da scoprire.

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Per accedere al progetto:

❧ cliccare qui e avviare (da app o da pc) Google Earth, su cui si visualizzerà il Progetto Earth La Torino di Primo Levi.

❧ Interagire liberamente con la mappa predisposta, su cui compaiono segnaposti di diversa natura e colore. Si seguirà questa legenda:

Punto d’inizio

Luoghi strettamente familiari

Luoghi legati all’educazione elementare, liceale e universitaria

Luoghi legati al mestiere di chimico

Luoghi legati al mestiere di scrittore

Luoghi citati nelle poesie, articoli o racconti

Luoghi legati alla parentela ebraico-piemontese

Luoghi reali citati ne La chiave a stella


❧ Ogni segnaposto contiene:

– una citazione dall’opera di Levi con il relativo riferimento. Le citazioni contengono anche informazioni più specifiche (il capitolo della raccolta da cui provengono, o la data di composizione o pubblicazione) e il numero romano del volume da cui sono tratte; segue il numero della/e pagina/e. Le citazioni dal terzo volume, contenente le dichiarazioni e le interviste, sono invece contrassegnate dal nome dell’intervistatore, il titolo dell’intervista, l’anno di pubblicazione, il numero romano che indica il volume e le pagine in cui è possibile leggerle. Le opere principali si possono leggere nei tre volumi di Primo Levi, Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 2016-2018 e sono citate con i seguenti acronimi:

T = La tregua (1963)
SP = Il sistema periodico (1975)
CS = La chiave a stella (1978)
AOI = Ad ora incerta (1984)
AM = L’altrui mestiere (1985)
AP = Altre poesie (1986)
PS = Pagine sparse 1947-1987

– un link che reindirizza all’apposita categoria predisposta su questo blog. In ogni scheda è contenuta una spiegazione e contestualizzazione del passo: lo scopo è ricostruire l’intorno da cui l’estratto proviene, o offrire alcuni spunti analitici nel caso di intere poesie.

In caso di problemi, domande o dubbi, il dott. Cravero è reperibile all’indirizzo mail mattia.cravero@unito.it.

Hotel Suisse

Citato in
Fosforo, SP, I: 940

Passo
Stavo inutilmente cercando, quando un mattino, cosa rarissima, fui chiamato al telefono delle Cave: dall’altro capo del filo una voce milanese, che mi parve rozza ed energica, e che diceva di appartenere ad un Dottor Martini, mi convocava per la domenica seguente all’Hotel Suisse di Torino, senza concedermi il lusso di alcun particolare. Per aveva proprio detto “Hotel Suisse”, e non “Albergo Svizzera” come avrebbe dovuto fare un cittadino ligio: a quel tempo, che era quello di Starace, a simili piccolezze si stava molto attenti, e gli orecchi erano esercitati a cogliere certe sfumature.
Nella hall (scusate: nel vestibolo) dell’Hotel Suisse, anacronistica oasi di velluti, penombre e tendaggi, mi attendeva il Dottor Martini, che era prevalentemente Commendatore, come avevo appreso poco prima dal portiere.

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Questo estratto ci riporta agli albori della carriera di chimico di Primo Levi: siamo nel 1942, ancora sotto le leggi razziali, al cospetto di un giovane ventitreenne in erba laureato in Chimica da non troppo, con alle spalle l’esperienza lavorativa presso le cave amiantifere di Balangero.

L’accaduto è quasi miracoloso, e Primo non può dire di no: attorno agli ebrei il fascismo sta facendo terra bruciata, li sta emarginando sempre più, impedendo loro di svolgere la maggior parte dei lavori. Lui stesso si è infatti appena messo alla ricerca di altro: sa bene che, se aspettasse ancora lavorando presso le cave, sarebbe solo una questione di tempo prima d’essere altrimenti interdetto.

La telefonata del misterioso Dottor Martini – un esemplare umano di cui non manca un’accurata descrizione gestuale, linguistica e leggermente caricaturale in pieno stile Levi nel corso di Fosforo – annuncia un lavoro, ma in maniera laconica: ciononostante, Levi non può che accettare, almeno per sentire la proposta che gli si vuole fare.

Dopo il colloquio scoprirà che, per più di un motivo a scapito dei pochi contro, la scelta giusta è trasferirsi: lavorerà per la Wander, una ditta farmaceutica svizzera (lo stesso Martini, a carte scoperte, si rivelerà elvetico) che richiede i suoi servigi per lavorare ad una segretissima cura orale contro il diabete. La mansione, che accetterà già sulla prima, gli richiederà finalmente di lasciare Torino (il cui clima di allora era molto pesante, al di là della penuria di viveri), guadagnare un stipendio sufficiente a mantenersi da solo a Milano, dove incontrerà prima una compagna di università (Giulia, al secolo Gabriella, la stessa che lo aveva presentato come genio ai suoi principali), e poi diversi suoi amici concittadini in trasferta (tra cui l’allora studentessa in Giurisprudenza Bianca Guidetti Serra), con i quali andrà a vivere e condividerà la breve avventura partigiana dopo l’8 settembre 1943.

Nell’estratto ci sono due coordinate di particolare interesse: la prima è quella cronologica, con la citazione di Achille Storace, segretario del Partito Fascista in auge, durante la quale era deprecabile ogni utilizzo di termini stranieri che non fossero stati italianizzati. Alle orecchie del giovane chimico appena laureato, non sfugge affatto tale dettaglio: anzi lo incoraggia sin da subito, poiché ha capito che il suo interlocutore, curiosamente, non segue le imposizioni del regime, né è interessato a discriminarlo (vuole addirittura offrirgli un lavoro molto ben retribuito). In un clima come quello di allora, con la città incancrenita dalla guerra e l’aria familiare carica di preoccupazione (anche ecnomica) a cuasa della malattia del padre, questa possibilità significava per il giovane Primo lasciarsi alle spalle il proprio guscio e mettersi alla prova, partire all’avventura con poche certezze e qualche effetto personale nello zaino («mi trasferii a Milano con le poche cose che sentivo indispensabili: la bicicletta, Rabelais, le Macaroneae, Moby Dick tradotto da Pavese ed altri pochi libri, la piccozza, la corda da roccia, il regolo logaritmico e un flauto dolce»; Fosforo, SP, I: 941).

L’altra coordinata importante è invece quella geografica, che cita l’hotel Swiss, allora situato negli immediati paraggi di Porta Nuova, all’incrocio con via Sacchi. I suoi saloni (oggi occupati da un caffè, con ai piani superiori abitazioni residenziali) ospitarono dunque uno dei primi incontri di lavoro di Levi, come leggiamo nell’estratto: i dettagli fitti nella memoria del chimico-scrittore che ricorda questa sua iniziatica esperienza riportano in vita il bizzarro salone dell’albergo. L’immagine dell’«anacronistica oasi di velluti, penombre e tendaggi» ci pone davanti agli occhi la presenza imperante di un prezioso arredo tipico anche, peraltro, degli sfarzosi tinelli borghesi in cui capitava più di qualche volta il giovane Primo durante la sua infanzia torinese.

Ciabattino di San Secondo

Citato in
Arsenico, SP, I: 987

Passo
La mia bottega è in via Gioberti angolo via Pastrengo: ci lavoro da trent’anni, il ciabattino… (ma lui diceva “‘l caglié”, “caligarius”: venerando vocabolo che sta scomparendo)… il ciabattino di San Secondo sono io; conosco tutti i piedi difficili, e per fare il mio lavoro mi bastano il martello e lo spago.

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Arsenico è una delle storie narrativamente a tutto tondo più originali nel Sistema periodico, ed è particolarmente importante perché Levi, stendendola, riesce a ritrovare un primo compromesso tra letteratura e finzione. Non sappiamo infatti se la vicenda narrata in questo racconto sia vera oppure no, ma sicuramente è verosimile: ci troviamo nel periodo in cui, alla ricerca forsennata di un lavoro, Levi decide di aprire un laboratorio chimico con l’amico Emilio (al secolo Alberto Salmoni), proprio nel cuore del suo quartiere, la Crocetta. Questo racconto si inserisce nel campionario di presenze umane legate al mestiere di chimico (clienti, collaboratori o corrispondenti) che fanno capolino nelle pagine di Levi: gli stessi esemplari umani di cui intende riprodurre un equivalente letterario quanto più concreto possibile (pur ricorrendo, qualche volta, all’arrotondamento fittizio).

Questo racconto è particolarmente importante perché possiamo vedere all’opera il grande talento da ritrattista di Levi: il personaggio del ciabattino, fondamentale per l’intreccio narrativo, è infatti rappresentato con un coefficiente di verosimiglianza davvero molto alto. Levi ne riporta i pensieri tramite discorso diretto e indiretto libero, e non dimentica di far trapelare la piemontesità del suo interlocutore, che a tutta prima gli sembra nulla più che un contadino di campagna spostatosi in città alla ricerca di fortuna (il signore parla infatti soltanto in piemontese, e non perde occasione di rispondere così a un giovane e timido Levi, preoccupato che la sua parlata dialettale risulti troppo libresca per essere vera).

Riuscì comunque nel suo intento, come leggiamo nell’estratto, in quanto divenne il ciabattino ufficiale del quartiere («il ciabattino di San Secondo sono io», con un riferimento toponomastico, citando l’adiacente omonima via), che tutti conoscevano. È infatti un profondo conoscitore delle signore anziane del posto, «quelle che hanno male ai piedi e non trovano, più nessun gusto a camminare e hanno solo un paio di scarpe» (Arsenico, SP, I: 988): le stesse che si affinano lui per farlo durare all’incirca in eterno quel mitico paio di scarpe da cui non avrebbero mai voluto separarsi. Il signore, ben consapevole della sua maestria nel mestiere, non esita a tirare acqua al proprio mulino e a porsi come un’istituzione del quartiere.

Con la fama, però, non tarda ad arrivare la concorrenza, e con essa i guai della competizione: il motivo che porta il signore a cercare l’aiuto di Levi ed Emilio ha proprio a che vedere con un regalo misteriosamente recapitato presso la sua attività. Si tratta di un pacchetto di zucchero alquanto sospetto, e il savio uomo anziano, non fidandosi di una tale gratuità, decide di far ispezionare il contenuto del regalo. Come in un vero e proprio giallo scientifico (il cui modulo narrativo ricorre più di una volta nel Sistema periodico), il giovane chimico Levi spende tutta una giornata ad analizzare questo zucchero e a cercare quale sia l’impurità presente in esso. Spicca in particolare, in questa cronaca, la rassegna di oggetti e procedure squisitamente chimiche che lo scrittore riporta, ricreando gesti, idee, attività e consuetudini tipiche di un giovane chimico alle sue prime esperienze lavorative.

Il rapporto clientelare è particolarmente importante in quanto è probabile che, nella mansione che il ciabattino chiese di svolgere a Levi, il nostro avesse rivisto una prova che aveva svolto per sua curiosità personale giusto l’anno prima. Così come il ciabattino aveva chiesto al giovane chimico di analizzare lo zucchero che gli era stato regalato in circostanze sospette, come ha scritto Fabio Levi citando Mark Bloch, anche Levi aveva già provato l’emozione di «interrogare le cose»: quando, di ritorno da Auschwitz e infervorato dal desiderio e dalla necessità di portare testimonianza della mortale esperienza vissuta entro i reticolati del campo di concentramento, il chimico Primo Levi vuole analizzare lo Zyklon B, il gas utilizzato da disinfestazione che i nazisti spargevano nelle camere di annientamento appositamente progettate per i loro prigionieri ebrei.

Alla fine della storia, la verità salta fuori: nel pacchetto di zucchero regalato, un altro ciabattino del quartiere, questo più giovane rispetto all’interlocutore di Levi, aveva inserito dell’arsenico per causare problemi al suo concorrente, oltre ad una campagna di screditamento pubblico con tutta la clientela locale. Ma il ciabattino anziano si riconferma saggio, e lascia il laboratorio di via Massena con una lezione, dopo aver specificato che non intende denunciare il rivale: vuole incontrarlo faccia a faccia, perché «è solo un povero diavolo, e non voglio rovinarlo. Anche per il mestiere, il mondo grande e c’è posto per tutti: lui non lo sa, ma io sì» (Arsenico, SP, I: 988).

Via Po – Cesare Levi

Citato in
Argon, SP, I: 873

Passo
[…] percorrevamo lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l’Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che comprasse quest’ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell’infrangere le regole del Kasherùt, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sottovoce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2929669610651142/

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Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Per quanto riguarda la figura di suo padre, però, possiamo credere con un buon margine di sicurezza che pressoché ogni informazione riportata fosse veritiera: Cesare Levi era un ingegnere che si recava in via Po per visitare la sua anziana madre quando Primo era ancora un giovane bambino. È più di un’intervista Levi ricorda che l’attenzione del padre verso i propri figli non era poi così incredibilmente spiccata: piuttosto, preferiva lavorare e lasciare la casa e l’educazione dei figli in compito alla moglie, pur accertandosi che alla sua famiglia non mancasse niente.

Durante la sua infanzia, Primo non spese infatti poi così tanto tempo con il padre, né strinse con lui un legame estremamente forte: nemmeno nei mesi che precedono la sua morte (a cui si allude di volata sempre nel stesso Sistema periodico, in Nichel) riesce a provare troppa compassione, ma anzi la rifiuta, sia perché non ha piena contezza della morte in sé sia perché inizia a capire che presto sarà su di loro il vortice che avrebbe sconvolto l’Europa in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, allora sempre più consistente. Ciò nonostante, nei suoi scritti e specialmente nelle sue interviste lo ricorda con grande rispetto e in linea di massima molto positivamente.

Specie perché, come giustifica l’estratto, gli somigliava molto, specie nelle abitudini intellettuali: spiccano in particolare due elementi, quello dei gatti randagi e quello dei libri, entrambi comuni e rappresentanti di due forti passioni che aveva anche Levi junior. Anzi, forse, se seguiamo le indicazioni che aprono la Ricerca delle radici, scopriamo che a suo padre Primo Levi doveva in realtà molto: ad esempio per la biblioteca che gli aveva comprato quando era piccola, o quella che egli lasciò in eredità dopo la sua morte; oppure ancora per il forte credo scientifico che gli aveva trasmesso (come testimonia il regolo logaritmico), poiché il padre era un capace ingegnere che durante la sua carriera aveva raggiunto anche mete oltralpe. E, non da meno, per l’insegnamento religioso: anche per Cesare Levi la religione non era propriamente una ragione di vita, quanto +1 costume avito, da coltivare poiché gli era stato passato il testimone, da trasmettere a sua volta ai propri figli. Tuttavia, come ben giustifica l’estratto, era credente a metà: subiva male le imposizioni del suo credo, e non si faceva troppi problemi a non rispettare quelle che credeva fossero insensate, o comunque difficilmente tollerabile. Da lui suo figlio ereditò una cultura religiosa estremamente vivida e precisa, così come il distaccamento che potesse garantirgli pure esistenza serena pur nel rispetto (almeno apparente) della religione della sua famiglia.

Come per gli altri parenti piemontesi, la fine arte di ritrattista di Levi serve qui per bloccare sulla pagina una volta per sempre la particolare figura del padre, che ci viene offerta così come si era saldata nella sua memoria. Per una panoramica più completa, è possibile consultare almeno le interviste di P. Lucarini, Intervista a Primo Levi, 1983, III: 368-376; P. Terni, Primo Levi. La musica e i dischi, 1984, III: 396-422; A. Gozzi, Lo specchio del cielo, 1985, III: 515-527.

Via Po – Casa di nonna Màlia

Citato in
Argon, SP, I: 872-873

Passo
[…] in età avanzata si lasciò sposare da un vecchio medico cristiano, maestoso barbuto e taciturno, e da allora andò inclinando verso l’avarizia e la stranezza, quantunque in gioventù fosse stata regalmente prodiga […]. Col passare degli anni si estraniò totalmente dagli affetti famigliari (che del resto non doveva aver mai sentiti con profondità). […] Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia. […] Quando arrivavamo sul pianerottolo tenebroso dell’alloggio di via Po, mio padre suonava il campanello, ed alla nonna che veniva ad aprire gridava in un orecchio: «A l’è ‘l prim ‘d la scòla!», è il primo della classe. La nonna ci faceva entrare con visibile riluttanza, e ci guidava attraverso una filza di camere polverose e disabitate, una delle quali, costellata di strumenti sinistri, era lo studio semiabbandonato del Dottore.

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Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Ritroviamo qui il personaggio di nonna Màlia (al secolo Adele Sinigaglia), la nonna paterna di Primo, madre di Cesare Levi, la cui memoria chiude il racconto. Dopo una storia familiare decisamente complicata che la vide spostarsi tra la provincia piemontese e Torino, riuscì a fermarsi stabilmente nel capoluogo piemontese, proprio in via Po (una delle vie più eleganti del centro cittadino), insieme al secondo marito (con cui contrasse matrimonio dopo essere rimasta vedova), il dottor Felice Rebaudengo, nonno acquisito con cui il piccolo Primo non sviluppò mai un vero e proprio rapporto, se non di soggezione.

In effetti, la caratterizzazione che la figura della nonna paterna assume nel ricordo del chimico-scrittore è decisamente chiara: già soltanto il pianerottolo dell’alloggio in cui abitano è «tenebroso», e la casa stessa è piena di inospitali «camere polverose e disabitate»; addirittura, Levi la descrive come una «vecchietta grinzosa, stizzosa, sciatta e favolosamente sorda nei miei ricordi d’infanzia più lontani» (Argon, SP, I: 872). Insomma, è tutto il contrario rispetto alle dimore degli antenati ebraico-piemontesi, i quali vivevano in grandi agglomerati familiari e gioivano della compagnia dei propri parenti. Al contrario, invece, nonna Màlia, forse spinta da un’amara vecchiaia a cui era approdata attraversando troppi problemi da vivere in una vita soltanto, forse scoraggiata e rinserrata nella sua solitudine dai problemi dovuti alla sua anzianità, «ci faceva entrare con visibile riluttanza», quasi come se non avesse un grande piacere di ricevere visite dal proprio figlio e dal primogenito nipote. Sembra non valere nulla, in questa perla di memoria, la simpatica frase che Cesare Levi sbraita alla propria madre che ormai poco riusciva a sentire: nonostante Primo sia presentato come il più bravo della classe (forse con un tirato gioco di parole legato al suo nome), l’anziana non sembra aver troppo riguardo dei propri ospiti.

A complicare ulteriormente il quadro della situazione, è «lo studio semiabbandonato del Dottore», quello che occupava una sola della trafila di camere inutilizzate, la quale era «costellata di strumenti sinistri». Il quadro memoriale offerto da questo estratto, se confrontato con quello degli altri avi di cui si parla nel racconto, non è per niente roseo, tantomeno vivido: quanto più lugubre, fosco, quasi oscuro, che giustifica poiché nonna Màlia non appare illuminata dalla stessa festante luce che ricade invece sui suoi altri parenti.

Via Po – Caffè Fiorio

Citato in
Argon, SP, I: 868

Passo
Da “rùakh”, plurale “rukhòd”, che vali “alito”, illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi (“Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque”), si era tratto “tirè ’n ruàkh”, “tirare un vento”, nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: “Davidin, bat la cana, c’as sento nèn le rókhòd!”: che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiatore in 1a classe in ferrovia […].

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Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

In ogni caso, comunque, quello che scrive qui è un ritrattista estremamente fine: è in grado di captare l’essenza dei suoi antenati e farli rivivere, anche in maniera irriverente (come giustifica ad esempio questo estratto), nelle pagine della raccolta in questione. E non solo: ci troviamo davanti ad una vera e propria testimonianza etno-socio-linguistica, poiché delineando il profilo di quegli ebrei torinesi che si erano assimilati (a modo proprio) nel tessuto cittadino, Levi ferma una volta per tutte sulla pagina tante interessanti caratteristiche di quei mitici parenti ormai scomparsi, con le loro strane abitudini e i loro particolarissimi modi di dire.

Ne leggiamo uno davvero singolare proprio qui: il detto dialettale «tirè  ’n ruàkh» è uno splendido esempio dell’ibridazione linguistica tra la lingua dei padri ebraici e il locale dialetto piemontese; come spiega Levi rifacendosi direttamente alle Sacre Scritture, l’allusione si può spiegare guardando ad un versetto della genesi, dove con «ruàkh» s’intende «alito». La zia Regina, che ha dato origine a un detto vero e proprio da usare simpaticamente quando si sentano rimbombare rumori e gorgoglii umani, indica proprio l’emissione di esalazioni ariose dagli orifizi corporali.

È una situazione decisamente comica, specialmente se la si immagina avvenire nel dehors del l’antico caffè Fiorio, ancora tutt’oggi uno dei bar più eleganti della centrale via Po (famoso per la bellezza dei suoi interni e per il saporito gelato lì prodotto), situato poco dopo il suo imbocco da Piazza Castello. Come nota anche la breve chiosa al termine dell’estratto, la «cana», e cioè il bastone da passeggio, era un vero e proprio simbolo di signoria: assolutamente adatto (a differenza del detto di zia Regina) al tenore della via prettamente borghese e commerciale che, diretta al fiume Po, attraversa il cuore della città. Sembra anche, peraltro, di sentir risuonare i lastroni che pavimentano gli ampi portici della via, schioccati dall’elegante e posato urto in apparenza casuale della canna, in realtà abilmente sfruttati per nascondere una verità decisamente più irriverente.

Vicolo Crocetta

Citato in
Idrogeno, SP, I: 876-877

Passo
Il fratello di Enrico, misterioso e collerico personaggio di cui Enrico non parlava volentieri, era studente in chimica, e aveva installato un laboratorio in fondo a un cortile, in un curioso vicolo stretto e storto che si diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese come un organo rudimentale intrappolato nella struttura evoluta di un mammifero. Anche il laboratorio era rudimentale: non nel senso di residuo atavico, bensì in quello di estrema povertà.

*

La Crocetta, uno tra i più belli e ricchi quartieri torinesi, situato nel centro a pochi passi dalla stazione di Porta Nuova, era il quartiere di Primo Levi: uno dei ricordi che ritroviamo nelle pagine del Sistema periodico ci riporta al periodo liceale. Nel racconto Idrogeno, in particolare, troviamo una delle più belle, significative e sincere lodi alla chimica, vista qui dagli occhi del giovane Levi che, affascinato e quasi stregato, crede di poter trovare in questo necessario sapere le chiavi per comprendere correttamente il mondo e le regole che governano il flusso della vita.

In Idrogeno è centrale anche la figura di Enrico (al secolo Mario Piacenza), uno dei compagni di studi nei confronti di cui Levi provava grande stima e ammirazione (e che lo accolsero con gioia al suo ritorno da Auschwitz). È una presenza molto importante per il suo periodo adolescenziale: è uno dei suoi grandi amici, tanto importante che è entrato a far parte del racconto in prosa della sua vita, nella quale è stato raffigurato con il personaggio di Enrico.

E, non di meno, del suo mestiere di chimico: profondamente legato alla lezione che l’idrogeno insegna ai due ragazzi, l’omonimo racconto riporta la storia di quando, sedicenne, primo Enrico vollero andare nel laboratorio del fratello di quest’ultimo per sperimentare di prima mano ciò che leggevano sui testi di scuola. Era all’opera ai loro danni, secondo quanto scriverà Levi, la ‘congiura gentiliana’ che li obbligava a preferire le materie che avrebbero rafforzato il loro spirito, a discapito invece di quelle più pratiche (come appunto la chimica). Appena si presenta loro l’occasione di poter saggiare da sé la materia che avevano conosciuto soltanto in via teorica, i due giovani si fiondano di nascosto nel laboratorio del fratello di Enrico e iniziano immediatamente ad armeggiare con qualsiasi cosa trovino a portata di mano. Il loro esperimento dimostra che il giovane Primo era quello più accorto e preparato tra i due: era certo grazie a Enrico che i due giovani inesperti potevano condurre queste piccole (ma tutt’altro che sicure) prove, ma non era sicuramente stata sua l’iniziativa di provare l’esperimento dell’elettrolisi, né l’acribia di dimostrare che i fatti seguivano esattamente la formula scritta solennemente alla lavagna. Primo, invece, si sentiva come un savio cerimoniere, e guidava l’amico alla scoperta dei misteri della materia.

E infatti Primo che, spinto e leggermente infastidito dall’indeciso scetticismo dell’amico che non si fida della lezione spiegatagli, vuole testare l’effettiva essenza dell’elemento: per provare all’amico la sua ragione, avvicina un fiammifero ad un contenitore pieno di idrogeno e innesca una piccola esplosione (al pari, sebbene in scala estremamente ridotta, dei fenomeni astrogonici che avvengono nello spazio cosmico). Nonostante i simbolici frantumi di vetro sul pavimento e la paura retrospettiva generata dall’avvenimento, Primo si sente pervaso da «una certa sciocca fierezza, per aver confermato un’ipotesi, e per aver scatenato una forza della natura» (Idrogeno, SP, I: 877): per aver previsto e sfruttato a proprio vantaggio il comportamento della materia pura.

Questo episodio è particolarmente significativo perché illustra come, sin dalla sua giovinezza, Levi cercasse il confronto pratico con il mondo intorno a sé: la chimica era quel sapere che gli permetteva di conoscerlo, di affrontarlo ad armi pari, magari prevedendone il comportamento e svelandone ogni segreto. Più e più volte Levi ritornerà su questo argomento, rivendicando l’importanza, per la sua formazione, di quel mestiere che lo aveva formato, che aveva svolto per più di trent’anni, a cui aveva dedicato (pur diversamente, dopo la pensione) tutta la sua vita.

Porta Nuova – treni

Citato in
Un altro lunedì, 1946, AOI, II: 688

Passo
“Dico chi finirà all’Inferno:
I giornalisti americani,
I professori di matematica,
I senatori e i sagrestani.
I ragionieri e i farmacisti
(Se non tutti, in maggioranza);
I gatti e i finanzieri,
I direttori di società,
Chi si alza presto alla mattina
Senza averne necessità.

Invece vanno in Paradiso
I pescatori ed i soldati,
I bambini, naturalmente,
I cavalli e gli innamorati.
Le cuoche e i ferrovieri,
I russi e gli inventori;
Gli assaggiatori di vino;
I saltimbanchi e i lustrascarpe,
Quelli del primo tram del mattino
Che sbadigliano nelle sciarpe”.

Così Minosse orribilmente ringhia
Dai megafoni di Porta Nuova
Nell’angoscia dei lunedì mattina
Che intendere non può chi non la prova.

*

Risalente al gennaio 1946, è certamente un’altra delle ‘poesie urbane’ di Levi, sicuramente una delle più metropolitane, e insieme alla precedente lirica intitolata Lunedì (1946, AOI, II: 687) forma una coppia assai rappresentativa della stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Appartiene alla prima stagione poetica di Levi, quella in cui rientrano anche le poesie del Lager, e contiene un’allusione fondamentale, quella al Minosse dantesco, il giudice infernale che Levi aveva già incontrato nel Lager, durante il suo esame di chimica.

Queste due poesie sono particolarmente rappresentative di Torino perché ne affrontano un luogo fondamentale, in cui Levi passò molte volte e che frequentò per diversi anni della sua vita: la stazione di Porta Nuova era, appunto, una finestra sul mondo per i torinesi prima che le tratte aeree divenissero così accessibili. La prima, in particolare, sembra nascere proprio dal percorso quotidiano di Levi che si reca ad Avigliana per lavorare: in Lunedì (però composta di giovedì, e a Torino) c’è un riferimento ben più che esplicito al treno e alla solitudine che prova durante i viaggi verso il proprio luogo di lavoro, e più in generale nella sua vita. In particolare, il mezzo di locomozione è collegato in maniera assai sinistra con il treno che lo aveva portato ad Auschwitz (così come quelli che lo riportarono indietro dalla Polonia), il quale rimane un ricordo traumatico nella sua memoria iconica e getta un’oscura ombra simbolica su ogni altro suo simile.

In Un altro lunedì, però, Levi decide di vestire i panni dell’infernale giudice che ritroviamo nell’Inferno dantesco, di cui riporta le parole in discorso diretto, virgolettandole. Il rimando a Dante è più che esplicito e si palesa senza possibilità di travisamento solo alla fine della lirica, il cui ultimo verso rimanda al primo terzetto di Tanto gentile e tanto onesta pare. Spunta perfettamente diritto, come un endecasillabo che regolarizza la chiusa della ultima strofa, e gioca il ruolo di immobile motore metrico: prelevato pari pari dal famosissimo sonetto di Dante, sembra attirare alla sua misura versale le righe precedenti, le quali presentano una sorta di ritorno all’ordine endecasillabico dopo il polimorfismo dei versi brevi nelle due strofe precedenti. Pur non utilizzando uno schema metrico fisso, dunque, Levi era assolutamente in grado di comporre versi di undici sillabe proprio come prescriveva la tradizione poetica italiana (a cui spesso si rifaceva, e che aveva sempre ben presente).

L’ultima strofa è infatti la più importante perché, insieme al primo verso, offre gli estremi in cui inquadrare la poesia: dopo il lunghissimo elenco che contiene il variopinto campionario di geografia umana cittadina che si sposta sui tram e per la città puntando verso la stazione per raggiungere il proprio luogo di lavoro (esattamente come faceva Levi all’epoca). L’occasione poetica nasce, in particolare, proprio dall’ascolto del megafono da cui si spargono gli annunci che specificano l’itinerario dei singoli treni: il poeta immagina che dietro agli altoparlanti, alla sorgente di ogni impulso vocale trasmesso in stereofonia in tutta la stazione, stia proprio il giudice dantesco che, osservata e conosciuta l’abituale routine dei viaggiatori, può dire meglio quale sia la loro direzione, indicandogliela. Metaforicamente, il poeta immagina che la voce sancisca chi di loro debba andare all’inferno («Dico chi finirà all’Inferno»; peraltro scritto qui con la maiuscola in riferimento palese alla Commedia) o in paradiso, a seconda della loro occupazione e delle loro abitudini mattutine.

La fauna torinese è però molto varia: c’è un discrimine fondamentale, che non è possibile evincere chiaramente: i versi del poeta mimano qui il dedalo della stazione e le numerose masse che la attraversano, in cui si mescolano le più svariate professioni, ed è impossibile comprendere perché alle anime tocchi l’una o l’altra sorte. In ogni caso, Porta Nuova si rivela di nuovo un crogiolo di esistenze, un cuore pulsante della città che è punto di riferimento comune per una grandissima parte della popolazione locale (e non soltanto).

Un altro dato molto importante della poesia è proprio l’«angoscia del lunedì mattina», la stessa che attanagliava il poeta già nella poesia precedente scritta soltanto dodici giorni prima. Questa, tuttavia, è più allegra (in un certo senso) e sicuramente meno disperata, per quanto comunque lapidaria: i versi brevi sembrano davvero essere stentorei giudizi irrevocabili; e, allo stesso tempo, gli endecasillabi finali riportano in gioco il sentimento di angustia che il poeta sentiva durante quel periodo della sua vita (quando, peraltro, era ancora uno di «Quelli del primo tram del mattino / Che sbadigliano nelle sciarpe» e non ancora uno dei «direttori di società» che si affrettano per raggiungere i binari e riprendere la loro azienda lì dove si era fermata prima del fine settimana).

Corso Re Umberto – ippocastano

Citato in
Cuore di legno, 1980, AOI, II: 714

Passo
II mio vicino di casa è robusto.
È un ippocastano di corso Re Umberto;
Ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
In aprile, di spingere gemme e foglie,
Fiori fragili a maggio,
A settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
Emulo del suo bravo fratello di montagna
Signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
I tram numero otto e diciannove
Ogni cinque minuti; ne rimane intronato
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
Dal sottosuolo saturo di metano;
E abbeverato d’orina di cani,
Le rughe del suo sughero sono intasate
Dalla polvere settica dei viali;
Sotto la scorza pendono crisalidi
Morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
Sente e gode il tornare delle stagioni.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2603103959974377/

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Questa poesia è uno splendido esempio dell’attenzione alla vita di città che Levi, interessato alle specie animali e vegetali, non può fare a meno di notare. Dei viali torinesi, gli alberi sono forse la parte più notevole: delimitano il corso centrale dividendolo dai controviali e portano un fresco tocco di verde non poco importante nel quadro di una città in cui regnano sovrani cemento e asfalto. Questa veduta è quella che Levi poteva scorgere dal suo balcone, oppure ogni volta che varcava la soglia di casa sua: l’albero è, letteralmente, il suo «vicino di casa», e la sua vicinanza con Levi è innanzitutto di natura bio-geografica.

Come se dovesse offrirne una classificazione binomia per indicare la particolarità della sua specie da un punto di vista strettamente biologico, Levi parla di «un ippocastano di corso Re Umberto»; il legame stretto con questa creatura, che viene qui antropomorfizzata pur nella considerazione della sua “semenza” (vegetale e quindi inanimata), sembra avere – non si sa se davvero oppure no – una coincidenza biografica non poco importante con il chimico-scrittore, il quale conosce assai bene il suo ciclo vitale durante i mesi e le stagioni dell’anno. Potrebbe anche essere, non si sa se solo poeticamente o anche anagraficamente, che il giovane Primo avesse visto tutto il processo evolutivo del tronco che cresceva nelle aiuolette che separano corso e controviale.

Come se fosse un suo fratello imperfetto, infatti, Levi è in grado di captare le sensazioni che secondo lui prova il suo particolare vicino di casa: innanzitutto quello di sentirsi un «impostore» perché vuole imitare i grandi e rigogliosi castagni di montagna, profondamente diversi, soprattutto perché immersi in un ambiente circostante molto più prolifico rispetto a quello del centro torinese; la prima differenza si scorge proprio da ciò che queste due specie arboree producono: se l’ippocastano di corso re Umberto non dà che «fiori fragili» e «ricci dalle spine innocue / Con dentro lucide castagne tanniche», il fratello montano è invece «Signore di frutti dolci e di funghi preziosi», ed è «bravo».

L’albero cittadino, però, soffre: «Non vive bene» perché è immerso in un contesto nient’affatto georgico che non lascia spazio alla libera realizzazione della natura naturans, ma anzi la blocca, la impedisce e ne minaccia fortemente lo sviluppo. I tram che scorrono veloci (e pesanti) sui binari di corso Umberto, simbolo della modernità torinese e della capillarità con cui è stata organizzata la rete del trasporto pubblico, gravano sulle radici del povero ippocastano ad ogni corsa («ne rimane rintronato», appunta il poeta), obbligandolo a sopportare il peso dell’evoluzione della città e degli spostamenti della sua popolazione.

Per questo «cresce storto, come se volesse andarsene»: è fortemente piagato da un ambiente che non fa nulla per favorirlo, che non lo lascia crescere liberamente come lui vorrebbe invece fare, e che anzi mina pericolosamente la sua salute. Oltre al peso dei tram, infatti, quotidianamente «succhia lenti veleni»: l’azione dell’inquinamento cittadino (specie in un corso centrale tanto trafficato quanto quello in questione) è dirimente, ma poco a poco, giorno dopo giorno, come se fosse una sorta di condanna. Non lo aiutano infatti il «sottosuolo saturo di metano» né la «polvere settica dei viali», nemmeno riceve acqua per dissetare la sua crescita, ma invece «orina di cani» che gli abitanti portano a passeggiare ai piedi delle sue radici.

Come se fosse malato di una malattia cancerogena, le «rughe del suo sughero sono intasate» e non possono che assorbire tutti gli scarti della vita cittadina; per questo, seppur «Alberga passeri e merli», «Sotto la scorza pendono crisalidi / Morte, che non saranno mai farfalle»: non c’è soluzione di continuità con la vita che rinasce dal nulla, e, essendo avvelenato dal profondo delle sue radici, non può offrire nutrimento vitale agli ospiti che si appoggiano su di lui. Ma c’è una concessiva finale che ribalta la situazione, riprendendo il quadro iniziale e affermando che non tutto è perduto: così come «non ha vergogna, / In aprile, di spingere gemme e foglie», nonostante i suoi siano soltanto «Fiori fragili a maggio», «Sente e gode il tornare delle stagioni»; dunque è vivo, percepisce ancora la vita dentro di sé e attorno a sé, pur sognando di essere come il suo alter-ego montano, perché non tutte le sue speranze sono perdute; il suo, dal punto di vista fortemente antropormorfizzante del poeta, è un «tardo cuore di legno» ancora in grado di vibrare di vita, nonostante l’impervio ambiente in cui è stato impiantato.

Via Valperga Caluso

Citato in
Potassio, SP, I: 899-900

Passo
Risalivo svogliatamente via Valperga Caluso, mentre dal Valentino giungevano e mi sorpassavano folate di nebbia gelida; era ormai notte, e la luce dei lampioni, mascherati di violetto per l’oscuramento, non riusciva a prevalere sulla foschia e sulle tenebre. I passanti erano rari e frettolosi: ed ecco, uno fra questi attirò la mia attenzione. Procedeva nella mia direzione con passo lungo e lento, portava un lungo cappotto nero ed era a capo scoperto, e camminava un po’ curvo, ed assomigliava all’Assistente, era l’Assistente. Lo sorpassai, incerto sul da farsi; poi mi feci coraggio, tornai indietro, ed ancora una volta non osai interpellarlo.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=312498507121147&set=gm.1393892967641014

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Potassio è tra i più famosi e citati racconti che compongono il Sistema periodico. È la cronaca degli anni dell’apprendistato chimico di Levi, in particolare all’indomani dell’avvento delle leggi razziali promosse dal regime fascista: il giovane studente di chimica, ebreo suo malgrado, non riesce a trovare nessun professore tramite cui poter davvero imparare qualcosa, fare gli esperimenti giusti, cimentarsi in compiti difficili per apprendere quanto più possibile durante un periodo tanto ricco di ispirazioni. Fuori dalle mura dell’Istituto di chimica, per parafrasare una definizione sempre dal Sistema periodico, la situazione era buia, ma ancor di più lo era in Europa: era il 1941 e la deportazione nazista aveva già preso inizio. Il quadro politico era raccapricciante: lo strapotere della Germania andava crescendo sempre di più, nella speranza di poter conquistare sempre più territori, a partire dalla Polonia. Gli ebrei italiani, nella fattispecie e quelli torinesi, erano però vittime di quella che Levi definisce “cecità volontaria”: continuavano a condurre le proprie esistenze regolarmente, non volevano essere vittime di preoccupazioni ingestibili, di cui nemmeno lontanamente avrebbero immaginato le conseguenze, e continuavano a vivere la propria vita senza curarsi di cosa succedeva in Europa. C’erano fonti che lo affermavano, certo, ma mancava il desiderio di conoscerle davvero, e di organizzarsi di conseguenza; mancava addirittura il desiderio di opporsi ad un regime tanto stretto quanto quello fascista, nonostante impedisse agli ebrei di vivere davvero al pari degli altri.

Anche il giovane Levi: completamente (e volutamente) ignaro delle possibili conseguenze che verso cui il suo destino lo avrebbe condotto, Levi era preoccupato di trovare un buon lavoro che gli permettesse di guadagnare abbastanza per condurre una vita agiata, esattamente come giustificavano ai suoi occhi i modelli della piccola borghesia torinese, tra cui in particolare i suoi genitori. Per farlo, sapeva bene che doveva diventare un tecnico bravo e capace, e che quindi si sarebbe dovuto laureare con un’ottima votazione all’università. Suo malgrado, a causa delle leggi razziali nessun professore era intenzionato a prenderlo come proprio tesista. Ci sarebbe dunque stato il suo maestro?

Proprio l’Assistente (al secolo Nicolò Dallaporta): specializzato in astrofisica, “il regno dell’inconoscibile” come lo chiamava, iniziò Levi ad una disciplina quasi esoterica, di cui soltanto pochi adepti potevano intendersi davvero. Volevo aggiungere infatti alla realtà ultima che tutte le cose, che era però di per sé inconoscibile, e soltanto i calcoli della fisica avrebbero forse, un giorno, potuto trovare una strada per raggiungerlo.

Ciononostante, Levi non era interessato a questo tipo di verità in afferrabile: preferiva già all’epoca la chimica, che gli offriva il tatto pratico con il mondo circostante, oltre ai paradigmi della materia e delle sue infinite combinazioni. Tuttavia, resto il necessario con l’Assistente poiché questi gli concesse di diventare suo allievo, suo iniziato: in una sessione privata di approfondimento, guida Levi nell’esperimento che viene compromesso proprio dal potassio. Nell’esperimento sbagliato, infatti, l’Assistente vede una prova della superiorità della fisica sulla chimica, mentre Levi vi legge l’importanza del più piccolo dettaglio differenziale, causa del naufragio delle sue previsioni nel suo approccio diretto con la materia.

L’Assistente, come succederà anche nel suo ritorno nei Sommersi e i salvati (La vergogna, SES, II: 1195 sg.), ricopre in un certo senso l’autorità che deve essere superata per arrivare alla piena maturazione: è quella presenza che il giovane Levi vede come proprio modello e punto di riferimento, ma da cui sente di doversi distaccare per essere davvero se stesso, per intraprendere il proprio cammino e conoscere gli strumenti per sviluppare una propria opinione sui fatti.