La lacrima di Ulisse

Manuela Mangiocco, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Odissea di Omero, nell’ottica del corso Raccontare, riscrivere l’Odissea. In prosa, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Se la prigione di Ulisse nell’isola di Ogigia divenisse la mente: se il suo pensiero in tormento rileggesse il passato con impietosa, severa condanna. Mentre, come prodigio o ineludibile necessità, il tempo tuttavia scorre: pronto a cantare un capitolo nuovo. Vivo e grandioso come l’urlo di un gabbiano

*

Ulisse cammina a piedi nudi, lento; il luccicore infuriato del giorno gli confonde la vista, gli annebbia la mente. Siede sopra uno scoglio argenteo, levigato: il mare è di una vastità atroce, sconfinata.

Fluttuanti, scivolosi come l’acqua i suoi pensieri, che sembrerebbe immobile in una giornata come questa eppure va e viene senza sosta, fino a inondare terre innocenti, straniere, emerse a farsi luogo abitato, o spoglio. Finanche alla sua adorata Itaca che oggi è sospiro amaro e assente, petroso di malinconia.

Sono trascorse settimane, mesi, persino anni; Ulisse più non li rammenta. Da quando gli è apparsa Calypso tra le fronde degli ontani, con le sue trecce molli adolescenti, su un viso acceso da malizie tremende. Da quando incredulo si è scoperto prigioniero di lei, del suo amore da piovra, lo stupore, la rabbia, il dolore feroce. Da certe notti disperate in cui l’ha posseduta con vigore, lo smarrirsi dei sensi odoroso di rovi e peonie, invocando gli dei tutti affinché quell’oblio potesse durare per sempre e cancellasse ogni ricordo.

Le ore infinite trascorse dinnanzi al mare han trasformato a poco a poco i suoi pensieri. Il desiderio di casa, di affetti, la nostalgia struggente si è fatta lama sottile, puntuta, a perforargli mente e cuore: la ferita che di giorno in giorno diviene più profonda sa di rimorso, condanna. Per quei lunghi infiniti anni di guerra e di viaggio che sente oggi non solo perduti ma ahimè!, sciupati. Il furore che cova nel petto, frustrato sempre più dall’impossibilità di tramutarsi in azione e vendetta, non ha ormai come bersaglio Calypso, gli dei, la misera sorte. Ma è contro Ulisse, Ulisse stesso!, che Ulisse va sguainando la spada del rimprovero, del giudizio, della condanna.

Ulisse curioso e avventuriero che per la fame insaziabile di conoscenza ha trascinato se stesso e i suoi compagni in mille folli avventure “su isole incantate, sfidando forze arcane”1, e ritardando all’infinito il ritorno.

Ulisse lascivo e libertino, che per un anno intero si è smarrito tra le braccia voluttuose di Circe e se non fosse stato per i compagni savi e piangenti, forse oggi sarebbe ancora lì, dimentico di tutto.

E che dire poi di Ulisse superbo ed orgoglioso che ha rivelato per insulsa civetteria la sua identità al mostruoso sconfitto Polifemo, attirandosi le ire funeste del tremendo Poseidone.

E poi ancora Ulisse pigro ed ozioso che per ben due volte, non sorvegliando a dovere gli stolti compagni, ha permesso che questi compissero sacrileghe azioni, madri delle più nefaste conseguenze.

Ma il vero e più colpevole Ulisse, pensa ora meditabondo, mentre una brezza leggera gli scompiglia la chioma, è Ulisse stolto, ignaro, ignorante. Ulisse che per interminabili anni non ha compreso il valore infinito del tempo, questa implacabile clessidra fatale agli umani che granello dopo granello porta via, per sempre, il mistero chiamato vita. E nulla rende in cambio.

Ed ora che lo comprende appieno non può tornare indietro a mutare la sorte né tantomeno andare avanti: che in quest’isola tutto è stasi, immobile segreto dell’orrenda dea; il tempo pur scorrendo non scorre. Come un uccello divenuto pioppo intrappolato dalle sue radici.

E maledice mille volte il dono che lei vorrebbe fargli, quello dell’immortalità! Gli sembra l’ultima beffa crudele del destino. Per farne cosa? Contemplare all’infinito gli errori, le mancanze, le folli sue condotte? Darsi in eterno dello stolto, dell’imbecille, dell’ignorante? Meglio sarebbe stato trangugiare il loto e avvicendarsi immemore, con un sorriso da ubriaco. O farsi trascinare nel fondo degli abissi turbolenti dalle sirene incantatrici, fino a scomparire nel vuoto…

Ma se pure ha imparato qualcosa in tutto questo peregrinare tra battaglie e incantesimi, malie e avventure, a cosa può servire? Se non potrà narrarlo all’unica donna di cui ha saggiato il cuore fedele, la saggia Penelope; se mai il figlio suo potrà farne tesoro e insegnamento.

Se così è, ogni lezione è stata vana. Nulla ha avuto senso.

Ulisse oggi è solo un “misero battello perduto, spinto dall’uragano, che non troverà mai più la rotta. Perché ogni sole è ormai atroce e ogni luna amara”2: nell’isola di Ogigia il paradiso è inferno, l’incanto è dannazione.

Eppure sente ancora, in un angolo riposto del suo cuore, una scintilla fievole, che non può, non vuole chiamare speranza.

Ha la voce amorosa di Penelope, l’abbaio festoso di Argo, il tenero vagito di Telemaco. E’ pura e illesa come la bianca conchiglia che tiene tra le mani.

La guarda, la odora, la ascolta, sa di mare infinito e turchese, sa di ritorno.

(Ulisse ignora che nel frattempo la dea Calypso ha ricevuto per mezzo di un messaggero di Zeus l’ordine di liberarlo e procurargli i mezzi per tornare alla patria).

Diventa lacrima sottile, gli trafigge la guancia.

(Il volere degli dei non potrà mai essere inadempiuto).

Mentre un gabbiano sta planando sull’acqua, col suo urlo di vita.

Bibliografia
F. Guccini, Odysseus, Ritratti, 2004
A. Rimbaud (1871), Il battello ebbro, in Opere, tr. it. di I. Margoni, Feltrinelli, Milano, 2009

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