Shall I – Opera sperimentale in tre movimenti

I movimento
 Look in thy glass and tell the face thou viewest

II movimento
V: Nascondi ciò che sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni

III movimento
When Forty Winters shall besiege your brow

L’opera: Shall I è un esperimento di scrittura audace, perché stravolge, cannibalizza e contamina la più canonica – e insieme la più rivoluzionaria – tra le forme poetiche: il sonetto. Poiché i versi di Petrarca, Michelangelo e Shakespeare hanno superato la prova del tempo, gli autori hanno deciso di portare a nuova vita tutte quelle figure, quelle storie e quelle ambientazioni nascoste nell’impalcatura della forma sonetto. Fair Youth, Laura, lo specchio, l’acqua, le chiome e i capelli d’oro esistono materialmente e fisicamente in queste pagine e l’effetto che ne deriva ha la forma di una lanterna magica.

Lo spettatore viene catapultato in quest’avventura poetica senza avere il tempo di porsi delle domande, trovandosi immerso nelle storie, nei frammenti, nelle visioni, nelle grandi scene e nelle illusioni che abitano la poesia fin dai tempi di Petrarca e che ancora ci accompagnano.

Il Coro, retaggio della struttura tragica, introduce il tema dei tre movimenti.

Gabriele Corna ha partecipato alla stesura, all’elaborazione e all’editing dell’opera.

Primo Movimento

–   Argomento del primo movimento: nello scontro tra l’antico e il moderno, tra le tradizioni classiche e le rivoluzioni sperimentali, questo movimento si concentra sui temi di sogno e illusione; memoria ed eternizzazione; specchiarsi; follia e frenesia amorosa; vendetta; trasformazione della donna angelicata.

–   I sonetti di riferimento sono: 1 e 149 (Shakespeare), 272 (Petrarca), 102 e 151 (Michelangelo) e altri.

–   Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Elisa Rovetto, Giulia Rolando, Gloria Policaro, Chiara Cavallero, Letizia Desimone, Milena Re, Arianna Ferrero, Margherita Ricchiardi, Ludovica Maione, Mattia Marin, Leonardo Besson, Pietro Delodi, Celeste Palmas, Giulia Grosso, Marta Gennaro, Elisa Murgante, Ilaria Cervi.

Secondo Movimento

–    Argomento del secondo movimento: questo movimento sfida l’argomento classico del sonetto michelangiolesco relativo alla contesa tra le diverse forme d’arte. Come può manifestarsi, oggi, questa sfida impossibile della rappresentazione? Quali sono le forme ibride metaforiche e contaminate che riescono ad abbracciare tutti i linguaggi dell’arte?

–   Principali sonetti di riferimento sono: Sonetto 29 e 126 (Petrarca); sonetto 18, 116, 120, 149 (Shakespeare); sonetto 29 (Petrarca); madrigale Come può esser ch’io non sia più mio?, sonetti 17 e 151 (Michelangelo) e altri.

–   Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Matteo Bonino, Matilde Bianco, Dario Prunotto, Anna Paruzza, Giulia Frenna, Michela Voghera, Alessia Bersanetti, Rebecca Zanin, Lorenzo Pietracatella.

Terzo Movimento

–   Argomento del terzo movimento: questo movimento rielabora il tema della caducità dell’esistenza e del trascorrere delle generazioni. L’invito alla procreazione, e al non disperdersi della bellezza, caro al ciclo di sonetti dei Marriage Sonnetts shakespeariani, quali connotazioni può assumere nel nostro mondo?

–   I sonetti di riferimento sono: ciclo di Marriage Sonnets (Shakespeare).

–   Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Elia Ferrari, Cristina Galizio, Elisa Pantone, Giulia Bongioanni, Rebecca Deandrea, Alessandro Dema, Linda Pascazio.

Primo Movimento

Look in thy glass and tell the face thou viewest

[Entra il coro]

E allora parliamo di uomini.

Parliamo di me e voi,

di coloro che camminano

sulla terra bagnata dalla pioggia

e di tutti quei personaggi

che abitano tra le stelle.

Parliamo della guerra più antica di tutte

della contesa che non conosce pace:

se esista mai su questa terra

un’arte che sappia descrivere la vita.

I pittori hanno sfidato i poeti in descrizioni

e scultori e musicisti hanno combattuto

per la plasticità della materia;

tutto quello che ne è rimasto:

è che pace non abbiamo e non troviamo da far guerra.

L’unico giudice è l’umano

di quale sia l’arte migliore,

ma le Muse sono creature tentatrici

che a volte innalzano e a volte abbattono

il loro umile cantore.

Quando l’universo ha smesso di coincidere

e il mondo ha iniziato a esistere

sono nati i racconti;

parliamo, allora, di quelle storie

che nel loro svolgersi

ci aiutano a vivere.

[Esce il coro]

 Narratore

Il dottor Francesco Manzoni, che pure non aveva mai studiato l’autore lombardo per un rancore che provava nei suoi confronti, era uno psicologo. Nella sua breve carriera era già riuscito ad essere assunto in una delle più rinomate aziende per il supporto psicologico nella sua città, e in questo contesto aveva conosciuto la sua compagna. O meglio, “ex-compagna”. Sì perché il dottore, seppur di giovane età, era già intenzionato a mettere su famiglia, aprire il mutuo, scegliere la scuola per i figli, affrontare la suocera a natale durante una partita a tombola,… Laura no. E questo gli spezzava il cuore. Una volta bloccato su tutti i social di lei, tutto ciò che rimase al dottore era il lavoro (oltre che la casa, visto che la collega era andata a stare dai suoi), ma anche questo stava per essergli portato via. Questo perché, com’è risaputo, uno psicologo che vive un certo trauma non può seguire pazienti con traumi simili, e si dà il caso che Manzoni fosse un consulente di coppia e che le sue sedute individuali procurassero lui maggiore clientela quando entravano pazienti dal cuore spezzato. Si dà anche il caso che proprio domani si terrà la seduta che deciderà le sorti lavorative di Manzoni e lui è impreparato, come quando da ragazzo il giorno prima della verifica andava in montagna invece di studiare. – Come faccio adesso? – continuava a chiedersi. L’idea che ritenne più brillante fu una delle prime a cui pensò. Il dottore pensò al suo manoscritto da pubblicare: un diario delle sedute in cui erano raccontati quelli che per lui erano i sogni più coinvolgenti, professionalmente parlando, riguardo ai temi dell’amore. In questo breve testo aveva raccolto sette storie di sette pazienti e ora che stava rincasando lo stringeva forte in mano, tra una spallata e uno sguardo provenienti da quello e dall’altro concittadino con cui condivideva giornalmente il tram. Salì le scale e mangiò con stanchezza gli avanzi del giorno prima, poi si alzò senza sparecchiare e si diresse verso camera sua. Si tolse i jeans, e accesa l’abat-jour, si infilò sotto le coperte, con solo l’energia per sfogliare il suo stesso testo: ”Dedicato a Anne, per l’amore che mi hai trasmesso per lo studio”. Scansò la pagina con il titolo della raccolta e iniziò a leggere dal primo capitolo.

Prima categoria:
Sogno e illusione[1]

Dalle memorie di un sognatore

Cosa lega gli uomini ai sogni d’amore?

Risposta che solo un sognatore saprebbe indicare attraverso parole velate.

Sognatore non è colui che dorme, ma colui che rende la propria vita sospesa tra realtà e meraviglia, tra vita e sogno, dando un significato alle fantasticherie d’amore e rispettando questo sentimento poiché sa quanto sia più forte rispetto al dolore.

Immaginiamoci per un istante di vivere in un mondo privo di sognatori, chi guarderebbe più la luna con stupore, amando il firmamento più di quanto il cuore sia capace?

Un giorno lo incontrai un sognatore: all’epoca lavoravo come portinaio di un vecchio teatro e lo scorgevo spesso trovare conforto nel bicchiere di una vecchia locanda; le persone erano strane laggiù: nessuno lo capiva. Forse nemmeno lui stesso si capiva, ma gli andava bene così perché l’unico essere da cui voleva esser compreso era colei che da tempo incontrava all’uscita del vecchio teatro: una donna bellissima con i capelli dei colori delle foglie dorate in autunno. Dal suo viso scolpito dalla giovinezza traspariva l’ardere delle più misteriose emozioni che giorno dopo giorno lui osservava di nascosto. Le sue mani erano così bianche che sembravano in grado di non sfiorire mai. Il sognatore innamorato aveva concepito diverse proposte di come la donna si potesse chiamare, ma nessuna di queste sembrava appartenere a lei, o forse, era lui stesso a preferire silenziosamente di celare questo mistero.

Così, persuaso, dopo anni, il timido sognatore decise che quel volto meritava tanti versi quanti erano gli astri nel cielo: era gennaio, e sotto la porta del teatro una lettera ingiallita e con un timbro di ceralacca rosso attirò la mia attenzione.

Capii che la lettera non era per me ma, curioso, la lessi ugualmente: sulla carta, incisi come pietra, formicolavano versi così sinceri da intimorire persino l’animo più colto

Incrociare il tuo sguardo angelico

tra il buio

di ciò che mi circonda

mi salva

sognare di un futuro con te

è sufficiente

perché io percepisca la vita

farsi più leggera

ogni mio giorno è ormai segnato

da quel breve incontrarti

che dà sostanza al mio incompreso vivere

se quel che piace è grande sogno

a me piace

sognar di te.

Pioveva. I miei occhi non versarono lacrime, ma fu la pioggia a farlo per loro. Anche la pioggia si era resa conto che l’uomo altri non amava che un attore: il migliore dei talenti femminili, colui che poteva essere cento donne e non ne era nessuna.

Il sognatore non vide più la sua Ofelia o la sua Cleopatra, né tutti i ruoli che nel corso delle stagioni passate l’aveva visto interpretare. Ho pensato di dire la verità, di parlare al sognatore della misteriosa morte del giovane attore, avvenuta la notte stessa in cui la lettera venne lasciata sotto la porta del teatro. Una morte ingiusta, un omicidio apparentemente immotivato, o forse no, perché la sua ingenua femminilità turbava l’animo di molti. Decisi dunque di tacere, capii che era meglio lasciare un sogno infranto piuttosto che svelare un’aspra realtà: con le mie parole avrei trasformato il suo amore perduto in un giovane talentuoso con l’anima di donna.

Mi sveglio con un nodo alla gola. Frastornato un senso di angoscia pervade il mio corpo, controllo la data indicata sulla mia sveglia: 25 gennaio 1975. Era tutto un grande sogno, così reale che quasi mi sembra di tenere quella lettera tra le mani. Non sono un portinaio di un teatro, sono un misero dipendente che lavora nella biglietteria del cinema meno frequentato della città, è tardi, devo andare a lavoro. Non riesco però a concentrarmi su quel che devo fare, mi sento ancora immerso nel sogno e continuo a rivivere le tristi emozioni della constatazione dell’impossibilità dell’amore, immedesimandomi nell’animo del timido sognatore.

Decido di alzarmi e ricordo che è mercoledì, giorno in cui in programmazione ci sono solo film d’epoca. Sorrido mentre realizzo che tra il pubblico di habitué ci sarà Olivia.

È da tempo che sono innamorato di lei, penso spesso al momento in cui sarò pronto a dichiarare con sincerità ciò che ancora provo, ma la mia timidezza e la paura di poter ricevere un rifiuto mi bloccano da tempo. Ho sempre preferito rimanere nell’idea in cui ancora stiamo insieme, non vorrei che la dichiarazione della verità possa rovinare il nostro rapporto di amicizia. Non voglio interfacciarmi con la realtà, che potrebbe riservarmi dolore.

Mi preparo ed esco di casa, mentre cammino la mia mente ritorna al sogno di questa notte. Immerso nei miei pensieri arrivo al cinema, mi posiziono sulla mia poltrona rossa un po’ impolverata e attendo l’arrivo dei clienti, sperando che il primo volto che vedrò sia quello di Olivia.

Il sogno si ripresenta ai miei occhi, e sono quasi infastidito dall’ennesima successione di quelle immagini nella mia mente. Tra gli ultimi clienti entra Olivia e cammina verso di me con un sorriso sul viso, e con la sua fragile voce mi chiede un biglietto con le monete già pronte nella mano, desiderosa di raggiungere velocemente la sala per non perdersi i primi istanti del film. Mentre le porgo il biglietto penso che vorrei vivere in quell’istante per sempre. Prende il biglietto, mi saluta e si volta verso la sala. Comincia il film e l’ingresso del cinema si svuota, e io resto nuovamente solo con il sogno ben fisso nella mia mente. Forse dovrei trovare il coraggio di parlare a Olivia perché non riesco a sopportare l’idea di poter vivere una vicenda simile a quella del sognatore. Decido di scrivere una lettera che le consegnerò alla fine della programmazione

Ti cercherò là dove l’anima, Narciso, 

echeggia nel tuo profondo specchio d’acqua

così profondo, che quasi non ti vedo più

ma senza voltarmi continuerò a cercarti.

quando lo sguardo, incrocerà il tempo perduto

solamente allora, verrà la mia estate.

Sospirando, pervadi la mia mente di notte

lascia che il sogno tormenti i sentimenti.

Questo è il mio regalo per te.

Amore, consumato respira il rimpianto

quella sera di averti sorriso soltanto

e se illuso sarò io ad amare di più,

nessun uomo spenga le mie stelle

sarò il sole innamorato della neve.

tuo Will.

Narratore

 Lesse le proprie note: «I dati del paziente sono preoccupanti, confonde le illusioni della sua mente con fatti realmente accaduti, manca completamente di senso di realtà, non mangia, non vive. Sembra aiutarlo solo la poesia. Quell’uomo… erano mesi che pensava di aver parlato a quella ragazza. Forse Olivia non era neanche il suo vero nome ma solo un frutto della sua fantasia, così come tutte le sue interazioni con lei. Eppure ogni volta che si scontrava con la realtà rispondeva con uno sbadiglio. Non dormire per il lavoro lo faceva sognare di giorno e si sa non bisogna svegliare i sonnambuli.»

Seconda Categoria:
Ricordare, memoria ed eternizzazione[2]

Tempo, donna ammaliatrice e scaltra, nuda e altera

abbandona la tua superbia 

e concedimi un attimo in cui sopravvivere con te 

che vivi indifferente e non ami.

Non mi ami: fuggi; ridi di me e scappi

dalla noia di rendere me essere,

parole immobili e destinate,

pensieri e bagliori infiniti.

Donna, tempo tentatore e ladro, sentenza assassina,

fiori irrisolti, albe appassite;

scorgi dall’alto il mio affanno e 

non consoli la mia perduta eternità.

Corri ma consenti il ricordo del cuore e 

correndo non smettere di ricordarti di me.

Tra la critica e la poesia

Commento critico:

LA CRONOFOBIA: il tradimento e la consolazione del tempo.

La cronofobia è la paura del tempo. La paura del tempo che inesorabilmente fugge via da chi lo ama, lo brama e lo attende. Si tratta di una fobia comune a tutti gli uomini che possiedono un’anima che spera e piange, che riflette e si tormenta.

La cronofobia è l’angoscia del trascorrere di una vita che fuggendo tradisce se stessa, alienandosi e svuotandosi del suo puro significante e significato: il tempo.

La cronofobia è la malattia di un tempo veloce, fatto di sospiri fuggenti, emozioni consumate e ansia per l’eternità. Un tempo che sembra immobile nel suo destino ma fuggevole nei suoi attimi ordinari e quotidiani. Un tempo che tradisce e non sente obiezioni: un tempo che fuggendo ride di chi lo aspetta con un ghigno sordo e ridondante; un tempo che immobile osserva l’affanno di chi lo ama e gode animatamente. Un tempo che assale e che ricorda a chiunque possieda un’anima che è proprio lui a morire ripetutamente nel silenzio della malinconia e nell’orrore della mortalità.

La cronofobia è l’ossessione per gli attimi e lo sguardo attento di chi spera in un soffio vitale eternamente vivo, umano e reale. Un momento idilliaco dove tutto è destinato alla vita e niente alla morte. Tutto è eternamente presente e niente è disgregato dall’eco vicino del futuro imminente.

La cronofobia è la paura di non trovare dove la vita si nasconde nel tempo delle cose umane.

La vita si nasconde agli angoli del mondo, nei posti aperti all’ignoto e oscuri alla mente.

L’uomo si presenta in ogni luogo. Si mostra. Si palesa. Si rileva. Si svela.

La vita gode indifferentemente della sua eternità mentre l’uomo attende nella sua disperazione un momento che duri per sempre.

L’uomo cerca la vita. L’uomo piange e inspira, si dispera ed espira finché non la trova: la vita è lì in un angolo distesa. È nuda, pallida, indifferente. Sorridente di un sorriso fastidioso, vittorioso, capace di comprendere ma incapace di rispondere. Ha gli occhi vergini dalle paure, le labbra consumate di chi vive e il corpo di chi ha sentito su di sé il sorgere di molte albe.

L’uomo è illuminato dal suo bagliore di indifferente eternità. Sceglie di incatenarla a sé in un abbraccio indissolubile. Lei ferma e impassibile si lascia stringere, per un attimo. Un attimo folgorante che brillerà nell’anima di un uomo che ha paura del tempo e che proprio per questo illuminerà il suo breve momento di essere.

Un solo istante per essere anima e per essere luce.

Un solo istante per essere arte.

La cronofobia è la paura degli attimi che non sono anima, non sono luce. Non sono attimi che risplendono come un’alba salvifica, come uno scintillio positivo che da lontano ricorda e salva.

Non sono attimi abbracciati dall’uomo oltre l’oblio della dimenticanza. Non sono attimi stretti tra il cuore e la memoria di chi teneramente li stringe alla luce del proprio essere e ai primi colori lontani e tenui di un’alba che risolverà. Non sono attimi che obiettano contro il bisogno dell’uomo di amarli e piangerli. Non sono attimi che si divincolano, che scivolano e che svaniscono con il sorgere del Sole.

Ma sono attimi che cullano, rasserenano e accarezzano.

Sono attimi che hanno la traccia della luce e il bagliore del ricordo.

Sono attimi di cui non avere paura perché ricordano all’uomo di essere: di essere folgorante arte e pallida malinconia.

Sono sospiri di luce.

Sono arte.[3]

La nostra vita è costantemente scandita dal ticchettio di un orologio, dalla sabbia che scende piano piano verso il basso in una clessidra, da qualcosa che ci ricorda che il nostro tempo in questo mondo non è infinito: è un’entità onnipresente, ci scruta nella sua indifferenza e divora gli attimi della nostra vita che diventano pian piano irrecuperabili. 

Tutto scorre, compreso il tempo. Ci sembra che ciò avvenga fin troppo velocemente, tanto che talvolta perdiamo di vista i nostri obiettivi, che ci sembrano appartenere a un futuro lontano; talvolta ci dimentichiamo di fermarci ad apprezzare ciò che abbiamo. Ma vivere nel presente, senza affannarsi per il futuro e senza nemmeno rifugiarsi nelle memorie passate, non è semplice: il tempo sembra essere nostro antagonista, misura la vita e poi la toglie, consuma e distrugge, e la paura di non poter più vivere nuove estati e di dimenticare attimi appartenenti ad un passato di amore e giovinezza spesso ci divora.

Per questo motivo tendiamo a cercare più e più volte di rivivere un determinato istante, magari a causa della nostalgia di qualcuno, o di un determinato avvenimento, o perchè forse può destare ancora parecchie preoccupazioni nel presente, ma dal momento che questo non può più tornare una seconda volta possiamo farlo solo attraverso la memoria: così cerchiamo di imprimere in quegli attimi indimenticabili la vita. 

Il tempo è fuggevole, scorre veloce senza aspettarci, ma c’è una cosa che può temporaneamente fermarlo e si tratta della bellezza: solo l’arte riesce a imprimere nell’eternità i begli occhi o la morbida veste della donna amata nel giorno in cui l’abbiamo incontrata per la prima volta. L’arte, la parola e in particolare la poesia sa rendere dinamica, viva e collettiva un’esperienza prima solo personale, ma che i poeti hanno saputo dipingere con dettagli così suggestivi e commoventi tanto da renderla un’immagine eterna e coinvolgente anche a centinaia o migliaia di anni di distanza. Un incontro inaspettato, uno straziante addio, uno sguardo gentile o un paesaggio primaverile possono così rinascere ogni volta che si rilegge la poesia, riportandoci ad immaginare una scena già successa, anche se la linea del tempo prosegue lineare e rapida davanti a noi, ricordandoci di utilizzare sempre tutti i momenti a nostra disposizione, alla ricerca di un atteggiamento giusto, accogliendo tutti i piaceri, le gioie e le lezioni che la vita ci regala[4].

Narratore

Lo sguardo del dottore si distolse momentaneamente da quel giallo flebile, fioco, fragile, formale, estremamente onirico dei fogli. Poi si proiettò oltre il vetro della finestra: si erano appena accesi i lampioni. 

Terza Categoria:
Specchiarsi[5]

Perfettamente uguali

Nello specchio dell’antico [6]Nello specchio del moderno [7]
“Dalle più belle creature desideriamo procreazione, cosicché la rosa della bellezza non possa mai morire”.Amabili versi, dolci e raffinati, colmi di speranza per il pover uomo ormai giunto presso l’abisso.Così soavi che sembrano celare, seppur per un istante, l’amarezza intrinseca al vivere.Di questi versi, io non so che farmene.Nulla per me apporta conforto ela prospettiva di una morte anonimae non compianta mi è familiare.Non possiedo la fortuna di esser di bell’aspetto.Il mio volto è sfigurato, i suoi tratti rigidi.Il mio corpo è deforme, incompiuto.Chi mai amerebbe uno storpio?Solo un folle probabilmente.Non posso essere amato, tanto menoessere amante. I miei sentimentisarebbero certamente respinti con scherno, se non con disgusto.Come biasimare? Io stesso non possiedoné la forza né il coraggio di intrattenermidinanzi uno specchio. Il mio seme? Il mio seme dite? E cosa me ne faccio.Sarò tomba di un amore a me mai insegnato.La sola idea di averlo in sé ripugna colei su cui cade il mio sguardo.Io, frutto corrotto di una natura ingannatrice, non posso che giungere ai miei scopi tramite la forza brutale della crudeltà.La mia fame, o specchio, la fame che mi consuma, che mi divora, è fame del potere a me dovuto. Il potere più grande di tutti.Il destino ribaltato di colui che giudicato imperfetto ora si fa giudice e carnefice.Non mi importa a chi arrecherò danno, no.Siamo tutti effetti collaterali, d’altronde, di un mondo che rende spietati.E io mi sono deciso a sposare questa spietatezza.E a non avere più limiti.“Guardati allo specchio e di’ al volto che vediche è ormai tempo per quel viso di crearne un altro”. Con quanta grazia i poeti invitano alla vita, rendendo omaggio persino alle più grandi frivolezze. Il mio dono è tanto unico quanto infido e temibile. No, qui non si parla di frivolezze.Non necessito un fanciullo che risvegli in me la dolcezza di una gioventù ormai trascorsa. Il mio stesso viso, nei suoi lineamenti più amabili,ne è un ricordo perpetuo e indelebile.Questa stagione effimera per molti, è per me costante.  Una maledizione, forse? Una grazia, obietto io. Chiunque mi guardi resta incantato e ogni passante in strada volta gli occhi per ammirarmi. Sono io il fanciullo del poeta.Il volto della primavera perenne  che tutti bramano. Il seme che possiedo. Il seme bramato, supplicato, agognato. Sarei folle a volerne diventare tomba, eppure… eppure rabbrividisco alla sola idea che tale perfezione possa essere a me sottratta. Una voce, quella stessa, profonda, mia voce che mi spinge ad amarmi mentre ti guardo, specchio, mi spinge a conservarlo questo seme, a custodirlo, gelosamente.E poi questa voce mi parla di sangue. Vuole il sangue. Il mio piacere, la sofferenza altrui.Voi non la sentite questa voce? Voi non credete che io senta questa voce?Perfezione. Tutto ciò che è difetto va nascosto, relegato alle più oscure stanze del mondo. Sono eternamente giovane e perfetto. Perfezione. Altro non puoi avere da me, specchio.

Conclusione a “due voci”:

A: Cos’altro dovrei fare? Aver paura di guardarti, specchio? Di guardare questo mio sproporzionato viso?

B: E cosa dovrei fare io? Immagine perfetta all’esterno ma mostruosa all’interno, costretto a non vedere altro che la seconda quando di fronte al mio riflesso.

A: Un mostro sì, ma che ora ha in mano il mondo.

B: Lo stesso mondo che mi ha reso così, corrotto, privo di integrità. La mia non è stata una scelta.

A: Avevo forse alternativa? Quando ciò che conta è apparire, a cosa servono moralità e valori nel raggiungimento del più alto potere?

B: Servono quando convinti di distruggere gli altri per i nostri fini, non procuriamo che del male a noi stessi. Questo è quello che ora so. Questo ciò che vedo.

A: Esiste allora una possibilità di redenzione? Tornare a guardare il proprio riflesso senza esserne disgustato?

B: Agli occhi degli altri la nostra immagine non muterà mai… 

A+B: …così eternamente opposti, così perfettamente uguali.

Narratore

 Da lontano giunse l’eco esile di un tuono. 

Quarta Categoria:
Follia amorosa[8]

Lettera di un innamorato

                                                                                                                             8 maggio

Amata F,
Voglio che tu smetta di dubitare di me, perché sapere che il mio amore ti sembra un fiore che nasce e muore ogni giorno mi fa odiare la mia vita che non è nient’altro che tua serva da quando mi hai tolto a me stesso. 

 Così scrivo qui l’ultimo frutto del mio continuo malanno, amore, che per tanto tempo ho considerato la sorgente della mia vita, il nutrimento per saziare un certo appetito, ma che forse, alla fine, non è altro che bacino di oscurità e fuoco. Adesso la vedo, o Dio o Dio o Dio, ora vedo l’oscurità in cui siamo. Ma poiché questo è il tuo regno, decido di fermarmici, rinunciando al sole che non è caldo come il tuo inferno.
Se prima il buio mi spaventava e il fuoco mi bruciava e avrei tanto voluto una via d’uscita, adesso non saprei come aprire gli occhi davanti a una luce che non sia la tua e non riuscirei a inspirare senza l’inferno che mi passa el core.
Pensavo fossi cara e così ti ho seguita e inseguita perdendo a ogni passo un pezzo di quello che sono stato prima di incontrarti, la mia ragione è sparita, ma era solo di intralcio alle nostre felicità e a quella dei tuoi cani, esseri divini ormai figli per me. Pur di riuscire a vedere il tuo bel viso e non solo più le tue spalle ho agito come nessun essere umano dovrebbe. Nessuna vita potrà mai valere quanto un tuo desiderio o respiro e così, oltre a perdere pezzi di me, tanto altro ho dovuto sacrificare, per te, che esisti nel mio cuore senza avermi mai toccato.
Mi sono meritato una tua carezza, dopo aver ucciso per te mia madre, almeno da compensare il vuoto d’affetto che sarebbe venuto, ma la tua mano a me non si è mai avvicinata, così mi chiedo, cosa devo fare per sentire le tue dolci membra? Godi di tutta la devozione che ho per te, chiamami amore della tua vita e fa che io possa cullarmi in eterne estati grazie alla tua pietà. Nulla importa se ti sei rivelata porto chiuso ai miei occhi e al mio cuore, perché ti appartengo da quando i miei occhi li hai usati come finestre per rendere il mio petto la tua casa. Chissà chi sarei io adesso, se in quel momento fossi stato addormentato, visto che io senza te, donna diva, non sono.
Mi piaci sempre più e così voglio celebrare la mia ossessione irrefrenabile.
Mi sei entrata dentro, ora mi esci da tutte le parti, nel mio corpo non so più dove farti stare, l’hai riempito già tutto, e così ti lascio andare con il mio sangue, trabocca dalle mie vene, scorri e nutri questo mondo.
Ti dedico questo mio gesto d’amore, non credere mai più alla notte e lasciami adesso una carezza, per favore.

                                                                                                 Tuo perdutamente innamorato M 

4 maggio 

Caro M,

Forse non m’ami più? Mi dissi che mi amavi perdutamente, eppure io non vedo niente; l’altra notte ho anche sognato, un sogno strano di sgomento, che costodivi un’urna con dentro le mie ceneri, le spargevi al suolo, te ne liberavi come di un brutto giorno, come di un cane che non si vuole più, come di un figlio nato morto. Cosa mi dice la notte? Che non m’ami.

Eppure ciò che ti chiedo, tu lo fai, succube amante dei miei desideri.

Ti dissi, burla malvagia, portami domani, il cuore di tua madre per i miei cani: tu ieri uccidesti tua madre per me. Le hai dissacrato il petto, disonorato con le tue stesse mani colei che ti mise al mondo e che ti fece vivo. Dovrebbe farmi felice, non è vero? Eppure il tuo amore mi sembra un fiore che nasce e che muore ogni giorno.

Daresti la vita per me? Non avresti il coraggio, chiederesti pietà, ma io per te non ne ho; io ti odio perché tu non m’ami.

Non posso farmene niente delle tue lacrime e delle tue virtù, della tua onestà e delle tue follie, di parole scritte nei deliri del tuo amore cieco.

Amore mio, se mi vuoi bene, fa che io possa toccare con mano quel sangue che dici scorrere soltanto per me, e forse lì io ti potrò amare.

Tua F

Narratore

L’analista appoggiò un momento il libro sul suo busto coperto a faccia in giù, così da avere momentaneamente le mani libere per stropicciarsi gli occhi. Fece uno sbadiglio e tra un colpo di sonno e un altro riprese la lettura.

Quinta Categoria:
Vendetta[9]

Leòn e Marlene

Il chiasso del locale rendeva semplice perdersi nei ricordi a entrambi. Con una mano Leòn batteva un ritmo a cui nemmeno lui stava pensando, mentre con l’altra stringeva il bicchiere del whisky in cui lentamente il ghiaccio allungava il liquore. Sul divanetto di fianco a lui Marlene reggeva una Lucky con il filtro macchiato del suo rossetto in una mano e un Martini Dry nell’altra. Il fondo del suo bicchiere aveva raccolto tutta la nota amara del gin, ma la norma sociale del contesto in cui si infilava periodicamente pretendeva che il bicchiere rimanesse vuoto.

Un plauso seguito da grida e risate e schiamazzi dall’altra parte del locale destò entrambi dai loro pensieri e voltandosi in quella direzione videro un uomo dalla barba rossiccia e con un occhio nero acclamato da una folla radunata attorno a un tavolo verde. L’uomo era rimasto bizzarramente impassibile.

Avevano entrambi molto di cui parlare e poco dannato tempo per farlo: per lei il tempo era denaro, il denaro potere e il potere era tutto.

Il sicario sorseggiò in maniera delicata. – Voglio diecimila dollari in più, questo lavoro è stato una vera merda! – disse. Marlene lo guardò come se non avesse fiatato, con una nota di disgusto, aveva pensato un avventore che, sentito rumore per la prima volta dal loro tavolo, si era girato in quel momento. La donna tolse il filtrino dal bocchino ed estinse la combustione in un Fenton Swirl. Poi con compostezza, rispose: – Non ti pagherò proprio, ci hai messo più del dovuto; avevamo un altro accordo -.

–          Mh – rispose Leòn – Se questo è il modo in cui vuoi fare andare le cose penso che dovrai trovarti un altro professionista: non lavoro per una puttana che non paga -.

Ci fu un momento di pausa in cui due bicchieri di cristallo si toccarono.

–          Ti reputo intelligente, Leòn, sai? Però quando non regoli la lingua … – un tonfo sordo si levò da sotto il tavolo. Léon contorse la faccia: il suo piede era appena stato trafitto da un tacco a spillo.- …Possono succedere cose molto brutte – disse lei sogghignando. Il suo piede si alzò. – E ricordati che sono l’unico motivo per cui New York non ti ha ancora divorato-.

–          Se sei dove sei è merito di tutti gli ostacoli che ti ho tolto di mezzo in questi anni… Se solo volessi… io – sussurrò Leòn in preda alla rabbia, mentre afferrava il calcio intarsiato della sua Colt preferita-.

Con aria di sufficienza Marlene guardò il suo braccio e schioccò le labbra – Saresti così stupido da puntarmi addosso la pistola che ti ho regalato? Sei più riconoscente di così, mettila via.-

Lui la guardò, come se fosse lei ad avere una pistola in mano. Marlene aggiunse: – Sei solamente un mio strumento, nulla di più, senza di me vagheresti senza uno scopo preciso – poi con le braccia si spinse verso Léon e gli stampò un bacio sulla guancia.

Adorava che la barba la pungesse.

Si alzò sistemandosi i capelli crespi, grigi come il fumo, mentre lui fissava ammutolito la pelle di lei come squamata, riuscendo quasi a ricordare la bellezza di un tempo ormai sfiorita. Si era fatta divorare dalla sua ossessiva smania di potere e lui era stato a guardare inerme, senza rendersene conto fino a quel preciso istante. Lei non lo aveva mai amato, o almeno questo era quello che traspariva, ora limpido come il bicchiere di lei.

Spezzò bruscamente il suo monologo interiore: “Chiamo un taxi, andiamo a casa

mia!”

Durante la traversata del locale Marlene si fermò un secondo per sistemarsi il gancetto del tacco a spillo che le si era girato al contrario dietro la caviglia e mentre accovacciata decise anche di pulire il sangue sul tacco. Dietro di sé aveva lasciato una scia di goccioline rosso sipario, una percorso che decise di seguire con lo sguardo nonostante sapesse benissimo dove avrebbe portato.

I suoi occhi videro le zampe del tavolo ma il piede di un uomo pestò una delle sue goccioline e decise di cambiare bersaglio della sua curiosità. Smise in fretta di seguirlo con lo sguardo, per concentrarsi su una figura che aveva attirato la sua attenzione.

Era una donna. Indossava un vestito bianco marmo, fatto di un tessuto lucido, che dopo quattro piccoli bottoni all’altezza dell’addome lasciava posto a una gonna a tubino, mentre in testa aveva un cappello la cui rete copriva gli occhi e non permetteva a nessuno di far incrociare il suo sguardo, poichè assorto nel bicchiere che aveva posato sul tavolo. Questa, sentendosi osservata, alzò la testa e incontrò gli occhi di Marlene. In mezzo secondo le parlò con lo sguardo, facendole intendere del suo disagio nel trovarsi lì, circondata di gentaglia, criminali e istituzioni mosse solo dalla voglia di potere; le comunicò di suo marito, il quale non la amava più, come neanche lei amava lui, ma che le proponeva questo genere di serate per mantenere lo status; le parlò di Marlene stessa, che in quegli occhi si rivide come fossero uno specchio. Tuttavia, come spesso succede tra estranei, entrambe distolsero subito lo sguardo, e la donna tornò a nascondersi nel suo calice in vetro.

I due colleghi si ritrovarono sull’uscio che l’uomo del posto stava tenendo aperto per loro. Lo varcarono e salirono delle scale di compensato che portavano fuori dalla cantina e, varcata la botola, fecero un cenno di saluto al proprietario della pizzeria. Passarono indisturbati tra i clienti indaffarati a consumare la loro cena e uscirono sul marciapiede; Marlene alzò un braccio come segno di richiamo al taxi che viaggiava nella loro direzione.

Leòn fu pervaso da una sensazione angosciosa. Sentì come se non dovesse salire sul taxi, come se fosse la sua vita a farcelo salire sopra, non lui. Tuttavia provò a mettere da parte i brutti pensieri e obbedì al corso degli eventi, come aveva sempre fatto prima. Salì su quel taxi, su quei sedili su cui prima si erano sicuramente sedute molte altre persone nel suo stesso stato d’animo. Quel fottuto taxi lo stava traghettando verso l’inferno di una vita vissuta nell’ombra dell’altra

-110 Longfellow Avenue – disse Marlene, e l’auto partì.

La donna decise di prendere subito in mano la situazione: – Non ti illudere che io e te finiremo a fare qualcosa stasera, Leòn. Ricordo benissimo certi avvenimenti ma sai benissimo cosa penso del nostro rapporto. E sai benissimo che sono il tuo capo e che non conviene che due come noi finiscano a letto assieme. A proposito – e nel dire ciò estrasse dalla pochette da sera una busta con la paga del sicario. Leon la fissò stizzito per un momento, poi la prese e la infilò nella giacca.      – Come può dirmi questo? – pensò tra sé e sé, – Come riesce a essere così crudele? Come fa a non rendersi conto di quanto mi sono annullato per lei? Non si accorge che penso a lei soltanto? Come cazzo è possibile? -. Guardò fuori dal finestrino le luci della città, i passanti sui marciapiedi, i negozi chiusi, la polizia.

-Deve togliersi questo tarlo- pensava Marlene intanto,- non sono né Phoebe né Rachel e non ho intenzione di scopare come se fossi sua. Certo mi divertirei ma devo mettere da parte questo desiderio: non sono più una ragazzina e non posso permettermi di darla in giro come capita o perderei il rispetto di tutti i più grandi bastardi di questa città. Ho un’attività da portare avanti -. Guardò fuori dal finestrino i cestini, le prostitute, i grattacieli, i barboni.

Erano già arrivati sul Verrazzano-Narrows Bridge e nessun’altra parola era stata detta. L’atmosfera era molto pesante, carica di tensione: sapevano entrambi che sarebbero finiti a litigare.

Arrivati a casa di Marlene il rumore dell’auto fece svegliare la vicina, che però richiuse gli occhi; il rumore delle portiere che si chiudevano la fece ridestare: – Fottuta sgualdrina – pensò prima di riassopirsi.

Con regalità Marlene estrasse dal portamonete una banconota che porse cordialmente al tassista. Attese il resto, poi lo salutò con un – Arrivederci -.

Mentre percorrevano il vialetto, lei davanti con già le chiavi in mano, Leòn fu catturato dalla vista del corpicino di uno scoiattolo in decomposizione ai piedi di un albero: Perché lasciarlo lì? -, pensò tra sé e sé. Poi il rumore delle chiavi contro il pomello lo riscosse e seguì la padrona di casa oltre l’uscio.

Uscì dal taxi visibilmente scocciata, e buttò il mozzicone di sigaretta per terra quasi volesse ricordargli dove fosse il suo posto: dietro di lei, a raccogliere quel mozzicone imbrattato di rossetto. Lui lo fece e dopo averlo buttato in un cestino rimase immobile a cercare di capire quale fosse il modo migliore di procedere. Ma lei lo anticipò subito: – Leòn, sono stanca di tutto questo – disse salendo gli scalini di casa sua – vai a prenderti una birra qui sotto e togliti di mezzo -, non lo guardò nemmeno in faccia, emise un grugnito bestiale in segno di disprezzo e tirando fuori dalla borsetta un paio di chiavi aprì il portone. Ma Leòn non si mosse, non aveva la minima intenzione di spostarsi da lì e dargliela vinta, non quella sera.

Ignorò il comando di Marlene e la seguì sugli scalini.

Nel momento esatto in cui lei girò la chiave nella serratura del portone, Leòn rimase attonito (sbalordito) da ciò che si celava dietro l’oscurità: un immenso museo di opere d’arte. Gli ricordava uno di quei musei minimalisti, all’insegna della modernità e del lusso, ma una volta avvicinatosi poté scorgere dipinti risalenti ai più grandi maestri del passato.

“Si parla di milioni di dollari” pensò Leòn appoggiandosi alla porta esterrefatto, “come è possibile che siano finiti qui dentro”. Si girò lentamente verso Marlene, che disinteressata dal suo stupore momentaneo si incamminò verso la scalinata di marmo togliendosi il soprabito e lasciandoselo scivolare lungo le spalle. La scalinata portava al secondo piano della casa, e sui muri che accompagnavano gli scalini vi erano affissi unicamente quadri di Modigliani: tutte donne senza pupille. Le cornici si immedesimavano con il resto del muro per il loro colore bianco intenso, tutto sembrava freddo e surreale. León raggiunse frettolosamente Marlene al piano superiore e la seguì fino al suo studio; un lungo corridoio si apriva, mostrandone la magnificenza: su un lato appariva in tutta la sua gloria il Guernica, quasi a dimostrare il suo potere e la sua forza ,sull’altro lato La persistenza della memoria, a ricordare il tempo, onnipotente, e alla fine del corridoio, solo, in mezzo a pennellate di tonalità scure e sfumature macabre, La ragazza con il turbante, in tutta la sua eleganza e raffinatezza, quasi volesse sprigionare bontà e purezza velate. León aprì titubante la porta dello studio lasciata socchiusa e vi entrò. L’improvviso cambio di tonalità lo scosse per un secondo: un’unica sfumatura di rouge noir . Si girò intorno finché non vide Marlene seduta alla sua scrivania con un’altra sigaretta in mezzo alle labbra a contemplarlo con occhi ipnotici e crudeli, mentre esattamente dietro di lei si stagliavano nella loro maestosità le pupille di Jeanne Hébuterne, senza fine. Eccola, come Modigliani, León aveva trovato la sua Jeanne Hébuterne, Marlene, e ora cadeva in quei suoi neri e profondi occhi, senza fine.

Era stordito.

Tutto, in quella casa, gli stava facendo capire di essersi perduto. Ogni quadro, ogni elemento d’arredo avevano iniziato a sussurrargli debolmente la verità, aumentando poi di intensità, fino ad assordarlo… il mobilio inanimato l’aveva portato a realizzare di aver sempre conosciuto l’intima essenza di Marlene, ma di averla sempre nascosta a se stesso. Non era amato, non lo era mai stato, aveva accettato di legarsi ad una donna che non era legata a lui e che, per tutte le volte in cui lui aveva tentato di dimostrarle che l’amava, ve ne erano state altrettante in cui lei aveva trovato occasione di schernirlo.

Non poteva pensare di vivere senza di lei, nè poteva sopportare la sofferenza di essere rifiutato ogni giorno. Incrociò lo sguardo della donna, un sorriso malato, le labbra secche, avvizzite,

I pensieri di Leòn iniziarono a schiarirsi, raggiunse una lucidità a lui nuova. Non poteva resistere a quell’inferno un minuto di più o sarebbe arso vivo. E la sua amata, non più un sole, come l’aveva sempre voluta vedere, ma una fiamma infernale, che lo consumava sempre più, ritta davanti a lui, deformata in un sogghigno che pareva eterno. Accarezzò la Colt, rimastagli in tasca per tutto quel tempo, e, in un battito di ciglia, la estrasse. Marlene sbiancò. Il gesto, rapido e deciso, l’aveva colpita.

Leòn sorrise. Per una volta, l’aveva preso sul serio, ma la pallottola non era per lei. Questo sarebbe stato l’ultimo dei propri omicidi.

Aveva sopportato troppo, aveva accettato di sottomersi ad una vita che lo aveva consumato e ad una donna che si era compiaciuta di osservarlo appassirsi piano piano. Guardò il ritratto di Jeanne Hèbuterne, poi Marlene. Capì di aver amato una delle donne che Modigliani avrebbe dipinto senza pupille, perchè non aveva mai compreso davvero la sua anima. Era vuota, nonostante lui si fosse sempre voluto convincere del contrario. Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, vide Marlene, il volto di lei più pallido che mai, ammutolita, con gli occhi vuoti, bianchi. Si rifiutò di guardarla, volse la propria attenzione sul dipinto alle spalle di lei, volendosi perdere negli occhi di Jeanne mentre si portava la pistola alla testa. L’ultima cosa che vide fu il ritratto di un’anima.

Lo sparo riecheggiò per tutta la casa, ma Marlene neppure lo sentì. Era immobile, come di pietra, mentre osservava Leòn riverso a terra, col sangue che sgorgava dalla sua testa, dal suo volto ormai sfigurato, di cui anche lei era ormai cosparsa, mentre si spargeva ai suoi piedi.

Eppure non provava nulla. Il cadavere davanti a lei sarebbe presto scomparso sottoterra, cenere alla cenere, non sarebbe rimasto niente.

Del fedele sottoposto, dell’amante mai corrisposto, alla fine non le importava… non fosse che avrebbe dovuto trovare qualcun altro per sostituirlo nel lavoro.

Forse la verità era che non le importava di nulla, a un tratto anche la ricchezza aveva cessato di avere un senso, di avere un’utilità, per la prima volta si sentì spenta, come se non avesse più uno scopo.

Si alzò e prese da terra la pistola di Leòn.

Alle sue spalle si stagliava il volto di Jeanne, ora macchiato del sangue di Leòn, l’ultimo torto che lui le aveva fatto. Cercò di rivedersi nel ritratto che l’aveva sempre affascinata, l’immagine dell’unica donna di cui un autore immortale fosse riuscito a cogliere l’anima, ma non vi riuscì.

Gli occhi di Jeanne la scrutavano, la donna, non più impassibile, si sentì sbagliata. Il ritratto era l’espressione più viva dell’amore dell’autore verso la propria moglie, sentimento che lei probabilmente non era mai stata in grado di provare.

Si sentì vuota, per la prima volta comprese cosa, di quel quadro, l’aveva sempre inconsciamente ossessionata: lo sguardo di una donna viva, reale… all’improvviso Marlene non si sentì più tale.

Quei due occhi le stavano dando alla testa. Puntò la Colt verso il dipinto, come a voler spegnere lo sguardo vivo, acceso, di Jeanne.

Non aveva mai provato amore, Leòn si era ucciso per la sua indifferenza e a lei tuttora non importava, non provava nulla. E questo sentimento che non l’aveva mai toccata, che l’aveva sempre rifuggita, forse la odiava.

“Ma odiami pure, amore, ora conosco il tuo pensiero:

tu ami chi può vederti, ed io sono cieco.” [10]

E altri due spari riecheggiarono nella notte.

Narratore

Era giunto all’ultimo racconto, stanco, esausto; l’orologio segnava un numero troppo basso persino per le facce di un dado, ma non voleva abbandonare la ricerca della sua via di fuga. Lesse il titolo dell’ultimo capitolo, ma cominciata la prima riga cadde addormentato. 

Sesta Categoria:
Femminilità, idealizzazione, donna-angelo[11]

Quello che voglio

Primo SonettoSecondo Sonetto

Un giorno d’estate, riflessa in sabbia d’oro,la luce negli occhi come freccia ardentenel petto entrava. Il fuoco tra le tue dita imploroma tu lo lasci cadere e lo calpesti sprezzante. [12] L’anima s’accende come stoppie nella brezzaper quelle labbra da cui il frutto a me proibito cresce, perché il solo vento t’accarezza:lascia che lo colga prima che il tempo sia sfiorito.
Quella fascia di cielo che i capei biondi cinge,spezza e liberati da quella fasulla aureola:se l’abito bianco rappresenta la purezza,tu donna mia vestiti del nero più scuro. Ora ti vedo, non un angelo ma verace,adesso so che sei quella che voglio.[13]
Coming from across the sea, Sandypierced my soul with her gaze.Her lips, as sweet as ripe cherries,I harvest. “Tell me more” they said amazed Since the bonfire has been slain by my cruel wordsI find no peace, and all my war is done.All the power that you’re suppling bend my worldsand make chills and sorrow enter my every bone Liberated from thy light blue hairband, thou tie me with your new golden knots.I’m gonna break free from the mould, show thee that thy faith is justified I better shape up cause you need a manbecause I see thee, you’re the one that I want.[14]

Narratore

Laura non era tornata a lavoro come lui, era in mutua da qualche giorno: anche per lei la rottura era stata dolorosa, ma non voleva essere vista o vedere nessuno per qualche giorno, per avere lo spazio di riflettere. Manzoni invece mirò l’ora e pensò: “Che spreco che oggi sia qui solo per il colloquio”. La stanza era la 101. Bussò ed entrò. Venne fatto accomodare. Il collega, con cui non era mai stato particolarmente in confidenza, gli avvicinò una confezione di fazzoletti dell’Ikea.  

I pensieri di Manzoni si persero nel blu del tavolino. Mentre i ricordi di Laura gli riaffioravano nella mente, rievocati dalla vista di quel blu estoril che tanto le piaceva. Poi una lacrima cadde su quel mobile colore del cielo.


[1] Nota dell’analista: «I dati del paziente sono preoccupanti, confonde le illusioni della sua mente con fatti realmente accaduti, manca completamente di senso di realtà, non mangia, non vive. Sembra aiutarlo solo la poesia.

[2] Nota dell’analista: «Il paziente presenta un raro caso di ossessione per la critica letteraria. Vive immerso nella poesia: la produce, la legge, la scrive e l’analizza dettagliatamente. Ovviamente manca di ogni rigore scientifico. È ossessionato dalla forma sonetto».

[3] Sonetti 272 (Petrarca); 102 e 151 (Michelangelo); 1 (Shakespeare).

[4] Riferimenti:

–  Francesco Petrarca e in particolare i sonetti XC, CXC e CLXXXV: utilizzando la stessa metafora scelta dal poeta, in questi si afferma che l’amata sia un po’ come una fenice, proprio perché la sua scomparsa non ha consentito una sua morte definitiva; Laura infatti rinasce ogni qualvolta il poeta decida di ricordarla e il momento della sua apparizione, nonostante appartenga ad un passato che non può più tornare, permane nell’eternità grazie alla sua memoria che lo riporta all’istante in cui si è ritrovato legato a quei begli occhi, all’istante in cui ha commesso il suo primo giovenile errore.

–  Seneca, il De Brevitate Vitae e quindi la constatazione della fugacità della vita: non sono i giorni a trascorrere troppo velocemente, bensì siamo noi che non sappiamo dare il giusto valore alle cose importanti. Rendiamo la vita breve dedicandoci ad attività di poco conto, per questo motivo Seneca invita a dedicarsi alla ricerca della saggezza, essendo consapevoli che il tempo è un bene prezioso. Possiamo rivivere eventi passati attraverso la memoria, però sarebbe sbagliato rifugiarsi in essa per paura di fronteggiare il futuro.

–  Catullo e il Carme V: è posta in primo piano la capacità di godersi ogni attimo donato dalla vita proprio per il fatto che essa è troppo breve, amando e accogliendo le gioie di ogni momento; i baci dell’amata sono ciò che combatte lo scorrere del tempo, essi sono ricordati e dipinti dettagliatamente e l’immagine che giunge a noi è viva, dinamica, nonostante essi siano stati soltanto attimi appartenenti all’esperienza di un singolo uomo.

–  Angelo Poliziano e Lorenzo de’ Medici, il primo nella Ballata delle Rose e il secondo nel Trionfo di Bacco e Arianna: infatti “chi vuol esser lieto sia”, perché “di doman non c’è certezza”, afferma il Magnifico, e insieme al Poliziano invita ad accogliere i piaceri della vita, compresi quelli più terreni, proprio perché la primavera non è eterna.

–  Orazio, Ode 1, 11, 18: è un invito a cogliere l’attimo, confidando il meno possibile nel domani apprezzando ciò che abbiamo senza perdere tempo in attività inutili o che non ci appassionano. 

[5] Nota dell’analista: «Il soggetto potrebbe soffrire di un grave disturbo bipolare. N.B. consultare il Grosso su questo. Il soggetto è ossessionato dagli specchi. È narcisista: vaneggia sul potere di Nerone e Riccardo III. Quando portato all’aderenza con la realtà, il soggetto si esprime in forme oscure, come poesie o monologhi interiori. Sembra ossessionato da Dorian Gray e dai personaggi dei film. Cita spesso American Psycho. Crede di avere un fratello gemello, uguale, ma diverso».

[6] Nota: Monologo ispirato alle figure di Nerone e Riccardo III.

[7] Nota: Monologo ispirato alle figure di Dorian Gray e di Patrick Bateman.

[8] Nota dell’analista del 5 maggio: «Il soggetto manifesta tendenze masochiste. È disposto a uccidersi per la propria amata. Temo si tolga presto la vita. Inizialmente credevo l’amata non esistesse, mi sono dovuto ricredere. Il paziente sembra poter fare qualunque cosa pur di averla. Lo calmano le poesie. È ossessionato dai sonetti di Shakespeare e Petrarca. Ascoltiamo insieme la musica e chiede sempre di mettere La ballata dell’amore cieco di DeAndré. Credo presto dovrò intervenire».

[9] Nota dell’analista: «Il soggetto è costretto alla terapia solo perché temporaneamente in detenzione. Sembra sano. Ha forza di volontà. Non rivela i nomi dei suoi complici. Non rivela con chi ha parlato. Non rivela chi gli ha dato l’arma. Gli chiedo di lasciarmi qualcosa di scritto. Sembra un racconto. Non riesco a capire cosa sia vero e cosa no. È ossessionato dalle pupille delle donne dei quadri di Modigliani e dal sonetto 149 di Shakespeare. Dalla vendetta».

[10] Sonetto 149 (Shakespeare).

[11] Nota dell’analista: «Il soggetto potrebbe anche interrompere la terapia, è solare, canterino, allegro. Soffre tuttavia di grafomania. Scrive costantemente. È stato mandato da me perché la patologia sembra rara e acuta. Scrive solo sonetti. Alcuni in metrica, altri no. Vuole riscattare il genere femminile in poesia. Vuole raccontarlo. Ossessionato dalle donne e dalla bellezza. Quando interrogato sul suo senso di realtà vaneggia. Parla solo di cinema e di musical, in particolare Grease. Lo conosce a memoria».

[12] Nota dell’analista: «Il paziente ha sviluppato una dipendenza dalle sigarette a partire dall’inizio della sua relazione problematica con una cantante».

[13] Nota: riferimenti in ordine a sonetto 2 (Petrarca), sonetto 1 (Petrarca) , sonetto 1 (Shakespeare),  sonetto 130 (Shakespeare)

[14] Nota: riferimenti a Midsummer night’s dream Atto 3 scena 2 (Shakespeare), Tell me more di Grease, I find no peace adattamento del sonetto 134 di Petrarca a cura di Sir Thomas Wyatt, sonetto 90 (Petrarca), You’re the one that I want da Grease.

Secondo Movimento

V: Nascondi ciò che sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni

[Entra il coro]

Il lampo accecante di una visione:

una suora, un bambino, un’attrice

e poi il buio e l’assenza di colore.

È il bianco a trattenere la luce

dove un ladro di versi si nasconde,

mentre due colpevoli, un (finto) poeta e un artista

giocano a fare a nascondino.

E allora avviamoci per certi corridoi semideserti,

prepariamoci a incontrare le facce su quelle pareti:

i volti, gli sguardi, i gesti e le mani

nei mazzi di carte, tra le maschere

e dietro il sipario di quello che verrà domani.

[Esce il coro]

Un (finto) Poeta

Cucì su faccia, vendetta qual porti,
Maschera di furor guida del cor.
Gridando òe1 il Doge gioca ai morti2
e fa suo seggio lì, spodesta Amor!3

Si tesse sì la trama a fili storti
di destin fatal, correo d’ardor,
ma scorda il ché pensier ha tempi corti,
ciarlatan la Rachel4, ch’aizza al traditor.

Che accadrà quando Amor di nuovo assedio5
con l’arme tenterà? Strideran crani
divòti di fedel adepti al dio6.

Affannoso sarà romper i Pani7
e il trapassar premer8, senza quel Dio9,
bucata d’ago il dì dei vèlle insani10.

*Schema rimico: ABAB ABAB CDC DCD
In ordine i versi delle quartine sono di tipo: piano e minore, tronco e maiore, piano e minore, tronco e maiore.
I versi della prima terzina sono tutti piani e maiori, mentre quelli della seconda sono tutti piani e rispettivamente in ordine a maiore, a minore e a maiore.

Come ritmo sono rispettivamente in ordine: giambico, dattilico, giambico, giambico; giambico, anapestico, giambico, anapestico; anapestico, giambico, giambico; anapestico, giambico, giambico.

1. [1] [1] Òe: “Notissimo richiamo che i vogatori usano come avvertimento all’approssimarsi di un incrocio di canali o di una curva. All’òe ! di risposta di un altro vogatore dichiarano da che parte intendono dirigersi, con “a premàndo” se vogliono andare a sinistra, “a stagando” se vanno a destra e “de longo” se proseguono diritti. (Vedi anche prèmer e stalìr)”; fonte: https://www.vogavenezia.com/glossario-m-p1.htm, Coordinamento Associazioni Remiere di Voga alla Veneta. Questa espressione chiave per la risoluzione concettuale del sonetto, approfondita in seguito nella nota 8.

2. Il Doge che gioca hai morti ha un doppio significato: nella gondola il ferro da prua è composto da diverse parti e quella superiore è detta “testa del Doge”, quindi l’idea che il Doge faccia questo gioco con i morti è da intendere metonimicamente come la gondola che fende l’acqua creando quell’apertura che permette lo scorrere dell’imbarcazione, come se in mezzo ad una folla, un esercito, lui mieta le vittime facendole cadere; mentre a livello storico, ricollegandosi a quanto detto prima, per entrare nella metafora generale ripresa da Petrarca della guerra d’amore, si parla del Doge Domenico Selvo che nel 1075 affronta una dura guerra contro i Normanni e nel 1081 si scontrano nella Battaglia di Durazzo, un sanguinoso scontro navale (collegamento alla gondola) che vede molte perdite nei ranghi della Repubblica (ecco i morti con cui gioca). Da notare, infine, che nel quadro in basso a destra figura una testa del Doge appartenente ad una gondola ormeggiata nel canale veneziano.

3. Riferimento di riscrittura concettuale della prima quartina del sonetto di Petrarca: “Amor che nel penser mio vive e regna”. Qui riportato da Francesco Petrarca, Titolo: “Canzoniere” a cura di Sabrina Stroppa, Einaudi, Et classici.

Amor che nel penser mio vive e regna
e ‘l suo seggio  maggior nel mio cor tene,
talor armato ne la fronte vene:
ivi si loca, e ivi pon sua insegna.

Tutto il sonetto segue l’idea di Petrarca nei confronti dell’amore che si insedia nella mente partendo dal cuore (Rif. commento di S. Stroppa). Qui è il caso della vendetta, però, che per un momento invade la mente della protagonista del trittico di Hayez, Maria (prima tavola), per poi essere spodestata nuovamente dall’amore (ultima tavola del trittico). Nel sonetto di Petrarca la situazione è la seguente: dal cuore Amore giunge nella mente (v. 3) e ne diventa il regnante, caso appunto della protagonista del trittico, fino al termine della storia illecita d’amore, in questo sbigottimento emotivo Amore perde il controllo sulla mente e lì si insedia la Vendetta che annebbia l’agire e condanna la protagonista del quadro.

4. Rachele è una citazione diretta al trittico di Hayez, Deus ex Machina della vicenda rielaborata nel sonetto. Questo è il collegamento diretto al quadro preso in esame.

5. L’assedio richiama sempre l’ambiente veneziano, perché si ricollega alla vicenda citata sopra dell’assedio di Durazzo e alla metafora Petrarchesca della guerra d’amore.

6. dio: si intende una concezione pagana della Vendetta che diventa padrona dell’atto umano. La protagonista ne diventa adepta. Da notare che questa decisione del prostrarsi alla Vendetta, segna già il destino della protagonista, ormai condannata all’inferno per il suo avvicinamento ad un dio pagano. L’’opposizione con il verso 13 quindi è chiara, lì il Dio cristiano l’abbandona per questa decisione e per il successivo suicidio.

7. Riferimento all’ultima cena, qui utilizzato metaforicamente per indicare la decisione del trapasso volontario, ossia la rottura dei voti cristiani. È il momento in cui si infligge la ferita mortale.

8. Premer: ha diversi significati, come fonte sempre: https://www.vogavenezia.com/glossario-m-p1.htm, ne riporto alcuni:
– Coordinamento Associazioni Remiere di Voga alla Veneta.
– Vogare con forza: in generale indirizzare la barca a sinistra (il contrario di stalir).

9. – Premi (imperativo): voga, oppure volgi a sinistra.
– A premando: dicesi per indicare la direzione a sinistra impressa alla barca.
– Cascar a premando: tendere maggiormente a sinistra.
– Vegnir a premando: venire verso sinistra.
L’idea è inventare il finale della vicenda omesso da Hayez, ossia immaginare che le lettere giungano all’amante e che venga accusato, allora Maria per i sensi di colpa opta per il suicidio, qui reso con il concetto di vogare a sinistra, con forza, girando la barca a sinistra, che riprende la concezione della sinistra biblica come direzione infernale.

10.  Rif. a nota 6: Dio, sarebbe il dio della tradizione cristiana che entra in opposizione col dio pagano della vendetta. L’idea è che essendosi abbandonata alla vendetta, essendo devota ad essa, è già in quel momento che ha perduto Dio, il suicidio è solo un ulteriore prova della perdita di Fede.

11.  il nome vèlle, che deriva dal verbo infinito latino volo (Rif. Enciclopedia Treccani), è licenza poetica, perché in italiano lo si trova solamente al singolare (cfr. Dante: a già volgeva il mio disio e ’l velle, Sì come rota ch’igualmente è mossa, L’amor che move il sole e l’altre stelle), mentre qui lo utilizzo con valore plurale: “dei voleri/volontà insane”.

Una donna tradita

In una mattina qualunque realizzai che colui che credevo un compagno di vita, un confidente e colui che credevo che mi avrebbe sempre protetta da ogni forma di male, era stato proprio lui a causarmi il male maggiore.

Era il periodo di carnevale a Venezia e quel mattino ero seduta sul terrazzo a fare colazione. Stavo guardando il magnifico paesaggio veneziano quando un valletto entrò per portare la posta. Solitamente la prendeva Alberto, mio marito, e mi sembrò strano che invece arrivasse direttamente a me. Sul vassoio trovai un’unica busta color crema, sulla quale c’era scritto il mio nome: la calligrafia era molto elegante, sicuramente femminile e dentro di me sentii una strana sensazione. I miei sospetti si confermarono quando iniziai a leggere la lettera: mio marito mi aveva tradita. In quel momento sentii tutte le mie certezze crollare, le gambe iniziarono a tremare e le lacrime a scendermi sul viso. Con i fogli stretti in una mano entrai in camera e chiamai a voce alta la mia dama di compagnia, Rachele. Era l’unica che potevo considerare abbastanza affidabile da raccontarle cos’era successo; lei ascoltò attentamente ciò che le dissi, parola per parola, poi rimase in silenzio per alcuni secondi e infine, guardandomi, esclamò: “dobbiamo scoprire chi è questa donna!”.

Seguire una persona non era mai stato nei miei pensieri e men che meno seguire mio marito e la sua amante. Ormai non ero più tanto giovane, i segni della vecchiaia stavano iniziando a comparire: se non fossi già sposata, sarei considerata troppo vecchia per il matrimonio. Ma c’era un qualcosa dentro di me che mi spingeva a dire di sì a Rachele e probabilmente era la curiosità di vedere chi fosse questa donna. Nella mia testa c’era una domanda che mi stava dando il tormento: “Mi aveva tradita perché non sono più giovane e bella come una volta?”. Il pensiero che lei potesse essere più giovane si stava facendo velocemente spazio nella mia mente e mi stava portando all’esasperazione. Pensavo davvero che il nostro fosse un matrimonio felice, per quanto raro sia vederne, ma a quanto pare mi sbagliavo. Mi sentii presa in giro per tutte quelle volte in cui mi aveva giurato che per lui la mia bellezza giovanile sarebbe rimasta, che non sarebbe mai sfiorita. Che ingenua che sono stata!

Pensai qualche secondo alla proposta di Rachele e poi annuii semplicemente con la testa. Mi ritrovai nel centro di Venezia con la mia dama di compagnia, chiedendomi se stessi facendo la cosa giusta, quando vidi Alberto entrare in un portone e riconobbi subito il palazzo, dove abitava Caterina. Rachele dovette sostenermi per un braccio perché sentii le energie abbandonarmi lentamente, mi sentii vecchia e tradita in un unico istante. Fu allora che mi venne in mente una frase che Alberto mormorò distrattamente durante un ballo a cui stava partecipando anche Caterina: “Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna1”. Quella sera non capii fino in fondo in motivo di quelle parole, anzi, pensai addirittura che le avesse dette a me. Al mio ritorno da Vienna, avrei dovuto intuire che tra loro due fosse nato qualcosa. Caterina era solita ripetermi quanto le piacesse Petrarca e Alberto, proprio Alberto, che leggeva solo i giornali, aveva iniziato ad appassionarsi alla poesia mentre io ero lontana da Venezia. A pensarci meglio molte cose che credevo casuali, ora hanno un senso: gli sguardi veloci ai ricevimenti, le frasi allusive… e poi… Petrarca. Dal mio viaggio a Vienna, Alberto lo leggeva, lo citava e lo ri-citava. «Colei che sola a me par donna» questa frase fu come il pezzo mancante del puzzle: Alberto lo aveva detto la sera del ballo guardandola e solo adesso capii che non lo aveva detto distrattamente.[1]

Ritornammo a casa e la prima cosa che feci fu sdraiarmi sul letto, lasciandomi andare ad un pianto disperato mentre Rachele cercava di consolarmi in tutti i modi possibili.

Cosa lo aveva attratto? I suoi occhi blu come il cielo, la sua risata cristallina o il viso senza rughe? Il pensiero che anch’io potessi avere delle colpe era diventato un punto fisso dei miei pensieri. Alberto era colpevole di infedeltà ma io stavo invecchiando e, in cuor mio, sapevo che a lui erano sempre piaciute le bellezze giovanili.

Alberto mi aveva sempre detto che ero più bella di una semplice giornata d’estate che, per lui la vecchiaia mi avrebbe reso ancora più bella. Non sapevo il vero motivo per cui avesse scelto Caterina, ma di una cosa ero certa: se la mia colpa riscattava la sua, la sua doveva riscattare la mia.[2]

Una donna e un guardiano notturno

[Nella sala di un museo, prima dell’apertura, una donna lava il pavimento. Si ferma, si appoggia allo spazzolone, guarda un quadro, riprende il suo lavoro.

Poi ripone gli attrezzi e si siede, giocherella con un mazzo di chiavi.

Si sentono dei passi.]

Donna: eccoti. Sei in ritardo.

Guardiano notturno: ho perso tempo nel sotterraneo, c’è una porta che non riesco a chiudere.

D.: non mi piace aspettarti, è tardi, la prossima volta chiedi aiuto. (ride)

G.N.: non è solo un contrattempo. È stata una notte strana.

D.: hai sentito dei rumori sospetti?

G.N.: no, no, qui è tutto tranquillo

D.: ma non hai una bella faccia

G.N.: cerca di capire, non posso essere sempre brillante

D.: ho capito, qualcosa non va. Cos’hai?

(G.N.: non risponde, getta uno sguardo al quadro)

D.: stamattina vuoi mettermi l’ansia, cosa c’è? Non ti angosciare per quello che hai fatto. Le rose hanno le spine!

G.N.: (continuando a fissare il dipinto, parlando tra sé e sè) Tempo, tempo divoratore. Spunta gli artigli al leone*. (pausa). Ma sì, non è successo nulla… (poco convinto, non stacca gli occhi dal quadro)

D.: Anch’io non sono dell’umore giusto, adesso ho una specie di presentimento.

[Si avvicinano al dipinto, entrambi leggono il titolo dell’opera, poi si guardano]

Francesco Hayez – Consiglio alla vendetta (1851)

G.N.: È per noi. Sta per arrivare.

Una persona coinvolta in un tradimento

Era ormai quasi da un’ora che vagavo persa tra le varie stanze, immersa tra i colori, ma senza vederne alcuno. Erano lì per essere amati da chi poteva vederli, e io mi accorsi di essere cieca. Facevo stancamente scorrere gli occhi sulle pareti con la fretta di passare il più velocemente possibile alla stanza successiva, mi sentivo osservata; potevo sentire i loro sguardi – più vivi dei miei – giudicarmi, ma fingevo ipocritamente di non accorgermene e per non dar loro alcuna soddisfazione filavo via con una maschera di noia e apatia stampata sul volto. 

Ad un tratto, forse per caso o perché lei aveva deciso così, per la prima volta in quella mattina guardai una delle opere di quel museo, solo che questa volta lei non guardava me. Mi sarei dovuta sentire al riparo, perché finalmente uno di loro mi ignorava, poi però vidi nei suoi occhi rivolti verso il basso un’ira composta e severa che divampava, ed era rivolta a me. Provai un profondo imbarazzo, poi rabbia e mi infuriai: sentivo il bisogno di ribattere, perché mi stava accusando ingiustamente e non aveva neanche il coraggio di guardarmi in faccia, mi disprezzava. Vedevo quanto si sforzasse a soffocare il suo dolore nelle rughe della fronte e nella mascella serrata, sulle labbra che facevano a gara per non separarsi l’una dall’altra, nella mano rigida che stringeva la lettera quasi con l’intenzione di accartocciarla. Quel muro di distanza e silenzio che prima io avevo eretto tra di noi era ora un muro di tela innalzato da lei: mi puniva vendicandosi con la mia stessa arma; ora ero io la traditrice, ora ero io la colpevole e odiavo me stessa. Il suo sguardo mi minacciava e io volgevo a me quel desiderio di vendetta. Non ero più mia, mi aveva tolta a me stessa.

Una volta quegli occhi mi guardavano adoranti, si nutrivano di me come io di loro, quel volto sempre rosso di vita ora sbiadiva alla mia vista, il petto caldo in cui mi nascondevo da bambina e le braccia, che erano stati la mia corazza, mi erano stati rubati tra il fango da ciò che mi aveva creduta sconfitta, qualcosa che ora li indossava al mio posto. 

Era proprio così che la ricordavo, con i capelli neri lucenti raccolti ordinatamente sul capo, quando si chinava per darmi un bacio o una carezza frettolosa prima di uscire di casa, mentre guardava distrattamente in borsa per assicurarsi di aver preso le chiavi, le sue guance rosse e il volto illuminato quando assaggiava uno dei primi piatti che avevo imparato a cucinare. 

«Quindi te ne vai?» mi aveva detto seria e io non avevo risposto, ero rimasta piantata davanti a lei, non provavo pena, non dispiacere o rimorso. Se ero mai stata certa di sapere qualcosa era che non avrei voluto vederla mai più. 

«Adesso ho bisogno di te, non puoi andartene.» 

«Ѐ da una vita che hai bisogno di me, ma non ti è mai interessato del fatto che fossi io la prima ad aver bisogno di te. Non ho forse sempre pensato a te, io? Io che per causa tua ho dimenticato me stessa? Ora è tardi, io sono cresciuta e ho imparato a bastarmi, ora tocca a te crescere.»

«Sai che non è stata una mia scelta ammalarmi.»

«Sì ma hai scelto tu di essere una pessima madre.»

Fu l’ultima cosa che le dissi prima di chiudermi la porta alle spalle. Mi chiamarono una settimana dopo, aveva ingerito una dose eccessiva di farmaci. Aveva deciso di andarsene così come aveva vissuto, con l’intenzione di farmi sentire in colpa. 

Guardai ancora la donna davanti a me, non cercai neanche di trattenere le lacrime che senza che me ne accorgessi avevano cominciato a scorrermi sulle guance. 

«Si sente bene?»

«Prego?» mi voltai verso la voce che aveva parlato. 

«Piango solitario sul mio triste abbandono. Sonetto 29. Mi piace associare le persone ai versi di Shakespeare. Lei sembra sola. Si sente bene?»

“Mi manca mia madre”.[3]

Un artista

Ed eccola qui, finalmente. Sono partito da lontano soltanto per lei, quest’allegoria della città di Venezia personificata in una donna che mi pare talmente vera da credere che le allegorie abbiano acquisito il potere di farsi carne. Le vedrei bene mutarsi scultura, quelle dita che penetrano e si insinuano nella stoffa, e quelle altre che non tengono le carte, ma le premono con forza, quasi ci fosse il reale pericolo che un vento terribile le disperda.

Ne faccio uno studio, lo cancello e ricomincio da capo.

È possibile non essere mai soddisfatti di un proprio singolo tratteggio? Viene da incolpare la matita, la carta scadente dell’album, forse; poi scopri che è il talento del vero artista che ti manca, e allora la matita la posi e rimani in silenzio a contemplare chi ha saputo fare di meglio. Lo sguardo scivola da quelle mani carnali verso un petto ampio ed infine incontrano un viso su cui un labbro trema dal pianto, un pianto che ha arrossato le guance, le quali avvampano sotto due occhi in ombra che non ti vogliono guardare e che rifiutano le carte che le dita pinzano e il braccio allontana dallo sguardo.

Quale sofferenza l’avrà spinta in quel porticato?, quale crudele, acerbo e dispietato core? Se questa figura fosse una statua, questo dramma acquisterebbe la tridimensionalità, e allora sarebbe insostenibile da osservare. Se fosse pietra, avrebbe la crudezza che soltanto uno scultore saprebbe scoperchiare dal marmo in cui si nasconde, ed io, io che non posso far altro che sedermi qui davanti ed emulare, e disperarmi di non saper fare di meglio, guardo la mia mano che traccia silenziosa quelle stesse forme meravigliose che ammira, e la guardo soffrire perchè non sa ubbidire all’intelletto.[4]

Una suora

Guardati: Eva sei, Eva davanti al demonio che ti spinge al peccato. O povera, povera ragazza. Lo sentì già sulla lingua? È il gusto dolce della vendetta, succo dell’inferno. Cosa ti hanno fatto? Guarda il tuo bel volto da Madonna: è pallido, anche la maschera è discosta, nessuna difesa ti è ormai rimasta. Povera, povera ragazza mia. È una strana pena questa: dolore affossa il candido cuore, di fiamma l’ira dalla terra fuori lo ritira.

Vendetta ti chiama, e lo sai, un solo gesto è adesso giusto. Ma lo vedo che volgi il volto altrove. Combatti forse l’ appetibil proposta? E ammonirti, condannarti io dovrei poichè diritto divino ti vorresti arrogare.

E come comprenderti?  Non potrei: l’unico amore mio è Nostro Signore e suor immacolata e verginale io sono. Nessun diritto all’ira, la superbia mi è interdetta, il petto mai mi può palpitare, fuor del grave giogo et aspro dovrei stare per cui i’o invidia di quel vecchio stancho che fa con le sue spalle ombra a Maroccho.  Questo è il giusto prezzo da pagare per Altro amor, più alto e sublime.

Come potrei mai desiderare io la vendetta sollevando il pugno mio quando con l’altra guancia dilaniata e gocciolante voglio Dio? Ma umana sono pur sempre…

Ed oggi la tua vista o ragazza mia qualcosa in me ha cambiato. L’Amor mio per me stessa in me si è ridestato per fare una leggiadra sua vedetta e punir in un di ben mille offese. Eppure, era la mia virtute al cor ristretta, per

 far ivi, ne gli occhi sue difese: Quando ’l colpo mortal laggiù discese Dove solea spuntarsi ogni saetta.

Ed ora come il sommo poeta ormai pace più non trovo e non ho a far guerra. A chi dare la colpa? Contro chi vendicarmi se la mia fede è finora stata sincera?

Ragazza mia cosa mi hai fatto? Ormai tutto è cambiato, io ora davvero ti comprendo…

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa?

Un’attrice

L’odore di vernice riempiva la stanza. Stando in quelle sale si poteva rivivere un mondo ormai decorso. Il passato aveva sempre affascinato Clarissa e Virginia e, per questo motivo, appena la loro compagnia teatrale, la Royal Shakespeare Company, aveva concesso loro una settimana di riposo dopo la messa in scena del loro ultimo spettacolo, avevano deciso di tornare in Italia, la loro amata madrepatria, e visitare i siti storici e i musei, a loro avviso, di maggiore interesse. Fu così che si ritrovarono di fronte a un’opera che le incantò. Vedendola, una sola idea balzò nella mente delle due giovani attrici: mettere in scena ciò che si trovava di fronte ai loro occhi.

ACT 1

SCENE 1

(Maria enters the stage running. She is wearing a green dress with a repentant look )

Maria: ( Stops running; out of breath ) What have I done? How could I? Not all hope is lost. I can still make amend of my wrongdoings, if I’ll be able to get that wretched letter back. ( Starts moving towards the right stage exit as to take something )

(Dark figure, masked and hooded enters from left stage entrance. It embraces Maria with a

seductive manner)

Maria: (Coming back and speaking to herself ) «Love is too young to know what conscience is;

Yet who knows not conscience is born of love?»

Masked figure: Oh, Maria, I thought we were already over this.

(Maria turns herself towards Masked figure )

Maria: That mask. That damned mask. Who hides behind that mask has driven me to send the letter that could cause a man to be condemned.

(Masked figure removes the dark hood )

Masked figure: Why, Maria, why do you want to save the man that cheated on you? You now have the opportunity to obtain your vengeance. Do not waste it. Remember: «For, thou betraying me, I do betray».

Maria: I will not let myself be deceived by your sly words, Rachele. «Sweet mercy is nobility’s true badge».

Rachele: You now talk of mercy, but you were not so merciful when all of this started. (She moves closer to Maria) Do I have to recall you who, between us, has wrote and sent that accusation letter?

Maria: I know that what I did is despicable and it is for this exact reason that I want to put an end to it. Hate, spitefulness, vengefulness. These feelings will not get a hold of me. You too should not be overwhelmed by them, they will only corrupt your soul and nothing good will come out of it. Moreover learning to forgive could make you content.

Rachele: But how will I be able to do this, if I have only known sorrow and malice my whole life? It is not possible for me to change. To be honest, I don’t want you to fall by his side.

Maria: This is not true! You can be something different. I will help you to change for good, to get

better, however you must really want it for it to happen.

Rachele: I know that with your support and guidance I will succeed and, for that, I’m going to be forever grateful.

Maria: It delights me to hear this. Now I have to make haste and avoid that letter to be sent. (Exits quickly the stage)

Rachele: (Faces the spectators) Now that the fool is gone, I can make sure that the letter reaches its destination. (Exits stage)

[Cinque mesi dopo]

Il cuore le batteva all’impazzata. L’emozione che Virginia provava in quel momento era inquantificabile. Stava finendo di sistemarsi il trucco quando udì una persona entrare nella stanza. Era Clarissa. Le due si sorrisero. Erano passati cinque mesi dalla loro visita in Italia, ma quello non era il momento di farsi distrarre dai ricordi. Entrambe fecero un respiro profondo ed entrarono. Era arrivato il momento di salire per la prima volta su un vero palcoscenico nei panni di Maria e Rachele.

Un bambino

Canticchio ad alta voce “Fra Martino campanaro dormi tu? Dormi tu?”, ma la mamma mi dice di smettere, anzi, di fare il silenzio perché siamo qui, ma io sono così annoiata!

Non mi piacciono per niente questi posti pieni di gente che non fa altro che guardare tutto il tempo dei quadri impolverati che nemmeno si possono toccare.

“Mamma…quando usciamo? Io ho fame…possiamo andare a prendere qualcosa da mangiare?”, mi guarda tutta arrabbiata e mi dice di no, perché questo non è il momento e il luogo…uff!

Ma cosa fanno queste persone per tutto il tempo? Osservano lentissimamente ogni singolo quadro, poi c’è chi gli fa la foto e c’è chi legge una specie di targhetta in cui è spiegato quello che sta vedendo. Anche mamma fa lo stesso.

Non è più divertente giocare con le bambole o correre in giardino? Io ho provato a fare come loro, ma mi perdo, inizio a pensare ad altro, proprio non ci riesco.

“Quarantaquattro gatti in fila per sei con il resto di due”,  mamma mi guarda e mi dice “Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, e l’anno, e la stagione, e ‘l tempo, e l’ora, e ‘l punto in cui non faremo più brutte figure in giro”.

Aspetta…ma questo quadro è enorme…Hayez…

Vedo tre persone disegnate, il primo è un vecchio signore con la barba lunga e bianca, mi ricorda proprio nonno, anche se lui ce l’ha più lunga. A guardarlo mi viene in mente “Movesi il vecchierel canuto et biancho, del dolce loco ov’à sua età fornita. Movesi il vecchierel el el el…”. A scuola, la maestra ce l’aveva fatta imparare a memoria per la recita, ma ho dimenticato come continua.

Ci sono altre due signore: la prima ha un vestito verde, sembra arrabbiata o forse spaventata con la seconda signora che è vestita di nero e la sta tenendo per un braccio. Chissà come mai, adesso chiedo a mamma…la vendetta di una rivale…rivale…forse una delle due ha fatto qualcosa e quindi è rivale per questo motivo.

Quella donna vestita di nero sembra proprio mia mamma quando mi sgrida…con il dito alzato e la faccia tutta rossa! Qui la faccia rossa non la vedo dato che ha una maschera. Ma perché ce l’ha? Ha paura di farsi vedere? Chissà cosa c’è sotto.

Vendetta…che brutta parola. Mi ricordo quando un giorno a scuola ho preso la matita di Martina senza chiederle il permesso e lei si è arrabbiata tantissimo, mi ha urlato di non toccare più le sue cose e mi ha dato uno spintone…quando le ho chiesto il perché lei mi ha detto di averlo fatto per vendetta.

Anche nei film spesso usano questa parola…secondo me non ha senso, perché alla fine non ti porta da nessunissima parte, solo a litigare e a litigare e ancora a litigare e a litigare…

Un ladro

Era il mattino dell’ultimo giorno di un’estate d’incomparabile dolcezza e i raggi del sole scoloriti da qualche nuviletta lusingavano le vette dei monti dorati in lontananza. Tenevo socchiusi gli occhi assopiti  e camminavo solo e pensoso, pendendo verso un lato. A volte poggiavo uno sguardo distratto sui quadri appesi alle pareti del museo per poi ritirarlo adagio appena ne avessi colto la forma vaga. Da così tanti anni coltivavo questo rito di passaggio per salutare il termine provvisorio della calda stagione che con molti dei dipinti avevo stretto un rapporto di intesa: era sufficiente un’unica occhiata veloce per consolidare la nostra gentile confidenza. Ormai avevo salutato quaranta estati, avevo le ossa di legno secco, il cuore di zolfo, la carne di stoppa e mi reggevo in piedi simile ad un covone dimenticato di paglia. 

D’improvviso mi accorsi di una novità da poco esposta. La mia mente ne rimase bruscamente assorbita e una dardeggiante meraviglia, trovandomi del tutto disarmato, assediò il recinto gentile del mio cuore dopo avermi trafitto gli occhi vuoti e corvini che divennero l’uscio di un fiume di lacrime amare, esondante fino ad innaffiare la punta delle mie scarpe.  

Sparsi lacrime a mille a mille, finchè lasso, persi le ultime lagrimette, e mi chiusi in una tenace contemplazione che arrestò i battiti del mio cuore per alcuni minuti. 

A poco a poco, da secco e disidratato che ero, un tenero incendio si ramificò per le membra dilombate come un grappolo d’agresto in una ampolla che dopo il collo cresce e, così, il fuoco divampò sempre più avaro e insaziabile. Da docile ronzino legato ad un albero divenne un destriero dalla febbre indomabile e rovinosa che strappò le vili redini di cuoio che lo tenevano servo. 

Tra i boccioli vermigli di rose profumate (fresca aulentissima) che le fiamme zampillanti avevano formato, intravidi il riflesso del mio grifo infame di corteccia nodosa che si sovrapponeva all’angelica figura nivea di lei dal viso più dolce della sapa, i capei d’oro avvolti in mille dolci nodi, le labbra rosso corallo ornate da rose damascate. 

Allora maledissi il Tempo, tiranno sanguinario che impietoso aveva affondato i suoi artigli leonini sulla mia faccia tanto da farla sembrare ormai un graticcio per seccare le lasagne. 

Ormai il fuoco dissennato aveva bruciato ogni cosa, dentro di me avvertivo la cenere che svolazzava come una fenice mossa dal vento angoscioso dei miei gelidi sospiri che passava per le fessure del velo mortale. 

Un mesto rintocco di campane risuonava tremendo e pendolava da un orecchio all’altro senza sosta. Impallidii di bianca paura tanto da poter vedere distintamente i bagliori luminosi del sangue che circolava come magma per le vene. 

Tremante come una facella, serrai le finestre dei miei occhi. In una nebbia grigio inferno il mio pensiero peregrino si figurò fulmineo come delle onde onde infrante contro una pietrosa riva: me, vecchierello con la gotta, canuto e bianco. Me, immobile mucchio d’ossa senza più carne, nervi, muscoli e strutture. Me, preda di orridi vermi e coricato sottoterra  all’ombra dei mirti, circondato da fiori languidi e canzonato dall’acuto gracchio di un corvo nero melanconia. 

Imprecai contro il cielo e le stelle crudeli. Forse quella crosta disgraziata poteva vincere ciò che né bronzo, né pietra, terra o mare avevano saputo contrastare? 

Doveva essere mio! La lussuria assassina, selvaggia, estrema, brutale, crudele, infida mi fece ladro non d’occasione. Con occhi di bragia passavo a setaccio la sala color triaca. Se qualcuno avesse soltanto incrociato con lo sguardo amoroso quel fresco ornamento, vi giuro, gli avrei cavato le due sfere dalle orbite a mani nude.  Ero un amante solo con il suo amato che mi aveva aperto il petto molle e teneva il mio ardente cuore in mano. D’altronde fuori dal museo infuriava una tempesta demoniaca: turbini di grandine bombardavano le finestre, acuminate saette sulfuree illuminavano a stenti la sala e delle raffiche di vento mormoravano a denti stretti parole arcane e assurde. 

Allo scoccare di un tuono unanime, con vorace cautela e divina ammirazione m’impossessai della rosa della bellezza eterna. Feci lezi, vezzi, carezze e feste a quell’idolo sacro. Dopodichè mi ricomposi e lasciai scritto in grafie dorate nello spazio ora nudo e orfano: 

Non un volgare ladro di galline come quel tal Cianfa Donati,

Ma ladro d’arte pregiata  e di parole levigate della risma del ballard-lord Francois-Villon, 

Will, io sono Will! 

Not just a common thief of humble fowls,

Like Cianfa Donati in nightly prowls,

But I am Will, a poet-thief who’s sly

In Villon’s art, where dreams and verses lie.


[1] Sonetto 126 (Petrarca).

[2] Sonetto 120 (Shakespeare).

[3] Sonetti 18, 116, 149 (Shakespeare); sonetto 29 (Petrarca); madrigale Come può esser ch’io non sia più mio? (Michelangelo).

[4] Sonetto 17 e 151 (Michelangelo).

[14] Nota: riferimenti a Midsummer night’s dream Atto 3 scena 2 (Shakespeare).

Terzo Movimento

When Forty Winters shall besiege your brow

[Entra il coro]

Dopo la pittura, la poesia, la musica

dopo i sipari, i palchi, e le scene,

dopo quei buffi personaggi e quei destini improbabili

non è rimasto altro che la vita,

che sempre sfugge alle Muse pretenziose.

Dopo tutto il rumore e il furore

rimane soltanto

la tragicissima e comicissima

nostra esistenza.

Non rimangono altro che gli sparuti frammenti,

gli oggetti, i templi,

i salotti, i vestiti e le tazze da tè,

un cappello, una parola umana, un’imprecazione,

le lettere, le strade, le rovine

e il ricordo abbacinato

di un’emozione.

[Esce il coro]

[Entra il narratore]

Narratore

Che cos’è la poesia? 

Come rami, che si dividono e si crescono all’arrivo della primavera, per secoli i diversi approcci a questa domanda hanno piantato le radici e fatto nascere boccioli nelle pagine degli scrittori. 

Per i più pignoli, la poesia è una forma d’arte, che consiste nella capacità di produrre composizioni verbali in versi, secondo determinate leggi metriche o secondo altri tipi di restrizione.

Per i poeti, spesso, la poesia è immortalità. Ogni parola è una lotta a spada sguainata contro le forbici che recidono la memoria, un monumento più duraturo del bronzo che si staglia inamovibile contro il passare del tempo. La poesia è un incantesimo, che rende immortale tutto ciò che altrimenti andrebbe perso alle sabbie del tempo.

Trova però alloggio, negli angusti e raccapezzati versi delle ninna nanne e delle filastrocche, una poesia i cui autori vivono lontani dalle centinaia di fogli e indagini stilate da uomini in giacca di tweed e cravatta di raso. Una poesia semplice, la cui fluidità va e viene a singhiozzi, il cui significato è spesso perso o dimenticato col passare di generazione in generazione.

È la poesia dei contadini, cantata sul far della sera , come unica compagna nella camminata verso casa, mentre il cielo si fa sempre più scuro e il sole scompare all’orizzonte. È la poesia delle mamme e dei papà con le loro ninna nanne composte sul momento, goffi e stonati cantautori che tentano di portare il sonno ai loro piccoli spettatori. È la poesia che un giovane amante, seduto nel suo rifugio in trincea, compone alla sua promessa sposa lontana, una lettera che passerà di mano in mano e di ufficio in ufficio postale prima di giungere la destinazione fra le mani di lei. 

Nulla sanno, questi improvvisati poeti, di metrica e accenti, di forme e generi, anche se molti conservano nella loro sgangherata libreria di casa almeno un libro di poesie. 

Varranno forse meno, i loro componimenti?

Per rispondere a questa domanda bisogna determinare cosa sia la poesia. E quindi, eccoci di nuovo qui, in un loop continuo da cui forse non si può proprio uscire.

Incapaci di dare una risposta completa a questo quesito, forse è il caso di lasciare che sia la poesia stessa a dirci quale sia il suo lavoro, attraverso i semi che negli anni ha seminato nei suoi lettori. Che essi siano baldi giovani il cui passatempo è ostentare la loro collezione di libri rilegati a mano, un giovane soldato che le poesie le ricorda vagamente o lontane filastrocche lette a lui dalla nonna quando era ancora un bambino.

Quanti colori diversi possono fiorire dal seme di una stessa poesia?

1935, Berlino. Superfluo è soffermarsi troppo sulle circostanze in cui i nostri protagonisti si trovano, la funesta storia chiara e nitida nelle menti di ciascuno di noi. Lei è tedesca, riccioli castani che le arrivano alle spalle e la frangia un’onda di lato come usava sin dalla fine del secolo scorso. Lui sempre tedesco, ma ebreo. Camicia sempre ben abbottonata e pettinatura che segue la moda del tempo, la incontra mentre siede in un parco della città di Berlino. Perché si trovi ancora in Germania nonostante i tempi non è ben chiaro. Per alcuni, è un giornalista, per altri, uno scrittore. Qualcuno sospetta che sia una spia, ma nessuno osa fare nulla. Si innamorano e lui promette di sposarla, ma le tensioni internazionali non sorridono nella direzione dei due giovani. Il ‘39 si avvicina e lui è destinato a lasciare la patria, destinato a non vedere mai più né la sua giovane amante, né quello che lui ancora non sa essere loro figlio. 

Report giornalistico

1º settembre 1939

4:17 a Danzica alcuni attivisti nazisti prendono di mira l’ufficio delle poste polacche. Gli impiegati

armati riescono a respingere il nemico.

4:26 tre aerei da combattimento bombardano il dispositivo a micce impedendo la distruzione del

ponte e così tenendo aperta la via di accesso ai tedeschi

4:40 viene bombardata la città di Wielun

4:45 apertura del fuoco da parte delle artiglierie tedesche

51’300 tedeschi contro 950’000 polacchi

Il tempo scorre lento, nell’angoscia dei soldati.

Scandito solamente da avvenimenti che li riporta alla realtà.

Una realtà crudele. Una realtà in cui stanno in attesa di un passato che per molti non tornerà, con nessuna certezza eccetto la peggiore.

Che il tempo divoratore cancelli gli orrori della guerra e la scia di desolazione lasciata dai carri armati

Che la natura si riprenda ciò che gli appartiene, invecchiando, ingiallendo e portando via il sangue dei soldati. 

Dalla lettera di Mia al marito Jeremiah

Settembre 1939, Berlino

Caro Jeremiah,

spero che stiate bene e che la vostra nuova vita in America proceda senza troppe difficoltà.

Qui le cose non fanno che peggiorare e confesso, a malincuore, che avete fatto bene a lasciare il Paese: Hitler ha appena invaso la Polonia e, ovunque, si respira aria di guerra.

Questa, però, non vuole essere una lettera di sconforto, perché ho da darvi una notizia meravigliosa: aspetto un bambino, il nostro bambino, amore mio.

Sapervi così lontano da me, non potervi abbracciare e non poter condividere con voi un momento così importante mi spezza il cuore, ma confido che, leggendo questa lettera, proviate la stessa gioia che ho provato io quando l’ho scoperto.

Ho, dentro di me, una creatura che porterà la mia bellezza e tutto ciò che voi, di me, avete sempre amato: sarà il mio specchio[1] farà in modo, con la sua semplice esistenza, che la rosa della bellezza non possa mai morire.[2]

Chiudete gli occhi, amore, e immaginateci tra una trentina d’anni: voi ed io, di nuovo insieme, ormai anziani, e nostro figlio. Vi accorgerete, allora, che è mia la bellezza che eredita (cfr. sonetto 2) e dalle finestre della mia vecchiaia voi vedrete, a dispetto delle rughe, il mio tempo dorato, la mia giovinezza[3].

Di quello che sono stata, nostro figlio ne recherà la memoria[4] e, in questo modo, io vivrò due volte: in lui e nelle parole, intrise d’amore, di queste nostre lettere[5].

Vi prometto che, allora, saremo dieci volte più felici di quanto siamo[6].

Con la speranza di ricevere vostre notizie al più presto,

Vostra per sempre,

Mia

Dalla lettera di Jeremiah alla moglie Mia

Ottobre 1939, New York

Cara Mia,

Sono lieto di udire che state bene, mi mancate da morire e lo confesso,non passa giorno senza ch’io vi pensi. Io ormai mi sono sistemato: sono riuscito a reperire un impiego anche se misero e m’è stato offerto un rifugio che mi permette di vivere dignitosamente.

Nonostante questo resta sempre impresso in me il ricordo di ciò che mi lascio alle spalle, tutta la sofferenza portata alla mia famiglia ma, più di tutto , lo sguardo di coloro che fino a poco tempo fa potevo considerare amici e che ora è carico di disprezzo, resta segno indelebile nella mia mente.

Mai quanto ora mi rendo conto di come la vita sia fugace e non si arresti un momento e la morte stia sempre dietro l’angolo.

Sapete quanto sia grande ed incondizionato il mio amore per voi ma non vi nego che la notizia da voi annunciata crea in me un grande dissidio. Se da un lato pensare ad un erede, immagine della vostra infinita bellezza mi riempie il cuore, non vi nego le mie preoccupazioni.

In tempi come questi il presente ed il passato mi tormentano,così come il futuro, percepisco soltanto odio e distruzione intorno a me ed immaginare di mettere al mondo un figlio in un paese che non accetta la nostra natura, mi distrugge.

Nonostante tutto non credo che la mia misera paga attuale possa fornire sussistenza a noi ed al nascituro. Cercherò di raddoppiare i miei sforzi trovando un’ulteriore occupazione, così da poter spedire a voi più denaro mensilmente.

Ogni giorno più convinto del mio amore per voi,

                                            Per sempre vostro, Jeremiah

[Entra il narratore]

Narratore

1965, Berlino. Che il mestiere del genitore sia difficile, non c’è alcun dubbio. Alla nostra Mia, la vita sembra non aver voluto concedere alcuna sorta di aiuto. Anzi, sembra proprio averle voltato le spalle. Persi i contatti con il fidanzato ed obbligata a mettere alla luce il loro bambino sotto le bombe della Seconda guerra mondiale, ora si trova ad essere separata dal suo stesso figlio, ora un giovane uomo in ricerca di un lavoro dopo aver finalmente terminato gli studi, da un muro. Come se non bastasse la terribile muraglia fisica che li separa, fra madre e figlio sembrano crescere piccole acerbe discrepanze ogni volta che la politica fa capolino nelle loro conversazioni.

[Esce il narratore]

Dalla lettera di Mia a suo figlio Milo

23 aprile 1975, Berlino ovest

Mio dolce Milo, 

in questa Berlino ancora una volta divisa torno a soffrire la nostra separazione: fa paura sottostare agli stessi astri senza potersi toccare. La mia unica consolazione, di questi tempi, è il nostro amato giardino. Ricordo ancora le tue manine che mi aiutavano a piantare i germogli delle rose che oggi mi riempiono gli occhi. Come vorrei poter tornare a quei momenti, per potermi ancora prendere cura di te come ora faccio con loro. Sarebbe bello che anche tu potessi dare vita a un tuo germoglio, al contempo specchio del fanciullo che eri, ed erede dell’uomo di cui oggi sono fiera. Vorrei poter chiedere al tempo tiranno di avere pietà del tuo viso luminoso, di concederti un’eterna estate; ma più che le mie lettere, forse un figlio potrebbe conservare la tua gioiosa essenza per portarla negli anni a venire. 

Qualunque siano le tue scelte, dammi tue notizie. 

Sei sempre nei miei pensieri.

Tempus edax rerum sed tibi, mea lux, semper vita praeclara.

La mamma

Dalla lettera di Milo a sua madre

1 Giugno 1975, Berlino Est 

Cara mamma, 

Vorrei poterti dire che la vita qui sia facile, che il sogno che avevamo, per il quale abbiamo lottato e sanguinato si sia finalmente realizzato. Mentirei. 

Non dirò che il futuro che tu auspichi per me non rientri nei miei desideri; il fatto è, mamma, che ho paura: alla fine tutto ciò che cresce non resta perfetto che per un solo istante. Il mio sguardo, prima lucente e pieno di speranza, oggi è infossato dal peso degli eventi. In questo momento un figlio non sarebbe che una brutta copia di me, una contraffazione del tuo amore materno. Penso a questo: con che coraggio potrei metterlo al mondo sapendo cosa lo aspetta? La mia unica speranza è Viola: anche se i suoi capelli sono ogni giorno più metallici, il nostro amore è raro quanto quello delle storie che mi raccontavi da bambino. L’unica ragione per la quale desidererei piantare un mio germoglio sarebbe la possibilità di rivederci lei.

Parlami ancora del tuo bel giardino, mamma.

Mi farò sentire più spesso. 

Tuo,

Milo

[Entra il narratore]

Narratore

1995, New York. Questa volta, il nostro protagonista è sì nato in Germania, ma fortuna ha voluto che si sia trasferito a New York in giovanissima età, quando la carriera di suo padre, a noi già noto, ma ora con trenta inverni alle spalle e un lavoro che sembra intenzionato a strizzare via tutta la sua forza vitale, finalmente ha preso il volo. Il nostro protagonista, un promettente giovane, si trova alle prese con il peggior nemico che un aspirante artista possa desiderare: la noia. Attraverso uno scambio di eleganti e sofisticate lettere indirizzate all’altrettanto colto suo compagno di studi, seguiremo la sua drammatica avventura, alle prese con le tragiche tribolazioni causate dalla difficoltosa carriera che è quella del ricco artista Newyorkese.

[Esce il narratore]

Dalla lettera del giovane Clemens al giovane amico Berenger

23 Aprile 1995, New York.

Carissimo Berenger, ti scrivo nella speranza che la presente missiva possa giungere a te in condizioni di buona salute e prosperità.

Mi trovo in uno stato di profonda e angosciata contemplazione riguardo il nostro mondo. Non passa dì senza che io non mi arrovelli inutilmente nel fallimentare tentativo di comprendere la superficialità intrinseca nella quotidianità che mi circonda. Sono giunto, dopo meditate riflessioni, alla convinzione che il solo tentativo di definire la squallida mentalità del nostro mondo non sarebbe altro che un complimento, che sicuramente coloro che ci circondano non meritano

Cosa sarà di noi, ora che il tempo ha portato via l’ultima goccia di buon gusto da questo pianeta, dirottandolo inevitabilmente verso un’incurabile siccità? Nulla, se non assetati nomadi in un infinito deserto. Profughi senza terra: questo resterà di noi. 

Ti domanderai, mio caro (nome), quale sfortunatissima occasione mi abbia portato a cadere in questo vorticoso stato di dolore ed insicurezza che da settimane ormai tormenta le mie povere notti. Ebbene, per quanto il raccontarlo mi causi infinito dolore, mi sento in dovere di confessare a te codesta atrocità, per alcun motivo se non per un egoistico desiderio di confronto e consolazione.

Ho avuto la sfortuna di scovare, una fredda mattina di inizio Aprile, tra la mia curata e folta chioma, un capello bianco. Aprile è il più crudele dei mesi, scriveva Eliot, e nulla è in mio potere se non dargli ragione. L’illusione della florida estate viene accoltellata, soffocata dal freddo che invade le mie carni ogni mattina. Questa nuova scoperta, avvenuta proprio ai principi di questo orrido mese, è la coltellata finale. Muore così, dissanguata sul pavimento del bagno, la mia disperata speranza per un’estate migliore.

Come tu sai infatti, è proprio fra pochi mesi che è stata stabilita la visita di un pittore, che, per quanto in alcun modo si possa confrontare il mediocre lavoro di costui con il nostro»], fu incaricato da mio padre di dipingere un ritratto di famiglia. 

E così il mio destino viene segnato, ed io immortalato nell’attimo in cui già la lacera mano dell’inverno inizia a deturpare la mia estate. 

Un tempo mi sarei paragonato ad un giorno d’estate, e tutti quanti seducevo più caldo e più temperato del sole d’agosto.

Cosa fare, amico mio? Come combattere le tracce del terribile passaggio del tempo sul mio viso? Come combattere il perpetuo moto che ci allontana ogni giorno dalla nostra natura, dalla bellezza classica e originale propria dell’uomo in tempi antichi? Un figlio, forse? Ma un figlio è inevitabilmente il risultato di un’unione, e difficile è per me immaginare l’esistenza di un essere in grado di imitare la mia bellezza se non alla sua più purissima forma.

Ogni passo che compio al di fuori della mia dimora causa dolorosi tumulti nel mio petto. Come possono vestiti così orribili come quelli dell’ultima settimana della moda competere con i classici, stupendi capi delle precedenti collezioni? Come possono, tutti quei nuovi emergenti artisti e la loro arte senza senso, tutta improvvisazione e nessun senso, avere così successo, mentre la nostra arte, con i suoi stupefacenti richiami alla classicità, viene posta in secondo piano?

In peggio precipitano i tempi. Il loro scorrimento nulla crea, ma tutto distrugge. Ben presto, saremo sepolti da macerie di un’eterna terra desolata.

Aspettando le tue consolazioni, cerco di calmarmi ricordandomi che vivrò in eterno nella mia arte e che nel mio genio non passerò mai.

Tuo, Clemens

27 Aprile 1995, New York

Amico di conoscenza e ingegno,

che immenso piacere poter accogliere queste tue preziose parole, e condividere con te questi miei complessi ragionamenti! 

Mi rincuora averti così lontano da me, mi sento estraneo a questi luoghi, in cui vi è gente totalmente smarrita, incapace di cogliere le vere sfumature della vita!

Io, invece, riesco ad assorbirle a pieno, difatti leggendo con attenzione qualche sonetto di Shakespeare e Petrarca, grandi capisaldi di ogni tempo, mi sono divertito ad esplorare i vari punti di vista con cui si tratta la figura femminile, e penso che possiamo entrambi concordare sul fatto che la sapevano lunga. Tutti noi, anche i più dotti, all’inizio, come Petrarca, idealizziamo e ammiriamo una misera donna, ma poi, come Shakespeare, realizziamo che essa altro nome è se non un cumulo di carne priva di intelletto, utile solo al dilettevole piacere carnale dell’uomo, e alla procreazione.

Ecco, vedi, è questo che io apprezzo dell’arte: essa rimane lì, immobile, al di là del tempo e dello spazio. La innalzo quindi a modello assoluto, più forte di qualsiasi innovazione e cambiamento, di pensiero e di abitudini con cui, goffamente, si tenta di modellare l’ordine primordiale delle cose! 

Ora mi vedo costretto a salutarti, la mia vena artistica mi chiama. 

Saluti, amico mio

[Entra il coro]

Abbiamo celebrato i poeti mascalzoni

gli scrittori di sonetti, madrigali e canzoni;

abbiamo parlato, in forma d’arte, dell’arte stessa.

Uniamoci allora all’ombra di questa roccia rossa

festeggiamo l’umano e il suo gioco in versi,

nobile e miserabile, terreno e spirituale,

e brindiamo con il seguente canto:

Andiamo, tu ed io,

Quando la sera si stende contro il cielo

Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;

Andiamo, per certe strade semideserte.

Strade che si succedono come un tedioso argomento

Con l’insidioso proposito

Di condurti a domande che opprimono…

Oh, non chiedere « Cosa? »

Andiamo a fare la nostra visita.

Nella stanza le donne vanno e vengono

Parlando di Michelangelo.

[Esce il coro]

Fin

Presentazione del libro “Quel brivido nella schiena”

Che cos’è, in fondo, la letteratura? E come dobbiamo considerare il linguaggio di cui è composta? È questo l’interrogativo fondamentale da cui sono partiti i filosofi per affrontare questioni centrali quali la differenza tra il linguaggio delle opere letterarie e il linguaggio ordinario, il nesso tra verità e significato, forma e contenuto, stile e autore. Pur riconoscendo l’utilità degli strumenti d’analisi, l’autrice esorta a non dimenticare mai di leggere i testi letterari dalla prima all’ultima pagina, per provare a capire che cosa dicono, perché lo dicono e se ce ne importa ancora qualcosa. E a leggerli magari anche lasciando che la spina dorsale prenda il sopravvento. Del resto, come ricordava Nabokov nelle sue lezioni, la sede del piacere estetico è fra le scapole, e il cervello non è che il proseguimento della spina dorsale. 

Di e con la Prof.ssa Carola Barbero, in dialogo con il Prof. Maurizio Ferraris, la Prof.ssa Chiara Lombardi e il Prof. Stefano Ercolino

Quando : giovedì 5 ottobre 2023, h 18:30

Dove : Il Circolo dei lettori, via Bogino 9, Torino

Quel brivido nella schiena | Circolo dei lettori Torino (circololettori.it)

Nel presente articolo, Sofia Ranca (Università degli Studi di Torino) analizza e indaga la scrittura del sé nell’opera del premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio

(Settembre 2023)

Davanti allo specchio tropo bianco della pagina vuota

Davanti allo specchio troppo bianco della pagina vuota, sotto il paralume che diffonde una luce segreta
(Jean-Marie Gustave Le Clézio)

Introduzione

Il Dio della Bibbia è un Dio che parla, un Dio che incarna la parola. L’incipit del vangelo di Giovanni lo sottolinea con forza quando afferma che «in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»[1]. La legge del Dio giudaico è infatti la Legge della Parola che illumina il caos originario dell’indifferenziato, e dona vita al creato:

Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu[2].

Nella Genesi la divina Creazione si compie attraverso la parola di Dio. Quest’ultima non nomina, non designa solamente le cose del mondo: dona loro esistenza, ne rivela l’essere, le molteplici verità. La parola di Dio è logos, è verbo che si fa carne «e [viene] ad abitare in mezzo a noi»[3]; è dunque creatrice di relazioni, concetti, teorie e realtà.

Quale sia il rapporto tra lingua e pensiero è d’altronde una delle questioni più discusse dalla teoria più recente. Ma se la lingua, ogni lingua diversa, è in grado di organizzare e modellare la teoria del mondo – dunque di comprendere la realtà, attribuendole significato -, si può affermare di essere fatti della stessa sostanza delle parole? È questo il significato del Dio della Bibbia che incarna la parola? «Ritornavo al mio sesto piano simbolico, vi respiravo […] l’aria rarefatta delle Belle Lettere, l’Universo si disponeva a piani sotto di me, e ogni cosa umilmente mi sollecitava un nome, dare ad esse un nome era al tempo stesso crearle e prenderle»[4], sembrerebbe rispondere Jean-Paul Sartre, uno dei più influenti maestri del linguaggio umano a lungo interessatosi alla natura creatrice delle parole, «quintessenza delle cose»[5]. Tuttavia, non è possibile pensare che le verità veicolate dalle parole possano risolversi unicamente nella mistica ispirazione o nel “dono provvidenziale” poiché esse sono anche il risultato di uno spazio storicamente e culturalmente determinato e che l’essere umano, attraverso il proprio vissuto, tenta di colmare. In tal senso, la letteratura «est un phenomene double»[6]: nell’individuo, e più nello specifico nello scrittore e nel lettore, lo sviluppo psicologico si incontra e/o si scontra con quello storico, sociale e culturale.

Riflettere sul linguaggio, in particolare letterario, significa certamente affrontare una storia lunga, tempestosa ed intricata; in A libro aperto: una vita è i suoi libri, il noto filosofo e psicoterapeuta italiano Massimo Recalcati scrive che «ogni lettore che è stato letto dal libro porta stampate su di sé le tracce di queste letture, […] impariamo qualcosa di chi siamo dal libro che leggiamo perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto»[7]. Scrivere, allora, può voler dire farsi libro? E leggere, può significare essere letti dal libro stesso? E ancora, in che modo lo scrittore ed il lettore si servono della materia sensibile e reattiva della parola? È forse questa stessa materia che, più di ogni altra (pur rassomigliando alla Musica), avvolge l’esistenza umana e differenzia l’opera letteraria da tutte le altre opere artistiche?

Il presente lavoro vuole avviare una riflessione a partire dai quesiti posti per comprendere come, e quanto, si possa interrogare la legittimità della parola nella sua duplice funzione di verità e finzione, di ricerca interiore e necessità, di certezza ed illusione. Al sorgere di tale idea di ricerca ha contribuito l’attenta lettura de L’Extase matérielle di Jean-Marie Le Clézio, la cui “identità” narrativa ha permesso un personale e stimolante arricchimento intellettuale.

Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche parte, sopra le infinite Tavole del Verbo; […] se combinavo ingegnosamente le parole, l’oggetto si impegolava nei segni, era mio.
(Jean-Paul Sartre, Les Mots)


L’Extase matérielle’, Jean-Marie Gustave Le Clézio, 1967

Può certamente indurre a un’immediata riflessione il fatto che un’intima, quasi viscerale, e oscura indagine esistenziale, quella di Jean-Marie Gustave Le Clézio, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2008, abbia trovato la propria espressione letteraria nell’ibrida forma del saggio filosofico-romanzesco, non a caso intitolato L’Extase matérielle. «Autore di nuove partenze, avventura poetica ed estasi sensuale, esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civiltà regnante»[8], Le Clézio comincia l’esplorazione della propria esistenza dalla sua stessa non esistenza, dal suo evidente non essere nel tempo e nello spazio, quando il vuoto era la sua carne e «c’era unicamente questo: uscita dal silenzio e ritorno al silenzio»[9].

Questo mondo era uno e plurimo, […] era più che una verità; perché al di là di ogni linguaggio, era l’impossibile identità di ogni manifestazione[10].

L’autore, e questo è forse l’aspetto che più contraddistingue la scrittura di Le Clézio, affronta la narrazione da una retrospettiva del tutto nuova, straniante e ancora inesplorata: la voce è di chi – come «seme confuso fra i semi»[11]-, non è ancora vivo, ma non ancora morto. Da questa particolare posizione, la narrazione, che non è ancora dotata di immaginazione umana, tecnicamente si traduce in un processo di associazione ed invenzione di nuove forme (saggio, filosofia, forma lirica, teoria della letteratura) esplorabili unicamente attraverso la trasgressiva rappresentazione di un Io che, spersonalizzandosi, è in grado di collocarsi nella dimensione dell’umanamente inesprimibile: uscendo dalla stasi (da qui, l’estasi), esso accede alla gioia invincibile dell’ essere nella materia. È qui, in questa “zona” senza volto, situata tra l’estasi e la materia, che l’autore può avvicinarsi all’intuizione e alla percezione delle potenzialità dell’esistenza; è qui, in quello che egli definisce l’infinitamente medio (a cui è dedicato il primo capitolo), che lo scrittore fa esperienza della sostanza delle parole: l’incipit, l’«istante [in cui] può nascere il sentimento vero di vivere veramente»[12]. Avvicinandosi alla riflessione heideggeriana secondo la quale l’essenza (essentia) dell’Esserci [il Dasein] consiste nella sua esistenza [existentia][13], Le Clézio sembra svelare come quest’ultima non dipenda da un’essenza data a priori, bensì si determini solo nel momento in cui essa si apre traumaticamente all’orizzonte del mondo attraverso gli atti e le forme attribuite al proprio essere. In tal senso, e qui subentra la riflessione sartriana, l’uomo è prigioniero della libertà: egli non ha creato se stesso, tuttavia non può sfuggire dalla responsabilità della scelta, dunque della creazione della propria esistenza; quest’ultima, allora, si traduce in una ricerca del proprio e più autentico significato. Così, tra la realtà ed il mistero, tra la trascendenza e l’immanenza, lo Scrivere (che è anche il titolo del quarto capitolo de L’Extase matérielle), rappresenta per Le Clézio «lo sguardo [che] dà moto al mondo»[14], che attiva il passato – esplorandone le verità individuali e più personali -, e che intuisce la Verità – quella assoluta, indicibile, se non intelligibile. In tal senso, «la scrittura è la sola forma perfetta del tempo. C’era un principio, ci sarà una fine. C’è un segno, ci sarà un significato»[15] in grado di rivelare il fine ultimo del non linguaggio, del silenzio:

Ogni arte che non abbia come necessità il superamento del proprio messaggio,
cioè la propria morte, è inefficace[16].

Allora, è dietro tale irriducibile modo di guardare al valore delle parole e al loro modo di concepire e donare senso, unità e significato che merita di essere indagata l’estasi materiale di cui parla lo scrittore: «questo mistero più di ogni altro vorrei chiarire. Perché porta con sé la chiave del linguaggio, e forse anche la ragione originaria»[17], il contatto con l’al di là del tempo. Così, nonostante la voce dell’Io non racconti alcunché di sé stessa, le pagine dell’opera sembrano incarnarne la personale dichiarazione di esistenza nel mondo: quella che nasce dalla propria melodia e dal suo accordarsi all’universalità della scrittura, per poi fare ritorno nell’eterno silenzio dell’armonia del Tutto.

Per me non c’è nient’altro, nient’altro che il linguaggio. È il solo problema, anzi la sola realtà tutto vi si ritrova, tutto vi è coordinato. Io vivo nella mia lingua, è essa stessa che mi costruisce. Le parole sono realizzazioni, non strumenti. […] Come tutte le illusioni, quella alimentata dal linguaggio oltrepassa se stessa; diviene natura della mia fuga, forza della mia ascensione, forse anche ascesi[18].

È attraverso la scrittura che egli prende coscienza di sé, della realtà e di sé nella realtà: egli è figlio della parola creatrice, del verbo che è causa ed effetto della relazione, misura della libertà, ma anche alienazione ed inganno; ne percepisce forte tutta la contraddittorietà, l’estraneità, sino alla più perturbante sofferenza. Egli esiste grazie alla scrittura: autenticità e illusione del suo vissuto; «mi ci è voluta la durata della maggior parte di questa esistenza per comprenderne il significato»[19] dichiara l’autore nella sua prolusione durante la cerimonia del Nobel.  

Come d’altronde ricordava Wittgenstein, sono i confini del proprio linguaggio a determinare quelli del proprio mondo. Il binomio esistenza-scrittura rimanda nuovamente a uno dei testamenti umani e letterari di Sartre: Les Mots (pubblicato prima su Les Temps Modernes alla fine del 1963 e poi da Gallimard nel 1964):

Sono nato dalla scrittura: prima, c’era solo un gioco di specchi; […] Scrivendo, esistevo, mi sottraevo alle persone grandi; ma non esistevo che per scrivere, e se dicevo: io, ciò significava: io che scrivo[20].

Forte di una vita trascorsa tra la lettura e la scrittura (non a caso la sua autobiografia si compone di due soli capitoli: Leggere, il primo, e Scrivere, il secondo), Jean-Paul Sartre dichiara la propria esistenza nel mondo attraverso, appunto, les mots e termina il suo testamento consegnando al lettore e alla posteriorità non solo la storia di un uomo ed il ricordo di una vita esemplare, ma anche una profonda riflessione sull’universalità della scrittura.

È forse questo il ruolo della letteratura, quello di farsi carico dell’esperienza vissuta? Quello di lasciare un’impronta che – come disse Neil Armstrong nel momento in cui mise piede sulla luna -, è sì, un piccolo passo per un uomo, ma anche un grande balzo per l’umanità? Attraversando lande amene e desolate, anche la mano di Jean-Marie Gustave Le Clézio scrive per «accumulare le parole come colpi, per velare la faccia della verità, per dissimulare l’abisso di gioia e d’infelicità. Questa mano che avanzava sola sul bordo del tavolo, contratta sul corpo di materia plastica della penna a sfera, sapeva davvero quello che faceva? […] Le parole avevano preso corpo, esistevano sotto forma di esili fili sconnessi, odoranti, violenti, grotteschi, precisi. Dove avevano preso questo dramma?»[21]. Queste sono le domande che frantumano il sé durante il viaggio nel verbo, nella materia (e nelle sue molteplici trasformazioni e costruzioni), in quella che Le Clézio chiama foresta di paradossi. Non a caso la narrazione de L’Extase matérielle è prolissa, discontinua, disordinata. Le interruzioni, i paralogismi, le discese abissali e l’ardita speculazione ne caratterizzano l’esposizione, come pure il lirismo e le elevazioni dell’anima; tuttavia, il fine ultimo di questo déchirement, di questo assoluto senza gioia, di questo luogo dal quale l’artista non deve cercare di scappare – «ma al contrario nel quale egli deve “essere accampato” per riconoscervi qualche dettaglio, per esplorare ogni sentiero, per dare il nome proprio a ogni albero»[22] -, il fine ultimo di tutto questo, dicevamo, è la più piena e matura consapevolezza e ricostituzione del sé. La forza di tale estenuante percorso coincide con quella di un ardito desiderio:

Lo scrittore è un creatore di parabole. Il suo universo non nasce dall’illusione della realtà, ma dalla realtà della finzione. Procede così, splendidamente cieco, a scatti,
a inganni,a menzogne, a piccole condiscendenze. […] Deve avere la potenza dell’imperfezione. E deve essere dolce all’ascolto, dolce e commovente come un’avventura immaginata[23].

«Io devo alla foresta una delle più grandi emozioni letterarie della mia età adulta»[24], sostiene Le Clézio, il quale vede nel linguaggio “l’invenzione” più straordinaria e solidale dell’umanità. Lo scrittore, il poeta, il romanziere ne sono i celebratori ed i guardiani: tramite le parole – che essi non utilizzano, bensì servono -, creano bellezza, pensiero, immagine; rendono vivo il linguaggio, lo arricchiscono, lo trasformano, ne riscattano l’esistenza attraverso il fenomeno estetico: deriva forse da qui la passione per la Bellezza? Nella sua esplorazione, lo scrittore francese giunge sino al cuore, l’organo che lo inquieta di più: «spesso mi domando come possa battere, questo piccolo muscolo chiuso su se stesso. Perché non si arresta mai? Qual è la forza che lo fa trasalire così, cadenzatamente, regolarmente, e gli fa gettare il suo fiotto di sangue rosso ai quattro angoli del mio corpo? C’è qualcosa in queste fibre, una minuscola onda elettrica che d’improvviso le percorre, e lui sobbalza. Tuttavia non lo comando. Non lo sento nemmeno»[25]. Per Le Clézio, l’essenza del cuore risiede perciò nel suo battito ingovernabile: la sua voce non conosce che la scansione di un ritmo che alterna presenza ed assenza, senza pause. È a partire dal cuore, dall’ascolto di esso, che si può andare al di là della percezione, verso l’ideale sacramento della parola: dall’esistenza all’essenza.

La filosofia non mi interessa se non è anche preghiera[26].

Il «traguardo supremo del linguaggio e della coscienza»[27] è infatti per l’autore il silenzio, «quello da dove si viene e quello dove si va»[28]. Giunto al capitolo conclusivo del suo lavoro, lo scrittore sostiene che non vi è che l’“assenza” di suono a dare senso alle parole, così come non vi è che l’“assenza” della vista a dare senso alle visioni: «tutto ciò che si dice o si scrive, tutto ciò che si sa, è a questo fine, veramente a questo fine: il silenzio»[29]. Quest’ultimo non è luogo, non è vuoto, non è assenza, bensì presenza, «presenza illimitata di tutti i ritmi, di tutti gli accordi, di tutte le melodie»[30]. L’Io che parla, il soggetto lirico, diviene limite, soglia, porta del mondo, margine di un continuo interscambio con un oltre che diviene pensabile ed esprimibile solo attraverso la morte. Quest’ultima non è l’ultima melodia dell’esistenza, «non [è] il nulla, ma l’unione reale di tutto ciò che era vivo, di tutto ciò che era esistente, non più per l’espressione, ma per il silenzio, non più per l’uomo, ma per tutti, non più per tutti, ma per sé, ma nell’universo. Questo era l’evidenza»[31]: un’immanenza che sovrasta[32], come la definirebbe Martin Heidegger. Le Clézio concepisce dunque una morte che gradualmente rende evidente la sua eterna presenza, ciò che è sempre stata e che esige di essere assunta anche quando la letteratura sembra illusoriamente edificare una realtà dalla quale sono escluse l’esperienza ingovernabile della vita e quella inaggirabile della morte: «questa idea di morte era ciò che c’era stato di più acuto nel godimento, […] era stato segreto e tuttavia l’avevano conosciuto tutti. […] In me, in ogni istante, c’era l’uomo morto»[33].

Uomo che hai distrutto ogni volta che io operavo, uomo che hai cancellato
ogni volta che scrivevo, non mi hai lasciato mai […] come un dio[34].

Quello che bisognerebbe fare per penetrare veramente il mistero della scrittura, scrive Le Clézio, è «scrivere fino ai limiti delle proprie forze. Pensare, e definire il pensiero con segni instancabilmente, fino a cadere addormentato, svenuto, morto»[35]. Tuttavia, analogamente a Sartre[36], egli è amaramente consapevole di essere, più che un testimone, un semplice spettatore: desidera agire piuttosto che testimoniare, desidera «scrivere, immaginare, sognare perché le sue parole, le sue invenzioni, i suoi sogni intervengano sulla realtà, cambino gli spiriti e i cuori, aprano la porta a un mondo migliore. E tuttavia, nello stesso istante, una voce gli sussurra all’orecchio che questo non si potrà fare, che le parole sono parole che il vento della società porta via, che i sogni non sono che delle chimere. […] La solitudine sarà il suo premio. Lo è sempre stato […] felicità contraddittoria, miscuglio di dolore e di piacere, un trionfo ridicolo, un male sordo e onnipresente, come una piccola musica assillante. Lo scrittore è l’essere che, meglio di ogni altro, sa come coltivare la pianta vitale e velenosa, quella che cresce solo sul suolo della sua impotenza. Egli vorrebbe parlare per tutti, per tutti i tempi: eccolo, eccola nella sua stanza, davanti allo specchio troppo bianco della pagina vuota, sotto il paralume che diffonde una luce segreta. Davanti allo schermo troppo vivo del suo computer, ad ascoltare il suono delle sue dita che battono sui tasti. È quella la sua foresta. Lo scrittore ne conosce fin troppo bene ogni sentiero. Se qualche volta qualche cosa se ne fugge, come un uccello che si leva in volo all’alba disturbato da un cane, lo è sotto il suo sguardo sbalordito – era a caso, era malgrado lui, malgrado lei»[37]. Dunque, prima di essere scrittore e lettore, l’autore sembra riconoscersi nella stessa natura del libro: quello scritto dalla lingua più privata, inconscia, straniera e che Jaques Lacan ha definito lalangue (la lingua primaria che ha sancito il singolare rapporto che esiste tra le parole e la propria memoria più antica, che ha perciò unito il significante al corpo: la «spina del corpo[38]»). Il neologismo coniato dal Lacan esprime perfettamente nel suo stesso suono l’impatto con il Verbo (lo stesso Verbo della Genesi). Fenomeno verbale e intellettivo, il primo è incarnato nel secondo e viceversa. Anche Sartre offre una mirabile visione dell’incarnazione della lingua nel corpo, della cristallizzazione della memoria antica della voce ormai indelebilmente sedimentata. In tal senso si può allora comprendere il significato del titolo Una vita è i suoi libri che Massimo Recalcati affida al suo testo (vi si è fatto riferimento in apertura). Egli stesso, d’altronde, sostiene che «dove c’è ancora un libro […] gli uomini restano ancora umani, dove c’è ancora un libro la vita resta ancora nel solco della Legge della parola»[39].


Conclusioni

Giunti al termine di questa breve ricerca si vogliono richiamare alla memoria gli interrogativi dai quali si è partiti, al fine di comprendere come da questi si sia brevemente sviluppata la riflessione che vi è seguita. L’accenno analitico sul significato originario della parola nella Parola ci ha interrogati su cosa voglia dire scrivere, cosa voglia dire leggere e quale sia il rapporto tra questi due processi. Giunti alla figura di Jean-Marie Gustave Le Clézio – rapportata in certe occasioni a quella di Jean-Paul Sartre (con il quale si sono riscontrate delle somiglianze espressive) -, la lettura di alcuni estratti dell’esperienza umana documentata dalla sua scrittura ha permesso di osservare come il peculiare rapporto con il linguaggio scritto, e la trasgressività delle sue forme, lo abbia avvicinato a tematiche quali l’assurdo, la fatalità, la ricerca di autenticità, la libertà, la noia, l’illusione, la nausea in quanto eccesso di esistenza (dove quest’ultima non è più categoria astratta, ma materia stessa delle cose).

Riflettendo sull’inesauribile rapporto che corre tra la parola letta, la parola scritta e le loro innumerevoli possibilità di significazione, l’intento del breve lavoro è quello di aver accompagnato l’osservazione di come la letteratura non solo faccia dell’identità un tema, ma giochi anche un ruolo significativo nella costruzione dell’identità dei lettori.

Fornire un’unica, definitiva e statica concezione di letteratura non è possibile, in nessun luogo e nessun tempo. Ciò significherebbe scegliere la via dell’appiattimento letterario, artistico e culturale; dunque, la strada verso una visione identitaria che cancella il modo in cui occhi unici, perché diversi, osservano, vivono, leggono e poi raccontano la propria storia. Molteplici, perciò, sono i valori di cui la letteratura è portatrice e certamente è proprio nella ricerca di questi e delle infinite Verità che ogni vita letteraria è in grado di custodire – trovando testimonianza e infiniti riflessi negli occhi di chi oggi dona, e domani donerà, voce a quella singolare esistenza -, che si pone la condizione essenziale per la sopravvivenza della Letteratura. Una futura ricerca potrebbe allora offrirne un’interpretazione di più ampio respiro; tuttavia, scopo ultimo del presente lavoro è omaggiarne l’originario significato etimologico della parola, nonché l’arte di leggere e scrivere[40]; significato che la personale ed attenta lettura prima de Les Mots e dopo de L’Extase matérielle ha potuto ritrovare tra le parole e l’essenza identitaria di Jean-Paul Sartre e di Jean-Marie Gustave Le Clézio.

                                 L’arte si raggiunge scrivendo, scrivendo per sé e per gli altri, senz’altra mira che quella di essere se stesso.
(Jean-Marie Gustave Le Clézio,
L’Extase matérielle)


[1] Gv 1,1-3.

[2] Gen. 1:3.

[3] Gv 1, 14-18.

[4] J.-P. Sartre, Les Mots (1963); trad. it. Le parole, a cura di L. de Nardis, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 41.

[5] Ivi, p. 27.

[6] J.-P. Sartre, A. Astruc, M. Contat, Sartre: un film, Gallimard, 1997, p.61.

[7] M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli, Milano 2020.

[8] Motivazione conferimento Premio Nobel per la Letteratura 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio (https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2008/summary/).

[9] J.-M. G. Le Clézio, L’extase matérielle (1967); trad. it. Estasi e materia, trad. it. M. Binazzi e M. Maglia (a cura di), Rizzoli, Milano 2019, pp. 10-15.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 9. 

[12] Ivi, p. 35.

[13] M. Heiddeger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p .24.

[14] J. -M. G- Le Clézio, op.cit., p. 91.

[15] Ivi, pp. 85-86.

[16] Ivi, p. 171.

[17] Ivi, p. 34.

[18] Ivi, p. 29.

[19] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 2, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[20] J.-P. Sartre, op.cit., p.109.

[21] J. -M. G. Le Clézio, op. cit., pp. 233-235.

[22] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p.3, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[23] Ivi, p. 85-86.

[24] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 8, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[25] J. -M. G. Le Clézio, op.cit. p. 112.

[26] Ivi, p. 108.

[27] Ivi, p. 255.

[28] Ivi, p. 101.

[29] Ivi, p. 255.

[30] Ivi, p. 236

[31] Ibidem.

[32] M. Heiddeger, op. cit., p. 305.

[33] J. -M. G. Le Clézio, op.cit., pp. 260-261.

[34] Ibidem.

[35] Ivi, p. 107.

[36] Se è vero che al Jean sans terre si sostituisce lo scrittore impegnato che legge nella propria vicenda personale il percorso di tutta una generazione di intellettuali, è altrettanto vero che egli non cerca la gloria per i suoi scritti poiché ciò che più gli interessa è la comunicazione che, attraverso i suoi libri, egli è in grado di instaurare. Sartre desidera che questi possano continuare ad essere letti anche a seguito della sua morte, ma è consapevole di come questo non dipenda unicamente dal suo impegno o dalla sua notorietà, bensì da quanto la società, in costante evoluzione, possa essere in grado di tutelarne la circolazione e la divulgazione.

[37] Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, p. 5, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf).

[38] J. Lacan, La terza, in Psicoanalisi n. 12, Astrolabio, Roma1992, p. 24.

[39] M. Recalcati, op. cit., pag. 179.

[40] Vocabolario online Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/letteratura/ (ultima data di consultazione: 28/05/2023): [dal lat. litteratura, der. di littĕra e littĕrae, secondo il modello del gr. γραμματική (v. grammatica)]. – 1. In origine, l’arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi in genere cultura, dottrina. Oggi s’intende comunem. per letteratura l’insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici, o, pur non proponendoseli, li raggiungano comunque; e con sign. più astratto, l’attività intellettuale volta allo studio o all’analisi di tali opere.

Bibliografia

La Sacra Bibbia, CEI-UECI (a cura di), Roma 1974

M. Heiddeger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976

J.-P. Sartre, Les Mots (1963); trad. it. Le parole, L. de Nardis (a cura di), Il Saggiatore, Milano 1982

J.-P. Sartre, A. Astruc, M. Contat, Sartre: un film, Gallimard, 1997

M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli, Milano 2020

J.-M. G. Le Clézio, L’extase matérielle (1967); trad. it. Estasi e materia, trad. it. M. Binazzi e M. Maglia (a cura di), Rizzoli, Milano 2019

J. Lacan, La terza, in Psicoanalisi n. 12, Astrolabio, Roma1992

L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, trad. it. L. Mecacci (a cura di), Laterza, Urbino 2019

Sitografia

Motivazione conferimento Premio Nobel per la Letteratura 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio (https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2008/summary/)

Nella foresta dei paradossi, prolusione alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura di Jean-Marie Gustav Le Clézio, 2008, (http://www.dicoseunpo.it/Nobel_della_Lettartura_files/Le%20Clezio.pdf)

La Madonna Sistina

Emanuele Mendozzi ha riscritto l’opera di Dostoevskij nel tentativo di sciogliere la matassa significante che la costituisce; saccheggiando la letteratura delle sue formule e raschiando la superficie del testo per scoprirne le conversazioni nascoste, nell’ambito del corso di Letterature Comparate, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

Qui all’ombra d’un muro azzurro cieco, tra i denti bianchi d’una staccionata, poco a ridosso della strada, riposano le spoglie d’una vecchia ammazzata, coperti d’una lapide nera nel freddo abbraccio della terra abbeverata.”

*

La Madonna Sistina

Guarda tra due tende verde scuro appena scoste, incidendo avanti appena appenaposa su una nuvoletta acquerellata, cinta da una veste e da un velo che d’un vento lieve accarezzano l’ittero cielo. Un sacerdote dolce e pacifico resta incredulo e sgomento indica d’un indice nodoso al nostro capo e sembra dire: “Proprio a loro sono infine aperte le porte del perdono?”, mentre una santa tra i panni ruvidi e le spine, invita con clemenza a gioire della gioia, d’un volto sfumato, d’una madre e il suo bambino. “Non è una visione piacevole?”. E al pargoletto han cavato gli occhi gli uccelli, il pittore ne ha dipinti due da adulto, persin due occhi da vecchio eroe caduto, rubati forse a vecchio marinaio ubriaco, servirebbe al piccolo una barba e folta e ispida, una foresta di conifere brune a tratti incenerite, che con quelli della madre vedono di fuori d’uno specchio, penetrando in fondo e scintillando di lacrime e fiammelle nemmeno accennate, rovesciando estasi, rimestando animi allucinati. I due putti fan capolino alla cornice, pensando e ripensando tradiscono l’incertezza che a noi tocca, così affettati da una scure tra il tempo e l’eternità.


Tra le sette e le otto

Tra le sette e le otto saltellava a Pietroburgo

Incespicando su un discorso un calabrone vola

Con la lingua trema vaporelle di propositi:

Allucinanti illusioni, d’un cavallo, d’un cappello.

Quale al fegato son cresciuti i glicini stellati,

Tra una folla di pidocchi, la testa scintillante

Scoppietta a ogni passo e si ferma e gli occhi ronzavano

affabulando tele fantasiose: un laccio appeso

uno straccio, un’accetta, gli stivali, il quartierino

della vecchia, il suo canile, cerca di fuggir gli sguardi.

La fortuna o la scelta si separa a colpi d’ascia,

Nel riflesso vetrato d’un finto portasigarette,

quegli occhi rugosi lo spiano diffidenti senza

posa tra una porta e una catenella, quel pidocchio

è in casa e lo cesella e lo sgrana vispamente

e il delirio intanto gli penetra gl’intestini

e grida silenzioso: “Tu sarai un Napoleone”.

Ora è entrato, s’è fidata, ha aperto, è sola.



Tra le sette e le otto saltellava a Pietroburgo

Un’accetta sospesa a un lembo frastagliato canta

Motivi argentini e colpi sordi d’un tamburello

Bianco, bianca è la sclera, trasalisce a un sogno d’oro

Da benefattore, brucando in cerca d’una chiave,

su una mandria appiccicosa, pascola un pidocchio.

Gli batteva il cuore in gola e intanto lei zampillava

Violetti rivoli e torrenti ferrosi e nuvole

Sulfuree ora davano dalla carta da parati

Quel tenore del sogno e della febbre, d’un guanciale

Sudato d’estate, d’un divano logoro, una croce

Di rame, un borsello, un baule, carta di giornale.

La vista gli tremava di vertigine fin l’orlo

Del soffitto, non un fiato usciva se non spezzato

Condensando sullo specchio d’una lama imbrattata.

Per la stanza lo studente andava e veniva, i nervi

Impazziti d’un Napoleone, d’uno Schiller folle.

Nella stanza attigua un’altra donna andava e veniva.



Tra le sette e le otto a Pietroburgo si son spente

Due sorelle e uno studente, spiccando alla nottata

In una bettola in velluto al lume della luna

Una poco più che bambina, poco men che donna,

Offre i suoi servizi all’ombra d’una candela trema

Del rarefatto pianto d’una madre disperata

D’un nobile passato, del francese, dei balletti.

Presto s’incontreranno questo lupo e quest’agnello.


Libretto giallo

Verginità, verginità, perché
Mi lasci? Dove andrai? Come è stretto
Un passerotto tra le braccia troppo…
Troppo forti d’un uomo arrossato,
Spiri alla luce fioca della sera,
che su di noi senza riserve cala
a spiare i giallini patimenti.
Quando muore il giorno nel riverbero
all’orlo d’un lenzuolo stropicciato
nella carta da parati consunta
suonan le nostre preghiere notturne
e ci copriamo il capo com’è giusto
di sciallini sgualciti, di sorelle
in coro, di bibbie sporche e stracciate,
di pianti di neonati. Mi dici
con voce spezzata: “Sonja adorata
non piangere così, non disperare.
ormai io da te mai più tornerò.


Hanno schiacciato un poveretto

O città fantastica piena di suoni sordi, quanto stridono gli zoccoli e alla via delle bettole danno un prete e un medico. Da tre finestre e una parete, l’acqua d’estate imbiancata marroncina rifletteva il puzzo e l’arsura al vento come i poveri turbina, quando li mena il vino, uno appresso all’altro. Che occhi hanno gli ubriachi e i progressisti, dotati di voci spaventose, d’acciaio trapunto di stelle dorate. Sbuffano i treni tra le vie e le folle, nel reticolo metafisico dei palazzi, delle vetrate viola, dei vapori fetidi, pisciano per strada. Qui a Pietroburgo la gente borbotta, attorcigliati, tutti improvvisamente s’ammassano a ascoltar sventure suonate dalle piccole voci dei bambini, a mirare tutt’intenti quelle piccole passioni, esaltati come sono dall’aria asfissiata. E le divise, le divise battono un poveretto, lo portano via, mentre quello… quello grida intanto che è figlio di re e cerca il suo regno tra i fasti e i riflessi d’una bottiglia aguzza. Ho incontrato ieri mia madre, nascosto tenevo un foglietto di sole, qualche soldo poi non può guastare ai bambini, alla tosse, a quel fuoco lentigginoso. L’han picchiata sulla scala e pioveva. E poi mio padre… a mio padre… gli occhi infiammati, il sangue cantava, le ossa schiacciate, sgorgavano lacrime e rivoli rossi.


Venne a trovarmi un assassino (La resurrezione di Lazzaro)
*
E fu forse al tremar della serata
Che venni a stillarmi il sangue dal petto
Quando sudava il canale accaldato
La testa avevi allora tutta piena
Di che pidocchi e gli occhi saltellanti
m’inniettaron sotto pelle un fuoco
nascosto. Parlando un po’ della mamma
giocavi a ferirmi, premendo gli occhi 
in cerca della pietà. “Leggi forza
-me lo dissi- come facevi per lei…
Dove si parla qui del redivivo”
E allora io cuore colmo, speranza
Passai su un dito in cerca di Giovanni.
Quanto poi rombaron quelle parole
Nelle fresche membra dei peccatori
Che ancor si rizzano come i fioretti
Al gelo notturno e poi il sol li imbianca
Volaron passerotti nelle orecchie
E quasi mi colse la verde febbre
Che avevi tu. Eravamo due pazzi
Congiunti dall’eternità ridente
Uniti i peccatori nel vangelo

*

Al di là delle rive del giordano
dove prima Giovanni Battezzava
il cielo ammutoliva alla notizia
del sonno sordo d’un amico caro


tal era rimasto il corpo malato
all’ombra d’un sepolcro marrone
per quattro giorni e quattro notti intere
sudando fiori afoni alle pareti


quante lacrime lavavano i piedi
piovendo giù sconnesse soffocando
i volti solfiti di Marta e Maria
Di lamenti azzurri a rivoli pieni


-“Signore se solo ci fossi stato …”
-“Io sono resurrezione e vita
“chiunque vive in me vivrà in eterno
“non morrà in eterno, credi questo?”


Un profuso lamento e contagioso
Inondò le guance di blu di Maria
E come un tremito trafisse i cuori
E presto fu di lacrime un gran coro


Quando poi sulle sue gracili gambe
Mise un passo di fuori dal sepolcro
Sonja batteva l’aria della stanza
Trema d’estasi si rovesciò in lui


Sotto un sasso riposa un’ammazzata

Scendendo il sole a destra incontra uno steccato che s’infrange nel cortile. Al di là d’un muro cieco azzurro intrattengono i passanti i soffocanti vapori estivi, le strade sciolte e i furiosi schiamazzi che fuman dalle bettole. Sulla via carri trainati dai cavalli insanguinati gridano strepitando il ciottolato, trasportano persone di cristallo impomatato. I bambini fanno la carità, strimpella un organetto qualche canzone popolare e una rossa fanciulla inebetita da angeli invisibili guarda lo sguardo appiccicoso d’un vecchio ingiallito. Se ci si perde nel viola di quel prato, dove questo si fonde al cielo verde, poco più in là verso la dentata staccionata, si scorge un sasso sacro tutto nero. Qui riposano tra le braccia rinfrescanti della terra scintillando a un sole inesistente, a una luna impazzita, pietre preziose, metalli nascosti. Quando piove scrosciano d’una testa spaccata, si sciolgono tra le carte d’un giornale illeggibile, pigolando disperati come canarini d’argento. Qui all’ombra d’un muro azzurro cieco, tra i denti bianchi d’una staccionata, poco a ridosso della strada, riposano le spoglie d’una vecchia ammazzata coperti d’una lapide nera nel freddo abbraccio della terra abbeverata.


Canta ancora madre mia

Quanta gente tra i poveri s’affaccia
Come avvoltoi alle porte dei malati.
In eterno t’amerò. il tuo petto
Abbeverato dal pianto del cielo
e le mani che dolcemente tristi
carezzavan la terribile notte,
tenevan le mie giunte per pregare.
È freddo e fiocchi cadono per te,
Non più color t’innaffia a sparsi fuochi,
ma dalla bocca stilla miele rosso.
Al tuo viso infrange, si sgrana un labbro,
dalla finestra un tremito di luna.
Il tempo s’è fermato a Pietroburgo.
Chiamami ancora per nome… ti prego…
Ti prego mamma canta… canta ancora…


Si è impiccato un santo (confessione di un imbianchino)

Nel campo sterminato di blu verde
Aggrappato a brandelli dell’eterno
Allo scoppiettio viola della luna
Che il vento batte lungo il fiume cieco
S’è appeso un imbianchino azzurro
Come santo di vernice, a un albero
D’ulivo. Aveva commesso un delitto
per trenta denari d’argento appena,
per aver un po’ di dolor paonazzo,
la medicina d’un cuore malato.
Fu poi un battito di cielo che scosse
Il ramo straziato, quel viso azzurro
Come un fulmine cadde bianco in terra.
D’un raggio colorito si trafigge
Il volto e gli spunta sgomento un riso
Patendo la clemenza dell’eterno,
Arricciando le labbra si prepara,
Domani verrà la sua confessione.


Gli orfani della legge
*
Quanto è fredda la Siberia e i detenuti rompono incessanti pietre preziose e picconi, salgono dalle schiene curve i muscoli tesi di formiche verticali. Direste vedendoli dormire che come bambini piangono sognando la visita d’un angelo misericordioso, foss’anche per un nonnulla, per asciugargli un po’ le lacrime. Il fumo ferroso dei forni li seguiva nella notte e al mattino col suo brusio stringente, quello era uno stendardo terribile e straziato, il vessillo d’una libertà ceduta, giocata per qualche gioiello incartato, per un tozzo di pane, per una bottiglia in più.
Quanto poi a dormire non si può fare altro, sognare e lavorare uccidono le ore e le lasciano stremate al cielo che abbaglia ogni cosa quando si mescola alla neve. La noia s’innamora di loro come una fedelissima sposa, incollandosi alle suole delle scarpe bucate. Tra uomini del genere si rafforza la fortezza della fede, fa infatti città d’avorio turrite e campanili, tra i più cinici e increduli s’annida l’eternità e il suo gioco, finché il più arido dei cuori non si abbevera per avere un lembo dell’altissimo dalle cime azzurrine, sarà forse la fatica, sarà la bianchezza tutt’intorno, un muro sudicio, un libro logoro.  Non parlano tra sé come in città, ma come monaci devoti iscrivono nelle conversazioni il più grande dei silenzi, rotte sillabe di solitudine, annotano l’inesprimibile loro patimento in piccole lettere e a molti mancano le parole. Quando arrivano zuppe le missive assaporano un po’ il dolce venticello che solleva l’odore di casa loro. Vogliono con quelle braccia indurite stringere ancora qualcuno, fosse anche in sogno.
*
in una giornata di nuovo tiepida e serena, quando la steppa intorno strillava di bianchezza, e alla riva il largo fiume nascondeva la baracca, mi sedetti insieme al sole accanto a te.
Guardavi all’orizzonte neri puntini e parlavi a mezza voce, sospirando parole, di come quelli sì erano uomini liberi e di come lì ancora… lì ancora vivessero i tempi di Abramo. intanto sul tuo dolcissimo capo un tempo rigoglioso di spazzoline sabbiose si poggiavano allegri coriandoli di cenere, e uno ti cadde proprio su una guancia, scavata com’era dalla prigione, dal lavoro.
L’altoforno e i muri bianchi d’una cella e un refettorio, avevano ormai da tempo rubato i tuoi vent’anni, e quel tuo brobottar fiumesco era ormai per me il ricordo d’una serena sera passata in preghiera. Io poi sempre t’allungavo la mia mano trasparente e tu la prendevi riluttante, non fosse che per me, per sentire un po’ qualcosa. Quella volta in riva al fiume, ti buttasti a capofitto in pianti e lamenti, m’avevi lavato i piedi. E l’acqua disperando lacrime faceva a te da coro, del tuo patimento. Ho capito allora che m’amavi, e come poco più a te guardo più non posso parlare. Da tempo per te mi son sentita mancare e le ginocchia han preso a stringersi come al cedere d’un palazzo, un terremoto, una malattia. Prendiamoci per mano adesso, mancano appena otto anni e poi…

Bibliografia

Alighieri D. (1995), La divina commedia, BUR Rizzoli, Milano.Dostoevskij F. (2013), Delitto e castigo, Feltrinelli Editore, Milano.
Nietzsche F. (1979), Umano, troppo umano, I, Adelphi edizioni, Milano.
Rimbaud A. (2019), Opere, a cura di Olivier Bivort, Marsilio Editori, Venezia.
Saffo (2016), Poesie, traduzione di Franco Ferrari, BUR Rizzoli, Milano.
T. S. Eliot (1998), The Waste Land and other poems, Signet classic, Londra.

Francesco de Cristofaro (a cura di) (2020), Letterature comparate, Carocci, Roma.
Stefano Ercolino e Massimo Fusillo (2022), Empatia negativa. Il punto di vista del male, Bompiani, Milano.

I passi biblici sono citati secondo La Sacra Bibbia della conferenza Episcopale Italiana, Roma, Cei-Uelci (2008).

Il canto della Neva

Dramma in due atti
di
Giulia Berardi; Federica Damiani; Lucile Daubercies; Linda Demichelis;
Letizia Grippi; Nzumba Marta Luamba; Marie Perreau;
Elena Prato; Martina Schettino

(2022)


Materia del dramma: Il dramma si apre con il monologo poetico di una magica San Pietroburgo che, presentandosi allo spettatore, descrive il proprio personaggio principale e le sue azioni. Costui è un Raskòl’nikov che ha già compiuto il proprio delitto e, quindi, che ha già realizzato il proprio destino. Questa ‘San Pietroburgo di carta’ è abitata da persone reali, così come da spiriti, spiritelli e anime. Raskòl’nikov, fatto di carne e sangue, incontrerà tre fantasmi del proprio passato che lo porteranno a interrogare se stesso e a conoscersi veramente. Apparentemente solo Sonja potrebbe salvarlo, ma, in questo fantasmagorico universo, Sonja è sparita e di lei è rimasto soltanto un diario: una voce di verità che non trova posto nel testo originale e che racconta il dramma di questo personaggio femminile, le sue fragilità e i suoi credi. Così come gli altri fantasmi, Sonja alla fine comparirà in scena solo come una figura impalpabile, per affrontare Raskòl’nikov e per guardarsi, per conoscersi, anche attraverso gli occhi di lui.
Nel finale, Raskòl’nikov, avendo conosciuto tutto, crollerà sotto il peso della sua coscienza e di un tanto instabile – quanto incredibile – bisogno di verità.

*Di quest’opera, composta a più mani, Lucile Daubercies e Marie Perreau hanno scritto atto I, Prologo; Nzumba Marta Luamba ha scritto atto I, Scena i; Letizia Grippi ha scritto atto I, Scena ii; Elena Prato ha scritto atto I, Scena iii; Martina Schettino ha scritto atto II, Scena i; Linda Demichelis ha scritto atto II, Scena ii; Federica Damiani ha scritto, composto e coreografato atto II, Scena iii; Giulia Berardi ha scritto atto II, Epilogo.

*

Atto primo

1. Prologo – Pietroburgo entra in scena e presenta la materia del dramma, se stessa e il suo personaggio principale: Raskol’nikov. (Lucile Daubercies; Marie Perreau)

2. Scena I – Raskòl’nikov incontra il primo fantasma: Marmeladov. (Nzumba Marta Luamba)

3. Scena II – Raskòl’nikov incontra il secondo fantasma: Lizaveta. (Letizia Grippi)

4. Scena III – Raskòl’nikov incontra il terzo fantasma: Alëna.(Elena Prato)

Atto secondo

5. Scena I – Raskòl’nikov inizia la propria rivoluzione morale e interiore. (Martina Schettino)

6. Scena II – Raskòl’nikov legge il diario di Sonja.(Linda Demichelis)

6. Scena III – Confronto onirico tra Raskòl’nikov e Sonja (intermediale). (Federica Damiani)

7. Epilogo – Raskòl’nikov scrive la sua confessione nel diario di Sonja. (Giulia Berardi)

Dramatis personae

Pietroburgo, il prologo

Raskòl’nikov, il colpevole

Marmeladov, il primo fantasma

Lizaveta, il secondo fantasma

Alëna, il terzo fantasma

Sonja, l’anima bianca

Atto I

Scena i

Esterno.
Ambientazione di una città metropolitana con un fiume che scorre.
Entra Pietroburgo.

PIETROBURGO

                                   Mi chiamo Pietroburgo.
Si dice che le cose atroci
succedano durante le notti.
Quando il mondo sembra spento.
Quando i cani gridano verso il cieloe i miei lampioni non illuminano più.
Come se solamente,
la chiarezza della luna
e il canto dei gufi,
potessero acquietare
le menti tormentate,
purificare il sangue versato,
e cancellare i corpi inerti.
Alcuni pensano
che l’oscurità sia favorevole
a un sonno profondo e leggero.
Ma quante anime lacerate
vi smarriscono il loro cammino?
Il sole è già in alto,
eppure,
non si è mai fatto il giorno.
Il tempo non ha più nessun senso.
Vanno e vengono,
all’angolo delle mie lunghe strade,
i fantasmi,
che si salutano,
gli spiriti,
che si confondono.
Pensieri,
desideri,
paure.
S’intrecciano fino a creare un nesso.
I cuori battono forte
accanto a questo mio porto,
questo dolce mare,
che non si vede.
Un’unica soluzione si delinea,
si intrufola.
Un raggio di sole
scuro e freddo
uccide.
Il male è attivo.
La follia si sveglia.

[Entra Raskòl’nikov o si vede gironzolare una figura]

Ho visto quell’uomo,
andare e tornare.
Girare,
camminare,
riflettere,
torturarsi,
seduto sulle mie panche,
attraverso le mie strade.
La sua anima,
come antitesi,
della mia bellezza.
La sua vita non è altro che un sogno,
un incubo.
La sua interiorità è simile alle mie vie.
Buio, dubbio, caos,
oggi regnano,
sul mio spettacolo.
Ressemblance dissemblable.
Un labirinto di pensieri infiniti.
Il se fuit.
Il s’enfuit.
Il suo atto finisce sempre per raggiungerlo,
aggrapparlo.
Scisso è il mio cuore,
la Neva
scorre.
La sua psiche è scoppiata,
nella sua testa
non è mai da solo.
Il suo corpo,
ovunque,
macchiato di sangue.
Il castigo bussa,
sulle porte della sua coscienza.
Voci e immagini.
adesso,
è terrorizzato.
Eppure, i rimorsi non ci sono.
Aveva bisogno di compiere,
qualcosa di grande.
Ma è per forza morale
la grandezza?
Se una morale esiste.
Pallido,
è raggiunto dal delirio.
Nel suo sonno infinito,
la malattia, gli tiene la coscienza,
la follia, gli ruba l’anima.
Mi chiamo Pietroburgo,
città giusta,
città ordinaria?
No.
Città astratta,
città straordinaria,
dal male, segnata,
popolo peccaminoso.
Urliamolo forte:
“gli uomini sono,
affinché possano provare gioia.”
Che cosa rappresentano allora,
i miei più sfortunati ospiti,
nella miseria e nella pena,
nella malattia e nella povertà?
Come la possono ottenere,
questa felicità
quando persino le stelle
si confondono
nel buio del mio cielo,
Nel cuore
dell’eterna notte.
Vedo tutto.
sento tutto.
Si chiama Raskòl’nikov,
in me, vive.
Apparenza banale,
ma doveva,
tuttavia,
uccidere,
per sentirsi vivere.
Che paradosso.
Un uomo straordinario,
adesso lo è.
Certezza c’è.

Esce Pietroburgo.

Scena II

Bettola frequentata da Marmeladov.
Raskòl’nikov, entrato in scena, passa
dall’ambientazione ‘esterno’ a ‘interno’.
Entra in una bettola per bere.
Improvvisamente sente una voce soprannaturale
che richiama la sua attenzione.

MARMELADOV

 Così ti uccidi, Raskòl’nikov. Ti ho cercato e ora ti trovato Raskòl’nikov!

[Raskòl’nikov, confuso, non capisce da dove arrivi la voce:
è fuori o dentro di sé?]

RASKOL’NIKOV          

Eccomi, parla.

MARMELADOV           

Guarda come ti sei ridotto! Sembri ubriaco fradicio. Sei consapevole delle conseguenze? Come si può essere così ingenui. È inutile parlare di questioni serie. Non sei nelle condizioni di comprendere… E cos’è quello? Sì, esatto, quel bicchierino sul tavolo.

RASKOL’NIKOV          

Nessun bicchierino. Nessun tavolo vedo! Buio vedo, soltanto buio. Perché mi disturbi, adesso? Non c’è nessuno. Il nero colora la mia vita. Intorno a me tutto gira. Io rimango fermo. Immobile. Freddo. Lasciami in pace! Questo è il mio unico desiderio.

MARMELADOV           

Amico mio, animo! È un consiglio per il tuo bene. Io non auguro il male a nessuno, ricordatelo! Tu sei sempre stato diverso da me. Non continuare su questa strada! Da qui non si torna più indietro, mio caro.

RASKOL’NIKOV          

Rivoglio la mia solitudine. Provo piacere nel dolore. Provo stanchezza. Chi mi libererà dalla nostalgia e dall’amarezza? Nessuno. Allora voglio essere pazzo e non pensare più!

MARMELADOV           

Cosa stai dicendo? Stai forse delirando? Non è da te. Sei un ragazzo lucido, colto e brillante. Non hai bisogno dell’alcol. Tu non devi diventare come me, intesi?

RASKOL’NIKOV           

Ti sento ancora… mormorio saputello…A chi credi di fare la morale? A me, a te, a tutti… Io ho perso la ragione.

MARMELADOV           

Dov’è hai la testa? Ti rendi conto di ciò che dici. Se continui così, non sarai più l’uomo di prima. Non avrai più un cuore. Perderai tutta la tua dignità!

RASKOL’NIKOV          

Blah, Blah, Blah. Sono tutte sciocchezze! Vere e proprie stupidaggini da buttare in un angolo della spazzatura. Cerchi bene! Dovrebbe esserci nel mio cervello un posto riservato ai rifiuti mentali.

MARMELADOV           

Non essere spiritoso, Raskòl’nikov! Io sono seriamente preoccupato per la tua salute mentale e fisica. Ritorna in te!

RASKOL’NIKOV          

Io non ti vedo e non ti credo. Se sei nella mia testa? Allora vattene! Se opponi resistenza ti seppellisco io.

MARMELADOV           

D’accordo! Io me ne vado per il momento. Non ti sto prendendo in giro. Hai bisogno di cure…

RASKOL’NIKOV          

Si, hai ragione! E tu sparirai per sempre dalla mia vita. Al diavolo tu e tutte le voci insensate!

 [Raskòl’nikov si lascia travolgere dal flusso
ininterrotto dei suoi pensieri
]

RASKOL’NIKOV          

Amo la solitudine.
Amo il silenzio.
Amo la libertà
Anche nel buio più profondo
in cui nascono le fantasticherie più infantili.
E ritorno bambino.
Un bambino innocente, spensierato, curioso…

[Dopo qualche momento,
Raskòl’nikov sente nuovamente la voce di prima
]

MARMELADOV           

Raskòl’nikov, sono tornato!
Ti scongiuro, ascoltami! Prima ero andato urgentemente in bagno, scusami… Eh, che c’è di strano? Anche esseri come noi hanno problemi di incontinenza. Ma tralasciamo questo particolare. Non è di questo che voglio parlare. Presta attenzione alle mie parole e non respingere i miei consigli.

[Una luce accecante attraversa la bettola,
Raskòl’nikov sembra riprendersi da uno stato di sonnolenza
e si spaventa
]

RASKOL’NIKOV          

Per tutti i santissimi pietroburghesi! Da dove è uscita questa visione fantasmagorica? Che luce accecante e penetrante. Ma chi diavolo sei?

MARMELADOV           

Il sogno si è trasformato in incubo,                                   
Il piacere il dolore.
La vita è diventata una trappola per topi.
Io sprofondo nel gelo dell’umanità
In cui regna sovrana l’immobilità.
Ma il mio pensiero naviga nei mari infiniti.
Il mostruoso attraente.
Il selvaggio istruito.
Il deforme perfetto.
Tu, Raskòl’nikov, se l’eccezione.
Tu sei uno spirito vivente.
Invece io
sono reale ma immateriale,
vivo nel deserto pietroburghese,
nessuno conosce me
e nessuno conosco io.

RASKOL’NIKOV          

Ora voglio da te una risposta secca: rivelami la tua identità.

[Marmeladov si materializza nella bottiglia di vodka,
illuminata dalla sua presenza
.
Avvicinandosi diventa sempre più riconoscibile]

MARMELADOV           

Marmeladov, chiamami così. Una volta, quando ero in vita, eravamo amici. Con te mi sono confidato. Eri l’unico istruito. L’unico che riusciva a capirmi. L’unico che mi voleva vivo più di tutti. Non te ne sarai dimenticato, vero? Ascoltami con attenzione. Vengo dal mondo dei morti per rivelare ciò che tu adesso ignori.

RASKOL’NIKOV          

Sei tu…? Marmeladov? Ora ti riconosco. Ora ricordo. Ti vedo morto ma sento la tua voce. Perdonami… Non ti capisco. A volte sei chiaro e diretto. A volte sei ambiguo e misterioso. Adesso rivelami ciò che sai. Sono curioso.

[Marmeladov confessa i suoi errori e cerca di persuadere
Raskòl’nikov a seguire la “retta via
”]

MARMELADOV           

Amico mio,
Pietà hai avuto di me e della mia famiglia.
La stessa pietà provo io adesso per te.
Compassione sento per te.
Concordo con te.
Questo buco è un mondo di lupi affamati.
Non c’è spazio per l’innocenza, per la bontà, per la gentilezza.
Qualunque anima viene corrotta
anche la più nobile.
Guarda mia figlia!
Un’anima leggiadra
destinata alla prostituzione.
La povertà l’ha ridotta in stracci.
La purezza l’ha condotta alla miseria.
Era questione di tempo.
La fine era già prevista.
Sono morto per il mio vizio.
Non mi lamento.
Ma non sopporto che il vizio sopravviva,
che aleggi nell’aria,
che prenda forma in altri corpi,
che distrugga altre vite oltre la mia.
Meglio spararsi, morire sul colpo
con rumori, scoppi ed esplosioni!
Poi zero assoluto. Silenzio. Pace.
Invece di lottare tra la vita e la morte
e di soffrire fino all’ultimo respiro.
Lo sguardo disperato della mia famiglia
penetrò il cuore nell’anima.
Mi ha ucciso.
Il tempo mi ha risucchiato,
mi ha costretto ad abbandonare tutti.
Tutti attoniti. Tutti confusi
Visi offuscati, voci lontane.
E perdo i sensi. Perdo la testa. Perdo i capelli.
Galleggio nell’aria malsana.
Assuefatto dal chiasso,
mi sciolgo nel mare dei mali.
Improvvisamente,
nel vuoto infinito,
ritorno nel nero assoluto.
Lo spazio e il tempo si confondono.
Tutto diventa uniforme e poi niente.
Non c’è più cuore, non c’è più battito
Non ci sono polmoni, non si respira più.
Ho creduto di disintegrarmi,
di lasciare il mondo alle spalle
e di dissolvermi nel vuoto.
Mi sentivo come dentro un frullatore,
triturato in vari pezzi
da una macchina telecomandata.
Dalla bocca all’esofago
precipito giù
per arrivare lentamente all’intestino.
Quanto assurda e insensata
è la morte!
Erano cavalli e carrozze a schiacciarmi.
Era un letto a sorreggermi a stento.
Era lo sguardo truce della donna
che mi voleva morto all’istante.
Era l’alcol,
la mia ossessione,
la ragione di vita per eccellenza,
il piacere immediato e confortante.
Ma la vita di un mortale non è illimitata,
e prima o poi sarebbe arrivato il momento
in cui avrei fatto i conti con la realtà.
Mostro sono stato in vita,
santo da fantasma.
Questa è la vera rinascita.
imprigionata dentro la gabbia di San Pietroburgo.

[Dopo un lungo respiro]

Amico mio,
alzati e cammina.
Trova la retta via
in Una Seconda Vita.

Esce Marmeladov

[Raskòl’nikov rimane in silenzio e segue i suoi ordini:
si alza, cammina ed esce dalla bettola]

Scena iii

Mercato cittadino.
Entra Rodja / Raskòl’nikov.
Cammina per il mercato
e guardandosi attorno
si accorge di trovarsi circondato da anime

RASKOL’NIKOV

E ora in che posto mi trovo? Conosco questo luogo ma d’un tratto mi sento un estraneo: dove sono le grida dei mercanti, perché le persone mi sembrano fatte d’aria e i loro passi non provocano rumore? Cos’è questo freddo che stringe il mio cuore? [Si guarda attorno più attentamente] Mi deve essere tornato il delirio, il mio delirio malato e corrotto. Anche prima… e ora eccolo che di nuovo si ripresenta; ma queste anime tuttavia mi sono sconosciute, nulla mi lega a loro ora come niente ci legava in vita, perché il mio mercato si è trasformato in purgatorio?

[Dietro ad un banco vede il fantasma di Lizaveta Ivanovna.
Lei sta cucendo la sua camicia e guarda in basso, lui si blocca
]

No… non è possibile, non può essere, voi siete… io…io vi ho ucciso” [Cammina avanti e indietro agitato, porta ripetutamente le mani alla testa]

[Tra sé e sé] Non siete reale, non potete esserlo. Prima Marmeladov e ora voi… sono io ad essere pazzo, pazzo! Aveva ragione Svidrigajlov; gli ho dato del matto e ora anche io soffro del suo stesso male, un male incurabile che mi attanaglia la coscienza e tormenta non solo le mie notti ma anche i miei giorni. [A Lizaveta] Ma perché siete qui, cosa volete da me? Voi non ci siete più… voi non siete più e non potete fare niente, nulla, per ritornare ad esser carne. Tutto ciò che ora siete è un fantasma.

[Si ferma e la guarda.
Lei impassibile continua a rammendare
la camicia senza alzare lo sguardo.
Lui perde di nuovo la calma]

Perché non mi guardate? Dite qualcosa Lizaveta e smettetela con quella camicia! Ah ma vi ho capita sapete, non mi ritenete degno di essere guardato, vero? Lo so che pensate di essere migliore di me, voi innocente, voi colomba… mentre io, io sono un assassino, un rapace che ha tagliato il filo della vostra vita con un colpo d’accetta senza neanche pensarci.

Questa è la verità Lizaveta: non volevo uccidervi, oh no… non era nei piani, solo la vecchia doveva pagare, ma voi siete dovuta entrare e mi avete guardato con quegli occhi spaventati… voi avete rovinato tutto, è colpa vostra! Non mia! [Tra sé] Ma perché, perché questo sentimento, perché questa colpa… No, non mi devo giustificare.

[Si avvicina a Lizaveta]

[A Lizaveta] Siete solo delle formiche in un immenso formicaio, persone ordinarie, tutte uguali: lavorate e correte avanti e indietro senza farvi domande, senza aver nulla da dire. Vi accontentate di briciole, ve le passate tra di voi pensando di contare qualcosa senza accorgervi che ad ogni passaggio quei già minuscoli frammenti diventano ancora più piccoli e la fine della catena è destinata a rimanere senza niente. Vi siete creati il vostro mondo sotterraneo senza rendervi conto della prigione in cui siete rinchiusi, costretti a guardare il cielo dal vostro buco pieno d’ignorante ingenuità. La vostra vita mediocre si riduce alla mera sopravvivenza, che diritto avete di giudicare chi vi è superiore? Io non sono Napoleone e mai lo sarò, ma davvero mi ritenete simile a voi? E dunque, perché vi rifiutate di guardarmi se vi sono superiore?

[Lizaveta si punge il dito con l’ago,
si sporge per prendere altro filo
e continua a rammendare la camicia
come niente fosse successo]

Per l’amor del cielo, guardatemi! Quella camicia assorbe tanto la vostra attenzione da non poter guardare in faccia nemmeno il vostro assassino? [Più calmo e a voce più bassa] Sapete… non potete rammendarla, quella camicia. Uno strappo non può sempre essere riparato, prima o poi si scucirà di nuovo e il freddo tornerà a pungere la pelle, [Tra sé] così come il sangue sulle mie mani non potrà mai più essere lavato via e continuerà a sporcare la mia coscienza.

[Lizaveta alza la testa e lo guarda con occhi neutri,
senza alcun giudizio e Raskolnikov cade in ginocchio]

Perché… perché ora mi guardate così? Smettetela… io vi ho ucciso… Odiatemi! Oh anima semplice, cos’ho fatto, perché non riesco a ragionare e la morale per cui ho ucciso non mi viene in aiuto. Tutti i miei ragionamenti hanno portato solo morte, e come voi siete un’anima in questo mercato così anche io mi ritengo, un’anima tra le anime, inadatto alla vita sebbene ancora vivo. L’usuraia meritava la morte, eppure l’assassinio pesa sulla mia anima come un macigno… ma cosa dovrei dire allora di voi? Voi che mai vi siete lamentata e non avete neanche provato a difendervi dai colpi della mia scure, voi che non avete mai fatto del male ma siete sempre stata fedele serva di vostra sorella e degli altri… Anche quella camicia… la mia, voi l’avete rammendata e io vi ho ringraziato con rubli sporchi di sangue e disprezzo.

[Si avvicina in ginocchio a Lizaveta con atteggiamento
completamente nuovo rispetto all’inizio, pentito]
Oh Lizaveta… la mia morale valeva dunque questo tormento?
[Le appoggia il capo sulle ginocchia
e lei lo copre con la camicia rammendata]

Escono

Scena iv

Androne della casa di Alëna, poi appartamento.

RASKOL’NIKOV

È mai possibile… Dopo tutto quello che è successo, dopo tutto quello che io ho fatto… Mi chiedo: è mai possibile essere di nuovo qui, in questo luogo, e sentirmi ancora come se ci entrassi per la prima volta?»

[Raskolnikov si osserva le mani:
tremano come foglie]

L’angoscia che provo è la stessa, i pensieri mi mangiano il cervello e l’ansia mi stringe la bocca dello stomaco… Proprio come se io, quella cosa, dovessi ancora farla… Che sciocco sono stato a pensare di potermela cavare! Che ingenuo! Ma cosa pensavi, eh? Che nessuno mai avrebbe dubitato di te? Ma come avrebbero potuto? Come? E perché mai avrebbero dovuto? Io, la vecchia, la conoscevo appena… Eppure… Non riesco a liberarmi dalla sensazione che loro, e lui soprattutto, sappiano tutto… Come farò?

            [Raskolnikov, ancora tremante, si guarda attorno.
Il caldo è soffocante: tutto sudato, si sbottona la camicia
e si passa una mano sul viso, con aria rassegnata]

Ma guardami… Come sono ridotto… Questo caldo mi uccide! Sono forse arrivato all’Inferno? È questo il mio castigo? Dolermi in eterno, in questo buco di città, per ciò che ho fatto?

[Raskolnikov si siede sulle scale e comincia a singhiozzare,
provato dagli incontri precedenti con i fantasmi di Marmeladov e Lizaveta.
Dopo qualche istante, si asciuga le lacrime con fare deciso]

Ma ora basta perder tempo! È tardi… Sono venuto qui per vedere come ho lasciato quella cosa… Ho bisogno di tornare sui miei passi per capire cosa fare.

 [Raskolnikov si avvia per le scale.
Salendo, si guarda attorno:
il luogo è buio e spoglio.
Raskolnikov trema e suda contemporaneamente.
Sale molto lentamente.
Arriva davanti alla porta dell’appartamento
vuoto in cui si era nascosto dopo aver ucciso Alëna e Lizaveta.
La porta dell’appartamento è chiusa. Raskolnikov si avvicina]

                                             E questo?!

                          [Raskolnikov strappa dalla porta un biglietto con scritto:
“Polizia. Vietato oltrepassare il passaggio.
Luogo sottoposto ad indagini”.
Raskolnikov ha il fiato corto, il cuore gli batte all’impazzata]

Ma che… Com’è possibile? “Luogo sottoposto ad indagini”… Ma questo vuol dire che…? Oh Dio! Qualcuno mi ha visto! Sicuro! Qualcuno mi ha visto intrufolarmi qui dentro quel giorno, dopo quel fatto! Oppure… Oppure peggio ancora, ho lasciato delle impronte! Ma sì, che so io… una sciocchezza: una goccia di sangue sulle travi del pavimento, un lembo di stoffa della mia camicia strappata dalla scure…

[Raskolnikov assume un’aria pensierosa e si morde un labbro]

Ma certo! Gli imbianchini! Quei maledetti imbianchini! Devono aver trovato qualcosa subito dopo che me ne sono andato, appena hanno ricominciato a lavorare.

[Di nuovo, Raskolnikov singhiozza. Respira affannosamente]

Son proprio i dettagli a rovinare ogni cosa… Povero me… Ma ora è tardi, è tardi… io… io devo andare… devo andare al piano di sopra… io… io devo andare

[Raskolnikov riprende a salire le scale.
Arriva al quarto piano e si ferma davanti all’appartamento di Alëna.
Ancora tremante, apre la porta ed entra.
Subito, sente un urlo acuto]

ALENA

Salve, bàtjuška. Mi chiedevo quando saresti passato a trovarmi. È un po’ ormai che ti aspetto… Pensavo ti fossi dimenticato di me.

[Raskolnikov si ritrova davanti il fantasma della vecchia.
Il suo cranio è spaccato e il viso è completamente ricoperto di sangue.
Raskolnikov, nauseato, balbetta]

RASKOL’NIKOV

A-Alëna… Io… Ma allora a-anche voi s-siete… Oh, Dio!

ALENA

Anche voi siete” cosa, eh, bàtjuška?! “Anche voi siete” un fantasma, forse? E cosa ti aspettavi? Dimmi: cosa ti aspettavi di trovare dopo che mi hai colpita, ammazzata, trucidata? Dimmi: cosa ti aspettavi?!

  [Alëna guarda Raskolnikov con occhi furenti]

RASKOL’NIKOV

Io n-non… Certo, voi… Voi non potete c-che essere così… È solo che io… Io non pensavo… Prima Marmeladov, poi Lizaveta e adesso voi. I fantasmi del mio passato mi stanno facendo visita…

ALENA

Ma guardati! Sei ubriaco e i tuoi pensieri sono offuscati dall’alcol. Guardati come balbetti e ti rivolgi al Signore sperando che salvi la tua anima distrutta! Non rivolgerti a Lui, bàtjuška! Rivolgiti a Me. Io sono qui, davanti a te. Dimmi perché, Rodion Romanovic Raskolnikov: perché ti sei macchiato le mani e lo spirito di questi atroci delitti?

[Raskòl’nikov urla]

RASKOL’NIKOV           

Voi non siete vera! Siete il prodotto della mia coscienza malata! Io… io sono malato. Molto malato. Questa cosaquesta cosa mi ha fatto ammalare. Ma io posso guarire… Sì, certo! Posso guarire… voi non siete reale!

ALENA

Illuso! Certo che sono reale, bàtjuška! Sono quanto di più reale tu abbia visto in seguito agli omicidi che hai commesso. Le tue fantasie, i tuoi sproloqui: quelli non erano reali! Ma io sono qui. Sono presente in questa stanza esattamente come lo sei tu. E ancora una volta ti chiedo: perché? Me lo devi, bàtjuška. Mi devi una spiegazione. Altrimenti, il mio spirito ti perseguiterà in eterno.

[Raskolnikov osserva il collo sottile e lungo di Alëna.
Lo coglie una furia improvvisa]

RASKOL’NIKOV          

Tu, vecchia megera! Te lo meritavi! Avrei dovuto colpirti alla gola… Sì, quel tuo collo sottile e lungo, simile ad una zampa di gallina, avrei dovuto tagliarlo e guardarti morire in una pozza di sangue! Perché era questo che ti meritavi!

[Raskolnikov si scaglia verso la vecchia e tenta di strangolarla,
dimenticandosi che si tratta di un fantasma.
La oltrepassa e cade a terra.
Dolorante, si rialza e continua il suo monologo]

RASKOL’NIKOV         

Ma non vedi in che razza di mondo disperato viviamo?! Io avevo bisogno di soldi! Ma non capisci?! Mia sorella avrebbe sposato un uomo meschino e spregevole per salvarmi. E io cosa avrei dovuto fare? Restare a guardare?! E come avrei potuto?! Avresti potuto mostrare un po’ di compassione nei miei confronti; e invece niente! Sei sempre stata così attaccata ai tuoi denari! Sempre lì con i tuoi: “interessi di qui, interessi di là”, “stai attento, bàtjuška, che tutto dipende dalla mia pazienza”. E così, mi è nata questa fantasia… E tu te lo sei meritata, perché sei una vecchia orrenda che non conosce pietà!

ALENA

Non osare cambiare discorso, bàtjuška! Qui non si parla di me, ma di te! Il motivo della tua follia non è stato il mio presunto egoismo, né tantomeno i soldi che avresti guadagnato dall’uccidermi. Andiamo, bàtjuška… Perché ti ostini a mentirmi? Perché ti ostini a mentire a te stesso?

[Raskolnikov rivolge ad Alëna uno sguardo perplesso.
Lei continua]

Io credo, sono certa, che la tua azione sia stata alimentata da un qualcosa di più grande di te… Una malattia, che fin dalla tua prima infanzia ha fatto ombra sulla tua ragione e sulla tua coscienza. Da morta, ho potuto viaggiare nel tempo e nello spazio, e ho fatto visita al Rodion bambino… Io ti ho visto. Ho visto di cosa eri capace già in giovane età. Ho visto i tuoi attacchi d’ira: improvvisi, giustificati da motivi futili. Ricordi quando quella volta, a scuola, il tuo compagno di banco ha preso un voto più alto del tuo nella verifica di matematica? Ti ricordi cosa hai fatto? È stato impressionante osservarti… Mantenendo una calma insolita in un bambino arrabbiato, hai pazientemente aspettato che terminasse l’ora di lezione. Appena usciti in cortile per la ricreazione, sorridendo gioioso hai avvicinato il tuo compagno: “Vieni, voglio farti vedere una cosa!”. Lui, ignaro, ti ha seguito, speranzoso di giocare insieme a te. E tu… tu, mostro… L’hai spinto a terra e hai cominciato a prenderlo a calci! Non sembravi nemmeno umano… No, sembravi piuttosto un animale mosso da una forza oscura. E hai continuato, continuato e continuato finché non è giunta l’educatrice che, terrorizzata, ti ha separata dal tuo amico. Solo allora sei tornato in te: con occhi velati di lacrime, hai cominciato a piangere e a dire che non sapevi proprio come fosse potuto accadere. Io ti ho osservato come si osserva una scena dipinta in un quadro, e ho provato pietà per quel povero bambino scioccato dalla sua stessa azione

[Raskolnikov è incredulo e sbalordito dal racconto di Alëna.
Comincia di nuovo a piangere]

RASKOL’NIKOV

Io… io mi ero dimenticato di questo evento. L’avevo cancellato, rimosso… è come se, per tutto questo tempo, il ricordo di quel giorno fosse stato chiuso a chiave in un qualche scompartimento della mia coscienza. I-io… come ho potuto…


[Raskolnikov si lascia cadere a terra
e tiene il volto tra le ginocchia, continuando a singhiozzare]

Ora ricordo… ricordo tutto. Ero ancora molto piccolo, ma già avevo sviluppato quell’idea… Sì, quell’idea che da sempre mi porto dentro e che ho esposto anche in quel mio articolo… io ero un bambino straordinario. Ero molto bravo a scuola, eccellevo in tutte le materie. Non potevo sopportare, non potevo accettare che lui… lui, un bambino ordinario… fosse stato più bravo di me. E così l’ho punito… Sì, l’ho punito… perché è questo che fanno gli uomini straordinari: puniscono gli uomini ordinari, li controllano, li piegano al loro volere per portare la giustizia nel mondo, per arrivare ad un futuro che sia diverso dal passato e migliore del presente. E così l’ho punito…

[Raskolnikov alza la testa
e osserva Alëna dritto negli occhi]

Alëna, io… io penso di sapere… finalmente, penso di sapere. Ciò che mi ha animato nella mia impresa, ciò che mi ha spinto a meditare a lungo sul vostro assassinio e poi a commetterlo è stato proprio questo: la convinzione che voi siate una donna ordinaria ed io un uomo straordinario; e stando così le cose, io ero legittimato a fare di voi ciò che preferivo… Il delitto che ho commesso ha aperto la strada alla verità, che finalmente ha trovato un posto nella mia coscienza: io sono un Napoleone in un mondo di Kutuzov. Ma allora perché… perché non mi sento “un grande”? Perché sono infelice e schiacciato dal peso delle mie azioni? Questo ancora non mi è chiaro… è un quesito che non so se troverà mai soluzione…

[Alëna, impietosita, si avvicina a Raskolnikov
e gli poggia una mano sulla spalla]

ALENA

Bàtjuška… è proprio qui che volevo farti arrivare. Non sono le nostre azioni a renderci grandi, ma il peso emotivo che attribuiamo ad esse. Grande o piccola, un’azione conta solo sulla base del valore che noi le diamo. Ora, Napoleone ha ucciso centinaia di persone e tu lo reputi “un grande”; tu hai ucciso una vecchia usuraia e la sua disgraziata sorella e ti reputi… non lo so, un misero vigliacco? Un uomo spregevole? Un mostro senza cuore? Bàtjuška… questo accade perché sei umano e sei dotato di una coscienza: una coscienza che non si lascia minimamente sfiorare dal male degli altri, ma che diventa pesante come un macigno se questo male comincia ad essere fatto da te in prima persona. Capisci, bàtjuška, la differenza? Capisci perché non potrai mai essere felice nei panni di Napoleone? Perché, anche se eri convinto di poterla sovvertire, la legge sociale esiste e interviene sul destino degli uomini; e, soprattutto, esiste la legge di Dio, che dall’alto ci osserva e ci giudica

[Raskolnikov poggia la testa sulla spalla di Alëna che,
con fare materno, gli accarezza i capelli e cerca di confortarlo]

RASKOL’NIKOV

Alëna… io… cosa devo fare? Come devo agire? Quale sarà il mio destino?

ALENA

Bàtjuška, non posso certo essere io a dirti cosa fare. Il mio desiderio era quello di incontrarti e di parlare con te, soprattutto dopo aver osservato quella scena dal tuo passato. Ma io ormai sono morta e non posso consigliare ad un vivo come agire. Devi capirlo da te… solo quando l’avrai capito, solo allora, forse, sarai libero… libero da te stesso, consolato dal pensiero di poter ottenere il perdono di Dio.

RASKOL’NIKOV

Voi… Alëna, voi avete ragione… ma io… io sono terrorizzato. Io non so… non so proprio cosa…

[Alëna interrompe Raskolnikov]

ALENA

Ora basta, bàtjuška. Devi andare via. Vaivai e ritrova la luce. Fai ciò che devi e, poi, perdonati… perdona te stesso, bàtjuška. Io ti ho già perdonato.

RASKOL’NIKOV

Non so se potrò mai farlo… io… non lo so proprio… Però vi ringrazio, Alëna. Incontrarvi è stato illuminante. Io…

[Alëna, volenterosa di porre un termine
al suo incontro con Raskolnikov, lo interrompe,
lasciando in sospeso il discorso del giovane]

ALENA

Raskolnikov, il tuo tempo con me è finito: ormai, appartengo al tuo passato.
Addio, bàtjuška.

[Raskolnikov, sconsolato, osserva un’ultima volta
il fantasma della vecchia usuraia]

RASKOL’NIKOV

Arrivederci, Alëna

[Raskolnikov esce dall’appartamento
e chiude la porta alle sue spalle]

ALENA                          

Che Dio ti aiuti, bàtjuška… che Dio ti aiuti

[Alëna lancia un ultimo sguardo al fuori campo
e la scena si chiude]

Esce

Atto II

Scena i

 Interno.
Casa di Raskòl’nikov.
[Raskolnikov, dopo l’illuminante
incontro con Alëna, torna a casa.
Durante il tragitto trova per strada un piccolo diario, proprio vicino a quella panchina
che tanti ricordi riporta alla mente. 
Arrivato nella sua stanza,
febbricitante e tormentato
dal peso della sua coscienza,
sembra distaccarsi dalla realtà per entrare
in un mondo altro che lo angoscia furiosamente]

RASKOL’NIKOV

Apro gli occhi
È sera, l’oscurità scorre fitta attraverso i vetri della finestra
tutto intorno a me è ombra.
Un flebile raggio di luna si insinua timido
chiedendo permesso.
Accogliendolo potrei rivelare ciò che tanto voglio nascondere;
<NO> sento urlare all’improvviso.
Chi è? chi diavolo è entrato nella mia stanza?
Faccio correre lo sguardo attraverso il buio
nessuno.
Chi diavolo ha urlato?
Chi c’è?
Nessuno.
Sento rumori; passi.
La porta leggermente si socchiude,
una figura nera, alta, imponente minaccia di svelare il mio segreto.
<NO> sento urlare nuovamente.
Con uno slancio la figura si precipita verso di me,
poi nulla; oscurità. 
Apro gli occhi
Il sole entra indisturbato nella stanza,
Non voglio, non posso accoglierlo
tutto è deciso oramai, tutto è scritto.
Pensieri fluiscono nella mente, ho la vista annebbiata.
questa è la mia punizione.
Tutto il corpo è dolore
sono sul pavimento, solo, infreddolito
è questo ciò che merito
<NO>
Nuovi passi, questa volta più leggeri
“CHI URLA, CHI VUOL FARMI PRESENZIARE AL COSPETTO DEL DIAVOLO?”
Si apre la porta, una sagoma di donna si avvicina
<Per l’amor di Dio, è caduto! Com’è potuto accadere? Ma, cosa stringe al petto? Sarà forse un quaderno? Un diario? Cielo, non ha importanza ora… devo chiamare il signor Razumichin, non riuscirò mai a sollevarlo da sola>
Che nome familiare; sarà forse colui che mi giudicherà?
No no no no.
Qualcuno ride, un riso selvatico, malvagio;
Questo è il mio processo.
poi nulla; oscurità.
Apro gli occhi,
tremo
sono stato scoperto! Tutti qui sospettano
tutti qui sanno;
con che sguardo freddo, ostile mi…
<Rodja, amico mio, come vi sentite?>
<NO! Ridatemelo, so che l’avete voi, ridatemelo!>
Ora posso associare un volto al nome,
Razumichin;
eccolo dunque, colui che sentenzierà la mia colpevolezza.
Nulla è più udibile,
solo risa putride di malignità affliggono l’animo.
Affondo la testa nel cuscino
Non voglio sentire
Non voglio sentire
<RIDATEMI CIÒ CHE MI SPETTA!>
Basta, smettetela
non urlate
poi nulla; oscurità.
Apro gli occhi
Dove sono
Dove mi trovo
I miei occhi osservano una cosa
Il mio cuore ne percepisce un’altra.
Sto bruciando dentro
Una mano mi sovrasta
Questa è l’ora del giudizio
No
Non lascerò che mi prendano
Sono stato bravo
Attento
Cosa posso aver dimenticato
Diavolo d’un uomo che sono
Lasciatemi
LASCIATEMI
Cosa vogliono da me?
è tutto qui quello che ho,
tutto qui ciò che possiedo.
Non tormentatemi,
non assillatemi.
Andatevene oscure creature
<NO>
<NO>
<no>
poi nulla, buio.

Scena ii

 Esterno. Ponte sulla Neva con panchina.
Raskòl’nikov passeggia tra il pubblico mentre in scena si cambia scenografia.
[Raskolnikov si dirige verso il ponte.
Si siede sul parapetto,
con le gambe a penzoloni nel vuoto.
Dalla tasca tira fuori un libretto consunto.
Dopo un momento di contemplazione
lo apre, sfogliandone le pagine]

[In sottofondo si sente lo scorrere della Neva]

[La voce che legge è quella di Sonja]

[Si sentono delle monete cadere su tavolo]

SONJA

2 giugno

30 rubli

29 rubli e 50 copeche a Katerina Ivànovna e ai bambini

Oggi ho mangiato del pane nero. Se potessi mangerei di più: questo corpo non attira clienti e con il guadagno di oggi Katerina Ivànovna e i bambini potranno mangiare solo per tre giorni. Lavorerò di più. Mancano poche ore al controllo igienico mensile. Osservo sempre con estremo rigore i rituali di pulizia personale da quando ho preso il cartellino giallo: sfregando ogni centimetro di pelle di questo corpo, disonorato da mille altri, mi sembra di lavare via anche il peccato inestinguibile che mi consuma. Ma poi eccomi di nuovo, rivestita di vergogna, che mi sorprendo a desiderare ancora più offese, ancora più insulti, ancora più violenza nel tentativo di mettere da parte qualche rublo in più per pulirmi ancora meglio questa volta e quella dopo ancora e ancora, per offrire a Pòlen’ka un’alternativa a tutto questo.

Ho visto cosa succede alle ragazze che smettono di pulirsi.

[Si leva un coro di sussurri]

“Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”.

Per qualche mesemi sono presa cura di un’altra ragazza come me, che non aveva più la forza di lavarsi. Mi sono dimenticata il suo nome, come ho potuto! A volte mi chiedeva di leggerle qualcosa fra un cliente e l’altro e allora io le leggevo ad alta voce qualche passo dal quarto Vangelo. Era bello tenersi compagnia, condividere il peso di quelle ore, finché un giorno ha cominciato a rifiutare le letture, preferendo l’isolamento alle mie cure. Forse ho sbagliato qualcosa. Questa città l’ha annientata. E io l’ho lasciata andare, sola, non ho insistito. Non me lo perdonerò mai. Prego che il Signore lo faccia al posto mio. La Neva, ingorda, ha inghiottito ciò che di lei è rimasto qui, un altro guscio vuoto che si è aggiunto al suo anonimo fondale di morte. Signore, ti chiedo umilmente perdono per aver covato per lungo tempo le stesse intenzioni prima di radicarmi in Te e chiedo perdono per lei, che non ha avuto il tempo di trovare un luogo sicuro in cui riporre il suo dolore. Prego che la sua anima abbia trovato pace fra le braccia misericordiose di Dio, che perdonai peccati, lenisce le ferite e crea vita nuova dalle ceneri della sofferenza.

Non devo permettere che questa miseria intacchi anche il mio cuore. Continuerò a pulirmi finché Egli mi darà la forza.

 [Si leva un coro di sussurri]

“Signore, non lavarmi soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo”. Gesù rispose: “Chi è già lavato non ha bisogno di lavarsi altro che i piedi. È completamente puro”.

Mi aggrappo alla croce di cipresso che la cara, dolce Lizaveta mi ha donato, insieme al Vangelo.

Sel’acqua e il sapone puliscono il corpo, la sofferenza e la parola del Signore purificano l’anima. Ma questo non basta a cancellare la mia profonda angoscia: la malattia è qualcosa che sfugge al controllo degli uomini, su cui i miei sforzi e le mie precauzioni non possono prevalere per sempre. Ho paura. Non rimane che affidare la mia salute alle mani nel Solo: Dio, ti prego, ti scongiuro, fai che questo corpo non confessi un terribile morbo ai dottori che domani lo visiteranno…non tanto per me, quanto per la famiglia di Katerina Ivanovna e i poveri piccoli, le cui bocche smetteranno di essere sfamate!

Vado a dormire con i pensieri inquieti e il cuore angustiato.

[Il coro di sussurri accompagna la voce di Sonja]

Abbi fede sempre, Sonja, Egli fa tutto.

[Suono di monete che cadono sul tavolo]

3 giugno

30 rubli

29 rubli e 50 copeche a Katerina Ivànovna e ai bambini

Si! Egli provvede a tutto! Il Signore ha ascoltato ancora una volta le mie preghiere. I dottori hanno rinnovato il cartellino e mi hanno garantito che almeno per qualche mese potrò continuare a lavorare. A cosa succederà dopo, però, non ci voglio nemmeno pensarci: a quanto pare, il mio corpo è stanco e consumato. Presto non avrò più la forza di vestirmi, o di sforzarmi di sorridere ed essere bella per guadagnarmi una notte. Forse nemmeno di mangiare. Mi arrenderei adesso, se non fosse per Katerina e i bambini. Invece ora poserò la penna e cercherò di rimettermi in sesto, se Lui vorrà.

[Risuona un solo rintocco di campana]

17 giugno

30 rubli

29 rubli e 50 copeche a Katerina Ivànovna e ai bambini

30 copeche a mio padre

Come ogni tre giorni, da due anni a questa parte, oggi ho fatto visita a casa per consegnare i soldi a Katerina, attenta a non attirare sguardi indiscreti. Papà non c’era, non c’è mai, soprattutto nei giorni in cui faccio visita; vedermi lo fa soffrire. Oggi il guadagno è stato buono. Ho posato sul vecchio tavolino di legno il gruzzolo di monete. Katerina ha cominciato a contarli smaniosamente, mentre le sue guance scarlatte per la malattia si infuocavano ancora di più. Il senso di colpa mi annodava la gola. Ha notato immediatamente che mancavano 50 copeche rispetto alla somma prestabilita. Mi ha rivolto uno sguardo pieno di accusa e di supplica. Mi faceva una tale pena guardarla. Le ho detto che quelle copeche mi servivano per rimettermi in sesto per aumentare il guadagno. «Come se bastasse una scatola di fagioli in più a cambiare le cose» mi ha risposto lei. Mi si sono riempiti gli occhi di lacrime. Katerina ha ragione. Quanto sono ingenua, quanto sono stupida a farmi guidare dalle mie false speranze, da futuri improbabili. Ho lasciato sul tavolo le altre 50 copeche e sono uscita prima che scoppiassi a piangere in quella casa, che sicuramente non aveva bisogno anche delle mie lacrime. Almeno quella scatola di fagioli andrà ai bambini.

Mi sono rifugiata nel buio della mia stanza e ho pianto per non so quanto tempo. Poi dei colpi pesanti alla porta e una voce cantilenante mi hanno riscosso dal torpore. «Sonjaaaa, Soneckaaa, colombella mia, apri la porta al tuo povero vecchio!»

In un primo momento ho finto di non essere in casa. Ultimamente vengo sopraffatta troppo spesso da un sentimento egoista, giudicante, di cui non pensavo di essere ancora capace e che mi spinge ad agire crudelmente. Chi sono io per negare rifugio a un essere umano in difficoltà, un’anima errante in cerca di un posto dove andare, per di più quella di mio padre? Lo invito ad entrare. L’ubriachezza e la mancanza di denaro sono le uniche due cose che spingono papà a farmi visita. Lui ha riposto erroneamente tutta la sua fede nell’alcool, la sua croce e panacea, preferendo la soluzione più semplice e immediata, sostituendo Dio con la bottiglia. Ah, se solo sapesse quanto è grande il Signore, e di come, con la sua parola, mi salva ogni giorno!

Si reggeva a malapena in piedi. L’ho aiutato a sedersi con fatica sull’unica sedia presente nella stanza, che si è piegata pericolosamente sotto il suo peso. Le sue parole impastate rimbombavano nella stanza semivuota.

«Sonecka cara, colombella mia, luce della mia vita… quello che ti sto chiedendo è una bestialità…è inammissibile…una padre vero non chiederebbe, no, non chiederebbe mai una cosa del genere alla propria figlioletta, che si sacrifica ogni giorno…piuttosto morirebbe…avrei dovuto morire al posto di venire qui a disturbarti…approfittarne…ma, insomma…se avessi qualcosa da darmi per farmi passare questa sbornia tremenda…tu che sei così buona…giuro, giuro su tua madre che non lo faccio più…questa è l’ultima bottigl-…no no questa è l’ultima volta…si si te lo prometto…Sonja, Sonja, ti prego…ti prego…prego per te ogni ora, ogni giorno…figlia…perdona!…» Il suo respiro affannoso e nauseante riempiva la stanza.

                                                    [Coro accompagna la voce di Sonja, in crescendo]

“Papà, non ti preoccupare, Egli perdonerà tutto e tutti perché ha pietà di noi, di me, di te, di tutti, degli ultimi!” avrei voluto dirgli. Invece non ho detto niente. Gli ho messo nel taschino della giacca da funzionario 30 copeche, quasi tutte quelle che mi sono rimaste. “A-addio Sonja” ha biascicato quasi fra sé e sé mentre lasciava la stanza.

Signore, avrò sbagliato di nuovo?

[Risuonano due rintocchi di campana]

3 luglio

25 rubli e 50 copeche

24 rubli a Katerina e ai bambini

Mio Dio! Lizaveta è stata uccisa in casa insieme a sua sorella a colpi di scure! Oh, mio Dio, questo è il più nero dei giorni! Esiste un limite alla scelleratezza dell’uomo? È in ore buie come queste che il mio spirito oscilla pericolosamente, messo alla prova da Dio che interroga la sincerità della mia devozione e la mia fede, la stessa che do per scontata ogni giorno. Oggi io scelgo di rimanere radicata in te Signore, combattendo il terremoto di impulsi che minaccia di stravolgere tutto quello in cui credo! Oh, proprio tu Lizaveta, anima gentile, che sei stata una njan’ka per me, che per prima ti sei accorta del mio smarrimento di fronte a un mondo le cui leggi oscure ed eccezioni erano fuori dalla mia comprensione di ragazzina e in cui adesso sento di sapermi orientare e difendere. Non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi raccolto e presentato al cospetto di Dio e della sua parola, che continua a guidarmi nel bene, facendomi vedere l’umanità dove prima non riuscivo a scorgerla. Grazie per avermi sottratto alla lettura sterile di quel libretto scientifico che mi appassionava così ottusamente, mettendomi in mano le Sacre Scritture, che mi aiutano ancora ogni giorno a navigare questa vita.

Quanto deve sentirsi solo e impotente davanti alla vita grama che ci accomuna tutti, l’autore di questo atto infame! Prego affinché quest’uomo riesca a ritrovare tutta la propria umanità, soffocata dal peso di tanta sofferenza. Prego affinché l’illusione che l’ha spinto ad ergersi ad arbitro della vita e della morte delle persone si infranga, e che il desiderio di usurpare il trono di Dio si riveli ai suoi occhi in tutta la sua assurdità.

Prego affinché la sua anima trovi riparo definitivo nelle mani del Solo. Solo allora capirà cosa vuol dire davvero vivere in libertà. La grandezza è solo quella di Dio. C’è ancora speranza.

Oggi provo ancora più pietà per i vivi e soprattutto per coloro che vivono senza amore.

[in coro]

Amen.

[Risuonano tre rintocchi di campana]

7 luglio

15 rubli

15 rubli a Katerina Ivànovna e ai bambini

Le pagine di questo diario si potrebbero sbriciolare sotto il peso dell’enorme dolore che vi ho impresso! Oggi non credevo di avere la forza di impugnare la penna, ma scrivere mi aiuta a capire.

Papà è morto. È stato schiacciato da una carrozza padronale mentre peregrinava per le strade della città, accecato dall’ubriachezza. Ho agito così crudelmente l’ultima volta che ci siamo visti! E quante, quante altre volte l’ho fatto. Non gli ho rivolto nemmeno mezza parola! Nemmeno un addio! Che gesto meschino accontentarlo così facilmente, come a dire “Hai avuto quello che vuoi, ho fatto il mio, ora vattene, non sei il benvenuto qui”. Tanto valeva continuare a fingere di non esserci, negargli la mia ospitalità. L’ho privato del mio affetto per anni e sono riuscita ad abbracciarlo un’ultima volta solo da morto. Lo rimpiangerò per sempre. Dio, non mi merito il tuo perdono, ultimamente dubito sempre di più della sincerità della mia fede. Ti prego Signore, abbi almeno pietà di lui, raccogli i frantumi della sua anima per ricomporli nel Tuo regno di pace, infondendoli di vita nuova. Riposa in pace, papà. Spero che lassù tu possa conoscere Lizaveta.

Quando la terribile notizia mi ha raggiunto, mi sono precipitata a casa ancora vestita degli spregevoli stracci della strada. La folla di occhi che si sono posati su di me, gli stessi che cerco di evitare prudentemente ogni giorno, mi ha paralizzato. La vergogna incandescente che ho provato in quel momento mi ha pietrificato sulla soglia, dando ancora più tempo a quegli sguardi che non ho avuto il coraggio di sostenere, di ispezionarmi da capo a piedi, giudicandomi dalle ridicole vesti che palesavano il loro scopo in modo chiaro e vergognoso. Il mio sguardo era inchiodato a terra. In quel momento avrei voluto strapparmi gli occhi e rimanere al buio, per non vedere più le guance infuocate e tisiche rigate di lacrime della povera Katerina Ivànovna, i volti pallidi e scavati di Pòlen’ka e Lìdočka, il corpo massacrato di mio padre, il mio corpo stanco di vestirsi e spogliarsi ogni giorno di questi ridicoli ornamenti, la povertà, la miseria, la morte! Così tanta morte! Che cosa ne sarà di noi? Di Katerina, sempre più pericolosamente vicina a papà, dei bambini, di me! Signore oggi invoco tutto il perdono di cui sei capace, tutta la tua protezione. Neanche in un giorno come questo, davanti a tanta sofferenza mi tiro indietro. Anche oggi decido di vedere e sopportare e vivere insieme a Te e insieme agli altri.

Poi è successo qualcosa di strano. Quando sono finalmente riuscita a oltrepassare la soglia di casa, il mio sguardo, staccatosi da terra, ha incontrato quasi immediatamente il volto, sporco del sangue di papà, del giovane che per primo ha chiamato i soccorsi.

Ci siamo guardati per pochi secondi. Non so se siano state le orbite scavate o le pupille così tanto dilatate da far apparire i suoi occhi neri, ma qualcosa nel suo sguardo mi ha turbato, facendo nascere in me un presentimento ambiguo che ancora adesso non riesco a decifrare. Sembrava come separato da tutto il resto, come se si ponesse al di fuori di quella stanza in cui si mischiavano sangue, lacrime e sudore. Eppure è come se in quella folla anonima ci fossimo riconosciuti all’improvviso, come se non fosse la prima volta, ma una delle tante. Prima di perderlo di vista io e Katerina abbiamo mandato Pòlen’ka a chiedere il nome e l’indirizzo del giovane, per poterlo ringraziare di persona.

[pausa forte]

Il suo nome è Rodiòn Romanovič Raskol’nikov.

A Pòlen’ka ha detto di farsi chiamare servo Rodjòn.

Per te, servo Rodjòn, pregherò ogni sera.

[suono di gocce]

Non riesco a dormire. La mia mente propone ossessivamente immagini orribili che si mescolano tra di loro, ricombinandosi in quadri incoerenti.

La mia unica ora di sonno è stata disturbata da un sogno terrificante. L’Apocalisse era arrivata a San Pietroburgo e io facevo da spettatrice. Dall’alto vedevo la Neva rigettare i suoi neri flussi sommergendo le strade della città. Il torrente scuro abbassandosi faceva riemergere a poco a poco il suo fondale perlaceo fatto di corpi inerti, che uno ad uno ripopolavano le strade vuote, trasportati dalla corrente.

[in coro]

Tutti avevano il suo volto.

[La Neva scorre in sottofondo]

Scena iii

 Esterno. Ponte sulla Neva con panchina.

[VIDEO DA VISUALIZZARE AL SEGUENTE LINK
https://docs.google.com/presentation/d/1WG-_82WOLf9CBcOMCqZSCx4PBt7hFztf/edit?usp=drive_link&ouid=105684261812567503652&rtpof=true&sd=true]

SONJA

Caro Diario,
oggi ho temuto il peggio per me.
Ho provato il terrore che si nasconde dietro la sensazione di aver perduto Dio e con esso la fiducia che ho nell’essere umano e in questo mondo, che nonostante la sofferenza che provo è così pieno di bellezza.
Sai? Alla fine oggi è venuto da me. 
Dopo esser scappata dalla casa paterna e finalmente aver trovato riparo nella mia piccola stanza, l’ho atteso.
Non ho dovuto attendere molto e quando aprì la porta fu come se tutta la mia sofferenza venisse un po’ meno.
Ero attratta da lui, sono attratta da lui terribilmente, e nel frattempo ne avevo così paura.
Mi sentivo così sciocca, una bambina, dopotutto è umano, pensai.
Mi alzai e gli corsi incontro.
Fino a quel momento non potevo immaginare che cosa Dio avrebbe avuto in serbo per me.
Fino a quel momento non sapevo che avrei fatto un viaggio nelle profondità più oscure e impenetrabili dell’essere umano.
Fino a quel momento non conoscevo la reale forza di Dio.

Oggi sono morta e rinata.

Ho cercato e cercato e ancora ricercato una motivazione, una spiegazione che potesse apparire alle mie orecchie plausibile. Comprensibile. Che potesse giustificare quegli atti, atti incidibili.
Oh che terribile male stava prendendo il sopravvento su di me!
Stava prosciugando in me anche l’ultima goccia di speranza e fede.
Non avevo mai, mai dubitato prima!
Mai… Fino a quel momento…

Poi qualcosa accadde e allora capii.
Quando pensavo di aver toccato completamente il fondo, di aver compiuto il peccato più grande… Allora incrociai di nuovo i suoi occhi ed è lì che ritrovai Dio.

Sofferenza.
Dolore.
Umano.
Sofferenza.
Dolore.
Umano.

Non potevo far altro che abbracciarlo.
Ormai eravamo diventati una cosa sola.
Non potevo e non volevo abbandonarlo.
Promisi a lui, a me stessa e a Dio che mai l’avrei lasciato.
Avrei accettato e portato sulle mie spalle anche la sua sofferenza.
C’è speranza per tutti gli esseri umani. 
Le strade della redenzione sono infinite e lui, noi avremmo percorso la nostra insieme.

Oggi sono rinata.

Didascalia video

Scena 1 – 00:00-01:56

Inizio lettura del diario dopo avvenuto incontro con i fantasmi.

Il diario è la personificazione di Sonja che apparirà successivamente nella scena.

Raskolnikov dalla lettura del diario, diverrà attore che racconta i fatti passati.

Attraverso i suoi movimenti racconterà gli atti che ha commesso. I due giri vogliono rappresentare le due uccisioni e la mano tremante è quella del colpevole.

Lo sguardo che avrà nei confronti di Sonja (anche lei materializzata come attrice interprete dei fatti che il diario narra) sarà quello che farà cadere lei.

All’ascolto degli atti commessi inizierà a essere titubante rispetto a ciò che sente e prova per R., ma soprattutto per Dio e l’essere umano in generale (come le parole vogliono sottolineare; infatti la pagina di diario verrà incentrata molto su come lei vive questo momento e come la sua fede, anche se teme di averla persa, sarà la chiave di volta per vedere realmente R., la sua sofferenza e quindi quella dell’intera umanità).

Scena 2.1 – 00:57-02:35

Lei vuole capire il perché degli atti compiuti da lui e quindi domanda.

I movimenti fatti da lui e imitati da lei, vogliono essere la rappresentazione delle parole di lui attraverso le quali prova a dare la prima motivazione di quello che ha fatto.

Il tentativo di lei di imitare e stare dietro ai versi di lui, vuole essere la rappresentazione dello sforzo di ascolto e immedesimazione che Sonja prova a fare.

Sonja perderà le speranze, interrompendo la sequenza, e non crederà più alle parole di lui.

Vacilla sempre più la speranza e la fede.

Scena 2.2 – 02:36-04:03

Lei proverà a fare un secondo tentativo di ascolto andando verso di lui, il quale non sarà subito convinto di voler continuare il confronto.

Poi R. decide di provare a dare una seconda spiegazione.

Riparte l’imitazione dei gesti, con una sequenza più dolce che potrebbe sembrare simbolo di una spiegazione veritiera.

Anche qui Sonja abbandonerà quasi le speranze, non riuscendo a credere nemmeno a questa seconda motivazione.

Sonja si guarderà le mani come se fossero mani peccatrici. “Il peccato più grande” si riferisce alla perdita di fede.

Poi illuminazione, momento di rilevazione, guidato da Dio che ritroverà negli occhi di lui.

Solo attraverso questo sguardo, simbolo della capacità di Sonja di guardare in fondo all’anima di R., S. sarà in grado di vedere la sofferenza di R. e dell’intero genere umano.

Scena 3 – 04:04-05:30

S. e R. si fondono in un abbraccio, diventando una cosa sola.

Lui si affiderà a lei, che attraverso i suoi gesti (sono il primo vero contatto tra i due corpi) inizierà a prendersi cura di R., fino ad ottenere da parte sua un totale abbandono e affidamento.

Lei rialzerà lui e sorreggerà il suo carico, scegliendo, attraverso quello che sembra essere quasi un voto, di farsi carico della sofferenza e dei gesti da lui compiuti e di percorrere con lui quella che sarà la strada del futuro (mano nella mano).

Scena 4 – 05:31-05:33

I colori bianco e nero, utilizzati anche per gli abiti, indicano rispettivamente la purezza di lei e la negatività di lui, coscienza malata e negativa.

Le mani toccandosi tra di loro concedono ai colori di mischiarsi e mescolarsi, dando vita a un grigio.

Questo momento simboleggia la coscienza di Sonja che si macchia.

Più in generale il grigio simboleggia l’animo degli esseri umani, buono e cattivo contemporaneamente; capace di grande bene ma anche di grande male.

Scena 5 – 05:54-08:08

Lui sceglierà di scrivere la sua verità e quindi di confessare, ma sul diario.

Diario personificazione di Sonja, macchiato dall’inchiostro che è la personificazione di Raskolnikov.

Scena IV

Esterno. Ponte sulla Neva.
[Raskòl’nikov scrive la propria
confessione nel diario di Sonja]

RASKOL’NIKOV

Sono stato io ad uccidere la vecchia vedova del funzionario e sua sorella Lizaveta, con una scure, e le ho rapinate.

La lotta fra luce e tenebre che ho dovuto affrontare in questo lungo peregrinaggio, una battaglia contro le mie paure e la mia coscienza, tutto questo mi ha portato fino a te, mia protettrice e compagna amata. Ora, dopo tutto questo errare, sono pronto a dire la mia verità, sono stato chiamato, e sono pronto ad uscire dalla caverna buia della mia interiorità.

Ai grandi uomini, i “Napoleoni”, sì proprio a questi, è consentito il privilegio di vivere ed agire al di sopra della legge e del comportamento morale, a questi tutto è concesso; a Noi persone comuni, i “pidocchi”, gli “scarti”, i “reietti”, che devono sottostare alle leggi e al senso comune, non è concesso niente! Anzi, siamo sottomessi dai Napoleoni, i quali hanno il privilegio e il diritto di vita e di morte. Quello che ho fatto, sì già, quell’orribile e scellerata azione che mi perseguita, come una macchia indelebile che provi a lavare, a lavare, ma che ahimè non viene lavata via; questo peso che mi opprime lo stomaco, me lo contorce e non mi lascia respirare, è la dimostrazione che Io, rifiuto e sacrato della società, non sono fatto per appartenere alla categoria dei grandi uomini. Ogni notte rivedo quella scena brutale, il fiato corto, la bocca pastosa, l’ansia che sale, il panico, e subito dopo riapro gli occhi, ansimante mi alzo dal letto e mi guardo le mani, quelle mani! Le mani di un bruto, coperte di sangue, che purtroppo non potrò mai lavare via del tutto. L’angoscia e la paranoia mi perseguitano, come se fossero delle care amiche che mi accompagnano durante le mie passeggiate. Esco, prendo un po’ d’aria, la brezza di Pietroburgo è gelida, trascinato dalle mie stesse gambe, senza forza, passeggio e con me mano nella mano il mio destino, rovinato, spezzato nel momento stesso in cui ho perso la testa e reciso come un fiore d’inverso la vita di due persone innocenti. Nessun uomo è superiore nella morte. Ho cercato e mi sono sforzato di mascherare il mio senso di colpa, autoconvincermi che l’atto che ho commesso era necessario per impormi e realizzare il mio sogno di vana giustizia, entro il quale volevo giustificare tutte le mie azioni, ma ho fallito nella ricerca di una libertà assoluta ed illimitata! Il tormento e la disperazione da quel momento sono state mie compagne di stanza, attenuate ad intermittenza dalla tua presenza. Tu dolce angelo! Che non ti sei lasciata contaminare dal tuo lavoro, ti sei mostrata intatta e ferma nell’animo, tu che sei condannata alla misera, alla corruzione e alla sofferenza sei riuscita a non farti sopraffare da essa, mantenendoti pura. Hai saputo ascoltare la tempesta che avevo dentro e come un marinaio esperto sei riuscita a domarla. Tutto il travaglio e la sofferenza che hai dovuto passare e che ti ho fatto passare! Oh, anima fragile che Dio mi porti, tu non giudichi, non condanni, anzi ti sei sentita responsabile dei miei tormenti, soffrendone come se fossero i tuoi; tu emblema degli sfortunati, degli oppressi, delle vittime del male. Tu sei stata il punto luminoso che mi ha rischiarito la mia esistenza sciupata. La tua cieca fiducia in Dio è la salvezza, è l’appoggio che ti impedisce di precipitare nell’abisso di disperazione, della follia o della voluttà. Io, uomo perduto, abbraccio la ragione euclidea, mentre tu abbracci Cristo. Grazie alla tua fede e alla tua persona, mia dolce compagna di viaggio, ho potuto intraprendere il mio faticoso percorso di espiazione; perché anche tu in fondo come me hai distrutto la tua vita, sacrificandoti per gli altri. Siamo maledetti insieme. Sono morto dentro, moralmente e spiritualmente, ma ho scelto di seguirti, tu che credi e vivi in Cristo. Non ho ucciso per denaro, per la fama, ma per capire se fossi anch’io un pidocchio come tutti gli altri, se fossi una semplice ed insignificante creatura tramante oppure un Napoleone. Un peccatore che ha trasgredito la legge divina e della società, proprio come me, non può essere riconosciuto salvo della prigione o dall’esilio. Deve pagare, essere punito per poi risorgere, deve affrontare le pene del martirio  come Cristo in croce e giungere alla salvezza.  Il mio amor proprio era smisurato, non ho voluto cedere alle tue parole e non ho confessato quando mi ordinasti di farlo, ho voluto elevarmi e cercare di avere la meglio su coloro che mi davano la caccia. Il mio amore per te aggravava il mio dolore e mi rendeva infelice, ero troppo orgoglioso per amare e dunque per risorgere. Ora, è tempo di inchinarsi, di confessare al mondo intero chi sono veramente: un assassino.

Sipario

Fil rouge: il filo rosso

Letizia Baldioli, prendendo ispirazione dalla storia di John Nash raccontata nel film A beautiful Mind, dà vita, partendo da ritagli di quotidiani e riviste, ad un evidence board proprio come quelli creati dagli investigatori nei vecchi film polizieschi per scovare il colpevole nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Delitto, caso, premeditazione, prove, povertà, sofferenza, sogni ed incubi, fede, ideale. Nove tappe, nove parole chiave. Il lettore di Delitto e castigo si trasforma in un vero viaggiatore pronto a seguire il percorso indicato per conoscere i segreti celati dietro l’omicidio delle due donne”.

*

La mia idea per il lavoro di riscrittura è stata quella di realizzare un mood board / mappa concettuale che riprendesse tematiche, parole chiavi e immagini caratteristiche dell’opera Delitto e Castigo dell’autore russo Dostoevskij. Utilizzando ritagli di riviste e di quotidiani, ho realizzato una mappa o più propriamente un percorso come quelli creati per scovare il colpevole dagli investigatori nei vecchi film polizieschi. Ho deciso di impostare il lavoro in questo modo dopo aver rivisto uno dei miei film preferiti: A beautiful mind di Ron Howard. John Nash, talentuoso matematico interpretato da Russell Crowe, una volta contattato dal dipartimento di difesa degli Stati Uniti, viene incaricato di trovare il luogo in cui i Russi avrebbero dovuto innescare una bomba atomica contenuta in uno zaino. John Nash, dopo essere stato informato che i nemici avrebbero comunicato tra loro per mezzo di messaggi in codice inseriti in quotidiani e riviste del tempo, comincia ad analizzarle minuziosamente, a ritagliarle e ad appenderle alle pareti della sua stanza, creando un vero e proprio groviglio di informazioni, una ragnatela, una mappa di codici da decifrare per poi arrivare alla soluzione. La sua vita viene sconvolta ancora una volta quando scopre che la cospirazione, in verità, non esisteva, ma era unicamente frutto della sua mente, colpita da una grave forma di schizofrenia. Il mio mood board/mappa concettuale si trasforma allora in una “crazy wall” o in un “evidence board” ispirato a quello di John Nash. Il filo rosso che ho voluto inserire rappresenta il fil rouge del racconto, che collega concetti importanti tra loro, intorno ai quali si sviluppa l’opera dostoevskiana. Il nostro percorso inizia dal centro, dalla parola delitto. Come si può inferire dal titolo, l’opera si sviluppa attorno all’omicidio della vecchia usuraia, Alëna Ivànovna e della dolce sorella Lizaveta, per mano del giovane Rodiòn Romànovič Raskol’nikov. Se l’uccisione della prima venne premeditata per mesi, l’omicidio di Lizaveta avvenne per puro caso. La donna infatti non doveva essere uccisa, ma irruppe nell’abitazione della sorella proprio nel momento in cui Raskol’nikov si trovava ancora lì con la scure insanguinata tra le mani e la vecchia stesa a terra in una pozza di sangue.

Seconda tappa del nostro viaggio, il caso è un importante elemento tragico che, nell’opera, sembra proprio assecondare la buona riuscita del delitto. Raskol’nikov però decide di sfidarlo. Sfida il caso per tutto il tempo della narrazione come se volesse portarlo contro di sé. Il giovane concepisce le fantasie del delitto, frutto di una creatività negativa nata dal sonno della ragione che, come dice Goya, genera mostri, tra le quattro mura della sua stanza, facendo di sé stesso un eroe negativo. Un buco, così viene descritto il luogo in cui abitava, talmente piccolo, soffocante e claustrofobico da essere paragonato ad una vera e propria bara. Raskol’nikov ormai aveva deciso di sfidare i limiti dell’uomo, togliendo la vita e comportandosi come Dio. Premeditazione, ecco la nostra terza tappa. Proprio qui ho decido di inserire un’immagine che, in questo caso, diventa fortemente simbolica. L’opera in questione è l’Albero rosso di Mondrian. Tra il 1909 e il 1912, il pittore lavorò sul tema dell’albero, alla ricerca di nuove forme e nuovi accostamenti cromatici, giocando sui contrasti dei colori caldi e freddi. L’albero rosso creato da Mondrian diventa nel mio “evidence board” l’albero rosso sangue, simbolo del male e della corruzione. Raskol’nikov decise infatti di macchiare le sue mani e di sfidare i limiti, di essere un uomo straordinario e libero, usurpando il potere divino. Decide di uccidere per un motivo ben preciso e mettere fine all’esistenza.

Ed eccoci alla quarta tappa. L’omicidio era ormai compiuto, il colpevole era riuscito a fuggire dall’abitazione della donna senza farsi scovare, ma ora era tempo di fare i conti con le proprie azioni e di capire come e se dovesse distruggere le prove. Ogni assassino ha le sue tracce da nascondere, ma l’atteggiamento di Raskol’nikov nei loro confronti è senz’altro ambivalente. Decide in un primo momento di sfidare la sorte e presentarsi in commissariato con il calzino ancora sporco di sangue, dimostrandosi coraggioso, sicuro di sé; dall’altro diventa ossessionato dal fatto che qualcuno avesse potuto trovare una prova della sua colpevolezza, trasformandosi così in un uomo paranoico. Il voler continuamente nascondere e sviare le indagini e la sua volontà di far emergere le prove del delitto ci dice molto sul personaggio di Raskol’nikov, tormentato, secondo una mia interpretazione, sia da un costante senso di colpa, che lo porterà poi alla confessione, sia dalla paura, sensazione inizialmente estranea al protagonista ma che ora lo stava perseguitando.

Giunti alla quinta tappa ecco che ci troviamo di fronte alla parola povertà. Il ragazzo pietroburghese non aveva denaro, era povero. Tutto l’ambiente di Delitto e castigo è legato a questa condizione che diventa la vera cornice dell’opera. Essa è comune a molti personaggi come lo stesso Mermeladov e la sua famiglia. Raskol’nikov provava vergogna e fastidio per il fatto di essere povero. Analizzandolo attentamente, capiamo che in lui qualcosa non andava. Era un ipocondriaco, un malinconico. Ma con la sua condizione economica ci aveva fatto l’abitudine. Semplicemente non gli interessa più. Ed ecco che la domanda giunge spontanea. Uccide davvero solo per denaro? Qual è il vero motivo del delitto? Bisogna solo seguire il percorso.

È qui che subentra la sofferenza, una caratteristica importante nell’opera dell’autore russo. Raskol’nikov soffre proprio come Sonja. Ragazza credente e pura d’animo, è lei a rappresentare una figura tipica della tradizione russa ovvero quella del “jurodivyj”, personaggio che arriva al sacrificio totale di sé per amore del prossimo. Sonja è così. Si sacrifica per la sua famiglia tanto da prostituirsi per racimolare del denaro per i suoi fratelli. Lei e il giovane di Pietroburgo sono uniti nella sofferenza, nel dolore e nella corruzione, del delitto per lui, del mestiere da prostituta per lei. In questa sesta tappa ho deciso di riprendere e utilizzare immagini di attualità proprio per rappresentare l’idea di dolore e tragedia. Gli incendi, i disboscamenti, lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento delle acque sono simbolo della sofferenza del nostro pianeta e di conseguenza di quella di tutti noi. Raskol’nikov, capendo di essere un corrotto, soffre. Era diventato e si era comportato proprio come l’uomo che bastonava il povero cavallino nel sogno che aveva fatto.

Sogni e incubi rappresentano la settima tappa del viaggio. Non possiamo parlare di sogni senza parlare di Sigmund Freud. Secondo il padre della psicoanalisi, essi sono il modo in cui il nostro inconscio comunica con noi, mostrandoci i nostri desideri più segreti e ciò che non riusciamo ad accettare. E proprio perché non riusciamo ad accettarle, la nostra mente le camuffa, le censura, e alla fine crea storie e immagini insensate. Il sogno in questo caso rappresenta la proiezione della coscienza di Raskol’nikov, una coscienza che nasce in negativo con il delitto. Sono due le opere d’arte che ho voluto inserire nel mio “crazy wall” a proposito dei sogni, o meglio dire, incubi.  La prima a sinistra di Pablo Picasso, il Ratto delle sabine del 1962 e la seconda di Franz Marc, intitolata I piccoli cavalli gialli, realizzata nel 1912. Entrambe riprendono la figura del cavallo, sognata da Raskol’nikov prima che mettesse in atto il suo piano diabolico. Molto più rappresentativa è sicuramente quella di Picasso. I colori, o sarebbe meglio dire i non colori, il bianco e il nero, trasmettono paura. Non è il pugnale, non è la criniera che ondeggia come lingue di fuoco a incutere terrore la ma testa dello stesso cavallo che nel sogno del giovane rappresentava la vecchia usuraia, o forse, lo stesso Raskol’nikov.

Ma ecco che grazie a quella sofferenza il giovane raggiunge la salvezza, una salvezza interiore. La verità viene sempre a galla. Il giovane decide finalmente di confessare il suo delitto alla ragazza. Proprio grazie a lei e alla lettura del vangelo Raskol’nikov capisce che un Dio, non solo fatto di castigo ma, anche di amore e perdono esisteva davvero. Ecco allora la nostra penultima tappa: la fede. Ho voluto in questo caso far sì che la creazione di Adamo di Michelangelo rappresentasse, in modo simbolico, il momento in cui il ragazzo decise finalmente di accogliere un nuovo Dio nella sua vita.

Il nostro viaggio che si conclude con la parola ideale. Ecco svelato il mistero. Raskol’nikov uccise la vecchia usuraia unicamente per un suo ideale. Era convinto, come aveva scritto nel suo articolo, che al mondo esistessero due tipologie di uomini: gli uomini ordinari e quelli straordinari. I primi sottoposti e leggi divine e civili, vivono come schiavi ma pur sempre felici, i secondi regole e limiti non ne hanno. La loro morale viene abbattuta dalla coscienza. Sono uomini legittimati a uccidere nel presente per la creazione di un futuro migliore. Napoleone, secondo Raskol’nikov era uno di questi. Emblema del super uomo, decide di uccidere solo per affermare la sua superiorità e le sue idee. Si comporta come Dio, non è schiavo ed è felice. Ma Raskol’nikov non è Napoleone. Non trova felicità nel delitto, anzi. Il suo ideale crolla appena compiuto il fatto ed ecco che inizia il suo castigo. Tutto è nelle mani dell’uomo secondo il nostro protagonista, un pensiero apparentemente rassicurante ma angoscioso. La libertà non è soltanto qualcosa di positivo, non essendoci limiti il male è dietro l’angolo.

Memorie Familiari

Gabriele Torres, in questo suo racconto breve, vuole approfondire il concetto di un meccanismo della coscienza alquanto peculiare: l’amnesia dissociativa causata da esperienze traumatiche, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Tutto mi sembrava così surreale, non poteva essere andata veramente così, ma ad un tratto vidi quello che confermò le mie colpe”

*

In quel periodo facevo un sogno ricorrente.
Mi attirava verso di lui, sembrava predire il mio futuro. Mi sentivo come il coraggioso Odisseo mentre udiva il canto delle sirene. Percepivo una cosa crescere dentro di me che mi spingeva a compiere il fatto.
Pazzo, penserà lei, dottore, ma è questo quello che sono? I pazzi non ragionano, io, invece, ero ben cosciente di quello che volevo.
Dove mi trovo lo so per certo, ma credo di non comprenderne il motivo. La avverto, non stia così vicino, sono un tipo nervoso.
Credo che debba sapere come sono arrivato qui, così presterà molta attenzione la prossima volta, sempre se non scapperà come tutti gli altri.
Mi svegliai in una capanna di legno, come quelle che si vedono di tanto in tanto nei film. Non era in ottimo stato, c’erano molti spifferi e il pavimento mancava di qualche asse di legno. Il camino e una coperta logora mi tenevano abbastanza al caldo. Non ricordo come io sia arrivato in quel posto e nemmeno che giorno fosse.
Un uomo possente, dalla faccia buona e con una folta barba, se ne stava seduto vicino al camino, intento a intagliare una statuetta, che a prima vista mi sembrò raffigurare un lupo.
Il mio risveglio deve averlo distratto, perché si fece scappare il coltellino dalle mani provocandosi un taglietto al pollice. «Ben svegliato», mi disse succhiandosi il sangue dalla ferita, «spero che non ti prenda un malanno, sai, con questo freddo; il mio nome è Russell».
«Dove mi trovo? Come sono finito in questo posto?», dissi mormorando. Non doveva avermi capito, perché mi lanciò un’occhiata confusa.
«Non mangi da tanto, devi avere fame, prendi pure pane e formaggio, li ho presi ieri in città». Annuii.
Dovevo essermi tagliato la lingua in qualche modo, perché notai un retrogusto ferroso. «Mi chiamo Kurt», dissi strappando un boccone di pane.
«Ci troviamo nel bel mezzo del bosco, ti ho trovato svenuto nella neve, per poco non ci rimanevi secco, chissà come sei finito qui».
«La ringrazio, mia moglie sarà molto preoccupata», percepii un’aria tranquilla, diversa rispetto alla tensione di un secondo prima.
«Ha una moglie? Deve essere molto in ansia; hai dormito per tutto il giorno».
«Si chiama Wendy, abbiamo una bambina piccola, spero non le stia creando troppi problemi»
Ritornato alla sua statuetta sembrò farsi più curioso, «Wendy, che bel nome, mia figlia si chiamava così».
«Si chiamava? Le è successo qualcosa?»
Il volto di Russell sembrò prendere un’espressione cupa, «Un incidente».
Non aggiunse altro.
L’atmosfera si era fatta di colpo pesante. Una folata di vento entrava dagli spifferi delle vecchie finestre, «Hai bisogno di un’altra coperta?», le mie mani cominciavano a tremare, decisi di accettare.
«Quindi, come sei finito nel bel mezzo del nulla?», riprese Russell spezzando il silenzio imbarazzante.
La mia sicurezza cominciò a vacillare, «Ho ricordi molto vaghi; non ricordo perché mi sono addentrato nel bosco, l’ultima cosa di cui sono sicuro è di essere uscito di casa, poi…tutto nero».
«Beh allora vedrò di accompagnarti al più presto; a proposito, dove hai detto di abitare?», il mio ospite si stava facendo curioso, ma io non sapevo rispondere alle sue domande.
«Vicino al mare, è l’unica cosa che ricordo, d’estate ci andavo insieme a Wendy e al nostro cane Ros. Ma da quando è nata la bambina e Ros è morto non siamo più andati».
«Davvero non ricordi altro?» la faccia dell’uomo si fece più cupa, dentro di lui, forse, pensava che qualcosa non andasse, e a lungo andare non aveva torto.
Continuai a mangiare, Russell mi osservava un po’ sospettoso, ma dopo un po’ parve perdere interesse.
«Sai, andavamo spesso al lago tutti insieme» riprese l’uomo, «A Wendy piaceva tanto, si divertiva come una matta, correva di qua e di là senza nessun pensiero, pensa che una volta, quando c’era anche mia moglie, cadde in acqua e tornò da noi zuppa fino alla punta dei piedi, che risate». Il suo volto si era fatto nostalgico, a tal punto da far scendere una lacrima sulle sue guance massicce.
«E adesso, cosa resta…il nulla». La nostalgia che arieggiava per la stanza si trasformò molto velocemente in malinconia e tristezza.
«Mi dispiace tanto…posso chiederti com’è successo?»
Asciugandosi la lacrima con la manica del suo pesante maglione cominciò a raccontare «Ripensandoci, sembrava proprio un bel giorno, uno di quelli in cui sei spensierato, da stare sdraiato al sole bevendo qualcosa. Viaggiavamo verso l’oceano; sai, Wendy non l’aveva mai visto e mi chiedeva da giorni di portarla, saremmo rimasti lì qualche giorno, quindi avevo la macchina carica di tutte le provviste», mentre raccontava vedevo i suoi occhi diventare lucidi, «Ero tornato la sera prima da una battuta di caccia, quindi mi sentivo un po’ stanco, ma era il suo compleanno e non so quante volte me l’avesse chiesto, quindi decisi di accontentarla e di portarla comunque il giorno dopo. Mentre eravamo per strada…», si interruppe per asciugarsi ancora le lacrime, «Una macchina che arrivava dall’altra corsia ci ha incrociati, erano in quattro, sembravano tutti ubriachi, anche il guidatore. Mi vennero addosso. Nel giro di qualche secondo i freni della mia macchina si sono bloccati e siamo precipitati nel burrone. Al mio risveglio, trovai mia moglie e mia figlia morte, nessuna traccia dei soccorsi».
«Mi dispiace». Questa è l’unica cosa che riuscì a dire, l’aria si era fatta pesante come un macigno.
«Proprio crudele la vita, la mia piccola se ne è andata troppo presto, non ha nemmeno visto l’oceano» riprese Russell asciugando ancora le lacrime. «Delle volte è come se nulla avesse più senso. Sai, senza loro…delle volte ho pensato alla via più semplice, ma in quei momenti ricordo quello che diceva mia moglie e subito mi pento; uccidersi sarebbe come fare del male alla sua memoria; a proposito, lei si chiamava Alice».
Volevo dire qualcosa, ma le parole sembravano morirmi in bocca. Sentì un’ondata di calore crescente, e un lamento, quasi come un pianto, veniva dall’altra stanza. «Lo senti anche tu, Russell?», i suoi occhi pieni di lacrime si curvarono in un’espressione confusa, «Sento cosa?».
«Non senti anche tu questo rumore?»,
«No, non sento nulla, sarà qualche animale rimasto fuori in mezzo alla neve».
Ero sicuro che non fosse così, ma non ci feci caso.
«Kurt, da quanto state insieme, tu e Wendy?» disse Russell spezzando ancora una volta l’atmosfera pesante della stanza.
«Da dieci anni, più o meno; ricordo ancora il nostro primo bacio, è stato bellissimo, da quel giorno la mia vita è cambiata, in meglio ovviamente. Prima di incontrarla ero un tipo molto nervoso, ma stare con lei mi ha cambiato profondamente».
«Se posso chiedere…come vi siete conosciuti?»
«Ho un negozio di strumenti musicali, lei era una mia cliente. Un giorno mi sono fatto coraggio e le ho chiesto di uscire. Mi sentivo come un adolescente al suo primo appuntamento».
Un rumore, ora più simile ad un flauto continuava a crescere; «Un flauto?», stavo pensando a voce alta.
«Un flauto? Che flauto?» chiese Russell confuso.
«Non lo senti anche tu? Il suono di un flauto…l’avrò solo immaginato, sai, Wendy suona il flauto. Lei è una musicista, suona per l’orchestra di…Boston. Ecco ora ricordo! Io abito a Boston!». Quell’euforia deve avermi dato alla testa, mi sentivo strano, il flauto non si fermava, continuava a suonare e il suo volume aumentava ogni secondo che passava.
Sembrava vero, come se lei stesse suonando accanto a me in quel momento.
Chiesi di andare in bagno, il sapore di sangue e formaggio che avevo in bocca si sostituì con un gusto di vomito improvviso. Cominciai a stare ancora peggio, il flauto si faceva sempre più forte e a questo ora si aggiungeva lo strano pianto che avevo sentito prima. Non credevo potesse peggiorare, stavo cominciando ad impazzire.
I rumori si fermarono improvvisamente…o almeno, per il momento sembrava così.
Dopo aver vomitato, uscii dal bagno, l’uomo pareva preoccupato per la mia salute «Vuoi che ti porti in ospedale?», dissentii, volevo solamente tornare a casa per il momento.
«Tranquillo, mi passerà, sono sicuro che Wendy mi saprà dare un’aggiustata»; gli chiesi, dunque, di riportarmi a casa. La macchina era molto grande, un classico modello americano, pensai. I copertoni erano grandi quasi come metà del mio corpo e la tappezzeria, se pur l’esterno lasciasse un po’ a desiderare, appariva lucida, come se fosse stata rinnovata da poco.
«Ti piace?» chiese Russell quasi in cerca di una mia approvazione. Annuii solamente, non volevo dare un mio parere, non avevo le forze per affrontare un classico discorso su motori e cose del genere.
Acceso il motore, Russell accese la radio, lo facevo più un tipo da black metal; invece, sintonizzò il segnale con una stazione di musica classica. Se non fosse stato per il forte mal di testa che mi tormentava, sarei scoppiato a ridere.
«Dunque, hai ricordato dove abiti?» domandò accendendo il motore.
«Non ricordo perfettamente la via, ma dovrei abitare vicino al mare. La mattina, mentre bevo il mio tè, mi affaccio dalla finestra del mio salotto, dove guardo i bambini giocare al parco. C’è un’insegna davanti l’entrata…ma cosa c’era scritto…ah ecco! Victory Road! Abito vicino al parco di Victory Road. È li che qualche volta porto Judy a fare una passeggiata».
Russell mise in moto e cominciò a percorrere la larga strada.
Fu un viaggio abbastanza silenzioso, nessuno dei due sapeva più cosa dire e, probabilmente, visto il mio evidente malessere, Russell credeva di disturbarmi parlando.
Il paesaggio, ai lati della strada grigia e poco asfaltata, appariva molto vario. Da numerosi boschi, si passava a lunghe distese di verde, fiumi e paesaggi naturalistici spettacolari, qualche monumento strano vicino ai paesi della provincia e molti autostoppisti. Non ci fermammo a nessuna stazione di servizio, il viaggio durò un paio di ore. Pensavo a come potessi essere arrivato fino a casa di Russell, ma soprattutto, perché mi ero avventurato da solo nel bosco.
Arrivammo a Boston, Russell diceva di aver lavorato in una falegnameria qui in città, ma che poi l’aria frenetica e inquinata lo avevano portato ad allontanarsi e a trasferirsi nella capanna assieme alla sua famiglia. Fortunatamente, diceva, Alice lo supportava in ogni sua decisione, anche la più strana e folle.
«La mia casa non era così prima» disse Russell ricordando ancora i momenti passati, «Non era così malconcia, fuori era pieno di fiori di tutti i tipi, Alice si occupava di curarli tutti i giorni. Poi, ho mandato tutto in malora da quando Alice e Wendy sono morte».
Qualche minuto dopo, arrivammo al parco di Victory Road. I ricordi cominciavano a riaffiorare, i pomeriggi con mia moglie e mia figlia al parco, il nostro cane che giocava felice in giro. Riuscivo quasi a sentirle ridere.
«Parco di Victory Road, eccoci qua. Riesci a vedere la tua casa da qui?» disse Russell interrompendo il flusso dei ricordi.
«Scendo dalla macchina, magari riesco a vedere meglio», dopo essermi sgranchito le gambe cominciai a fare un giro cercando di ricordare la veduta esatta dalla mia casa. Arrivato al cartello “Parco di Victory Road – ingresso ovest”, riuscii finalmente a trovare la finestra del mio appartamento. «Eccola là! È quel palazzo rosso, la finestra che dà sul mio salotto dovrebbe essere l’ultima a sinistra del terzo piano».
«Bene dunque!», esclamò l’uomo mettendo in moto l’auto, «Andiamo subito, così potrai finalmente riabbracciare la tua famiglia!».
Salii in macchina in fretta e furia, non vedevo l’ora di tornare a casa, di abbracciare Wendy e Judy.
Arrivai alla porta. Suonai al campanello. Nessuno rispose.
«Che strano…manco da casa da giorni e non c’è nessuno ad aspettarmi». Magari, pensai, Wendy è andata a comprare qualcosa per la bambina e tornerà a breve.
Suonai in portineria, dove trovai Saul, il custode. Aprii la porta ed entrai, mi salutò come al solito, con un cenno della testa.
Presa la chiave, salii in fretta per le scale, non avevo alcuna voglia di aspettare che l’ascensore si liberasse. Arrivai al terzo piano con il fiatone, ma non importava, la mia famiglia era solo ad una porta di distanza.
Avvicinai la mia mano per aprirla. I rumori, che fino a quel momento sembravano scomparsi, ripresero con l’intensità di cento motori a scoppio. Toccare la porta della mia casa, aveva come risvegliato quegli orribili fastidi, e adesso sembravano più reali che mai. Il perché di quella sorta di allucinazioni, non lo scoprì fino a quando non spalancai la porta.
Visione di morte e una puzza insopportabile apparvero davanti ai miei occhi. Non riuscii a trattenere le lacrime…erano loro.
Wendy e Judy giacevano senza vita in salotto, massacrate. Erano diventate irriconoscibili.
«Ma cosa…» esclamò Russell impaurito dalla scena.
Ero davanti alla sala tinta di rosso, come paralizzato, i loro capelli strappati, i volti scavati dai colpi ricevuti. «Wendy, Judy, chi vi ha fatto questo?» provavo un’enorme sensazione di vuoto.
I rumori, sempre più forti, cominciarono a tramutarsi in voci, «È tutta colpa tua!», la voce era quella di mia moglie, ne sono sicuro.
«Wendy, sei tu? Chi vi ha fatto questo!».
Il pianto continuava a martellarmi nella testa, non avevo mai provato una cosa del genere. Un castigo portato dalla morte, questo era. La voce che mi accusava di quelle colpe sembrò prendere forma, e presto prese le sembianze di Wendy.
«Sei stato tu!» riprese lo spirito mentre cominciava a piangere, «Ma come, hai dimenticato quello che ci hai fatto? Avevi promesso di proteggerci per sempre, e alla fine, è stata proprio la tua la mano che ci ha fatto del male».
Rimasi impietrito, non riuscivo a credere a cosa stesse succedendo. I miei occhi cominciarono a riempirsi di lacrime.
«Hai ucciso prima tua figlia e poi me», riprese Wendy.
Tutto mi sembrava così surreale, non poteva essere andata veramente così, ma ad un tratto vidi quello che confermò le mie colpe. Un giocattolo, la trottola di mia figlia, stava ai piedi dei due cadaveri insanguinati. Fu a quel punto che la mia memoria riprese a funzionare correttamente.
«Sono stato io», ripresi girandomi verso Russell, che appariva sconvolto da quello che vedeva. «Le ho uccise colpendole con quel giocattolo. Poi sono scappato via, per nascondermi, e sono finito nel bosco».
Russell mi guardava con gli occhi iniettati di sangue «Come hai potuto! Mi hai mentito per tutto questo tempo!».
«No, non ti ho mentito, amo la mia famiglia, ma ho avuto i miei motivi, i miei sogni».
«I tuoi sogni? Ma cosa dici! Sei un malato! Tu mi hai mentito e hai cercato di ingannarmi con la storia dell’amnesia, e io ti ho creduto pure, credevo che fossi una brava persona». Non cercai nemmeno di fermarlo, il suo ragionamento aveva senso, dopotutto. Fingevo di non ricordare, alla fine era meglio che credesse così, non avrebbe mai capito le mie ragioni. Era in preda alla rabbia più assoluta. Si avvicinò a me e cominciò a picchiarmi.
Saul arrivò alla porta, non era solo. Mandò qualcuno a chiamare la polizia mentre cercava di separare il bestione da me.
Russell finalmente si fermò, non avevo mai visto uno sguardo così colmo di odio. Cominciò a raccontare il fatto. Io rimanevo lì a guardare il vuoto con la faccia insanguinata. Non provavo nulla.
Poco dopo arrivarono due poliziotti, diedi un ultimo sguardo ai corpi, sorrisi, poi mi portarono via.
Perché quella faccia dottore, crede anche lei che io sia pazzo?
Non è così. Io ho visto, ho sognato tutto quello che potevo fare.
Perché allora sprecare la mia opportunità. Avevo così tanto potere su di loro, perché non dimostrarlo allora, perché non dimostrare che ero superiore. Suvvia, perché mi guarda così? Non mi capisce?

*

Atopos

Gianni Demo rappresenta, attraverso un calligramma ispirato all’opera di Apollinaire, la similitudine tra Socrate e le statuette di satiri, rintracciata da Alcibiade nel Simposio di Platone. Il testo è stato sviluppato nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate B, mod. 1, 2021/2022, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Secondo me un calligramma è un insieme di segno, disegno e pensiero. Esso rappresenta la via più breve per esprimere un concetto in termini materiali e per costringere l’occhio ad accettare una visione globale della parola scritta”. G. Apollinaire.             

Il nucleo del discorso di Diotima è il “prezioso contenuto” di questo Socrate-Sileno. In calce, le parole di Alcibiade.

*

La Torino di Primo Levi

– Quali sono i luoghi della città a cui si sente più legato?

– Quelli che compaiono qua e là nei miei libri. Le parti di casa, di scuola, vale a dire il D’Azeglio, l’Università, un po’ al Valentino un po’ in via Po, dove tra l’altro abitava la mia nonna paterna. Anche via Roma vecchia, che però ricordo vagamente. Uno dei miei nonni leggendari aveva un negozio di stoffe in via Roma vecchia e a carnevale era possibile salire al balcone dell’ammezzato per assistere alla sfilata dei carri. Nell’elenco metterei anche il percorso che ho fatto per 20 anni da Torino a Settimo e da Settimo a Torino. Proprio durante uno di questi percorsi pendolari scoprii in un’insegna di negozio lo pseudonimo [Damiano Malabaila] che adottai per Storie naturali.

Fu proprio questa citazione, dall’intervista rilasciata a Giovanni Tesio del 1980, che il mio progetto ha avuto inizio, qualche mese fa. Nasce da questa rassegna di luoghi e percorsi l’idea di creare una mappa letteraria della Torino di Primo Levi: non solo da questa, certo, bensì da un insieme più ampio di iniziative letterarie ed editoriali su cui ho ragionato e che mi hanno portato alla realizzazione di un progetto più articolato. Iniziative, innanzitutto, come due fondamentali volumi dedicati al rapporto tra il capoluogo piemontese e la letteratura: Una mole di parole: passeggiate nella Torino degli scrittori, a cura di Alba Andreini, Torino, CELID, 2006, che si presenta come una lunghissima passeggiata che porta il lettore a spaziare tra le opere di scrittori e scrittrici che hanno immortalato alcuni e tanti scorci torinesi nelle loro pagine; e anche il fondamentale volume di Alessandra Chiappori, Torino di carta: guida letteraria della città, Palindromo, Palermo, 2019, che evoca il capoluogo piemontese negli scritti di molti uomini e donne di penna che ricordano l’uno e l’altro angolo della preziosa città sabauda, rispolverando evocativi quadri memoriali loro ricordi più genuini. Ma c’è anche un’altra mappa, più simile a quella che mi accingo a presentare e specificamente dedicata all’opera di Primo Levi, che è quella organizzata dal Centro Studi nell’Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa (Einaudi, 2017, pp. 284-289): in queste poche pagine il centro della città viene scandagliato alla ricerca di quei luoghi che appaiono citati nell’opera del chimico-scrittore. Ma l’antecedente più importante del presente progetto è un altro: ho colto la sfida lanciata da una mia collega, Jasmine Mulliken, di origini irlandesi ma addottoratasi a Stanford (USA). Nel suo fondamentale progetto Mapping Dubliners, Mulliken ha preso in analisi i racconti che compongono Gente di Dublino di James Joyce, ha tracciato una vera e propria mappa di ogni spostamento di cui si trova notizia nelle pagine della raccolta, e ha puntellato di segnaposti la mappa del mondo intero (di Dublino in particolare, ma anche dell’Europa e dell’America) per permettere ai suoi fruitori di aggirarsi nei meandri geo-letterari dell’opera seguendo gli spostamenti descritti nei racconti che la compongono. Proprio a questa felice realizzazione il corrente progetto deve il suo impianto fondamentale: con la differenza che Primo Levi occupa il posto di James Joyce, e Torino si sostituisce a Dublino.

Per realizzare il progetto mi sono appoggiato al modello tridimensionale del capoluogo piemontese su Google Earth, ne ho evidenziato i luoghi che troviamo citati nell’opera del chimico-scrittore e li ho raccolti creando un quadro generale. Lungi dall’essere terminato (le scoperte si succedono sulla scala del quotidiano ancora dopo diversi mesi dall’inizio della ricognizione!), il progetto è composto da più di trenta schede di lettura, ognuna relativa ad un luogo specifico (a volte ripreso anche due volte, secondo le diverse sfaccettature che guadagna nell’opera di Levi): ogni luogo è inventariato in base alla relazione che intrattiene con la vita e con l’opera di Levi e la catalogazione segue una legenda precisa (che si trova più avanti qui sotto). Ogni scheda riporta nel proprio riquadro di informazioni il riferimento con il rimando alla fonte del passo citato, a cui seguono la citazione testuale e un link di rimando a un sito esterno. Cliccando quest’ultimo, si verrà automaticamente reindirizzati ad un’apposita pagina dedicata sul Blog degli studenti di Culture e Letterature Comparate di Torino, voluto e coordinato dalla professoressa Chiara Lombardi e del cui comitato di redazione sono membro sin dai primi momenti della sua nascita. In ogni pagina, oltre alle coordinate generali già presenti nel Progetto su Earth, si trova l’inquadratura ragionata per ogni estratto in cui Levi cita un luogo. Il tutto è corredato da un apparato di foto storiche, quasi interamente in bianco e nero o color seppia: si tratta di immagini ampiamente reperibili online che ho trovato sul web (segnalandone rigorosamente la fonte) e inserito con lo scopo di mostrare la vecchia Torino, le cui vestigia oggi rimodernate possiamo scorgere (o rivedere con gli occhi dell’immaginazione) passeggiando nel centro storico, tra le vie e i corsi, o nei comuni confinanti. Il tutto a portata di smartphone, tablet o pc: il progetto è infatti pensato per essere principalmente fruito in mobilità, magari passeggiando negli stessi luoghi in cui passeggiava e in cui si scandiva la vita di Primo Levi, ripensando a quali potessero essere i suoi percorsi all’interno del centro storico cittadino, rivedendo quali scene, immagini, oggetti o presenze abbiano ispirato le tante occasioni letterarie che riportano in vita l’uno o l’altro angolo della capitale piemontese.

Il risultato più evidente del progetto sarà proprio questo: fornire alla cittadinanza, ai gruppi turistici (o a chiunque ne fruisca) uno strumento utile che possa permettere loro di conoscere un altro lato della città, inedito in buona parte, che passa spesso inosservato tra i tanti temi che popolano l’opera del chimico-scrittore. Il Progetto su Google Earth sarà infatti fruibile in modalità online e offline e prenderà la forma di un oggetto utile a orientarsi nella conoscenza del patrimonio storico, artistico, urbanistico e letterario del centro di Torino (e immediati dintorni).

Prenderà insomma la forma di un particolare (e interattivo) vademecum letterario per chiunque voglia godere di una passeggiata (reale o virtuale) non solo tra le strade di Torino, ma anche tre le varie trasformazioni che l’hanno attraversata e ne hanno cambiato il volto: tutti processi di cui Primo Levi è stato – consapevolmente o meno, programmaticamente o no – testimone attento e intelligente. Ripercorrere i percorsi della sua opera che portano traccia di questi cambiamenti permetterà dunque ai fruitori di familiarizzare non soltanto con i suoi racconti, poesie, articoli e libri riscoprendone punti spesso messi in secondo piano, ma anche con la veste storica del centro cittadino, di cui metterà a nudo la sedimentazione storica spiegando come le cose erano prima che divenissero tali come sono oggi. Il tutto, ovviamente, inserito in un quadro più generale che rivela come Torino sia stata, agli occhi di Levi, non soltanto sua città natale e palestra di formazione educativa e lavorativa, ma anche città vespertina e brulicante di vita notturna, piena di scorci che meritavano di diritto una decantazione poetica, una riflessione giornalistica o che ben si prestavano, alla penna del chimico-scrittore, come un momento di creazione letteraria.

L’obiettivo principale del progetto è pertanto quello di creare una mappa; non una vera e propria cartina con degli itinerari (o per lo meno, non ancora), quanto più (in questa fase iniziale) un inventario geografico comune che, con un grande numero di segnaposti, illustri in maniera semplice e immediata la materia del discorso a chiunque lo fruisca. L’intento è permettere anche chi non studia sistematicamente i fenomeni letterari di avvicinarsi e familiarizzare con l’opera di Levi: quasi al termine del mio percorso di dottorato in Lettere presso l’ateneo torinese, ho voluto creare uno strumento che potesse essere accessibile (e soprattutto facilmente comprensibile) a chiunque, che permettesse di rivelare quanto Torino è intrisa di letteratura, e quanto la letteratura che ne parla sia una prova della sua radicale importanza come stimolo per la scrittura. L’opera di Levi, come spero che questo progetto dimostri, si pone come una delle vene sotterranee che scorrono sotto alla superficie della città: vene che hanno scandito la sedimentazione storica e identitaria dei suoi quartieri, edifici e strade e che, se interrogate correttamente, rivelano ancora oggi un interessante reticolo di informazioni ancora in buona parte da scoprire.

*

Per accedere al progetto:

❧ cliccare qui e avviare (da app o da pc) Google Earth, su cui si visualizzerà il Progetto Earth La Torino di Primo Levi.

❧ Interagire liberamente con la mappa predisposta, su cui compaiono segnaposti di diversa natura e colore. Si seguirà questa legenda:

Punto d’inizio

Luoghi strettamente familiari

Luoghi legati all’educazione elementare, liceale e universitaria

Luoghi legati al mestiere di chimico

Luoghi legati al mestiere di scrittore

Luoghi citati nelle poesie, articoli o racconti

Luoghi legati alla parentela ebraico-piemontese

Luoghi reali citati ne La chiave a stella


❧ Ogni segnaposto contiene:

– una citazione dall’opera di Levi con il relativo riferimento. Le citazioni contengono anche informazioni più specifiche (il capitolo della raccolta da cui provengono, o la data di composizione o pubblicazione) e il numero romano del volume da cui sono tratte; segue il numero della/e pagina/e. Le citazioni dal terzo volume, contenente le dichiarazioni e le interviste, sono invece contrassegnate dal nome dell’intervistatore, il titolo dell’intervista, l’anno di pubblicazione, il numero romano che indica il volume e le pagine in cui è possibile leggerle. Le opere principali si possono leggere nei tre volumi di Primo Levi, Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 2016-2018 e sono citate con i seguenti acronimi:

T = La tregua (1963)
SP = Il sistema periodico (1975)
CS = La chiave a stella (1978)
AOI = Ad ora incerta (1984)
AM = L’altrui mestiere (1985)
AP = Altre poesie (1986)
PS = Pagine sparse 1947-1987

– un link che reindirizza all’apposita categoria predisposta su questo blog. In ogni scheda è contenuta una spiegazione e contestualizzazione del passo: lo scopo è ricostruire l’intorno da cui l’estratto proviene, o offrire alcuni spunti analitici nel caso di intere poesie.

In caso di problemi, domande o dubbi, il dott. Cravero è reperibile all’indirizzo mail mattia.cravero@unito.it.

Il ghiaccio

Giorgia Bruno, in questo suo racconto, tratta di un giovane Amleto moderno innamorato e stregato che vive in prima persona una delle più tragiche storie cantate dal grande Fabrizio de Andrè, nell’ambito del corso di Letterature comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi). 

PREMESSA

Il racconto ha come intento quello di fondere le trame dei sonetti di Petrarca, dell’Amleto di Shakespeare e, infine, della Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André. Verranno riprese, in questa narrazione, alcune descrizioni tipicamente stilnovistiche della donna-angelo, gli eventi tragici raccontati dal cantautore italiano nella celebre canzone del 1966, e verrà riportato in luce lo sfondo psicologico di un figlio, affranto dalla perdita del padre, che si ritrova, da molto giovane, a dover affrontare una madre che al tempo stesso ama e odia. Il titolo non solo fa un chiaro riferimento al contesto invernale in cui si sviluppa il racconto, ma metaforicamente indica anche la freddezza con cui viene trattato e manipolato il protagonista. Sotto ad un affascinante lago ghiacciato possono nascondersi dei mostri, esattamente come dietro ad una fanciulla dai tratti paradisiaci, può celarsi una natura maligna e subdola.

*

Bene Vagienna, inverno del 1948[1].

La quercia nera nel giardino mi fissava con occhi assopiti, in quel bianco pomeriggio di gennaio. Io me ne stavo seduto sulla vecchia poltrona in vimini del nonno, travolto dall’odore di legna ardente e di sapone di Marsiglia, poggiato poco lontano dal lavandino. Quel giorno tutto sussurrava parole di morte: il vento tra le fessure della finestra, la vecchia radio di nonna sempre accesa e, più di ogni altra cosa, il cigolio del letto di mamma. Il “mostro maledetto”, come lo chiamava lei, era di nuovo tornato quell’anno e come tutte le altre volte l’aveva resa debole come una foglia secca, pallida come le lenzuola su cui giaceva e leggera come un foglio di carta. Il suo cuore allora, non era che un instabile marchingegno dalle viti mal fissate, sempre pronto ad interrompere il suo pulsare.

In pomeriggi come quello, affiorava in me il ricordo di quando mamma, alla domenica, mi passava il mestolo sporco di crema o di cioccolata, dopo aver cucinato una delle sue torte. Il gusto di quel cucchiaio, che ora giace abbandonato nel cassetto, è ancora fisso nella mia mente, tatuato ed indelebile. Proust, forse, parlava già di un concetto simile quando raccontava della memoria rianimata da un piccolo boccone di madeleine[2], o almeno questo è quello che mi ricordo delle lezioni del vecchio professore di Carrù. Mi basterebbe un minuscolo assaggio di quel mestolo per poter rivedere la mia infanzia: la mamma impeccabile ai fornelli con quel grembiule immacolato, la nonna seduta sulla poltrona a cucirmi le toppe della divisa scolastica e il papà…beh il papà non lo so a dire il vero: era partito un giorno del ’43 dicendo che sarebbe andato a comprare il tabacco giù in paese, ma dal vialetto di casa non fece mai ritorno. Lo aspettai per delle settimane, incollato alla finestra, pregando e piangendo. La mamma, invece, passava delle ore sul balcone affacciato sulle Langhe e, per quanto il suo sguardo fosse diventato grigio e i suoi occhi viola dalle lacrime, dava l’impressione di sapere esattamente dove fosse papà. Iniziò a stendere lenzuola nere quando le truppe tedesche giravano in città, e quelle bianche quando le vie di Bene Vagienna erano sgombre dai fascisti. Fu solo qualche anno più tardi che, studiando, capii che mio padre faceva parte dei cosiddetti “partigiani”, e solo quando scoprì la sua malattia, la mamma decise di dirmi che era stato catturato ed ucciso in un campo poco lontano da noi.

Mamma è sempre stata il mio unico punto di riferimento, una sorta di dea, un raggio di luce che penetra e graffia l’atmosfera. Ho sempre provato una sorta di affetto morboso per lei, una pulsione, una scossa d’inestimabile amore edipico, e questo mio sentimento nei suoi confronti lo coltivai fino all’anno seguente la morte di mio padre. Esattamente due mesi dopo la scomparsa di papà, infatti, la mamma mi presentò Claudio[3], un uomo pungente, basso, vecchio, sicuramente intelligente, ma sempre pronto a criticare e a dare consigli di certo non richiesti. Non aveva niente a che fare con mio padre e ciò che ancora di più mi dava noia era il non riuscire a capacitarmi del come mia madre si fosse dimenticata così in fretta dell’armonia della nostra famiglia. Ricordo che una sera, affranto dal dolore per la morte di mio padre e colmo di odio e rancore verso quell’uomo disgustoso, seduto a capotavola mi rivoltai contro mia madre dandole della “bestia”[4]. Un animale avrebbe patito più a lungo la morte di un caro, un animale sarebbe stato più bravo nel portare il lutto. Un Animale avrebbe finto meglio. Da quella sera, il legame tra me e mia madre si ruppe, non ridemmo più, non piangemmo più. L’unico dovere che ancora mi costringeva a lei era la sua dannata malattia al cuore che la divorava dal mattino alla sera, senza sosta. E Claudio? Beh lui, da vero gentiluomo, scappò dopo due anni per una donna molto più giovane di mia madre, abbandonandola nel suo letto che in quel maledetto pomeriggio di gennaio cigolava e strillava. Fu proprio quel giorno del ’48, però, in cui finalmente, dopo tanti anni di buio, rividi un raggio di luce simile a quello che emanava mamma quando ero piccolo: affacciato alla finestra incorniciata dalla muffa, vidi un angelo passeggiare sulla neve del vialetto. Era una creatura con la pelle liscia e di un colore poco più roseo della neve circostante, le labbra della stessa tinta delle rose sul comodino, e i capelli come raggi di sole ondulati che si scioglievano sulle sue spalle[5]. Mai, e dico mai, avrei creduto che si potesse assistere ad una visione come quella: rimasi estasiato, con un vortice di farfalle e falene che volteggiavano non solo nel mio stomaco, ma in tutto il resto del mio corpo, fino a raggiungere i più estremi capillari. Non trovo pace, non riesco a contenere il mio cuore che batte come un tamburo, non voglio nemmeno provarci a contenerlo, a dire il vero. Mi sento ardere e mi sento ghiaccio, mi sembra di volare e mi sembra di essere disteso a terra tra i fiori, piango e rido, grido e non ho una lingua, vedo e non ho gli occhi. Una prigione, quella donna mi aveva appena messo in una prigione da cui non sarei più uscito[6]. “É la nipote di Anita, qua accanto” disse mia madre che nel frattempo si era accovacciata sul bordo del materasso: “Viene da Parigi, è molto acculturata, ma si dice che sia una vera arpia”. Ricordo ancora lo sguardo che posai su mia madre dopo quell’acido “arpia”, sputato fuori dalla sua bocca come veleno. Come poteva essere cattiva una fanciulla arrivata direttamente dalle scale del Paradiso?

Il giorno seguente uscii per andare in centro a Bene a comprare le medicine per mamma. Il freddo quel giorno era ancora più spietato: si infilava in ogni fessura dei vestiti e correva sulla pelle e sui muscoli, penetrando nei pori e raggelando il sangue. Persino la statua di Botero, lì fiera ed inerme sembrava sentire il gelo più degli altri giorni: aveva un cappello di neve e del ghiaccio lungo tutto il mantello e sui manuali di teologia su cui poggiava la mano. Il suo sguardo marmoreo sembrava scrutarmi l’anima, pareva essere a conoscenza della voragine che divorava i miei organi, dopo l’incontro con la creatura fatale. Non appena varcai la soglia della farmacia, una nube di calore incorniciò il mio volto, riscaldando ogni centimetro della mia pelle. Lì l’atmosfera era diversa, più spessa, in qualche modo tangibile. Alzai lo sguardo e tolsi gli occhiali, rimasti appannati dallo sbalzo termico: quello che vidi davanti a me, mi diede una scossa così profonda e prepotente da lasciarmi senza fiato. Un cappotto rosso scuro, decorato da ricami di un colore verde pino e coperto sulle spalle da candidi riccioli d’oro, si ergeva a pochi centimetri da me. Il profumo di orchidea, che emanavano i suoi guanti color perla, ancora adesso mi arde nelle narici, e il suono della sua voce ancora ora risuona nella mia testa come un accordo d’arpa, lontano e delicato come cotone. “Buongiorno, Laurine” mi sembrò di sentire dalle mie orecchie, assordate dal frastuono del mio stesso battito. Laurine, L-A-U-R-I-N-E. Certo, come poteva non chiamarsi allo stesso modo della donna più celebrata dalla letteratura italiana?[7] Tutto di lei emanava luce e diffondeva calore, tutto di lei rendeva ciechi e sordi, tutto di lei era astrazione, niente di lei era umano. Nemmeno i suoi movimenti sembravano appartenere ad una persona in carne ed ossa[8]: lenti, dosati, leggeri come le piume di un cuscino. Si voltò con una pacatezza estrema e finalmente, dopo un tempo per me infinito, riuscii a vedere i suoi occhi. Due sfere del colore del mare, con sprazzi di schiuma bianca e graffi grigi e blu. Sentivo di affogare dentro quei laghi profondi e pericolosi di cui non si conosceva il fondale. Mi vergognavo quasi a guardarla, non riuscivo a mantenere il contatto visivo per più di tre o quattro secondi… come se davanti a me, imponente e spietata ci fosse la Madonna, pronta ad giudicare i miei peccati. Quando Laurine era a meno di venti millimetri da me, mi sentii sfiorare le dita dai suoi guanti di seta lucente: la sua mano corse sul mio braccio e mi disse con la voce di un candore sovraumano: “Tu devi essere Fabrizio[9], il mio vicino, vero?”.

Dentro di me cadde il buio, mi trovavo in un tunnel nero senza uscita: la lingua sembrava anestetizzata, incollata al mio palato senza via di fuga, i miei occhi guardavano a terra impotenti ed incapaci di sollevarsi, il mio corpo era pietrificato, come quello di Botero là fuori, che ancora sbirciava nella bottega. Il mio respiro era cessato e fu solo quando le sue dita d’avorio fecero una leggera pressione sul mio gomito, solleticando il nervo, che riuscii a riprendere vita e colore. Alzai lo sguardo, con una lentezza pari alla sua e per un nano secondo credetti di cedere: le mie gambe tremavano e sentivo il mio battito sussurrarmi il suo pulsare nelle orecchie. Aprii la bocca impastata come sabbia e vomitai un pallido “Si, sono io”. Il suo sguardo si spalancò in un sorriso sincero e compiaciuto, e mi chiese se mi andasse di accompagnarla a casa visto che stringevo tra le mani il mio ombrello viola. Fuori scendevano a gara fiocchi di neve, grossi come batuffoli di cotone, io strinsi con sicurezza l’ombrello rotto e vecchio della nonna e le risposi con maggiore convinzione “SI”. Laurine si attaccò al mio braccio, lo strinse a sé e il mio cuore si fermò. Trattenni il fiato, varcai la porta d’ingresso e con le mani tremanti aprii quell’insieme di ferraglia e bulloni che troppe volte avevo provato (invano) a riparare. Parlò, o meglio cantò, per dei minuti infiniti: la sua voce mi cullava, mi trasportava sulle nubi, mi rendeva aria. Ricordo di essere sembrato un impedito, ma le mie parole erano incastrate lì, tra la gola e l’ugola, e nulla riusciva a superare il palato. Talvolta mi voltavo per qualche millesimo di secondo per osservarla e annuire alle sue affermazioni sulla Sorbone, sul cibo francese decisamente troppo grasso e “burroso”, sui ragazzi troppo precipitosi e sulle riviste di moda banali e fatiscenti. Arrivati davanti alla porta di casa, mi diede un bacio sulla guancia e io rimasi a fissarla impietrito come un vero imbecille. Non potevo credere a cosa mi fosse appena successo. Mi sentivo completamente travolto da una bufera di sensazioni formidabili, calde, eterne, vive. Lei mi sorrise e mi fece un cenno con la mano, al quale io risposi con una pallida smorfia di saluto. Entrai in casa e lasciai che finalmente le mie gambe potessero crollare in un dolce svenimento: restai sull’uscio, accasciato e sorridente per una decina di minuti, quando all’improvviso una voce acuta e debole ruppe l’incantesimo: “Hai trovato le medicine o come al solito bisogna aspettare di morire per ottenere un po’ di aiuto?”. Il mio stomaco divenne un groviglio d’odio e di nervi, mi sollevai con le gambe tremanti e raggiunsi il letto matrimoniale dove giaceva mia madre. “Ho dovuto accompagnare a casa Laurine, mamma. In farmacia non sono stato per più di dieci minuti” “E ora sarà chiusa, immagino. Questo è il tuo grazie per tutti gli anni trascorsi ad allevarti da sola? Per di più per correre dietro a quella megera maliziosa di Laurine. Stalle alla larga, Fabrizio, ti farà del male”. In quell’esatto momento guardai mia madre negli occhi e le dissi con fermezza e piena coscienza: “Spero vivamente questo sia il tuo ultimo inverno”. Silenzio. Non rispose, non aveva parole e forza per farlo: lasciò andare tutti i suoi muscoli e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Con il cuore stretto da mani fantasma, mi voltai e uscii a denti sigillati per camminare nel bosco, proprio dietro la casa del vecchio Tom.

Dopo circa un’ora che passeggiavo sentii una voce lontana che gridava il mio nome: Laurine correva come un cerbiatto tra il muschio e le cortecce degli alberi. Mi raggiunse e il mio cuore cupo tornò a sorridere. Parlai a braccetto per delle ore, mentre i fiocchi le cadevano sui boccoli e sulle ciglia, completamente assopito e avvolto in quel calore e in quella luce che emanava il suo corpo sinuoso e puro. Quando arrivammo al ruscello ghiacciato mi prese le mani per non scivolare e, dopo alcuni minuti, mi trascinò ridendo di gusto sulla lastra di vetro lucente. Rotolammo per terra in meno di dieci secondi, e fu in quel preciso momento, in cui Laurine si stese sopra di me, esausta dalla fatica e dalle risate, che mi guardò e mi baciò. Labbra contro labbra, l’eternità celeste che si scaglia su due giovani fatti di cenere. Sarebbe potuto durare per sempre quell’attimo, sarei morto tra le sue braccia, felice, senza paura del dopo, dell’inferno o del paradiso. Sereno.

Ci tirammo su in piedi e ci mettemmo a sedere sul tronco di una betulla recisa. Lì mi prese le mani e con sguardo sicuro, ed in parte subdolo, pronunciò queste parole: “Tu mi ami, vero? Me ne sono accorta dal primo istante, fate tutti la stessa faccia quando mi vedete, tra l’estasi e lo stupore”. La guardai, perso tra il suo canto di sirena e i suoi capelli in lotta coi raggi di sole. “Tu uccideresti qualcuno per me? Come tua madre? Sono sicura che per me strapperesti via il cuore malato di quel diavolo, per darlo ai miei cani”[10]. Posso giurare di aver visto nei suoi occhi una scintilla di follia, mentre quelle parole taglienti sgorgavano dalla sua bocca. Incapace di riflettere, posai il mio sguardo sulle sue mani che sfioravano il mio braccio e, stregato dalla creatura le risposi: “Io per te fare qualsiasi cosa.” Sogghignò e mi disse “Bravo, ora dimostramelo!”. Tornai a casa con passo svelto e sicuro, spalancai silenziosamente la porta e mi avvicinai al letto, dove mia madre dormiva, con il viso rivolto alla foto di papà sul comodino. Sembrava quasi sorridere, mentre le piantavo il coltello tra lo sterno e le costole. La uccisi con una violenza innata e compiaciuta, e ricordo che ridevo forte. Ridevo, perché allora Laurine mi avrebbe amato; ridevo, perché finalmente papà avrebbe avuto la sua vendetta; ridevo perché ora la mamma, in qualche modo, era libera. Il suo cuore malato, ora, era nelle mie mani, esausto e senza vita: poteva scappare in alto nel cielo, senza più quel peso fastidioso del “maledetto mostro”. Corsi come un pazzo da lei, che ancora mi aspettava dalla betulla: le porsi il cuore di mia madre con orgoglio, in attesa di un suo apprezzamento per il gesto compiuto. Invece, ciò che ricevetti fu un unico e sprezzante: “Disgustoso, Fabrizio. Come puoi anche solo pensare che un orrore simile possa dimostrarmi il tuo cieco amore per me?”.

Mi sentii morire e per il primo istante percepii il magone e il dolore per ciò che avevo commesso: uccidere la propria madre, un gesto avventato ed orribile per cui mai e poi mai mi sarei dato pace. Piansi, piansi e piansi. Mi gettai tra le braccia del mio angelo che dandomi una carezza sulla testa mi sussurrò nell’orecchio con una voce affilata: “Se vuoi convincermi dell’amore che provi per me e soprattutto se vuoi espiare il tuo grave peccato, c’è solo una cosa che devi fare”. Esitò un istante guardando a terra, poi sorrise e mi ipnotizzò con le sue perle celesti: “Tagliati. Le. Vene.”

Gelo. Una scossa di ghiaccio percorse ogni mia vertebra, arrivando fino alla mia nuca. Le chiesi se fosse davvero quello che volesse, se desiderasse vedermi morire in quel bosco, col cuore ormai grigio di mia madre, poggiato poco lontano da noi sulla neve. Laurine mi spostò una ciocca di capelli dalla fronte, mi baciò e con un ghigno crudele, mi disse: “Si”.

Sono passati pochi minuti da quella risposta, arida e violenta, ma nella mia testa sono trascorse delle ore intere. Una cascata di fuoco sta colando tra i miei organi, sento l’adrenalina sulla punta delle dita, la gola secca, le guance umide di lacrime e le gocce di sudore che fanno a gara sul mio collo. Mi volto e vedo inerme il cuore di mamma, quel cuore su cui per tanti anni, da bambino, mi sono appoggiato per sentirne il lento pulsare che mi cullava. Prendo il coltellino svizzero dalla tasca in alto del cappotto, mi accarezzo il polso con la lama e osservo innamorato il primo fiotto di sangue che disegna una riga sulla mia pelle cadaverica. Sento dolore, ma almeno ora Laurine sa che l’amo. La guardo, tremando dalla paura e, invece di vederla pregarmi di smetterla, la trovo seduta sulla betulla che ride a crepapelle. Lei e la sua vanità gioiscono fredde accanto al ruscello, come un pezzo di ghiaccio. Il mio sangue bagna e scioglie la neve, sotto di me, le mani cambiano colore e la creatura si fa sempre più lontana e sfocata. Ora sa che la amo, ora sa che voglio lei e che per lei farei di tutto. Chiudo gli occhi e mi addormento sentendo il suono sinistro della sua risata leggera. Sono felice, sorrido, mamma e papà mi tendono la mano.

BIBILIOGRAFIA

  • À la recherche du temps perdu – Du coté de chez Swann di Marcel Proust (1906-1922).
  • Hamlet di William Shakespeare (1599-1601).
  • Canzoniere di Petrarca (1335-1374): Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; Pace non trovo, et non ó da far guerra.
  • Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André (1966).

[1] La data fa riferimento, nelle ultime due cifre, alla morte della celebre amata di Francesco Petrarca, Laura, avvenuta il 6 aprile del 1348 ad Avignone.

[2] Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust (1906-1922).

[3] Il nome si riferisce al personaggio di Claudius, amante di Gertrude, nella tragedia Hamlet di Shakespeare (1599-1601).

[4] Il termine bestia viene utilizzato nell’Hamlet di Shakespeare (1599-1601) per indicare la madre Gertrude, che non sembra aver realmente sofferto per la morte del primo marito.

[5] Si fa riferimento al primo verso del sonetto di Petrarca Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Canzoniere, 1335-1374), quando vengono descritti i capelli della donna amata.

[6] Queste ultime tre frasi (espresse all’indicativo presente, perché ancora sentite nel momento in cui vengono raccontate) riprendono i primi versi petrarcheschi del sonetto Pace non trovo, et non ó da far guerra (Canzoniere, 1335-1374).

[7] Si intende Laura de Noves, donna colta, amata e celebrata da Francesco Petrarca.

[8] Si fa nuovamente riferimento al sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Canzoniere, 1335-1374), nei versi in cui viene descritto il movimento e l’andatura dell’amata.

[9] Fabrizio come Fabrizio de André, che sarà protagonista dell’ultima parte del racconto.

[10] Questa prova d’amore, proposta da Laurine, fa un chiaro riferimento alla Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André del 1966

Pagliaccio non son

Carlotta Petruccioli dopo essersi laureata al Conservatorio di Torino, aver fatto parte del Coro di Voci Bianche del Teatro Regio di Torino per più di dieci anni e aver partecipato a centinaia di rappresentazioni ha sviluppato una grande passione, al limite dell’ossessione, in realtà, per l’opera lirica e per la musica in generale. Avendo la possibilità di rileggere a fondo l’Hamlet di Shakespeare e di stenderne una riscrittura, non ha resistito e ha scelto di coniugare le sue due passioni (quella musicale e quella letteraria) in quella che vuole essere una nuova interpretazione della tragedia shakespeariana alla luce dell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.

Il lavoro è stato presentato nell’ambito del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Recitar! Mentre preso dal delirio| non so più quel che dico e quel che faccio!| Eppur è d’uopo…sforzati!| Bah! sei tu forse un uom?| Tu se’ Pagliaccio! (Canio, Atto I, Scena IV, n. 12a – Recitativo)”

*

Ogni cosa, nella vita, è accompagnata dal suono. Movimenti, respiri e pensieri sono accompagnati da suoni. I colori hanno un suono, i sapori anche.

Ogni cosa, nella vita, è accompagnata dal suono. È per questo che, quando l’illuminazione arrivò, era più che naturale che fosse portata ad Amleto da un suono. Se era stato il suono di un frutto caduto a far scendere i primi uomini dagli alberi, perché mai non avrebbe dovuto essere sempre un suono a spalancare gli occhi e la mente di un giovane, ricco e tormentato uomo di fine Ottocento?

Amleto aveva seguito di nascosto le prove per parecchi giorni. Aveva potuto vedere come l’uomo con i baffi più all’insù che avesse mai visto si fosse barcamenato tra cantanti e musicisti, sempre cercando di soddisfare tutti ed evitare di mandare all’aria la possibilità di mettere in scena la propria creazione.

Amleto, in realtà, tra le seggiole in velluto rosso si sentiva a casa. Ci era cresciuto, correndo, bambino, sul parquet lucidato da migliaia di eleganti passi di dame e gentiluomini. Eppure, ora si doveva nascondere, in casa propria, da chi gli aveva portato via tutto. Claudio, lo zio che una volta lo accompagnava a comprare mandorle caramellate da sgranocchiare assistendo alla magia dell’Opera, ora era diventato il suo incubo. Si sentiva solo, abbandonato da quelle che erano state le figure cardine della propria infanzia. Non che biasimasse il padre, naturalmente. Un tempo sì. Il pensiero aveva sfiorato la sua mente più volte, mentre le sue dita accarezzavano i pesanti tessuti di costumi di scena nello sgabuzzino della sartoria, costumi lasciati ad accumulare polvere. Forse il padre lo aveva abbandonato proprio come erano stati abbandonati l’abito di organza che sussurrava sensuali notturni al primo tocco e la marsina di velluto damascato che profumava di serenate e allemande. Questo prima che sentisse i muri del teatro ripetere un pettegolezzo: sembrava che il padrone, quello precedente, fosse stato ucciso. Da chi? Ovviamente da quello nuovo, il fratello, che dalla sua morte aveva guadagnato una sposa e una posizione.

E così Amleto si era trovato a odiare lo zio, a odiare la madre per non aver respinto le sue avances, a evitare gli amici. Si era rintanato nel teatro, quello che avrebbe dovuto essere suo, ma che suo non era più. Per questo aveva spiato la nuova opera da lontano, cogliendone qualche spezzone qui e qualche battuta là, talvolta senza scena, all’italiana, e talvolta con i cantanti vestiti metà con gli abiti preparati dalla sartoria e metà con i propri, con gli oggetti di scena ancora raffazzonati, in attesa di direttive definitive.

Non si era ancora fatto un’idea di questo nuovo titolo verista. I corridoi dei palchi, anzi no, erano stati quelli del foyer, gli avevano sussurrato che la trama si basava su un episodio vissuto in gioventù dal compositore. Amleto si era sentito vicino all’uomo baffuto: forse il mondo aveva lo stesso suono per loro. O forse no, forse i suoni erano tanti e tutti diversi, forse per questo Amleto non riusciva ad agire, mentre Ruggero ora stava per mettere in scena quello che, le seggiole del loggione ne erano sicure, sarebbe stato un successo. Forse Amleto non aveva ancora sentito il suono giusto, forse il mondo non aveva ancora vibrato alla frequenza perfetta.

Una sera, finalmente, Amleto poté vedere l’opera nella sua interezza. Questa volta non dovette nemmeno nascondersi, anzi. Lo zio, con il sorriso che una volta sembrava elegantemente disinteressato e ora appariva freddo e cinico, lo aveva invitato nel palco di famiglia, quello che sarebbe dovuto appartenere di diritto ad Amleto e per il quale, invece, ora aveva bisogno di un invito formale. La madre si era presentata ingioiellata, bella come sempre, ma Amleto non aveva potuto fare altro che osservare con disgusto la mano dello zio accarezzarle la spalla, spostando uno dei riccioli elegantemente acconciati che sfiorava il collo della donna. Amleto non riuscì a frenare la propria immaginazione, a impedirle di proiettare immagini oscene e suoni raccapriccianti, sovrapponendo i volti che ora, sorridenti, venivano accarezzati dalle luci soffuse della sala, alle immagini viste nei bordelli quando, con gli amici, aveva avuto le sue prime esperienze di uomo.

Amleto riconobbe subito il baritono, non appena si presentò sul palco. Non ne ricordava il nome. Una cosa colpì il giovane appoggiato alla balconata e leggermente sporto in avanti, come per non perdere nemmeno una sillaba: il cantante, vestito con un costume da commedia dell’arte, chiedeva al pubblico di tenere conto del fatto che quelle sulla scena fossero persone vere e proprie, non personaggi bidimensionali. Amleto sapeva che la vicenda aveva come protagonisti degli attori itineranti e si chiese se a parlare fosse il cantante, di cui non ricordava il nome, o Tonio, l’attore, o ancora Taddeo, lo storpio, lo scemo della commedia. Alla realtà, all’uomo che aveva visto trangugiare bestialmente i bicchieri d’acqua offerti dal personale del teatro durante le prove e che aveva visto sputare sul palco nonostante gli fosse stato chiesto più volte di non farlo, si aggiungevano non uno, ma ben due strati di finzione. Due maschere. Amleto si chiese quante ne indossasse lui, quante il pubblico. All’improvviso ne percepì il peso sul volto, ne avverti l’odore, ne senti quasi lo scricchiolio. Quando Canio, nonostante il cuore spezzato, ricordò a sé stesso di sorridere, di recitare, di non essere un uomo, ma Pagliaccio…Amleto sussultò. Lui non poteva essere un pagliaccio, non poteva sorridere davanti all’orrore e all’ingiustizia che ogni mattina, appena sveglio, gli si paravano davanti agli occhi. Non poteva vestire la giubba, infarinare la faccia e far ridere il pubblico.

Ma il suono giusto, la frequenza che portò la mente di Amleto a congegnare, per la prima volta, un vero e proprio piano per vendicare il padre e sé stesso, fu il rumore lacerante dello squarcio aperto da Canio nel velo tra finta realtà e vera finzione. L’urlo di dolore, la disperata richiesta di riconoscimento rivolta alla moglie.

«No, Pagliaccio non son; se il viso è pallido, è di vergogna e smania di vendetta!».

Canio aveva detto: “Il teatro e la vita non son la stessa cosa”, eppure ora il suo dolore dimostrava il contrario.

Amleto non poté far altro che perdersi nei propri pensieri. Era stato il teatro a rendere veramente consapevole Canio del tradimento della moglie. Era stata la finzione, quella vera in quanto esplicita, quella in cui vivevano Pagliaccio e Colombina, a portare la verità nel mondo della finta realtà, il mondo di Canio e Nedda. Amleto doveva seguire lo stesso percorso. Doveva fare sì che lo zio si tradisse, fargli ammettere l’orrendo delitto attraverso il teatro: doveva far mettere in scena un’opera. D’altra parte, non ci sarebbe stato nulla che avrebbe fatto sentire più a proprio agio Amleto del mondo dei suoni e delle parole. Doveva solo trovare il titolo perfetto, qualcosa che provocasse in Claudio una reazione talmente evidente da far crollare la maschera che aveva indossato, da rivelare il disgustoso volto al di sotto della raffinata opera di dissimulazione.

L’Artaserse di Metastasio.

Intrighi, lotte per il potere e un fratello assassino: Amleto sul momento non riuscì a pensare a nulla di meglio.

Quasi vide la consapevolezza farsi strada nella mente dello zio. Vide il volto dell’uomo impallidire, le mani chiudersi strettamente attorno ai braccioli della poltrona. Vide lo sguardo dell’impresario posarsi prima sulla moglie e poi sul nipote. Osservò il pugnale affondare nel petto dello zio, senti il suono dei tessuti lacerarsi. Come sempre, il suono. Le mani gli si tinsero di rosso, non aveva mai visto un colore tanto brillante, tanto vitale e tintinnante. Senti le proprie ginocchia piegarsi, il tonfo del proprio corpo sul pavimento in legno.

«La commedia è finita».

BIBLIOGRAFIA:

Testi primari:

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci, Edizione critica a cura di Giacomo Zani, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano, consultato online il 02/01/2024 al link:

https://www.teatroregio.torino.it/sites/default/files/uploads/inline-files/20210807%20-

%20Pagliacci%20-%20Libretto.pdf

William Shakespeare, Hamlet in Tutte le opere, Vol. 1: Le tragedie, Edizione critica a cura di Franco Marenco, Bompiani, Milano, 2015

Testi critici:

Bernhard Kuhn, “Il teatro e la vita non son la stessa cosa?” Self Refereces and Their Cultural Context in Leoncavallo’s “Pagliacci” in Italica, Vol. 94, No. 1, pp. 31-51, Indiana University, Bloomington, USA, 2017

John Wright, “La commedia è finite”: An Examination of Leoncavallo’s Pagliacci in Italica, Vol. 55, No. 2, pp.167-178, Indiana University, Bloomington, USA, 1978

Ruggero Leoncavallo, How I wrote “Pagliacci” in The North American Review, Vol. 175, No. 552, pp, 652-654, University of Northern Iowa, Cedar Falls, USA, 1902

L’assedio

Questa riscrittura di Camilla Cattunar mira ad una rappresentazione concreta dell’interiorità di Petrarca attraverso l’impiego di personificazioni ispirate dal romanzo cavalleresco, facendo leva sul lessico bellico con cui l’autore caratterizza alcuni dei componimenti del suo Canzoniere, nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Ci troviamo nel profondo del cuore di un autore cardine nella storia della letteratura, qui egli non è solo, abbiamo modo di conoscere ciò che lo caratterizza, i suoi valori e la sua debolezza più grande. Viviamo con lui il suo dissidio, non più solo interiore ma reale, per quanto una riscrittura che si spinge fino al cuore di un uomo possa esserlo.”

*

Quella che sto per raccontarvi è la storia di un assedio, un lungo assedio durato decenni ma vinto grazie ad un sol gesto, che senza fatica sbaragliò ogni difesa, anche la più salda e sicura. L’oggetto della contesa fu un semplice ragazzino, ormai cresciuto, nascosto da tempo nella fortezza della sua interiorità. A difenderlo diversi cavalieri di grande esperienza e valore, addestrati dal più potente dei comandanti: la Fede in Dio. Tra loro presenziano Occhi, Cuore, Virtù e Ragione[1], gentiluomini fedeli, paladini difensori di quest’uomo che nulla può all’attacco del più potente dei rivali, Amore, la cui unica mira, a suo dire, è quella di distoglierlo dal raggiungimento della santità, dalla devozione a Colui solo che la merita, Dio.

Il protagonista è un uomo che presto nella sua vita ha intrapreso un’aspra via: rifugiarsi dall’Amore ch’egli considera maligno, costruendo una roccaforte imponente, dotata di sei torri almeno, numerosissime finestre, grandi abbastanza perché la luce del giorno possa raggiungere ogni sala ma non a sufficienza perché occhi indiscreti riescano ad osservare che cosa accade tra le sue mura. Ha diverse camere da letto, la fortezza, una grande biblioteca dove l’inquilino usa scrivere di sé e un giardino con diversi alberi da frutto e un ruscello, raramente frequentato per semplici ragioni, è di un assedio che parliamo. Il ragazzo ci vive da solo, ci cresce da solo, i suoi servitori non parlano e sempre più spesso si trovano ad affrontare gli attacchi di Amore, che imperterrito con la sua determinazione e i suoi dardi scandaglia il perimetro di quelle altissime mura, osserva i cavalieri, nell’attesa di trovare una breccia, fragilità, mollezza o difetto. Attende con pazienza il punto e il momento giusto per colpire, e poi attacca. Non è parsimonioso, non teme di sprecare i suoi dardi, al contrario è convinto, colpo dopo colpo, di ottenere il successo. Ma la rocca resiste. Nessun segno di cedimento, il giovane adulto che ci abita non esce allo scoperto e chi lo difende è competente e combatte valorosamente. Non è facile infastidire Amore, egli sa di non esser malvagio, in pochi hanno osato avere tale considerazione di lui, ma la situazione ristagna da troppo tempo ormai, come osa costui respingerlo con tanta violenza? Allora s’infuria, ripensa ad Apollo, sente quello stesso desiderio di vendetta ardergli dentro. Dubitare della mia forza? Pensare di essere più potente? Prendersi gioco di me con tale leggerezza? Non avete capito con chi avete a che fare. Dunque, ecco incominciare l’azione.

Mentre il ragazzo trascorre i suoi giorni come d’uso, l’irato arciere, anche abile stregone, escogita un piano per dimostrare la propria superiorità: per sua mano una donna apparirà in sogno all’uomo, talmente bella ch’egli alla sola apparizione rimarrà rapito, sarà il giusto diversivo per sconfiggere i suoi cavalieri e finalmente vendicarsi. Non resta che aspettare la notte.

È il 5 aprile 1327 e l’uomo dopo una giornata tranquilla s’addormenta. Cade in un sonno profondo e si risveglia in un prato agli albori di un giorno nuovo, il cielo è terso e c’è odore di rugiada. Inizia a camminare ma s’ arresta di colpo: davanti a lui una donna gli dà le spalle, ora si volta appena, forse attirata dal rumore, lo guarda di sfuggita e poi inizia a camminare leggera in quella distesa d’erba verde. L’uomo è rapito. Costei ha capelli dorati, splendenti alla luce del sole e un abito turchese svolazzante che lo inducono a dubitare della sua natura. Umana o divina? Qualunque sia la risposta, nessuno potrebbe far altrimenti se non seguirla.[2]

Intanto al castello Amore agisce indisturbato, questa volta Cuore non ha nemmeno il tempo di accorgersi del pericolo, ecco un dardo conficcarsi in una piega della sua armatura e subito dopo un altro penetrarla all’altezza del petto, spostato a sinistra di poco rispetto al perfetto centro. Occhi invece assume un comportamento del tutto inaspettato, che i suoi compari Virtù e Ragione trovano spregevole. Per qualche assurda ragione il cavaliere si avvicina allo stregone, pregandolo di ascoltare le sue parole: “Accetta la mia sottomissione a te, fin ora non conoscevo la ragione profonda delle mie azioni, grazie a te ho trovato uno scopo. Contemplare tanta bellezza. È questo ciò per cui sono nato”. Ecco che il combattimento si bilancia. Ragione, da sempre il più risoluto e potente di tutti si scaglia incollerito verso Amore, deciso a farla finita una volta per tutte. Occhi si affretta a difenderlo ma Virtù, pronta e scaltra lo blocca prima che riesca a sfiorare Ragione. Così i due, che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente si assalgono ma così simili nell’addestramento non hanno la capacità, forse nemmeno l’intima volontà, di prevalere sull’altro. Si trafiggono vicendevolmente e rimangono agonizzanti quanto increduli, supini nel vasto giardino del forte a contemplare l’aurora. Contemporaneamente Ragione si accorge, con suo grandissimo disgusto, di non avere alcun mezzo per ferire Amore, la spada non ha effetto, si piega come ferro bollente maneggiato da un maniscalco, e nello scontro fisico si scopre un agnellino di fronte al più possente dei leoni. Non resta che la fuga. Ragione si precipita all’interno, cerca il ragazzo, per avvisarlo del pericolo. Amore non si disturba nemmeno ad inseguire il cavaliere impaurito, il suo piano si è realizzato, la sua vendetta è conclusa, ha dimostrato che nessuno può rifuggirgli per tutta la vita, nemmeno un uomo con il suo esercito. Da quel momento, infatti, il suo cuore è gravemente ferito, il suo sguardo rapito, la sua virtù troppo debole per permettergli di agire nei confini di ciò che lui reputa giusto; cerca rifugio e forza nella ragione, che sola non ha potere alcuno davanti alla grandezza dell’Amore. Il ragazzo è rimasto solo, nella sua maestosa fortezza ormai espugnata. Un pensiero sconnesso gli si presenta alla mente, “forse non mi sarei dovuto nascondere”. “Ma di cosa ti convinci? – si risponde immediatamente – non senti il dolore che ti ha procurato?”.


[1] I cavalieri fanno riferimento a rispettivamente a occhi, cor, virtute ed al poggio faticoso et alto protagonisti dell’assalto di Amor nel sonetto 2 del Rerum Vulgarium Fragmenta.

[2] Il sogno si ispira al sonetto 190 del Rerum Vulgarium Fragmenta.

Amore, scintilla, grigiore

Nella seguente riscrittura, il rapporto tra vita e arte sembra indissolubile e la letteratura non trascurabile. Ripercorrendo tematiche presenti in alcuni sonetti di Petrarca, Michelangelo, P. de Ronsard e Shakespeare, argomento del corso di Letterature Comparate B della Professoressa Lombardi, gli stessi autori e temi vengono attualizzati con spunti maturati soprattutto in una certa letteratura dello scorso secolo, lasciando quasi l’inestricabile certezza che lo spirito vitale non possa sopravvivere in un mondo eternamente grigio e con rigide forme prestabilite che regolano la scansione quotidiana della vita umana.

Il lavoro è stato presentato da Federico Cabodi per il corso di Letterature Comparate B, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Nell’importuna nebbia, la monotonia sembra impedire di risvegliare un amore per la vita ormai sopito da anni. Calati in una realtà distopica dal sapore malinconico, arte e amore si intrecciano nel tentativo di sconfiggere la morte, l’appassimento dell’anima causato dal tempo”.

*

A nonno

Nell’importuna nebbia, la monotonia sembra impedire di risvegliare un amore per la vita ormai sopito da anni. Calati in una realtà distopica dal sapore malinconico, arte e amore si intrecciano nel tentativo di sconfiggere la morte, l’appassimento dell’anima causato dal tempo.

Margherita camminava per una via di porfido antracite. Ormai madre e moglie, appena uscita dal suo ripetitivo ufficio, era stata travolta dalle preoccupazioni delle faccende e degli impegni da rispettare, la maggior parte neanche suoi, ma degli altri componenti della famiglia. Non pensava ad altro. Il suo passo, intanto, si faceva più veloce: arrivare in ritardo non era previsto, la sua giornata era stata pensata e organizzata nei minimi dettagli, incastrata in modo tale che un ritardo non fosse possibile; perfino eventuali imprevisti   erano programmati.

Tra il grigiore cittadino, forse quella nuvola che ora passava sopra i tetti, invece che ottenebrare, offuscare e schermare i pensieri, schiarì per un attimo la sua mente. In quel barlume istantaneo le tornò alla mente ciò che in gioventù nei banchi di scuola tanto l’aveva rapita. In un lasso impercettibile di tempo, il cuore, o forse l’anima, o forse l’amore le avevano schiuso e smosso lo scrigno che non ricordava, ma in realtà non sapeva neanche più, di possedere.

Il pensiero per quel secondo si volse ad alcuni poeti che, lei era solita dire all’epoca, l’avevano elevata, o avevano ai tempi quantomeno la capacità di farlo per qualche minuto; quando l’idea era forte, può darsi che il gelo del cuore si sfacesse persino per qualche ora e lei vivesse addirittura una giornata governata dal tepore congiunto di mente e cuore.

In particolare, quella nuvola le aveva forse fatto tornare in mente un sonetto, ormai sepolto e stratificato nella sua mente, di Petrarca in cui il poeta vagava, chissà, magari circondato da tonalità cromatiche simili a quelle che circondavano Margherita in quel momento.

Solo questo, in quel secondo. Dopo tanti anni, il suo cuore, la sua anima, il suo ‘dentro’ si erano ribellati all’assordante grigio che stava al timone della sua vit… un altro lampo, un altro sussulto del cuore, a cui però Margherita non riuscì a dare seguito né ascolto e che scivolò via per sempre. La ragione aveva riconquistato il suo trono da cui era stata spodestata per un istante.

Tuttavia, la ragione è abituata a procedere per collegamenti logici, talvolta infiniti. Perciò, nonostante l’estraniazione fosse durata un battito di ciglia, il suo cervello continuò a processare pensieri che riaffioravano dal subconscio, senza che lei nemmeno se ne accorgesse.

Questo le portò, a detta sua, un inspiegabile malumore; semplicemente un piccolo scompenso che la accompagnò per tutto il giorno: fin da subito, mentre continuava a camminare per quella via, ma anche dopo, quando stava accompagnando suo figlio al corso  di teatro, o quando, la sera, stava ascoltando suo marito parlare del lavoro e dei problemi che dovevano superare per riuscire a chiudere un accordo con una grande società. L’umore scompensato di quel giorno si spense dopo che chiuse gli occhi per dormire, nonostante, nel letto, una sorta di disappunto avesse continuato a covare in lei, anche quando stava leggendo un libro sui ruoli e comportamenti giusti da adottare in famiglia e al lavoro. La sensazione era particolare: come se qualcosa dentro di lei non combaciasse.

La mattina seguente Margherita si svegliò, e normalmente andò in cucina a preparare la colazione e a consultare l’agenda che elencava, anzi dettava e scandiva la sua giornata, che la prestava anche a faccende di cui lei non era la protagonista, ma che lei sentiva terribilmente sue. Poco importava, anzi proprio niente: il suo pensiero ormai non si soffermava più su quello, … o forse non ci si era mai soffermato, cioè che fossero pressoché identiche a quelle del giorno prima… e forse anche a quelle del giorno dopo.

Con un saluto distratto indirizzato al marito, chiuse la porta di casa. Ore 8 entrata di suo figlio Simone a scuola, ore 8.30 ufficio, lavoro.

Gianluca un giorno, quasi allo stesso modo, era in macchina, fermo a un semaforo, ai confini di una città, quella in cui lavorava da quindici, o forse sedici, anni.

Nella sua costosa macchina con il cambio automatico, frutto e compenso del suo ininterrotto lavoro di anni e anni, stava lasciando la città e imboccando l’autostrada per tornare a casa. Viveva in un paesino in provincia, può darsi che fosse stata una giovanile scelta di vita, in opposizione al trambusto cittadino, ma in quel momento probabilmente non se lo ricordava neanche più; il pensiero automatizzato l’aveva quasi sicuramente portato a pensare che viveva lì perché ci vivevano i genitori, che gli avevano destinato una piacevole villetta di fianco alla loro. Il grigio, visibile dal tettuccio della macchina, stava cedendo il passo a un colore più scuro, ma ugualmente cupo. Ormai il pomeriggio era alla fine e il crepuscolo non lasciava spazio a luci e colori, ma si chiudeva in se stesso, filtrando le tonalità scure attraverso le nuvole.

L’autoradio, automaticamente incorporata alla macchina, era sempre accesa. In realtà però Gianluca non era solito ascoltarla, come un flusso continuo le canzoni passavano ma rimanevano echi inascoltati. Piuttosto, lui era sempre abituato a essere immerso nei pensieri del lavoro, e nel viaggio d’andata e nel viaggio di ritorno, indistintamente.

I problemi erano infiniti, dall’adottare la strategia più convincente all’allargare il numero di clienti, dal rapporto di subordinazione e accondiscendenza nei confronti del capo alle scartoffie ancora da sbrigare.

Assorto tra questi pensieri, che costituivano l’assoluta priorità nella sua vita, alla radio attaccò una canzone. Bastarono le prime due note, non cantate, solo suonate, perché a Gianluca cadesse il mondo addosso. Casualmente in quel secondo le sue assillanti preoccupazioni avevano lasciato uno spiraglio alla musica. La sordità e l’immunità alle melodie erano cessate. Silenzio. Anche i pensieri si fermarono. Si insinuava in lui in quei secondi uno stato di profonda inquietudine, per lui inspiegabile.

Questo, apparentemente, travolgente sentimento fu quasi immediatamente stroncato dalla quotidianità, che tornò staticamente inamovibile e schiacciante. Tornò al pensiero di come sarebbe stata la sua giornata di lavoro all’indomani e di cosa avrebbe dovuto fare.

La canzone continuò come una semplice vecchia canzone che non sentiva da molto tempo, con un po’ di malinconia però.

Il pensiero continuo, come un filo rosso, si instillò anche in lui, anche quando la canzone finì e la trasmissione proseguì indifferentemente.

Gianluca, però, era solo, una famiglia non ce l’aveva, per ora quantomeno, anche se l’età non era più giovanissima; pertanto, a parte cosa dovesse prepararsi per cena, – le ansie del lavoro ovviamente erano immancabili e lo assillavano senza lasciarlo quasi mai per davvero- non aveva particolari urgenze.

Dunque, arrivato a casa, si accomodò sul divano e il cuore ebbe la meglio, riuscì a dar ascolto e far emergere quella controversa sensazione che aveva provato all’inizio della canzone. Le angosce del lavoro volarono via e Gianluca iniziò a indagare più a fondo come e perché quella banale canzone gli avesse scaturito un tale vorticoso vuoto dentro di sé per un istante.

Il cervello percorse a ritroso per diversi minuti la sua vita fino a giungere, fermarsi e cristallizzarsi alla sua gioventù liceale. In un baleno gli tornò alla mente un giorno, ormai completamente dimenticato e sopraffatto dalla sua quotidianità attuale, del quarto anno di liceo in cui, mentre lui e una sua vecchia compagna di classe, forse una fiamma dell’epoca, abbagliati e ricoperti dal fascino della letteratura affrontata in classe, tornavano a casa sul tram per studiare insieme Petrarca nel pomeriggio, a un signore seduto vicino a loro si accese per sbaglio la radiolina, che stava trasmettendo proprio quella canzone che ora Gianluca sapeva di aver riconosciuto prima in macchina.

Una profonda tristezza lo assalì, rimase immobile senza sapere che cosa fare. Tutta la sua giovinezza ma soprattutto le emozioni che aveva provato in quegli attimi di ormai tanti anni prima lo attraversarono e lo baciarono con un brivido che lo trapassò per tutto il corpo.

Tutto sommato però, l’appetito non si sfama né con bei pensieri né tantomeno con la nostalgia pertanto, dopo quegli intensissimi momenti, Gianluca si alzò e andò a cenare, con la televisione accesa di fronte a lui che, quantomeno, gli faceva un po’ di compagnia.

La giornata era stata lunga e molto stancante, il lavoro gli aveva prosciugato non solo tutta l’energia fisica, ma anche quella mentale, tanto da non avere più la forza di riflettere.

La sicurezza del suo lavoro, tuttavia, gli consegnava una particolare tranquillità sul fatto che prima o poi si sarebbe concesso una bella vacanza rilassante, quindi non lo preoccupava più di tanto questa sua insofferenza nel riuscire a vivere a pieno la sua interiorità.

Conclusasi la breve serata, si diresse verso la camera da letto e si addormentò immediatamente: un’altra giornata di lavoro lo attendeva.

Così, la mattina seguente si alzò, si preparò per andare a lavoro, vestendosi con un bel completo nero, e salì nella sua spaziosa macchina, diretto verso l’azienda.

Qualche settimana, o forse anche qualche mese, dopo, un’amica -una collega- di Margherita le aveva proposto di andare a teatro una sera, per svagarsi e fare qualche cosa di diverso.

Dopo qualche incertezza, Margherita accettò. In fondo si trattava di Shakespeare, uno dei suoi poeti preferiti, almeno a scuola. Non si trattava poi di una semplice rappresentazione

di uno dei suoi drammi, ma era una novità, una sorta di intreccio tra la trama portante della tragedia e alcuni famosi sonetti, che ben si abbinavano ad alcune riflessioni del poeta.

Arrivarono a teatro. Cercarono il loro posto numerato. Si sedettero.

Mentre si stavano sistemando, arrivò un uomo che aveva il posto vicino a quello di Margherita.

Il sipario si aprì, lo spettacolo cominciò. Imprigionati in quella grande sala, era impossibile per loro fuggire i pensieri, dissimulare la realtà e non guardare in faccia la verità. Il dramma proseguiva, ma gli inserti dei sonetti erano continui e non lasciavano scampo. In particolare, ciò che emergeva era la disperata volontà di Shakespeare di non finire nel nulla, ma nel cogliere l’attimo, non sprecare il tempo devastatore della vita e accogliere e valorizzare la bellezza.

La rosa della bellezza non fa in tempo a sbocciare definitivamente che sfiorisce; così la vita stava scivolando via nelle lacrime sul volto di Margherita; il suo intelletto raziocinante non era più riuscito a bloccare sistematicamente il flusso di coscienza come in quel pomeriggio di qualche tempo prima. L’anima si schiuse e i pensieri di allora si riallacciarono a quelli che, nell’epifania di quel giorno, erano stati solo accenni, tracce di un cuore che da tempo stava pulsando sempre più forte per emergere.

I pensieri continuavano a sopraggiungere uno dopo l’altro e nel frattempo la consapevolezza di sé cresceva, fino a diventare insopportabile e insormontabile.

In quell’istante, con un gesto istintivo, come per voler distogliere l’attenzione da quello spettacolo che la stava letteralmente travolgendo e attenuare la tensione, si girò, smettendo per un attimo di guardare il palcoscenico, dirigendo lo sguardo verso destra, dove era seduto l’uomo che aveva notato prima.

Lo guardò, lui se ne accorse e fece lo stesso e, non appena Margherita vide le stesse lacrime anche sul suo volto, i due si riconobbero a vicenda: quell’uomo era Gianluca.

Forse questa messinscena aveva toccato quelle loro corde che, ai tempi del liceo, vibravano all’unisono nei momenti così densi di pathos, indubbiamente aveva risvegliato i loro sensi assuefatti. Gianluca e Margherita continuarono a guardarsi negli occhi e in quel frammento, con un’espressione di struggimento unita a un sorriso accennato, compresero che, ognun per sé, non erano riusciti a dar forma alla propria vita, proprio come Michelangelo, in uno dei suoi sonetti, temeva di non riuscire a dar la giusta forma al marmo.

Festival del Classico – Oriente / Occidente

Torino | 30 novembre – 3 dicembre

Al seguente link il programma del festival: Programma sfogliabile | Festival del classico

Programma convegno “Poteri della lettura. Pratiche, immagini, supporti”

è uscito il programma del convegno annuale dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura (Compalit) che si svolgerà presso l’Università degli Studi di Padova dal 14 al 16 Dicembre 2023.

Per vedere il programma delle plenarie e delle parallele, visitare il link: Compalit » Poteri della lettura. Pratiche, immagini, supporti

FOYER SHAKESPEARE – Primo incontro sul ‘first-folio’, 10/10/2023, h 10:00, aula 39, Palazzo nuovo

Primo evento del ciclo di incontri di ‘Foyer Shakespeare’, il progetto pensato dagli studenti triennali dei corsi di laurea in lettere e letterature comparate dell’Università degli Studi di Torino, per avvicinare giovani studiose e giovani studiosi alla lettura, la ricezione e la traduzione dell’opera di Shakespeare.

Il primo incontro, dedicato al first-folio, vedrà l’intervento dei Prof. Franco Marenco, Alessandra Petrina e Rocco Coronato in dialogo con il regista Silvio Peroni.

Il blog degli studenti di Culture e Letterature Comparate di Torino