Via Massena – laboratorio

Citato in
Stagno, SP, I: 1000

Passo
Nonostante il parere d’Emilio, fu subito chiaro che le nostre forze non sarebbero bastate. Ci fu doloroso armolare una coppia di carpentieri, a cui Emilio prescrisse di costruire un’attrezzatura adatta a sradicare la cappa dai suoi ancoraggi senza smembrarla: questa cappa era insomma un simbolo, l’insegna di una professione e di una condizione, anzi di un’arte, e avrebbe dovuto essere depositata nel cortile intatta e nella sua interezza, per ritrovare nuova vita e utilità in un futuro per ora non precisato.
Fu costruita un’impalcatura, montato un paranco, tese funi di guida. Mentre Emilio ed io assistevamo dal cortile alla funerea cerimonia, la cappa uscì solenne dalla finestra, si librò ponderosa, si stagliò contro il cielo grigio di via Massena, venne abilmente agganciata alla catena del paranco, e la catena gemette e si spezzò. La cappa piombò per quattro piani ai nostri piedi, e si ridusse in schegge di legno e vetro; odorava ancora di eugenolo e d’acido piruvico, e con lei si ridusse in schegge ogni nostra volontà ed ardimento d’intraprendere.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2272509123033864/

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni), più in particolare al momento finale del suo smembramento, quando si deve trasportare via la simbolica cappa, «insegna di una professione e di una condizione, anzi di un’arte» (Stagno, SP, I: 998): si trattava, come leggiamo poche pagine prima, di una «grande cappa d’aspirazione di legno e vetro, nostro orgoglio e nostro unico presidio contro la morte per gas», e avrebbe dovuto essere conservata per il futuro.

Al contrario, però, durante lo smontaggio (il «compito più straziante», Stagno, SP, I: 1000) subisce un incidente fatale, che pregiudica l’umore dello smantellamento, quasi un rito di passaggio. La cappa era infatti uno dei primi e più importanti strumenti dei due chimici alle prime armi: uno degli acquisti fondamentali per la prima esperienza lavorativa che i due decidono di mettere su per far fronte alla penuria del Dopoguerra; ci troviamo cronologicamente sul finire degli anni Quaranta, quando Levi è già sposato e vive molte delle avventure raccontate nel resoconto della sua carriera di chimico-militante.

Di tutta le vicende ricordate e narrate nel Sistema periodico, questo è certo uno degli accadimenti più simbolici e sinistri: è l’episodio conclusivo del capitolo, l’ultima scheggia di memoria che chiude la catena dei ricordi legata all’elemento chimico dello stagno, così rappresentativo della carriera dei due giovani, che avevano ritagliato il proprio luogo di lavoro dalla casa dei genitori di Emilio, arrangiandosi alla meglio e trasfigurandone i locali secondo bisogno: «l’anticamera era un deposito di damigiane d’acido cloridrico concentrato, il fornello di cucina (fuori delle ore dei pasti) serviva a concentrare il cloruro stannoso in becher e beute da sei litri, e l’intero alloggio era invaso dai nostri fumi» (Stagno, SP, I: 997).

Vale la pena, per capire l’importanza dell’elemento e dunque della cappa in frantumi, ricordare le prime righe di questo racconto, che contiene una delle più lucide prese di coscienza (certo scritte dal Levi maturo, ma molto probabilmente rimuginate dalla sua stessa persona là e allora): «Vola, adesso: volevi essere libero e sei libero, volevi fare il chimico e fai il chimico. Orsù, grufola tra veleni, rossetti e stereo pollino; granula lo stagno, versa acido cloridrico, concentra, travasa e cristallizza, se non vuoi patire la fame, e la fame la conosci. Compera stagno e vendi cloruro stannoso» (Stagno, SP, I: 996). È un incoraggiamento retrospettivo che tocca i punti principali del rapporto di Levi con la chimica (e con le lezioni imparate nel praticarla), quali ad esempio il confronto diretto con la materia, la sua trasmutazione alla pari degli antichi e primigeni alchimisti, la caccia al guadagno per sopravvivere, il provvedere e il farsi da sé, l’arte di arrangiarsi, il dover rispondere in prima persona agli errori. Il racconto appassionato delle loro imprese testimonia oggi come la mansione fosse divertente per Levi, forse amara, ma certo più stimolante e coinvolgente del lavoro in fabbrica: per questo l’andare in mille pezzi della cappa è un suggello perfetto della vicenda, quasi un rito funerario della loro impresa. Sotto le sue ali i due giovani erano cresciuti, avevano segnato i loro primi veri guadagni, messo in pratica gli insegnamenti dell’apprendistato, trasmutato gli elementi e compreso la filosofia di quella chimica magistra vitae, appiedata e a misura d’uomo, quotidiana e piena di sfide e misteri.

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