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Su Medea e l’immortalità

Sofia Crea, in questa composizione, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022, riscrive il dialogo del Simposio tra Socrate e Diotima sul desiderio di immortalità degli uomini, portando a esempio la storia di Medea.

“E appunto in questa maniera ogni cosa mortale si mette in salvo, ossia non già con l’essere sempre in tutto il medesimo, come ciò che è divino, ma con il lasciare in luogo di quello che se ne va o che invecchia, qualcos’altro che è giovane e simile a lui”.
(PLATONE, Simposio, 207 E – 208 C)

*

SOCRATE       Ma quindi, o Diotima, tu sostieni che nella ricerca degli uomini di essere immortali, la generazione possa, in parte, assolvere a tale spinta?

DIOTIMA       Certamente. La brama dell’immortalità è insita nella natura mortale, e per soddisfare tale desiderio l’uomo fa in modo di lasciare dopo di sé un altro essere che gli somigli, affinché possa mettersi in salvo.

SOCRATE       Solo così è possibile che ciò avvenga? La gloria conferita dalla memoria viene realizzata solo tramite il partorire, come dicesti tu, di nuovi esseri, per coloro la cui fecondità risiede nel corpo, o di saggezza e virtù, per i gravidi nell’anima? Non altre possibili soluzioni vengono offerte all’uomo?

DIOTIMA      Forse tu non credi che ciò non sia abbastanza? Non è forse vero che padri anziani abbiano fatto affidamento sui figlioli più giovani e robusti di loro per la sopravvivenza della dinastia? Non hanno forse, grandi poeti, lasciato ai posteri le opere frutto dei loro anni migliori acciocché queste vivano per sempre nella mente di coloro che le leggono? Non hanno forse recato vanto alla poetessa di Lesbo i suoi versi, lei a cui la bellezza non è stata data, ma il cui nome è da tutti conosciuto per le sue parole? Non ti sembra vero tutto quanto da me detto?

SOCRATE       Assolutamente.

DIOTIMA       Riconosci, allora, o Socrate, che quanto mi hai chiesto non sia già sufficiente? Hai detto bene che concordi con me ma vedo in te la scintilla del dubbio. Codesta scintilla io voglio spegnere perché tu ti senta fermamente convinto che ciò che ho detto non sia altro che la Verità.

SOCRATE       [A parte] E avendo parlato la straniera di Mantinea si fermò un attimo, come a voler raccogliere i propri pensieri.

DIOTIMA      Due sono le cose che ho intenzione di portare alla tua attenzione, o Socrate, e spero che queste ti persuadano. Come già affermato da me, agli uomini è concesso di mantenere vivo il loro ricordo per mezzo della generazione. Si prenda ora il primo caso, quello dato dalla fecondità nel corpo, e a dimostrazione di quanto detto porterò l’esempio della figlia di Eete, re della Colchide, che concesse i suoi favori a Giasone e dalla loro unione due figli furono generati. A tutti è noto il triste destino di Medea, lasciata dall’amato, il quale nessuno scrupolo si fece nell’abbandonare la moglie e i figli per sposare la figlia di Creonte. Quale altro mezzo aveva, l’innamorata, per far pagare all’ignobile ingrato la colpa commessa, lei che aveva tradito il padre e abbandonato la patria per seguirlo? Bastarono forse le terribili minacce? Di certo, la rabbia e passione tradita non furono placati solo con lo sfogo verbale, o questo è ciò che credi, o sapiente Socrate?

SOCRATE       Non lo credo.

DIOTIMA       Fai bene, perché questo non è ciò che accadde. L’amore della fanciulla, così come ardeva di desiderio per Giasone quando questi con lei rimase, di furore bruciava al momento dell’abbandono; scacciata dal palazzo di Esone e esiliata, a lungo si tormentò la povera infelice, divisa dalla passione che ancora nutriva per l’infedele e il desiderio di vendetta. A lungo maledisse la sua bocca menzognera, struggendosi giorno e notte. A quale gesto estremo arrivò, dunque, la povera scellerata? Si limitò all’uccisione di colei che aveva profanato il suo talamo? O andò oltre? A dimostrazione di quanto detto da me precedentemente, la giovane donna, guardando i figli, rivedeva nei loro volti la somiglianza con l’uomo tanto odiato. Nei due fanciulli Giasone aveva lasciato una parte di sé e la furia che ormai dominava la madre era tale da farle dimenticare l’affetto che provava per i due innocenti, colpevoli solo di essere nati da un padre tanto vile. Dominata dalla passione, e dopo un lungo conflitto interiore, la fanciulla di un crimine tremendo si macchiò: l’uccisione dei giovani figli.

SOCRATE       Credevo che tale delitto fosse rivolto alla privazione del padre dei suoi figlioli; non li ha forse uccisi per minare l’affetto paterno?

DIOTIMA      A quale fine? O Socrate, tu dimentichi ciò che io prima precisai. Il giovane non solo la moglie abbandonò, ma con essa anche la propria prole. Dell’amore di un genitore affettuoso tu parli? No, non di questo si trattò. Come potrebbe averne sofferto colui che per primo rese orfani i due fanciulli? Orfani di padre, giacché abbandonarli non è forse uguale ad averli lasciati se fosse morto? Uguale no, perché quello che fece fu peggio: non per causa superiore a lui se ne separò, ma per sua volontà. E non fu sempre lui che spinse, con la sua crudele dipartita, la moglie folle di dolore al culmine della vendetta? Non fu anche la sua mano di traditore a compiere, complice, ciò che ogni genitore dovrebbe rifuggire? No. Non per questo fine il misfatto venne compiuto. La figlia di Eete pensava a ben altro motivo quando premeditò l’infanticidio: non all’affetto paterno mirava, quanto alla brama di immortalità che domina ogni mortale. Uccidendogli l’unica prole, non solo si slegava dal comune possesso che la legava al perfido marito, possesso che era stato frutto di lieto tempo per lei ormai passato, ma si assicurava che questi non avesse più una discendenza. Sicché, quando escogitava la vendetta che più dolore avrebbe arrecato a colui che era colpevole della sua sofferenza, non pensò di porre fine alla vita dell’ingrato, consapevole che più danno gli avrebbe procurato se fosse morto senza la consolazione di una dinastia che ne avrebbe portato avanti la memoria.

SOCRATE       Codesto il movente? Questa la fiamma che animò la sua follia? Certamente ciò che dici è il Vero, o donna di Mantinea, ma non sono del tutto persuaso. Non dicesti che due erano le cose che volevi porre dinnanzi alla mia diffidenza?

DIOTIMA      E’ così, o Socrate. Ma devi lasciarmi il tempo di creare un discorso che tale si possa chiamare, e per fare ciò ho bisogno di riorganizzare le mie idee. Per suffragare quanto da me detto, affinché possa convincere e liberare te dal demone del dubbio, la mia orazione deve essere tanto completa quanto ben strutturata. Ora, ero rimasta alla fine della possibilità di Giasone di avere il proprio nome portato avanti dalla progenie. Questa, dunque, la fine della prima parte di avvaloramento del mio discorso. La seconda parte si discosta leggermente dalla via inizialmente intrapresa ma non temere, cercherò di essere il più coincisa e chiara possibile. Tu, però, non allontanare la mente dalle mie parole: segui attentamente ciò che ho da dire e non indugiare in altre riflessioni. Abbiamo detto che la morte è temuta dagli uomini se ad essa non si accompagna la consapevolezza che una parte di loro rimarrà indietro. Prima parlammo della generazione dei corpi fecondi, ma abbiamo anche nominato la fecondità nell’anima.

DIOTIMA      E qui la parte insidiosa. Uccidendo gli unici discendenti del marito, lei, che era diventata madre nello stesso tempo in cui lui divenne padre, si privò pure della stirpe. Doppio fu il suo sacrifico: non solo uccise i figlioli a lei cari, ma rinunciò anche lei stessa alla possibilità di immortalità di cui voleva privare il marito. Tale era la sua follia! Tale il suo dolore! Tuttavia, non devi pensare, o SOCRATE    , che compì questo gesto senza la totale guida della ragione: la giovane madre era consapevole di quanto stesse lasciando per punire il perfido amato e, nonostante ciò, scelse comunque di farlo. Sapeva che pur privandosi del frutto della generazione data dalla fecondità del suo corpo, la sua memoria non si sarebbe cancellata con esso: le rimaneva, infatti, la consolazione che in molti avrebbero raccontato la sua storia. Diversi sarebbero stati coloro che, gravidi nell’anima, avrebbero partorito versi per narrare le sue gesta. Non conosciamo noi il suo destino? Non eri già a conoscenza della colpa di cui si macchiò, prima ancora che te ne parlassi, o Socrate?

DIOTIMA       Ecco dunque conclusa la mia orazione. I due punti che avrebbero avvalorato la mia tesi li ho illustrati, e con ciò spero di averti convinto.

SOCRATE       [A parte] Questo disse la sapiente Diotima, e ne fui persuaso.

Alcibiade a Socrate

Beatrice Di Ciancia riscrive il discorso di Alcibiade nel Simposio rivolto a Socrate, in forma epistolare. Un’ipotetica ventiseiesima Eroide, aggiunta a quelle delle eroine abbandonate dai loro innamorati, dell’opera di Ovidio, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

“Questa potrebbe essere l’epistola XXII, quella di Alcibiade, il cui amore viene rifiutato da Socrate. Alcibiade non capisce il motivo del rifiuto e non accetta il semplice silenzio dell’amato: decide così di usare la scrittura come unico mezzo di comunicazione”.

*

Devo parlare, anche se la mia passione è già abbastanza nota e il mio amore appare ormai più evidente di quanto vorrei. Avrei preferito restasse nascosto, ma chi sarebbe in grado di nascondere un fuoco, che viene tradito dal suo stesso bagliore? Non sarei stato in grado di trattenermi oltre. Ti scrivo perché dal nostro ultimo incontro sono passate settimane e tu fuggi ai miei sguardi. Spero quindi che con questa lettera potrò toccare e smuovere anche solo la parte più in superficie del tuo cuore.

     Ho sentito della vittoria di Agatone, mi hanno detto che ha organizzato un banchetto a casa sua per festeggiare, c’erano le personalità più influenti della nostra città: tu ovviamente sarai stato il primo a ricevere l’invito. Avrei voluto condividere la sua gioia, ma non sono stato invitato. Probabilmente non sono degno dei vostri discorsi.
Sapevo che ti avrei trovato lì e infatti stavo quasi per raggiungervi, così da complimentarmi con il mio amico, e soprattutto per poter avere un’occasione per parlarti.
Ma non l’ho fatto, non ce l’ho fatta. Sono rimasto in casa, solo, la mia unica compagnia è il fiasco di vino che ho ancora davanti, ma presto anche questa compagnia mi sarà insufficiente.
Dicono che il vino faccia dire sempre la verità, quindi utilizzerò questa scusa per soddisfare un mio bisogno, la mia necessità di comunicare con te, di sapere cosa c’è nella tua testa e nel tuo cuore.
Tuttavia, la franchezza nel parlare è sempre stata una mia abilità che pensavo apprezzassi e mai come ora, intendo sfruttarla. 

     So che i discorsi di voi uomini di filosofia spesso vertono sull’Eros, voi fate encomi sull’Amore e credete di saperne i misteri e le origini. Quello che so io sull’Eros me l’hai insegnato proprio tu: saranno anche irrazionali i miei pensieri, ma per me Eros sei proprio tu. Quando ascolto le parole di Pericle, o di qualsiasi altro retore a noi contemporaneo o antico non provo niente. La mia anima non è scossa, non sente nulla. Quando ascolto te invece, rimango ogni volta sconvolto: il mio cuore si ferma di fronte ai tuoi discorsi e le lacrime sgorgano dai miei occhi. Dimmi se questo non è vero amore.
Tu sei come un musico, Socrate, ma non hai nemmeno bisogno di strumenti musicali per sedurre, a te bastano le parole.
Sai bene anche tu che solo davanti a te ho provato vergogna: io, amante perfetto, data la mia giovane età e la mia bellezza, non mi faccio sottomettere da nulla se non dalle tue parole.
Tu, Socrate, sei come una di quelle statuette che raffigurano i satiri, una di quelle che si trovano nelle botteghe degli scultori o degli artigiani, che quando si aprono mostrano al loro interno immagini di dei. Tu assomigli a un sileno per aspetto fisico ma soprattutto per il tuo intelletto, nessuno lo può negare. 
I tuoi discorsi hanno la capacità di sconvolgere gli animi di chiunque ascolti.

     Io sono l’unico che ti conosce davvero: io so che dietro al tuo carattere severo ma scherzoso alle spalle della gente, sempre in cerca di bei giovani, si nasconde un uomo insicuro, a tratti altezzoso, che non sa guardare oltre il viso o il denaro che possiede un bel giovane. Tu trascorri la tua vita fra le gente, la lasci ammaliata per poi prendertene gioco.
Altri giovani sono rimasti bruciati dalla loro stessa passione non ricambiata da te, ma io credevo di poterti cambiare, maestro. Sentivo che con me riuscivi a mostrare i tuoi lati più intimi e speravo di poter significare qualcosa anche io nella tua vita.
Credevo seriamente che tu fossi preso dalla mia bellezza, ho creduto fosse una fortuna per me avere un tale fascino e speravo che condividendo la vita con te, avresti condiviso la tua saggezza con me. Quello che ricercavo era il miglioramento della mia persona, divenire ottimo grazie a te.

     Ma ai tuoi occhi non valgo nulla. Disprezzi la bellezza esteriore e mi neghi l’accesso alla tua sapienza. Evidentemente la bellezza che tanto ricerchi è bellezza di altro genere, che forse io non posso offrire.
Ma perché mi allontani? Perché quella sera, nel momento in cui le luci si sono spente e io ti ho confidato che tu per me eri l’amante perfetto e che avrei voluto concedermi a te, ti sei mostrato così rigido e non hai risposto nulla?
Tu così virtuoso, senza paure, capace di camminare scalzo sul ghiaccio nel più gelido degli inverni, non sai accettare il mio affetto sincero. Come fa il tuo animo ad essere sempre così rigido e intransigente?
Io detesto la schiavitù a cui si riducono gli amanti per l’oggetto del loro desiderio, ma il mio amore va oltre ogni forma di orgoglio.
Ti ho parlato da innamorato e credevo di meritarti, ma tu ti sei distaccato. Da quella sera ti comporti come se non fossimo nemmeno amici, nessuno sguardo, nessuna parola. Queste righe sono il mio ultimo mezzo per comunicare con te.

     Sarà forse una punizione questa? La mia unica colpa è stata quella di volgere a te tutte le mie forze, tutto il mio interesse, rifiutando le proposte di amanti ben più meritevoli. Inizio a comprendere il proverbio “l’ingenuo fanciullo non impara se non soffrendo”, ma mai avrei immaginato di essere io a soffrire. Ciò che più mi disturba è che più mi rifiuti, più accresce la mia passione per te: non trovo nessun conforto a questo mio dolore, se non quello che l’ebbrezza del vino mi concede per qualche ora al giorno.

     O degno di meraviglia, non ti avrei conosciuto se solo non mi fossi mai interessato alla vita politica di questa città, a entrambi molto cara! Avrei potuto trascorrere la mia gioventù nelle campagne dell’Attica: una vita semplice, umile, inconsapevole, forse ignorante, ma spensierata. Invece lo studio e le conoscenze mi hanno avvicinato ai tuoi insegnamenti, mi hanno fatto apprezzare ogni tua parola e sono giunto ad un punto in cui non posso più tornare indietro. Non posso cancellare quello che tu mi hai trasmesso, quello che tu mi dai.

     Quindi mio caro Socrate, ti chiedo una spiegazione dei tuoi rifiuti, visto che ormai non ho più alcun mezzo per esprimere il dolore che una passione così forte che è stata repressa, mi causa. Dimmi che non sono degno del tuo amore o del tuo rispetto ma dammi una motivazione valida; sarai forse tu una divinità con le sembianze di un umano, venuta tra noi solo farci comprendere la nostra ignoranza e le nostre carenze al cospetto degli dèi?
Non accetto che tu semplicemente rigetti le mie parole e non me fornisca altre. Non lasciarmi nel dubbio di non essere sufficiente per te, quando magari nascondi qualche altra futile scusa.
Forse solo abbandonando la vita terrena potrò trovare risposta, forse trovare pace insieme a te, perché ora qui non riesco a trovare alcun conforto.

Tuo, Alcibiade.

Bibliografia:
OVIDIO, Eroidi, A cura di Emanuela Salvadori, Milano, Garzanti, 2021
PLATONE, Simposio, Traduzione e commento di Matteo Nucci, Torino, Einaudi, 2014