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E (non) vissero per sempre felici e contenti

Gabriele Corna, in questo lavoro, riscrive Le affinità elettive e Le relazioni pericolose attraverso la penna della rubrica più irriverente di sempre. Il testo è stato scritto nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

Il fascino del primo incontro, gli sguardi e l’innamoramento, poi gli ostacoli, le peripezie, gli equivoci e infine il ricongiungimento. Sono gli ingredienti della classica storia d’amore. Alla conclusione del racconto tutto sembra perfetto, stabile, immutabile. Ma cosa accade dopo il lieto fine? Siamo certi che nulla possa ancora intromettersi e scindere, questa volta irreparabilmente, un legame che si dava ormai consolidato? La seguente riscrittura ripropone l’incipit di un grande capolavoro della letteratura tedesca di inizio Ottocento, trasportandolo nel clima della New York dei giorni nostri, in un’atmosfera pop volutamente stucchevole e polimorfica, e attingendo a piene mani da uno dei fenomeni letterari e televisivi che hanno cambiato il modo di pensare il sesso e le relazioni.

*

New York stava cambiando aspetto. I venditori di hot dog lasciavano spazio ai chioschi di granite, stivali e pellicce tornavano negli armadi e cedevano il passo a tubini e scarpe col tacco, i locali in cui avevamo passato i mesi più freddi dell’anno si stavano svuotando, mentre i ristoranti del Village diventavano il baricentro della vita notturna. La primavera era nel suo fiore e l’estate non era molto lontana.

«If Spring comes, can Summer be far behind?» Potremmo dire, parafrasando Keats.

Era curioso. Vivevo nella Grande Mela da quando Madonna cantava Like a Virgin e le giacche di jeans glitterate andavano di moda. Ma l’avvicinarsi dell’estate era sempre una sorpresa.

Per i magnati di Wall Street l’estate era solo una calda appendice dell’anno lavorativo, mentre per altri il momento del cambio stagione delle vetrine sulla Fifth Avenue. Per me, invece, era l’occasione di sfoggiare le ultime paia di sandali, comprate nei mesi addietro.

Molti eventi significati della mia vita erano accaduti d’estate. Era estate, quando giunsi a Manhattan dalla provincia del Connecticut, a soli 19 anni. Era estate, quando ottenni il mio primo contratto per scrivere una rubrica settimanale, su uno dei più importanti quotidiani della città. Era estate, quando conobbi Edward Preston e me ne innamorai. Era estate anche quando, dopo innumerevoli avventure, tira e molla, fughe, ripensamenti e litigi, Edward ed io convolammo a nozze nell’ufficio del giudice di pace.

Le estati del futuro mi avrebbero riservato altrettante novità? O come in una perfetta fiaba che si rispetti, ero arrivata al mio lieto fine? Non potevo fare a meno di chiedermi: nella vita vera, cosa c’è dopo il “e vissero per sempre felici e contenti”?

Park Avenue, 27 aprile 20**

Era una fresca serata di fine aprile quando, tornando nella nostra elegante casa di Park Avenue, dopo una sessione di shopping con Bree e Serena, trovai Ed al telefono. Generalmente non ci avrei dato particolare importanza, era normale che fosse assorto in lunghe chiamate, di cui spesso io non comprendevo la natura. Ma c’era qualcosa di diverso in lui quella sera. Era talmente preso dalla conversazione che a malapena mi fece un cenno con la mano, quando varcai la soglia del salotto. Guardando il suo volto pareva entusiasta, a tratti eccitato. Non lo vedevo così dall’ultima vittoria degli Yankees. Andava su e giù per l’ampio salone in tappezzeria cinese, mentre si passava la mano sinistra fra i capelli brizzolati. Si limitava ad annuire e a dare qualche segno di approvazione ogni tanto, con una risatina qua e là.

Ad un certo punto sembrò quasi turbato dalla mia presenza, e si ritirò nello studio. Una quindicina di minuti dopo, riemerse dalle tenebre. Non mi disse con chi avesse avuto quella fitta conversazione.

– Buonasera anche a te mio caro marito! – esordii visibilmente confusa e anche un po’ stizzita.

– Ciao piccola, com’è andata la giornata? Serena ha di nuovo spaventato qualche commessa con le sue richieste? – mi rispose facendo finta di nulla.

– Beh, nulla di che. – gli dissi, cercando di non far trapelare la mia curiosità – Un paio di Cosmopolitan ed una visita da Barney’s, ordinaria amministrazione, direi. – continuai nella maniera più disinvolta possibile.

Capii benissimo che qualcosa stava fremendo in Edward. Lo coglievo dal suo sguardo, dalla sua espressione, dal modo in cui teneva le mani, da come stava seduto su quel sofà in perfetto stile rococò, che campeggiava nel nostro salotto.

Dopo quasi dieci anni di matrimonio, ed altrettanti di frequentazione, conoscevo fin troppo bene Edward Morgan Preston. Ma c’era stato un tempo, in cui facevo un gran fatica a decifrarlo, con tutte le sue insicurezze ed indecisioni, che un po’ erano state anche mie. Forse era proprio a causa del mio carattere ispido e della mia scarsa fiducia verso gli uomini, bilanciati però dalla voglia di un amore totale, ridicolo, scomodo, spossante, che ti consuma e non ti fa pensare ad altro.

Una necessità, ma al tempo stesso una grande paura, di essere delusa e di deludere. Probabilmente faceva parte del mio essere una trentenne single nella Manhattan degli anni ’90, e non una giovane donna appartenente alla buona ed operosa borghesia della New York di Edith Wharton ed Henry James. All’epoca il mio porto sicuro, in cui trovavo rifugio dal mare in burrasca, erano le mie amiche, Catherine, Bree e Serena, loro erano le mie vere anime gemelle.

Quando E.M. se ne andò a Parigi, per poi tornare con la sua nuova e giovane moglie Natasha, ed anch’io quasi feci l’errore di farmi portare all’altare, le cose cambiarono. Iniziai a vedere Edward come un mio doppio speculare, come se fossimo due metà di una sfera tagliata perfettamente. Potei dunque immedesimarmi in lui e comprendere.

A quel punto, i dubbi dei trent’anni lasciarono lo spazio ad una maggiore sicurezza, quella dei quaranta, come quella di chi sembra aver capito le regole del gioco. Vidi le mie amiche costruirsi una famiglia, avere figli, e coronare, non senza difficoltà, i tanti progetti di cui avevamo parlato per ore ed ore davanti a cocktail e piatti esotici, nelle nostre peregrinazioni fra i locali del Lower Manhattan e Upper West Side.

Così, quando ci rincontrammo, capimmo che era il momento giusto per entrambi. Mi era capitato di pensare a dei figli, ma non ne avevamo mai parlato, neanche prima del matrimonio. Io non mi ero mai sentita adatta al ruolo materno. In certi momenti avevo percepito quasi il peso della mia scelta di non essere madre, come se la società intera si aspettasse questo da me, dopo il matrimonio. Una volta Ed giocò a baseball con il figlio di Catherine, e io mi interrogai se gli sarebbe piaciuto fare queste cose con un figlio suo, come fanno tutti i padri a Central Park. Ma lui non sollevò mai la questione.

Io stavo lì. Ero fissa in piedi, con il mio bicchiere di chardonnay tra le mani, mentre mio marito, ancora chiuso nei suoi segreti, era di fronte a me a sfilettare del pesce spada per cena.

Decisi di aspettare. Se lo conoscevo bene, come pensavo, avrebbe parlato lui stesso.

Nel mentre cominciammo a discutere della ristrutturazione in atto. Infatti, qualche mese prima, l’appartamento di fianco al nostro era stato messo in vendita per via di un brutto divorzio. Ed, senza dirmi nulla, lo comprò. Voleva espandere la nostra casa, che a me sinceramente sembrava già sufficientemente spaziosa per due persone. Avremmo in quel modo avuto a disposizione l’intero piano del condominio. L’altro appartamento era in pessime condizioni, praticamente tutto era da rifare, per adattarlo ai nostri gusti. Due architetti ci avevano già lasciato, senza essere stati in grado di redigere un progetto che soddisfacesse le nostre esigenze.

– Ha chiamato quell’architetto, quello di Boston. – cominciai a parlare in tutta calma – Dice che è oberato di lavoro in questo periodo. Gli hanno chiesto di occuparsi di una nuova palazzina per non ricordo quale università della Ivy League.

– Serena non ha nessun architetto fra le sue molte ‘conoscenze’? – mi chiese senza evitare un certo tipo di allusione, che di solito non gradivo affatto.

– Oh, quasi sicuramente, ma non sono certa ne abbia memoria.

– Beh, allora potrei avere io una soluzione … – ecco che il mistero della telefonata iniziava a disvelarsi – Quella di prima non era propriamente una chiamata di lavoro.

– Ah no? – chiesi con chiaro tono da finta tonta, che solamente un vero tonto non avrebbe colto.

– Diciamo che potrebbe riguardare il lavoro.- questa affermazione iniziò ad insospettirmi, volevo vedere dove sarebbe arrivato – Era il mio vecchio amico del college, il Capitano. L’ho sempre chiamato così per via della nostra omonimia. Sai, quello che si era sposato con una ricca donna britannica, una marchesa o contessa, non ricordo. Beh, ora lei l’ha lasciato per un altro. Gli ha dato 30 giorni di tempo per andarsene di casa.

– Capisco, quest’altro Edward si trova in una bella situazione insomma – esclamai con una vena di sarcasmo, che evidentemente al mio consorte non piacque molto – E cosa intende fare ora? Dove andrà?

– Mi ha detto che andrà a stare da sua sorella per un po’, nel Vermont. Non si vedono da cinque anni, ma spera che lo ospiterà comunque. Non ha un lavoro né risparmi da parte. Negli ultimi vent’anni si è solamente occupato della tenuta di sua moglie. Ed è stato ripagato in questo modo.

Edward, il mio, era veramente costernato per le sorti del suo omonimo d’Oltreoceano. Pochissime volte l’avevo visto in questo stato.

– Su, non ti crucciare, ce la farà – gli dissi in modo sincero e rassicurante – Non puoi fare nulla per aiutarlo. Troverà la sua strada e si costruirà una nuova vita in Vermont.

– Beh, in realtà io avrei pensato ad una maniera per dargli una mano. Anzi, me l’hai suggerita tu stessa poco fa.

L’oscurità intorno a questa vicenda cominciò a dipanarsi. Tutto si fece più chiaro. Intuì dove mio marito volesse arrivare. Ma lo lasciai proseguire.

– Ho pensato, siccome abbiamo bisogno di qualcuno che si occupi dei lavori … – continuò a parlare con un filo di imbarazzo – che magari potremmo affidare al Capitano la supervisione del tutto.

Rimasi in silenzio ancora per qualche istante. Volevo vedere fino a dove si sarebbe spinto con questa proposta.

– È praticamente un fratello per me, Charlotte. – iniziò come a giustificarsi senza che io dicessi nulla – Vederlo in mezzo ad una strada mi fa riflettere. Io ho avuto tanta fortuna dalla vita. Non posso essere indifferente. Potrebbe venire a stare per un po’ nell’appartamento di fianco. È enorme, e potrebbe occupare la parte non interessata dai lavori. Non dovendo spendere per un hotel o un affitto si rimetterebbe in piedi più in fretta.

A quel punto, non sapevo veramente cosa dire.

Me ne andai sul terrazzo, avevo un estremo bisogno di pensare. Dissi ad Edward di non aver digerito l’aperitivo a base di crudités, ed ebbi una scusa per allontanarmi. Questo lato caritatevole di mio marito mi aveva fortemente stupita. Credevo di aver sposato uno squalo dell’alta finanza, e non San Francesco d’Assisi. Non capivo cosa ci fosse sotto a quella proposta. In tutti gli anni passati insieme mi aveva parlato sì e no 4 volte di questo famoso Capitano, intorno alla cui figura era sempre aleggiata una sorta di aura di mistero. L’avevamo anche invitato al matrimonio, ma aveva declinato con uno scarno biglietto in carta intestata, perlopiù arrivato a destinazione una volta che la cerimonia si era già svolta. Non capivo dunque la tanto millantata amicizia verso quest’uomo assente dalla vita di Edward da più di 30 anni. Era vera affezione o c’era di più? La vita in due per lui era troppo noiosa, e voleva accogliere un mezzo estraneo in casa nostra per ravvivarla? Come se questo Capitano potesse essere un giullare di corte. Forse avevo sbagliato in tutti quegli anni a non parlare apertamente di figli, magari lui ne avrebbe voluti avere, ed io avevo taciuto per così tanto tempo da indurlo ad una passiva accettazione del mio imperante volere. L’amavo veramente tanto, avrei fatto di tutto per renderlo felice. Anche accettare quell’uomo nelle nostre vite, se l’avesse fatto contento.

A quel punto però riflettei anche su un’altra cosa. Avevo una sorella minore, Elizabeth, la quale, sposatasi molto giovane con un suo compagno di liceo, aveva avuto una figlia, Odile. Purtroppo, un brutto male aveva portato via la mia sorellina già da molti anni ed io, per quel poco che avevo potuta essere presente, rappresentavo una sorta di figura materna per la giovane Odile. Quell’estate avrebbe compiuto 18 anni, stava per finire le superiori. Molte volte, in passato, le avevo promesso che l’avrei invitata a passare l’estate con noi a Manhattan, siccome lei era rimasta ad abitare nella cittadina del Connecticut da cui la mia famiglia proveniva. Fino ad allora non ci era ancora sembrato il caso. Suo padre era molto protettivo e aveva paura della fascinazione che la città avrebbe potuto esercitare su di lei. Ma in quel momento, i tempi erano orami maturi. Non era più una ragazzina, poteva permettersi un’estate a New York sotto la supervisione dei suoi zii.

Decisi dunque, dopo un ponderato ed attento ragionamento, di fare una controproposta a mio marito. Avrei accettato di buon grado l’intromissione del Capitano nella nostra vita, e nella nostra casa. Ma anche Odile sarebbe venuta ad abitare con noi, disponevano di camere a sufficienza per tutti.

Dopo cena andai da lui. Erano passate quasi due ore da quando mi ero ritirata a pensare. Edward era semidisteso sul divano, più addormentato che sveglio. Lo scossi un po’ per toglierlo dalle braccia di Morfeo, prima di iniziare a parlare. Gli spiegai che accettavo la sua proposta, e sarei stata felice di poter dare una mano ad un suo amico in difficoltà, ma alla condizione dell’arrivo di Odile. Ed accettò di buon grado, andò a dormire felice.

Il giorno successivo concordammo che il Capitano sarebbe arrivato di lì ad un paio di settimane. Invece, io chiamai la mia dolce nipote. Le comunicai la mia intenzione di farla stare a casa nostra prima che partisse per il college. Fu subito entusiasta, anche se molto sorpresa. Sarebbe arrivata nella prima metà di giugno.

Si andava delineando un’estate particolare, con una famiglia allargata grazie alla compagnia di due ospiti. Avevo uno strano presentimento, qualcosa di nuovo sarebbe accaduto, qualcosa che ci avrebbe scossi e cambiati nel profondo. Evidentemente, anche l’estate che stava arrivando mi avrebbe riservato delle sorprese.

… TO BE CONTINUED…

Bibliografia
Candace Bushnell, Sex and the City, 1991 (trad. B. Casavecchia, F. Paracchini, Milano, Arnaldo Mondadori, 2001).
Massimo Fusillo, Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Bologna, Il Mulino, 2021.
Johann Wolfgang von Goethe, Die Wahlverwandtschaften, 1809 (Le affinità elettive, trad.  di M. Mila, Torino, Einaudi, 2014).
Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, Les liasons dangereuses, 1782 (trad. Bérenice Capatti, Collana Grandi Classici, Milano, BUR-Rizzoli , 2018

Sleeping beast – La solitudine del coraggio

Tommaso Buffa immagina, in questo suo lavoro, un dialogo sull’amore e la vendetta fra Laclos, Ovidio e i personaggi di Cowboy Bebop. La riscrittura è stata sviluppata nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Easy come, easy go” sentenzia Faye Valentine in Cowboy Bebop. Ma ci si può davvero liberare facilmente del proprio dolore? O è forse esso a dimenticare di chi eravamo, toccando e cambiando la nostra interiorità più profonda? La sofferta lettera di Faye al suo amato traditore ci dimostra, dalla Roma antica al Giappone del XX secolo, passando per la Francia del ‘700, come il lamento, il disprezzo, il desiderio di rivalsa siano solo alcuni dei modi con i quali rinforzare (o distruggere) il proprio cuore segnato da crudele abbandono.

*

Questa lettera giunge a te, traditore di donne, usurpatore del luogo più sacro ed inaccessibile delle loro anime, ladro del sentimento che a loro e loro stesse dovrebbero dedicare. Non vi leggerai tuttavia altro che il mio disprezzo, non vi noterai altro che la mia determinazione, e se, illuso dalla tua stessa reputazione, inorgoglito dai tuoi disprezzabili successi, debole e superbo, la inclinassi contro luce, in cerca dei segni di una lacrima, di odio, di un rimpianto, dell’impronta indelebile che ancora credi di aver lasciata nel mio cuore, non vi troveresti altro che un oceano di indifferenza, ed il mio cuore freddo come una pietra e privo di scalfitture. Con quale audacia ti presentasti a me, fingendoti chi non eri, e se solo avessi saputo allora quanto fosse patetica la tua messinscena, disoneste le tue intenzioni! Ma funzionò, e cento volte sia maledetto il giorno che mi mostrai così debole! Solo un riflusso, l’oceano del mio cuore ancora inquieto, proferisce pensieri che non più gli appartengono. Perché infatti maledire un’occasione per migliorare? Perché disprezzare chi fui, quando amo chi sono? Chi, dopo aver aperto il forziere, lamenta il tempo speso a cercare la chiave? Chi ha sofferto senza riuscire a trovarsi. Io, al contrario, ti sono quasi grata. Ancora, non susciti più sentimenti tanto forti da scomodare il destino, non alimenti alcuna fiamma né tanto brillante né tanto cupa e desolante in me. Il mio cuore è sigillato, ma, ahimé, ecco! una stilettata, un dolore, un sibilo, e un debole lamento che ancora traspira. Mi infastidisce, ma lo lascerò libero di sfogarsi, che sia l’ultima volta e poi ti avrò espulso fuori bordo come un rifiuto. «Nata per vendicare il mio sesso e dominare il vostro, ti ho tolto il potere e la volontà di nuocermi, tiranno divenuto mio schiavo», e dopo questa lettera sarà l’oblio, per te e per il mio cuore.

Ma quale effetto mi facesti, come mi scombussolasti l’animo, quando ti vidi per la prima volta! «Perché mai mi piacquero più del dovuto i tuoi capelli grigi, la tua eleganza ed il garbo artificioso delle tue parole?» Ah, come riconosco e biasimo oggi il mio comportamento come quello delle «donne attive nell’ozio che chiamiamo sensibili, e in cui l’amore si impadronisce facilmente di tutta l’esistenza»! Ma come avrei potuto far accadere altrimenti? all’epoca ero priva delle conoscenze, non possedevo ancora i miei mezzi. Sola, in un mondo straniero, differente da quello che avevo lasciato, ma poi, quale mondo avevo lasciato, quando su nulla la mia volontà aveva avuto autorità? Fu tutto il resto a lasciare me, la mia famiglia, il mio pianeta, i miei ricordi, la mia realtà.

Venisti da me al mio risveglio da un sonno criogenico, cinquantaquattro anni terrestri, innumerevoli vite altrui iniziate e terminate trascorse alla deriva nel vuoto, nell’oscurità infinita, nella solitudine più cupa, nel gelo assoluto. All’alba di quell’interminabile notte, durante la quale la mia Terra era stata distrutta e gli umani avevano cominciato ad abitare l’universo, mi ritrovai priva di memoria, ed ogni traccia del mio passato, tranne il nome, Faye, obliterata. Tratta in salvo solo per essere messa di fronte ad un folle debito di spese mediche per un incidente di cui il mio corpo non portava alcuna traccia, il mondo che tanto a lungo si era dimenticato di me mi restituiva la coscienza per umiliarmi ed espormi al suo squallore. Fu allora che mi promettesti il tuo aiuto, il tuo supporto, poi il tuo amore, e “a che scopo? in cambio di cosa?” furono le domande che volli ma non fui capace di porre. Nuda, priva della mia identità, a malapena riuscivo a tenermi stretta la certezza di averne una, e come avrei potuto chiudere il mio cuore quando quello, completamente vuoto, bramava calore? Si può considerare chiusa una scatola vuota, se al suo interno c’è solo spazio da riempire? Ero ancora me stessa, sì, ma appena nata, e come un neonato che senza conoscere nulla cerca il seno della madre, io cercai qualcuno e ti facesti trovare tu, e «chi riesce a nascondere bene l’amore», quando non possiede altro? «La fiamma appare ben visibile, tradita dal suo stesso chiarore.». «Imprudente, nel mio amante attuale non seppi vedere il nemico del futuro!».

Mi ritrovai a dipendere da te nella mia interezza, il mio corpo, il mio animo, la mia volontà erano le tue, io continuavo a non capire, a non spiegarmi tanta gentilezza, ma intuivo l’affetto, il suo peso rassicurante, ero consapevole della tua presenza al mio fianco, mai troppo lontana ma, ahimé, mai lontana abbastanza! L’iniquo debito non diminuiva, la tua promessa non era mantenuta, ma la tua voce era ferma e rassicurante, ed io, ingenua, ero certa della sincerità del mio amore, e convinta che non servisse altro ad un’esistenza lieta. Poteva forse qualcosa di tanto squallido e materiale competere con l’elettività del nostro rapporto? Come in una fiaba, eravamo legati da un filo rosso, tu ti definivi «il mio principe ed io la tua bella addormentata», e tanto bastava ad allietare il mio cuore di bambina, debole ed illuso, tanto fragile che pareva minacciare di implodere se tu lo avessi nuovamente svuotato, con lo stesso impeto con il quale lo avevi riempito. Succuba e serena, non riuscivo a sentire alcun male nelle tue parole, non riuscivo a vedere alcuna distanza nei tuoi occhi, a notare alcuna menzogna nei tuoi discorsi, a percepire alcuna distanza nei tuoi abbracci. Eri lì al mio fianco, tanto più grande e luminoso di quanto non fossi io ed a me andava bene così, contenta della tua luce riflessa. Ancora priva di memoria come sono adesso, credevo per me stessa di non poter essere altro da ciò che tu la rendevi, e le tue azioni mi parevano sempre prive di malfatto, di un’armonia e bellezza ineguagliabili. Mi sentivo piena, come un frutto maturo appeso al ramo di un albero, piccola ed orgogliosa, orgogliosa di ciò che tu avevi fatta di me, ed in piena estate, bagnata dalla luce del sole, invincibile, non riuscivo nemmeno a concepire la separazione, ed ero sicura nella mia stoltezza.

Ciò che non sapevo, ciò di cui, irradiata da quell’amore bugiardo e che tuttavia era l’unica realtà che il mio sguardo trovasse, non mi rendevo conto, era che l’abbandono, apparentemente così lontano ed estraneo, come la colonia di un piccolo pianeta che si ha difficoltà anche solo a trovare sui radar, era in realtà l’elemento fondamentale della mia storia, il senso stesso del mio vuoto passato. Come potei dimenticarmene? Come potei dimenticare il torto subito dal destino, la beffa che l’universo, l’unica vera casa e famiglia di tutti gli esseri viventi, mi aveva giocato, strappandomi, di certo per invidia, dall’altra mia casa, dall’altra mia famiglia, dallo stesso pianeta che avevo sempre abitato, proiettandomi nel vuoto, intimo ed esterno? Come potei non accorgermi che coloro che mi avevano già abbandonata una volta, le persone, l’avrebbero fatto ancora ed ancora? Come potei non accorgermi della solitudine che è nostra natura più evidente?

Potrei giurare, questo giorno di due anni dopo, con il pensiero della tua patetica figura rinchiusa nella stiva della mia nave a mo’ di zavorra, che sì, me ne accorsi eccome, ma, ahimé, non seppi fuggire, non seppi voltare le spalle al tuo calore così accogliente per volgermi nuovamente all’infinito gelo della solitudine, buio e profondo come un abisso, sconcertante, crudele nella sua indifferenza e nel suo silenzio, dal quale mi avevi tratto in salvo. Che per di più il tempo pareva dissipare ogni dubbio, ed il nostro falso amore pareva più inamovibile del Monte Olimpo. Chi avrebbe immaginato che il periodo passato così dolcemente insieme era solo atto a rafforzare l’inganno!

Eravamo insieme, quella sera come tutte le altre, quando, orrore! mi guardasti con occhi mai stati tuoi, occhi gelidi, impassibili, all’improvviso fra di noi una distanza siderale – riecco l’abbandono! l’antico spettro tornato a tormentare la dimensione che non ha mai lasciato,  nei tuoi occhi, gli occhi del tradimento, vidi riflesse le mie lacrime e laddove avrei dovuto leggere l’inevitabile, il mio destino, resa ingenua e folle – sì, folle, solo ora mi è chiaro! – dalla paura di perderti vi lessi invece la tua determinazione, quando grave mi confessasti che i creditori si erano infine fatti vivi, e la tua intenzione, tragica e solenne, di liberarti di loro una volta per tutte! Ecco l’abile e misera menzogna! Quale imbarazzo mi causa oggi ripensare al trasporto con cui ti credetti quando, nascosto dalle suppliche di non andare, di fuggire solo con me, lontani da tutti, dall’avarizia, dal grigiore degli animi umani!, il mio animo gioiva spavaldo al pensiero tuo coraggioso, luminoso, proprio come un principe sul suo destriero – e quanto mi sentii orgogliosa di te, e di me stessa per essere tua, tua preziosa ed insostituibile, da proteggere a tutti i costi dal peso del mondo! Debole mi coprii con uno sguardo convenientemente infantile e pensai che sì, che sicuramente tu avresti combattuto e sconfitto – quanto risuona ingenuo adesso! – i malvagi creditori come il drago al castello, ma che sì, sicuramente il pericolo dava adito a precauzioni e sì, indubbiamente era necessario che diventassi immediatamente tua erede universale che, il caso non lo volesse (e come avrebbe potuto volerlo, quando il nostro amore era eletto dal destino?), tu fosti morto, avresti potuto continuare a prenderti cura di me. Ah, tanto più è dolorosa l’inevitabile rivelazione della realtà quanto più ci si è ostinati a non guardarla! Ma quale eroe, ma quali nobili intenzioni! Fuggisti come un codardo, e a mio carico la tua eredità, un ammontare di debiti due volte maggiore del primo! Eccovi servito l’amore eletto! Usata ed ingannata, ti permettesti – oh quale onore! – di considerarmi degna di affidarmi il tuo fardello – quale miseria! Esiste forse fardello più infimo? per poi lasciarmi nuovamente al freddo ed alla solitudine. Quale umiliazione dovetti di nuovo subire, ma quale coraggio ne ho tratto!

Ma prima tu, la tua pateticità, la tua meschinità: non un eroe, ma il più squallido dei semplici uomini, ma che dico, inferiore! Animale! Principe ti definisti, quanto è principe il maiale che per ultimo giunge al trogolo! Come osasti consolarmi con le tue parole sudicie, rassicurarmi con le tue false promesse, scaldarmi l’animo con i tuoi malvagi discorsi! Il principe dei serpenti al massimo, con una tale lingua biforcuta! Ti meriti il maggior disprezzo, ma la minima attenzione. Sicuramente sto dando troppa considerazione immeritata ai tuoi irrilevanti talenti. D’altronde come nuoti, o meglio dire annaspi, in questo universo? con quali squallidi mezzi porti avanti la tua miserabile esistenza, nemmeno degna di essere detta vita? Avvicini donne disperate, senza un passato a cui chiedere coraggio e senza un futuro a cui chiedere speranza, e le conquisti, quanto è facile per un lupo predare un cervo zoppo. Per quanti anni hai mentito? Quante donne hai rovinato? Quante ingenue hai fatto cadere nella tua ragnatela e divorate? Di sicuro non hai divorato me, che caddi sì nella tua ragnatela, ma ne uscii con coraggio, indenne e rafforzata. Ho ritrovato la mia identità, ho ritrovato il mio coraggio, la mia determinazione, e solo grazie al tuo tradimento. Ti ringrazio? Oh sì, tale è ringraziare una zanzara per aver affinato i miei riflessi. Ma non di meno riconosco il tuo merito. Abbandono e solitudine sono la natura nostra di umani e mia in particolare, tu servisti solo da promemoria. Conosco la realtà della nostra condizione. «In questo mondo regna la legge della giungla: ingannare ed essere ingannati è la logica della vita. Riporre fiducia nel prossimo non porta alcun guadagno: questo è il mio imperativo», questa la lezione che ho imparato.

Tu me la insegnasti a modo tuo, me la facesti sentire sulla pelle, fragile come vetro, rigettandomi nel gelo dell’abbandono, ma il vetro non si infranse, ne uscì temprato. Duro come il diamante, il mio spirito è incrollabile. Se ingannare è la logica della vita, ho imparato ad ingannare. Se essere traditi è il destino delle persone, ho imparato ad approfittarne per ricavare guadagno. Si sbaglia forse andando contro natura? Per questo non ti odio. Ti disprezzo, questo sì, disprezzo lo squallore dei tuoi mezzi, lo scarso valore delle tue conquiste. Ti definisci uomo? Quale vero predatore, nella giungla in cui viviamo, cercherebbe la preda più facile? Un parassita, ecco cosa sei. Strisci sotto il fogliame, per finire chi è già sull’orlo del vuoto. Così attaccasti anche me, neonato germoglio in un campo costantemente straziato dalla falce. La tua mano di contadino mi espose alla luce, quanto fu luminosa per un istante! ma quando provasti a recidermi alle radici, fallisti. Uomo patetico quale sei, non riuscisti a tagliare il più debole dei filamenti.

Ma che dico, fui io, fui io a non farmi recidere! Fui io, a portare sempre appresso il dubbio. Me ne accorgo oggi, quando dopo due anni ti ho finalmente visto per quello che sei. Intenzionalmente ho lasciato parlare il mio cuore all’inizio di questa lettera. L’ho permesso, ma adesso non più: ti avevo avvisato, il mio cuore ora è un monolite, l’oblio degli affetti e della nostalgia di essi. Non rimpiango il tuo falso amore, non rimpiango il tuo gelido calore. Come potrei? ripensandoci ora, mi accorsi in fondo ben presto che non era un filo rosso a legarci, ma una pesante catena. Ma a chi altro avrei potuto rivolgermi, al tempo? Non mi ero ancora resa conto della risposta tanto evidente quanto mi appare adesso la luce di questo schermo: “a me stessa”, ovviamente. Avrei dovuto cercare in me, nei miei mezzi, nelle mie capacità, il sollievo. Invece, delirante, lo cercai in un uomo. Quale ironia, cercare rifugio da braccia tese a strappare fra braccia strette a strangolare! «Ma una donna sventurata che senta per prima il peso di una catena, quali rischi ha da correre se cerca di sottrarsi ad essa, se osa soltanto sollevarla?» Così non osai combatterti, non osai fuggire, e restai a crogiolarmi nel calore del tuo inganno. Sentivo che «sarei stata senza risorse se tu fossi stato senza generosità».

È stato solo quando mi hai meschinamente tradita che mi sono resa conto della follia nella quale stavo conducendo la mia vita, che l’albero al quale credevo di sorreggermi era invece un opprimente viticcio intento ad offuscare ed indebolire i miei sensi. Che orrore, ripensare alle tue mani strette alle mie, al suono dei tuoi sussurri accanto al mio viso, alla sensazione delle tue labbra sul mio corpo! Quando ascoltavo la tua voce promettermi le infinite carezze dell’amore eterno, le infinite gioie della nostra affinità, mi pareva simile al vento che batte le lande deserte di Marte, caldo e rassicurante. Riportandola alla mente ora, non sento nulla di dissimile alle grida di un ubriaco nella notte di Blue Crow, patetico e miserabile.

Ma quando mi sono ritrovata di nuovo sola, o meglio sola come sempre, sono forse crollata di nuovo della disperazione? Ho forse maledetto il mio destino, pianto una pioggia di lacrime, strappato i miei capelli alle radici, deturpato il mio viso con le mie stesse unghie? Per chi, per l’uomo più insignificante dell’universo, per il pesce più minuscolo in questo oceano? Deturpare il mio viso, la cui fierezza non hai potuto cancellare, la cui bellezza è la mia arma ed il mio orgoglio? Quanto sarai rimasto deluso, vedendomi fuggire indenne al tuo inganno! Mi sono fatta forte e spietata. Sono diventata cacciatrice di taglie, ho saputo creare i miei mezzi, fondare i miei principi. Ho lavorato su di me «con cura, e con ancor più fatica». Fintanto che l’obiettivo è proteggere quanto di più prezioso ho al mondo, me stessa, ho rifiutato di farmi scrupoli. Gentilezza ed altruismo non esistono, solo inganno e egoismo, ed una lotta continua, una strenua ricerca della vetta più alta, dalla quale dominare e sopraffare chi non è in grado di raggiungerci e difendere da chi tenta. E oh, quanto mi sono elevata al di sopra della tua ombra! Tu, vile, sei invece sempre rimasto a bocconi sulla terra, a godere dei tuoi abietti successi, e quale delizia incontrare il tuo muso di bestia sull’elenco delle taglie rilasciate e constatare, con la facilità della tua cattura, la tua inferiorità! Tutto ciò che hai mai posseduto, i tuoi piccoli inganni, le tue piccole vittorie, io lo moltiplico mille volte. Do’ la caccia a pesci grossi, pesci che ti sbranerebbero in un solo boccone, e li piego sotto il mio stivale. Vuoi sapere a quanto ammontava la taglia più alta che ho mai riscosso? ₩28,000,00. Vuoi sapere a quanto ammonta la tua? Un ridicolo ₩19,000. Non mi basterà per un vestito nuovo, se non un mucchio di stracci. Potrei comprarli e spedirteli in prigione, che dici? Un mucchio di stracci per un patetico straccione, la cui voce è quella di un ubriaco.

Ma non troverei alcuna gioia ad umiliarti. La mia indifferenza nei tuoi confronti è una nave che ti sorpassa e ti annega nella sua scia, talmente vasta che al suo interno perderesti la tua identità. Sarebbe forse la fine adatta a te, ridurti come un animale, incapace di esprimere te stesso e la tua volontà, volontà disprezzabile, incapace di desiderare altro che il male di donne deboli e sole. Ma poi, quante volte la tua truffa è veramente riuscita? Quante volte sei stato in grado di distruggere veramente una donna, nel suo intimo, fino a non farle più desiderare di sorreggersi sulle sue stesse gambe e continuare a vivere in questo mondo? Non mi stupirei se la risposta fosse nessuna. Coloro che conoscono la realtà della nostra natura, non soccomberanno a te. Sei forte dei tuoi inganni con chi non sa ingannare a sua volta, ma impallidisci di fronte ad un confronto degno. E le donne, tutte, se educate a sufficienza dalla vita, hanno più valore di te. Le donne, tutte, se in possesso del proprio orgoglio, della propria integrità, dei propri mezzi e del proprio coraggio, hanno più valore di te. L’ammontare comicamente basso della tua taglia, se non altro, è chiaro segnale, del tuo essere nullità.

Chissà se ancora non te ne rendi conto, se ancora pensi che io mi senta in qualche modo legata a te, che forse il mio cuore cerchi ancora l’amore di cui tanto vaneggiavi, di cui tanto mi illudesti. Non lo cerco, non cerco sentimenti fasulli e privi di significato e di utilità pratica. Che provino a goderne gli stolti, si ravvedranno quando resteranno inevitabilmente delusi e traditi. Non provo nemmeno più il desiderio di conoscere il mio passato. Cos’altro potrei trovare nei miei trascorsi, che mi sia più utile a sopravvivere di quanto già so? Una famiglia, forse? Amici? Legami affettivi inutili, fardelli, debolezze. Una persona deve vivere per sé stessa e per nessun altro. Le uniche relazioni degne di essere intraprese sono quelle che portino guadagno, e si basano inevitabilmente sull’inganno. Mi sono riconciliata con l’amore, «non per provarlo in verità, ma per ispirarlo e fingerlo». Mi riesce meglio di tanti altri, poiché a differenza di una nullità come te, io sono sempre alla ricerca di un’occasione in più, di una sfida, «e se devo scegliere fra due mali, scelgo sempre quello che non ho provato prima». Le promesse, come le tue promesse di amore eterno, non posseggono per me più alcun significato. Se non altro, «le promesse sono fatte per essere infrante», come strumento utile ad ingannare.

E così, eccomi di nuovo al tuo cospetto, ma non di fronte a te o più piccola di te, bensì talmente in alto che i tuoi occhi da talpa, abituati a fissare la terra, non possono nemmeno scorgermi. Sono come ti ho descritto e come ti ho dimostrato: il tuo tradimento ha forse avuto successo? Non sei forse nel mio pugno, grande come una mosca, ammanettato alla parete come l’ultimo dei ladri che sei, al buio e circondato dai topi? Quasi ti immagino, a sperare che la polizia arrivi il prima possibile perché tu possa scappare dalle mie grinfie vendicative. E che questo tuo pensiero sia l’ultimo respiro del tuo debole orgoglio, che ti fa credere degno della mia vendetta. Non riceverai nulla da me, non uno sguardo, non un sospiro, non – no di certo! – una fiammella di compassione, e no, nemmeno questa lettera. Già, perché dovrei consegnartela, pensare ancora a te, mantenere alcun briciolo di qualsiasi genere di considerazione nei tuoi confronti, alcun amore, odio, o sentimento? Indifferenza è ciò che ti meriti. Bonaccia è l’oceano del mio animo, quanto è silenzioso l’universo più vasto. Addio, Whitney, che lo sconforto non ti tolga il sonno, e che non ti giunga troppo presto quello eterno.

Faye Valentine.

Bibliografia

P. C. De Laclos, Le relazioni pericolose, BUR, Milano, 2018.

Ovidio, Eroidi, a cura di Emanuela Salvadori, Garzanti.

Cowboy Bebop, studio Sunrise, editore it. Dynamic Italia, 1999.