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In viaggio con Ryszard: la mia esperienza in Polonia

Quando all’alba del terzo anno di triennale decisi di lanciarmi e fare richiesta per l’Erasmus stilai una breve lista dei posti papabili. Mi prefissai di fare un po’ di ordine prima d’inoltrarmi nel mondo della mobilità internazionale, ma credo di aver saputo fin dal principio che la meta prescelta doveva in qualche modo inserirsi con coerenza nella storia delle mie passioni (od ossessioni, nel mio caso la distinzione è molto labile). A primeggiare nella lista s’è imposto subito un nome: Varsavia.

Fin dagli anni del liceo ho nutrito un sincero amore per le culture slave, coronato da numerosi viaggi in quelle terre. Della Polonia conoscevo Cracovia, ma non Varsavia: in effetti la capitale polacca me l’ero figurata solo attraverso i libri -e nella fattispecie assumeva il più delle volte le fattezze del ghetto: in tal senso è testimonianza irrinunciabile il diario di Mary Berg, pubblicato da Einaudi col titolo Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944).

Nel corso poi dei miei studi universitari la Polonia ha sempre fatto prepotentemente capolino, dalla scoperta di Wisława Szymborska attraverso l’avanguardia teatrale di Jerzy Grotowski fino alle affascinanti prese dirette sulla realtà di Ryszard Kapuśiński. È stato proprio questi, con l’abilità propria di chi pratica il proprio mestiere con un profondo surplus d’emotività e passione, ad avermi insinuato il dubbio che forse, proprio per la tortuosità della loro storia, i polacchi sono naturalmente votati alla narrazione, spesso introversa ma sorprendentemente verace.

Che poi ero ben cosciente delle perplessità diffuse tra i più sull’”attrattività” del clima, sul tenore di vita e sulla desolazione della facies urbana -e ammetto di averci rimuginato sopra anche io: in fin dei conti l’Est Europa lo avevo frequentato da semplice turista, in qualche modo stuzzicata dall’immota lontananza di quei Paesi eppur così vicini a noi.

Poi in quei giorni di vaglio ripresi in mano Il cinico non è adatto a questo mestiere: conversazioni sul buon giornalismo, sempre di Kapuśiński, e sulla scorta d’inevitabili associazioni ecco davanti a me il biglietto d’andata: il pregiudizio non è adatto a questo viaggio. Ho pensato che vivermi per sei mesi quell’Est mi avrebbe permesso di vedere se, rimosso dallo spazio vagamente “esotico” in cui lo avevo collocato, avrebbe acquisito volto e voce diversi. Me ne convinsi, e Varsavia rimase la prima della lista.

L’APPRODO A VARSAVIA

Il punto fondamentale da cui partire per affrontare la Polonia è smantellare tutta l’accozzaglia di preconcetti, quasi superstizioni che vi orbitano attorno. Là non sono tutti inclini all’alcolismo, non si soffre un freddo subpolare e l’atmosfera non è (sempre) grigia e opprimente. Varsavia si trova nel voivodato (provincia) della Masovia, nella parte centro-orientale del paese, sorge in riva alla Vistola ed è spesso coperta di neve: questo fa sì che il clima sia tendenzialmente rigido, ma ovunque i luoghi al chiuso sono riscaldatissimi. Questa discrepanza tra il dentro e il fuori in realtà costituisce un vantaggio: le traversate all’aperto diventano molto più sopportabili in prospettiva della tappa al chiuso. Anche i mezzi pubblici (incredibilmente efficienti e puntuali) sono dotati di riscaldamento. Muoversi, quindi, non è impossibile e certamente non si rischia l’ibernazione.

Essendo partita a settembre per fare poi ritorno a febbraio mi ero ben equipaggiata contro il freddo, ma ben presto si capisce che un abbigliamento “a cipolla” è il più funzionale e così vestirsi la mattina diventa molto più semplice. I mesi di settembre e ottobre poi sono ottimali per recarsi a Varsavia, quando l’”autunno dorato” (złota jesień) trasforma Parc Łasienki in una festa di caldi colori, accarezzati anche da temperature piacevoli.

Sicuramente non si può rimanere indifferenti di fronte alle file di piccoli empori 24h che vendono alcolici. Sul fatto che i polacchi amino la vodka e che sia vanto nazionale ci sono pochi dubbi, ma questo non cancellò lo stupore dal mio viso quando, appena entrata nello studentato in cui avrei alloggiato, la signora delle pulizie mi offrì un bicchierino di vodka alla nocciola. E se sei italiano, ancor meglio: i polacchi nutrono una spiccatissima simpatia per il nostro popolo. Basti pensare che Bona Sforza, figlia di Gian Galeazzo e Isabella d’Aragona, fu regina di Polonia dal 1518 al 1556 e introdusse nella cucina polacca il mazzetto di odori composto di sedano, porro, prezzemolo e carota da utilizzare per il brodo. Lo chiamano włoszcyzna, “roba italiana”…e non c’è pasto polacco senza un poco di brodo o zuppa. Mi accorsi dunque molto rapidamente che in quanto studentessa italiana godevo di qualche occhiata d’approvazione in più (ma ero anche oggetto di grandissime aspettative, ben presto deluse, sulle mie doti culinarie…).

DALL’UNIVERSITÀ AI PIEROGI

Prima ancora di gettarsi per le varie ulicach della città avanza imperterrito lo scoglio più grande: la lingua. Notoriamente ostico e a primo impatto ben poco comunicativo, il polacco va saputo almeno pronunciare, altrimenti diventa difficile anche solo dire il nome della fermata del tram a cui si deve scendere. Il dramma aumenta quando ci si accorge (e ciò accade subito) che solo gli under 30 parlano inglese. La stragrande maggioranza della popolazione non ne sa neanche una parola, e non bisogna farsi troppe illusioni in merito: di fronte allo straniero non si sforzeranno di farsi capire. Ricorrere ai gesti diventa inevitabile, e di solito nei negozi funziona: nelle banche e nelle poste è bene munirsi di dizionarietto.

Nelle Università la musica cambia decisamente. Lo studente Erasmus è seguito per mano dall’inizio alla fine (in inglese, naturalmente). Lo zelo e l’operosità delle segreterie e dei servizi universitari in genere mi ha sbalordito, soprattutto perché in Italia la trafila si è rivelata lunghissima e farraginosa tanto prima quanto dopo la partenza. I corsi (tenuti in inglese) hanno temi e argomenti molto specifici, lasciando dunque ampio spazio all’approfondimento e alla ricerca. Ciò è facilitato inoltre dal metodo di valutazione, dall’impronta molto anglosassone: lo studente è tenuto a seguire le lezioni, spesso seminariali, e vengono esaminati man mano che i corsi vanno avanti attraverso la scrittura di papers, relazioni orali e lavori di gruppo (di solito durante la sessione d’esame bisogna solo sostenere un test a domande aperte o a crocette). Ho trovato questo metodo molto valido e produttivo, perché lo studente partecipa attivamente e non dimenticherà ciò su cui ha lavorato.

Da queste prime tiepide aperture per me è stato un dischiudersi di mondi inattesi, e non solo tra le mura di scuola. Per vivere in questi Paesi la chiave è la curiosità –e allora ti torna in mente che in effetti Chopin, Marie Curie e Copernico erano nati in Polonia e vedrai che nel centro di Varsavia c’è un museo dedicato a ciascuno di loro; scopri che l’arte contemporanea è uno dei cardini dell’espressività polacca; sonderai l’universo ebraico nel maestoso museo POLIN; ti accorgerai che oltre a patate e crauti si mangiano i pierogi (ravioli tipici ripieni di carne, funghi o formaggio)…e dovrai ammettere che sono parecchio buoni.

“PATRIA MIA! TU SEI COME LA SALUTE…”

L’aspetto economico si rivela essere fin dall’inizio il più vantaggioso. La moneta in vigore è lo złoty, il cui valore equivale approssimativamente a un quarto di euro. Ecco dunque che tutto diventa molto più accessibile rispetto all’Italia, dagli affitti alla spesa al supermercato fino alla vita notturna. Anche da questo punto di vista la Polonia non si è rivelata deludente: di locali ce ne sono moltissimi, caratterizzati tutti da un’impronta molto occidentale, e questo mette in luce un aspetto fondamentale della Weltanshauung polacca: la loro visione di noi. Dagli anni dell’Indipendenza a questa parte i polacchi hanno sempre dovuto confrontarsi con la spinta all’omologazione e l’insopprimibile attaccamento alla loro identità, da sempre tacitata e messa a repentaglio (e riecheggiano qui le sconsolate parole di Adam Mickiewicz, maestro della poesia romantica: «Patria mia! tu sei come la salute/Quanto ti si deve apprezzare, può solo testimoniarlo/Chi ti ha persa. Oggi la bellezza tua nei suoi ornamenti tutti/Vedo e descrivo, poiché a te anelo»). Infatti a livello di concezione di abbigliamento, vita sociale, impostazione della cultura giovanile la Polonia cerca sempre più di affiancarsi ai Paesi centrali, come a voler cercare un riscatto laddove le dinamiche storiche non l’hanno concesso. Ma quello polacco è anche un popolo estremamente leale con se stesso, innamorato della propria cultura e tuttavia ancora coperto dei lividi della Storia: la loro proverbiale ruvidità e lo smodato rigore delle loro istituzioni si sono costituite nel tempo come baluardi di difesa, e questo rapidamente conduce alla diffidenza verso lo straniero se non proprio all’astio. Ecco perché la generazione più giovane mostra un’apertura diversa: non ha fatto esperienza diretta della dominazione, di un socialismo non troppo reale e di mortificazioni ancora brucianti. Vi è una sorta di schizofrenia nel cuore polacco e ne è specchio riflettente la stessa conformazione del territorio: a città rigogliosamente rimessesi in piedi come Cracovia, Varsavia, Danzica, Breslavia e Poznan si affiancano i melanconici massicci dei monti Tatra, il buio di tanti paesi ancora arretrati e depressioni vallive con paludi, torbiere e foreste. Viaggiare in Polonia, dunque, diventa fondamentale per toccare con mano questo stato di cose -e visti i prezzi e la comodità dei mezzi con cui si può farlo, diventa d’obbligo almeno provarci.

(RI)SCOPRIRE L’EST EUROPA

Per capire Varsavia e la Polonia tutta bisogna dare una spallata ai pregiudizi. Questo compito spetta specialmente al viaggiatore che intende vincere l’ultimo resto d’irrazionale e sceglie consapevolmente di esperire la forza immensa di questo Paese. La sua capitale è generosa, seppur facilmente suscettibile; la sua anima storica e culturale è protetta con cura dagli abitanti, per i quali la Polonia vive soprattutto dentro di loro. Ho riflettuto spesso, in quei brevissimi giorni di luce a Varsavia, sulle antinomie di questa nazione, efficiente ed irrisolta insieme: ma si può giungere ad una coerenza, quando si è appena risorti dalle proprie ceneri?

In definitiva, l’opinione formata direttamente sul campo butta giù ogni barriera, perché alla fine per la maggior parte delle persone (anche noi più a Ovest) il mondo reale finisce sulla soglia di casa. Ogni resistenza, quando si tratta di “intraprendere” il mondo, dovrebbe essere acquietata. La Polonia mi ha convinto più che mai di questo –e il mio viaggio si è chiuso di nuovo con la saggezza di Kapuśiński: «Il nostro mondo, in apparenza globale, in fin dei conti non è che un pianeta con migliaia e migliaia delle più svariate province che non si incontrano mai».

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