Emanuele Mendozzi ha riscritto l’opera di Dostoevskij nel tentativo di sciogliere la matassa significante che la costituisce; saccheggiando la letteratura delle sue formule e raschiando la superficie del testo per scoprirne le conversazioni nascoste, nell’ambito del corso di Letterature Comparate, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).
“Qui all’ombra d’un muro azzurro cieco, tra i denti bianchi d’una staccionata, poco a ridosso della strada, riposano le spoglie d’una vecchia ammazzata, coperti d’una lapide nera nel freddo abbraccio della terra abbeverata.”
La Madonna Sistina
Guarda tra due tende verde scuro appena scoste, incidendo avanti appena appenaposa su una nuvoletta acquerellata, cinta da una veste e da un velo che d’un vento lieve accarezzano l’ittero cielo. Un sacerdote dolce e pacifico resta incredulo e sgomento indica d’un indice nodoso al nostro capo e sembra dire: “Proprio a loro sono infine aperte le porte del perdono?”, mentre una santa tra i panni ruvidi e le spine, invita con clemenza a gioire della gioia, d’un volto sfumato, d’una madre e il suo bambino. “Non è una visione piacevole?”. E al pargoletto han cavato gli occhi gli uccelli, il pittore ne ha dipinti due da adulto, persin due occhi da vecchio eroe caduto, rubati forse a vecchio marinaio ubriaco, servirebbe al piccolo una barba e folta e ispida, una foresta di conifere brune a tratti incenerite, che con quelli della madre vedono di fuori d’uno specchio, penetrando in fondo e scintillando di lacrime e fiammelle nemmeno accennate, rovesciando estasi, rimestando animi allucinati. I due putti fan capolino alla cornice, pensando e ripensando tradiscono l’incertezza che a noi tocca, così affettati da una scure tra il tempo e l’eternità.
Tra le sette e le otto
Tra le sette e le otto saltellava a Pietroburgo
Incespicando su un discorso un calabrone vola
Con la lingua trema vaporelle di propositi:
Allucinanti illusioni, d’un cavallo, d’un cappello.
Quale al fegato son cresciuti i glicini stellati,
Tra una folla di pidocchi, la testa scintillante
Scoppietta a ogni passo e si ferma e gli occhi ronzavano
affabulando tele fantasiose: un laccio appeso
uno straccio, un’accetta, gli stivali, il quartierino
della vecchia, il suo canile, cerca di fuggir gli sguardi.
La fortuna o la scelta si separa a colpi d’ascia,
Nel riflesso vetrato d’un finto portasigarette,
quegli occhi rugosi lo spiano diffidenti senza
posa tra una porta e una catenella, quel pidocchio
è in casa e lo cesella e lo sgrana vispamente
e il delirio intanto gli penetra gl’intestini
e grida silenzioso: “Tu sarai un Napoleone”.
Ora è entrato, s’è fidata, ha aperto, è sola.
Tra le sette e le otto saltellava a Pietroburgo
Un’accetta sospesa a un lembo frastagliato canta
Motivi argentini e colpi sordi d’un tamburello
Bianco, bianca è la sclera, trasalisce a un sogno d’oro
Da benefattore, brucando in cerca d’una chiave,
su una mandria appiccicosa, pascola un pidocchio.
Gli batteva il cuore in gola e intanto lei zampillava
Violetti rivoli e torrenti ferrosi e nuvole
Sulfuree ora davano dalla carta da parati
Quel tenore del sogno e della febbre, d’un guanciale
Sudato d’estate, d’un divano logoro, una croce
Di rame, un borsello, un baule, carta di giornale.
La vista gli tremava di vertigine fin l’orlo
Del soffitto, non un fiato usciva se non spezzato
Condensando sullo specchio d’una lama imbrattata.
Per la stanza lo studente andava e veniva, i nervi
Impazziti d’un Napoleone, d’uno Schiller folle.
Nella stanza attigua un’altra donna andava e veniva.
Tra le sette e le otto a Pietroburgo si son spente
Due sorelle e uno studente, spiccando alla nottata
In una bettola in velluto al lume della luna
Una poco più che bambina, poco men che donna,
Offre i suoi servizi all’ombra d’una candela trema
Del rarefatto pianto d’una madre disperata
D’un nobile passato, del francese, dei balletti.
Presto s’incontreranno questo lupo e quest’agnello.
Libretto giallo
Verginità, verginità, perché
Mi lasci? Dove andrai? Come è stretto
Un passerotto tra le braccia troppo…
Troppo forti d’un uomo arrossato,
Spiri alla luce fioca della sera,
che su di noi senza riserve cala
a spiare i giallini patimenti.
Quando muore il giorno nel riverbero
all’orlo d’un lenzuolo stropicciato
nella carta da parati consunta
suonan le nostre preghiere notturne
e ci copriamo il capo com’è giusto
di sciallini sgualciti, di sorelle
in coro, di bibbie sporche e stracciate,
di pianti di neonati. Mi dici
con voce spezzata: “Sonja adorata
non piangere così, non disperare.
ormai io da te mai più tornerò.
Hanno schiacciato un poveretto
O città fantastica piena di suoni sordi, quanto stridono gli zoccoli e alla via delle bettole danno un prete e un medico. Da tre finestre e una parete, l’acqua d’estate imbiancata marroncina rifletteva il puzzo e l’arsura al vento come i poveri turbina, quando li mena il vino, uno appresso all’altro. Che occhi hanno gli ubriachi e i progressisti, dotati di voci spaventose, d’acciaio trapunto di stelle dorate. Sbuffano i treni tra le vie e le folle, nel reticolo metafisico dei palazzi, delle vetrate viola, dei vapori fetidi, pisciano per strada. Qui a Pietroburgo la gente borbotta, attorcigliati, tutti improvvisamente s’ammassano a ascoltar sventure suonate dalle piccole voci dei bambini, a mirare tutt’intenti quelle piccole passioni, esaltati come sono dall’aria asfissiata. E le divise, le divise battono un poveretto, lo portano via, mentre quello… quello grida intanto che è figlio di re e cerca il suo regno tra i fasti e i riflessi d’una bottiglia aguzza. Ho incontrato ieri mia madre, nascosto tenevo un foglietto di sole, qualche soldo poi non può guastare ai bambini, alla tosse, a quel fuoco lentigginoso. L’han picchiata sulla scala e pioveva. E poi mio padre… a mio padre… gli occhi infiammati, il sangue cantava, le ossa schiacciate, sgorgavano lacrime e rivoli rossi.
Venne a trovarmi un assassino (La resurrezione di Lazzaro)
*
E fu forse al tremar della serata
Che venni a stillarmi il sangue dal petto
Quando sudava il canale accaldato
La testa avevi allora tutta piena
Di che pidocchi e gli occhi saltellanti
m’inniettaron sotto pelle un fuoco
nascosto. Parlando un po’ della mamma
giocavi a ferirmi, premendo gli occhi
in cerca della pietà. “Leggi forza
-me lo dissi- come facevi per lei…
Dove si parla qui del redivivo”
E allora io cuore colmo, speranza
Passai su un dito in cerca di Giovanni.
Quanto poi rombaron quelle parole
Nelle fresche membra dei peccatori
Che ancor si rizzano come i fioretti
Al gelo notturno e poi il sol li imbianca
Volaron passerotti nelle orecchie
E quasi mi colse la verde febbre
Che avevi tu. Eravamo due pazzi
Congiunti dall’eternità ridente
Uniti i peccatori nel vangelo
*
Al di là delle rive del giordano
dove prima Giovanni Battezzava
il cielo ammutoliva alla notizia
del sonno sordo d’un amico caro
tal era rimasto il corpo malato
all’ombra d’un sepolcro marrone
per quattro giorni e quattro notti intere
sudando fiori afoni alle pareti
quante lacrime lavavano i piedi
piovendo giù sconnesse soffocando
i volti solfiti di Marta e Maria
Di lamenti azzurri a rivoli pieni
-“Signore se solo ci fossi stato …”
-“Io sono resurrezione e vita
“chiunque vive in me vivrà in eterno
“non morrà in eterno, credi questo?”
Un profuso lamento e contagioso
Inondò le guance di blu di Maria
E come un tremito trafisse i cuori
E presto fu di lacrime un gran coro
Quando poi sulle sue gracili gambe
Mise un passo di fuori dal sepolcro
Sonja batteva l’aria della stanza
Trema d’estasi si rovesciò in lui
Sotto un sasso riposa un’ammazzata
Scendendo il sole a destra incontra uno steccato che s’infrange nel cortile. Al di là d’un muro cieco azzurro intrattengono i passanti i soffocanti vapori estivi, le strade sciolte e i furiosi schiamazzi che fuman dalle bettole. Sulla via carri trainati dai cavalli insanguinati gridano strepitando il ciottolato, trasportano persone di cristallo impomatato. I bambini fanno la carità, strimpella un organetto qualche canzone popolare e una rossa fanciulla inebetita da angeli invisibili guarda lo sguardo appiccicoso d’un vecchio ingiallito. Se ci si perde nel viola di quel prato, dove questo si fonde al cielo verde, poco più in là verso la dentata staccionata, si scorge un sasso sacro tutto nero. Qui riposano tra le braccia rinfrescanti della terra scintillando a un sole inesistente, a una luna impazzita, pietre preziose, metalli nascosti. Quando piove scrosciano d’una testa spaccata, si sciolgono tra le carte d’un giornale illeggibile, pigolando disperati come canarini d’argento. Qui all’ombra d’un muro azzurro cieco, tra i denti bianchi d’una staccionata, poco a ridosso della strada, riposano le spoglie d’una vecchia ammazzata coperti d’una lapide nera nel freddo abbraccio della terra abbeverata.
Canta ancora madre mia
Quanta gente tra i poveri s’affaccia
Come avvoltoi alle porte dei malati.
In eterno t’amerò. il tuo petto
Abbeverato dal pianto del cielo
e le mani che dolcemente tristi
carezzavan la terribile notte,
tenevan le mie giunte per pregare.
È freddo e fiocchi cadono per te,
Non più color t’innaffia a sparsi fuochi,
ma dalla bocca stilla miele rosso.
Al tuo viso infrange, si sgrana un labbro,
dalla finestra un tremito di luna.
Il tempo s’è fermato a Pietroburgo.
Chiamami ancora per nome… ti prego…
Ti prego mamma canta… canta ancora…
Si è impiccato un santo (confessione di un imbianchino)
Nel campo sterminato di blu verde
Aggrappato a brandelli dell’eterno
Allo scoppiettio viola della luna
Che il vento batte lungo il fiume cieco
S’è appeso un imbianchino azzurro
Come santo di vernice, a un albero
D’ulivo. Aveva commesso un delitto
per trenta denari d’argento appena,
per aver un po’ di dolor paonazzo,
la medicina d’un cuore malato.
Fu poi un battito di cielo che scosse
Il ramo straziato, quel viso azzurro
Come un fulmine cadde bianco in terra.
D’un raggio colorito si trafigge
Il volto e gli spunta sgomento un riso
Patendo la clemenza dell’eterno,
Arricciando le labbra si prepara,
Domani verrà la sua confessione.
Gli orfani della legge
*
Quanto è fredda la Siberia e i detenuti rompono incessanti pietre preziose e picconi, salgono dalle schiene curve i muscoli tesi di formiche verticali. Direste vedendoli dormire che come bambini piangono sognando la visita d’un angelo misericordioso, foss’anche per un nonnulla, per asciugargli un po’ le lacrime. Il fumo ferroso dei forni li seguiva nella notte e al mattino col suo brusio stringente, quello era uno stendardo terribile e straziato, il vessillo d’una libertà ceduta, giocata per qualche gioiello incartato, per un tozzo di pane, per una bottiglia in più.
Quanto poi a dormire non si può fare altro, sognare e lavorare uccidono le ore e le lasciano stremate al cielo che abbaglia ogni cosa quando si mescola alla neve. La noia s’innamora di loro come una fedelissima sposa, incollandosi alle suole delle scarpe bucate. Tra uomini del genere si rafforza la fortezza della fede, fa infatti città d’avorio turrite e campanili, tra i più cinici e increduli s’annida l’eternità e il suo gioco, finché il più arido dei cuori non si abbevera per avere un lembo dell’altissimo dalle cime azzurrine, sarà forse la fatica, sarà la bianchezza tutt’intorno, un muro sudicio, un libro logoro. Non parlano tra sé come in città, ma come monaci devoti iscrivono nelle conversazioni il più grande dei silenzi, rotte sillabe di solitudine, annotano l’inesprimibile loro patimento in piccole lettere e a molti mancano le parole. Quando arrivano zuppe le missive assaporano un po’ il dolce venticello che solleva l’odore di casa loro. Vogliono con quelle braccia indurite stringere ancora qualcuno, fosse anche in sogno.
*
in una giornata di nuovo tiepida e serena, quando la steppa intorno strillava di bianchezza, e alla riva il largo fiume nascondeva la baracca, mi sedetti insieme al sole accanto a te.
Guardavi all’orizzonte neri puntini e parlavi a mezza voce, sospirando parole, di come quelli sì erano uomini liberi e di come lì ancora… lì ancora vivessero i tempi di Abramo. intanto sul tuo dolcissimo capo un tempo rigoglioso di spazzoline sabbiose si poggiavano allegri coriandoli di cenere, e uno ti cadde proprio su una guancia, scavata com’era dalla prigione, dal lavoro.
L’altoforno e i muri bianchi d’una cella e un refettorio, avevano ormai da tempo rubato i tuoi vent’anni, e quel tuo brobottar fiumesco era ormai per me il ricordo d’una serena sera passata in preghiera. Io poi sempre t’allungavo la mia mano trasparente e tu la prendevi riluttante, non fosse che per me, per sentire un po’ qualcosa. Quella volta in riva al fiume, ti buttasti a capofitto in pianti e lamenti, m’avevi lavato i piedi. E l’acqua disperando lacrime faceva a te da coro, del tuo patimento. Ho capito allora che m’amavi, e come poco più a te guardo più non posso parlare. Da tempo per te mi son sentita mancare e le ginocchia han preso a stringersi come al cedere d’un palazzo, un terremoto, una malattia. Prendiamoci per mano adesso, mancano appena otto anni e poi…
Bibliografia
Alighieri D. (1995), La divina commedia, BUR Rizzoli, Milano.Dostoevskij F. (2013), Delitto e castigo, Feltrinelli Editore, Milano.
Nietzsche F. (1979), Umano, troppo umano, I, Adelphi edizioni, Milano.
Rimbaud A. (2019), Opere, a cura di Olivier Bivort, Marsilio Editori, Venezia.
Saffo (2016), Poesie, traduzione di Franco Ferrari, BUR Rizzoli, Milano.
T. S. Eliot (1998), The Waste Land and other poems, Signet classic, Londra.
Francesco de Cristofaro (a cura di) (2020), Letterature comparate, Carocci, Roma.
Stefano Ercolino e Massimo Fusillo (2022), Empatia negativa. Il punto di vista del male, Bompiani, Milano.
I passi biblici sono citati secondo La Sacra Bibbia della conferenza Episcopale Italiana, Roma, Cei-Uelci (2008).