Tutti gli articoli di Mattia Cravero

Stadium

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Polvere olimpica, 1984, poi Un lungo duello, AM, II: 974

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Le nostre piccole Olimpiadi si svolgevano al pomeriggio, entro lo Stadium che sorgeva allora dove adesso è il Politecnico.
Era una costruzione faraonica, una delle prime in cemento armato erette in Torino: terminata verso il 1915, nel 1934 era già abbandonata e fatiscente, insigne esempio di spreco del pubblico denaro. L’anello della pista, lungo 800 metri, era ormai in terra nuda, cosparso di buche malamente riempite di ghiaia; sulle gigantesche scalinate crescevano erbacce ed alberelli stenti. Ufficialmente, l’ingresso era vietato, ma noi entravamo dal bar, portandoci dietro le biciclette.

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Oltre alla città in cui viveva e studiava, Torino fu per i. giovane Primo anche la città dello svago. Troviamo infatti diversi punti della sua opera in cui parla del rapporto che aveva con i suoi coetanei, con i quali usciva nel quartiere della Crocetta a giocare durante i pomeriggi della sua giovinezza. I ricordi appartenenti a questo periodo di tempo possono essere letti in alcuni racconti più tardi, apparsi su «La Stampa» a partire dagli anni Ottanta, poi confluiti (e a volte modificati) nelle raccolte pubblicate in quel decennio.

Uno di questi è senza dubbio quello da cui proviene l’estratto succitato, che descrive una parte non poco importante del paesaggio urbano del quartiere di Levi: prima del suo smantellamento, proprio vicino alla piazza centrale della Crocetta, si innalzava in tutta la sua mastodonticità lo Stadium, un edificio polifunzionale creato appositamente per le competizioni sportive ma durato poco più di trent’anni.

Il giovane Primo e i suoi amici non riuscivano certamente a resistere al fascino del proibito: nonostante il luogo ormai dismesso da anni e caduto in rovina fosse ormai effettivamente chiuso all’ingresso, I ragazzi che abitavano lì nelle vicinanze non perdevano occasione per entrarci e allenarsi negli spazi sterminati, completamente liberi per loro da usare nelle loro competizioni.

Non possiamo dire certamente se tutto quanto ciò che viene narrato nel racconto sia effettivamente attendibile, ma di certo queste gare atletiche (vere e proprie olimpiadi in miniatura, disputate dai più giovani con competizione serrata) si svolgevano e occupavano molto tempo della compagnia. È peraltro tramite il filtro della letteratura imparata sui banchi di scuola che Levi arriva al titolo dell’articolo, richiamandosi all’immaginario che sviluppava allora con i suoi compagni di gioco: l’articolo dell’Altrui mestiere si apre infatti con la citazione di Orazio e più in particolare del verso eponimo, il quale sblocca il ricordo delle competizioni della latinità che il gruppo di ragazzi (tutti maschi) studiavano a scuola e ripetevano nei loro pomeriggi di svago. Gli spazi abbandonati dello Stadium praticavano quante più discipline possibile, impegnandosi strenuamente nella competizione per dimostrare il loro valore a se stessi e agli amici, intenzionati a gonfiare la loro nomea nel quartiere, a renderla quanto più ammirevole, quasi leggendaria.

Vediamo questa serrata competizione caratterizzare specialmente il personaggio di Guido, protagonista del racconto insieme a Levi: è lui il motivo che spinge il giovane Primo a gareggiare continuamente, a dimostrare (inutilmente) di essere superiore ad una prestanza tanto sportiva (e incredibilmente versatile) quanto quella di Guido. Non riesce però a superare l’amico, che è sempre un passo avanti a lui; ciononostante, come osserverà lo scrittore maturo da un punto di vista cronologicamente molto più avanzato, non era tutto che un pretesto per definire meglio la propria identità e posizione sociale. Nella figura di Guido è possibile intravedere la spinta che spronava al confronto con l’altro, pratica vitale che lo faceva crescere, assumere sicurezza in se stesso, ottenere una propria statura fisica e spirituale ben definita e soddisfacente: quella stessa funzione che assolverà, più avanti, la Materia-Mater.

Al termine del racconto-ricordo, infatti, il chimico-scrittore conferma che al compagno nemico-amico si sentiva legato più da un sentimento di competizione che da una vera e propria amicizia. Al contrario delle sue altre frequentazioni abituali, il rapporto con Guido non resistette al tempo e si sgretolò fino a scomparire: al termine del racconto il Levi maturo scrive di non averne più avuto notizie, di non sapere chi tra i due «abbia riportato la vittoria nella gara di gran fondo della vita» (Polvere olimpica, 1984, poi Un lungo duello, AM, II: 977). Piuttosto, lo scritto si presenta come un amuleto in cui inoculare un ricordo, salvandolo al declivio memoriale, ritagliando una zona salva al deterioramento del tempo e imprimendola per sempre sulla carta.

Istituto Chimico

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Zinco, SP, I: 881

Passo
Si mormoravano sul suo conto [del Professor P.] le leggende assai sospette di spilorceria maniaca nella conduzione dell’Istituto Chimico e del suo laboratorio personale: che conservasse in cantina casse e casse di fiammiferi usati, che proibiva ai bidelli di buttare via; che i misteriosi minareti dell’Istituto stesso, che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo, li avesse fatti costruire lui, nella remota sua giovinezza, per celebrarvi ogni anno una immonda segreta orgia di ricuperi, in cui si bruciavano tutti gli stracci e le carte da filtro dell’annata, e le ceneri le analizzava lui personalmente, con pazienza pitocca, per estrarne tutti gli elementi pregiati (e forse anche i meno pregiati) in una sorta di palingenesi rituale a cui solo Caselli, il suo tecnico-bidello fedelissimo, era autorizzato ad assistere.

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Paradossalmente, il soggetto di questo estratto compare sottinteso: e quasi incoerente con la statura del suo personaggio, trattandosi di Giacomo Ponzio, allora rettore dell’Istituto di chimica e nonché professore di un estremamente giovane Levi, chimico in erba nei suoi primi anni di apprendistato universitario. Ponzio, il “professor P.”, era già scomparso all’epoca della pubblicazione, eppure Levi volle mantenere l’anonimato su una presenza tanto importante quanto la sua: sarà infatti proprio lui, dopo diverse citazioni nei capitoli del Sistema periodico che narrano gli anni alla facoltà di Chimica, l’unico professore ad accettarlo come tesista nonostante le leggi razziali dello stato fascista, alle quali non credeva, di cui anzi sembrava infischiarsene rinserrandosi sicuro dentro le mura del suo regno.

Sicuramente la storia è stata romanzata dallo scrittore maturo, tanto più che venne scritta circa trent’anni dopo essere stata vissuta: è molto probabile che la storia sia stata arrotondata e che il personaggio abbia risentito di una caratterizzazione relativamente forte. Ciononostante, Ponzio era un personaggio del tutto singolare: il classico tipo di professore vecchio stampo, che fece sudare sette camicie a molti degli studenti che passarono tra le sue grinfie. Così non fu per Levi, il quale iniziò a stimarlo sin da subito, avendo capito che si poteva trarre una morale di vita dalle sue lezioni di chimica (come ad esempio l’elogio dell’impurezza, prima grande lezione da mandare a memoria). Tale apprezzamento era anche ricambiato, poiché il docente e guardava al giovane come un allievo pieno di potenzialità e naturalmente predisposto all’imparare i misteri che la sua disciplina sondava.

Sono però questi anni in cui il giovane Primo non ha incredibilmente chiaro il percorso che si para davanti ai suoi passi: ai suoi occhi, le materie che gli vengono insegnate all’università sono quasi tutte favolose e affrontano il mondo in maniera esemplare, fornendosi dei nobili strumenti che hanno via via sviluppato e migliorato nel tempo, acuendo sempre più il genio della specie umana (ricordiamo ad esempio la figura dell’Assistente di Potassio, e con essa l’avvicinamento molto sentito di Levi alla disciplina fisica, la quale volle coniugare alla chimica nella sua stessa tesi di laurea).

In ogni caso, e specialmente dopo aver superato il test d’ingresso alla facoltà, Primo si sentiva una sorta di eletto: dai suoi studi sarebbe stato in grado di rifarsi delle verità rivelate propinategli durante il liceo, avrebbe potuto conoscere la materia dallo scontro a tu per tu (in particolare durante le lezioni di Ponzio, nelle estenuanti ore passate in laboratorio), avrebbe ottenuto la chiave per sondare i sommi capi dell’universo. E come tale la chimica si presentava quasi alla pari di un mistero iniziatico: Ponzio era colui che, facendo da cerimoniere, avrebbe guidato ogni partecipante alle sue lezioni alla scoperta della verità ultima che soggiace agli elementi e alla loro interazione atomica.

Nell’estratto qui riportato, si intravede infatti una parte fondamentale dell’Istituto Chimico che spicca nella linea dell’orizzonte torinese in corrispondenza del parco del Valentino: «i misteriosi minareti […] che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo», tali ancora oggi (seppure il dipartimento sia ora ubicato nell’edificio dirimpetto). Sarebbero dunque le stesse torri che, nella loro origine mitica – quasi leggendaria – si diceva che Ponzio avesse fatto costruire apposta per tenere sotto controllo qualsiasi reazione chimica innescata tra le mura del suo dominio, al fine di tenere (maniacalmente) sotto controllo il suo regno e guadagnare recuperando gli scarti fino all’osso.

Biblioteca dell’Istituto Chimico

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Azoto, SP, I: 991

Passo
Appena mi fu possibile filai in biblioteca: intendo dire, alla venerabile biblioteca dell’Istituto Chimico dell’Università di Torino, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io. […] L’orario era breve ed irrazionale; l’illuminazione scarsa; gli indici in disordine; d’inverno, nessun riscaldamento, non sedie, ma sgabelli metallici scomodi e rumorosi; e finalmente, il bibliotecario era un tanghero incompetente, insolente e di una bruttezza invereconda, messo sulla soglia per atterrire col suo aspetto e col suo latrato i pretendenti all’ingresso.

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni) e, come molti dei racconti presenti in questa raccolta, testimonia anche il mestiere di chimico non fu per Levi una grigia occupazione statica, quanto più un lavoro itinerante e dinamico.

Specialmente in Azoto, il testo qui citato: per soddisfare il desiderio di un cliente che si era presentato richiedendo niente più che una consulenza, il giovane chimico Levi viene incaricato di risolvere un mistero: perché il rossetto prodotto dal cliente di cui si parla in questo racconto non funziona come dovrebbe, e produce scempi estetici invece di imbellettare le signore che lo usano? Questa è la mansione che viene affidata alla ditta Levi-Salmoni.

Armato di pazienza e dei fondamentali ferri del mestiere che poteva reperire nel laboratorio, Levi analizza la ricetta chimica del rossetto e scopre che per migliorarlo serve assolutamente l’allosana. Il suo cliente, estasiato, gliene commissiona una grande quantità, che si dice disposto a pagare anche a caro prezzo; vista la difficoltà del periodo e la lentezza della ripresa nel Dopoguerra, l’opportunità non può essere lasciata andar persa. Ma dove trovarla?

Per essere risolto, il caso chimico necessita innanzitutto di uno studio teorico. E quale luogo migliore per svolgere delle ricerche dell’arca memoriae in cui il giovane Levi si era formato, e che aveva imparato a conoscere e frequentare già da studente? Per questo motivo la Biblioteca dell’Istituto Chimico (che nel 1985 venne intitolata proprio al professor Giacomo Ponzio, il rettore dell’Istituto di cui si parla nel capitolo Zinco e con cui Levi discusse la sua tesi di laurea, l’unico suo professore che lo accettò come tesista nonostante le sue origini ebraiche) gli offrì il retroterra ideale per iniziare le sue ricerche e ottenere risultati contro le sfide della materia.

Nel breve spaccato sopra citato rivive la biblioteca che gli aspiranti chimici frequentavano assiduamente durante il loro percorso di formazione universitaria: come negli altri passi, però, il complesso non è descritto in chiave paradisiaca, quanto più di degrado. Non si tratta infatti di un oasi idilliaca di sapere con personale estremamente disponibile e locali perfettamente predisposti allo studio, quanto più di un luogo relativamente inospitale, non completamente adatto allo studio poiché sprovvisto delle basilari condizioni invece necessarie agli studenti per implementare la loro formazione. Anche qui come altrove, inoltre, l’Istituto di Chimica è descritto al pari di un luogo dalla spiccata natura iniziatica: già a partire dall’accesso alla biblioteca, secondo Levi considerabile alla stregua di una vera e propria prova di pertinacia.

Rispolverando i segreti del mestiere imparati durante l’apprendistato universitario, il chimico ancora alle prime armi riporta il suo percorso libresco in uno spaccato teorico, ricostruendo e spiegando i procedimenti che dovrà intraprendere per portare a termine il proprio compito: con la professionalità del ricercatore, salta da un libro all’altro, mobilita la sua attenzione nell’inseguimento dei rimandi presenti nei libri. Nella fase di reperimento dei dati, Levi trascina il lettore con lui nel percorso che lo porta da un riferimento ad altre innumerevoli pubblicazioni. Il tutto a giustifica del fatto che i fondi librari – nonostante tutto, e al contrario dei locali – non erano poi così mal gestiti; anzi, in questo caso giocarono un ruolo fondamentale e approntarono il sostrato teorico da cui poté prendere avvio la parte pratica: quella «ricerca nei pulitissimi scaffali, odorosi di canfora, di cera e di secolari fatiche chimiche» (Azoto, SP, I: 993) portò frutti notevoli, almeno in via speculativa.

Corso Francia

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Azoto, SP, I: 994

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In primo luogo, la pollina (si chiama così: noi inurbati non lo sapevamo, né sapevamo che, sempre per via dell’azoto, è apprezzatissima come concime per gli orti) non si regala, anzi si vende a caro prezzo. In secondo luogo, chi la compra se la va a raccattare, entrando a quattro gambe nei pollai e spigolando per le aie. In terzo luogo, ciò che effettivamente si raccoglie può essere direttamente usato come fertilizzante, ma si presta male ad ulteriori lavorazioni: è un miscuglio di sterco, terra, sassi, becchime, piume e pèrpójìn (sono i pidocchietti delle galline, che si annidano sotto le ali: non so come si chiamino in italiano). Ad ogni modo, pagando non poco, faticando ed insudiciandoci parecchio, la moglie impavida ed io ce ne ritornammo a sera per Corso Francia, con un chilo di sudata pollina nel portapacchi della bicicletta.

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni) e, come molti dei racconti presenti in questa raccolta, testimonia anche il mestiere di chimico non fu per Levi una grigia occupazione statica, quanto più un lavoro itinerante e dinamico.

Specialmente in Azoto, il testo qui citato: per soddisfare il desiderio di un cliente che si era presentato richiedendo niente più che una consulenza, il giovane chimico Levi viene incaricato di risolvere un mistero: perché il rossetto prodotto dal cliente di cui si parla in questo racconto non funziona come dovrebbe, e produce scempi estetici invece di imbellettare le signore che lo usano? Questa è la mansione che viene affidata alla ditta Levi-Salmoni.

Armato di pazienza e dei fondamentali ferri del mestiere che poteva reperire nel laboratorio, Levi analizza la ricetta chimica del rossetto e scopre che per migliorarlo serve assolutamente l’allosana. Il suo cliente, estasiato, gliene commissiona una grande quantità, che si dice disposto a pagare anche a caro prezzo; vista la difficoltà del periodo e la lentezza della ripresa nel Dopoguerra, l’opportunità non può essere lasciata andar persa. Ma dove trovarla? Soltanto dopo un pellegrinaggio fondamentale alla biblioteca della Facoltà di Chimica e una ricerca forsennata, Levi si rende conto di poter trovare il composto nello sterco del pollame o dei serpenti.

Vista l’esoticità del secondo animale e la grande abbondanza nostrana del primo, Levi decide di fare un giro nei pollai dei contadini dell’area campagnola subito fuori da Torino centro. La mansione non sarà difficile: dopo qualche chilometro di pedalata, pensa, dovrà soltanto raccogliere lo sterco dei volatili e, ritornato al laboratorio, isolare l’elemento per produrre infine l’allosana (proprio come un ritorno alle origini della chimica, agli antichi alchimisti, perché «la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima», Azoto, SP, I: 993).

In questa avventura lo accompagnerà la «recentissima moglie» (Azoto, SP, I: 994): i due andranno in campagna proprio alla ricerca di pollai, pronti a battere il tappeto escrementizio alla ricerca di quello che avrebbe fruttato loro un notevole guadagno. Levi scrive infatti: «avrei preso la bicicletta, e fatto un giro per le cascine della periferia (a quel tempo c’erano ancora) in cerca di stereo di gallina» (Azoto, SP, I: 994), segnando una testimonianza non poco importante, salvando dalle derive della memoria il fatto che l’odierna Collegno (ormai unita al centro di Torino a causa dell’irresistibile urbanizzazione) era una volta formata da un gruppo di cascine rurali, con contadini, animali e verdi campagne tutt’attorno. Era dunque alla portata di ogni torinese, giusto a qualche chilometro di bicicletta, un angolo agreste che oggi non si conserva più, e che è anzi stato sostituito completamente dal cemento e dall’asfalto.

L’impresa però riesce e i due neo-coniugi tornano a casa la sera vittoriosi: percorrendo un corso Francia libero dalle orde di macchine che lo popolano invece oggi quotidianamente a quasi tutte le ore del giorno, si godono la gita fuori porta lontano dal traffico e dalla confusione cittadina, ritornando in un ambiente che, all’epoca, viveva ancora immutato da tempo, prima di cambiare definitivamente i propri connotati in seguito alla spinta urbanistica degli anni Cinquanta-Sessanta.

Via Roma sotterranea

Citato in
Azoto, SP, I: 994

Passo
[…] proprio in quei giorni, nella galleria della Metropolitana (che esiste a Torino da quarant’anni, mentre la Metropolitana non esiste ancora) era stata inaugurata una mostra di serpenti. Perché non andare a vedere? I serpenti sono una razza pulita, non hanno piume né pidocchi e non razzolano fra la polvere; poi, un pitone è ben più grosso di una gallina. Forse i loro escrementi, al 90 per cento di acido urico, si potevano ottenere in abbondanza, in pezzatura non troppo minuta e in condizioni di purezza ragionevole.

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni) e, come molti dei racconti presenti in questa raccolta, testimonia anche il mestiere di chimico non fu per Levi una grigia occupazione statica, quanto più un lavoro itinerante e dinamico.

Specialmente in Azoto, il testo qui citato: per soddisfare il desiderio di un cliente che si era presentato richiedendo niente più che una consulenza, il giovane chimico Levi viene incaricato di risolvere un mistero: perché il rossetto prodotto dal cliente di cui si parla in questo racconto non funziona come dovrebbe, e produce scempi estetici invece di imbellettare le signore che lo usano? Questa è la mansione che viene affidata alla ditta Levi-Salmoni.

Armato di pazienza e dei fondamentali ferri del mestiere che poteva reperire nel laboratorio, Levi analizza la ricetta chimica del rossetto e scopre che per migliorarlo serve assolutamente l’allosana. Il suo cliente, estasiato, gliene commissiona una grande quantità, che si dice disposto a pagare anche a caro prezzo; vista la difficoltà del periodo e la lentezza della ripresa nel Dopoguerra, l’opportunità non può essere lasciata andar persa. Ma dove trovarla? Soltanto dopo un pellegrinaggio fondamentale alla biblioteca della Facoltà di Chimica e una ricerca forsennata nei pollai dei contadini dell’area campagnola subito fuori da Torino centro, Levi si rende conto di poter trovare il composto nello sterco dei serpenti (oltre che in quello del pollame).

Per combinazione, era stata inaugurata proprio in quei giorni una mostra di rettili (organizzata da Angelo Lombardi, che qualche anno più tardi sarebbe divenuto un celebre divulgatore televisivo del mondo animale) proprio nello scavo che il Comune di Torino aveva iniziato per creare le gallerie della metropolitana. Nelle immense sale di quello che oggi è divenuto un parcheggio sotterraneo, innumerevoli teche riempite di rettili erano in quei giorni uno degli oggetti di osservazione più gettonati tra i torinesi. Anche in questo caso possiamo vedere come nel Sistema Periodico sia stata inoculata una memoria geocritica, che ci permette oggi di scoprire il volto della città per come la conobbe (e conosceva) Levi. Torino aveva un volto profondamente diverso rispetto a quello odierno, di cui noi oggi possiamo osservare soltanto le vestigia, eventualmente ricostruendo e interpellando i frammenti memoriali che il chimico-scrittore ha lasciato nella sua opera.

Spiega bene Levi: quegli scavi erano stati iniziati quarant’anni prima (negli anni Trenta, poiché il volume è scritto negli anni Settanta, pur raccontando una storia risalente alla fine degli anni Quaranta) al fine di far transitare una metropolitana sul modello delle principali grandi capitali europee. Il luogo prescelto sarebbe stato proprio il centralissimo spazio di terreno sotto via Roma, che a più riprese venne trivellato, svuotato e puntellato per creare gli spazi che avrebbero aperto ancora di più la città alla modernità. Ma gli scavi vennero realizzati solo in parte e furono sospesi: il capoluogo torinese dovrà aspettare fino al nuovo millennio per vedere realizzata effettivamente le due linee della metropolitana che oggi percorrono l’underground e che così tanti utenti utilizzano ogni giorno; all’epoca, invece, i locali sotto via Roma rimasero vuoti e furono utilizzati come spazio espositivo (come testimoniano le parole di Levi), finché, collegandosi con altri scavi adiacenti, non divennero gli odierni parcheggi sotterranei.