Corso Matteotti

Citato in
Agenda, 1984, AP, II: 778-779

Passo
[…]
In una notte come questa
C’è un travestito in corso Matteotti
Che donerebbe un polmone od un rene
Per incavarsi e diventare femmina.
[…]

Fonte: facebook.com/photo?fbid=4065029400204014&set=gm.1132237867139860

*

Risalente al gennaio 1985, è certamente un’altra delle “poesie urbane” di Levi. Appartiene ad una stagione poetica diversa, quella di “altre poesie”, e infatti a una datazione relativamente tarda, verso gli ultimi anni di vita di Levi.

La particolarità principale di questa poesia sta nel fatto che è un agglomerato di strofe che riassumono la vita di vari abitanti della città e del mondo intero. Lo sguardo del poeta attraversa la notte e ricerca nel fitto delle sue trame delle storie da raccontare in versi, immaginandola, ipotizzandole, lasciandone memoria ai posteri. Non è infatti presente un contesto di fondo unitario, in quanto le parole del poeta si muovono tra tradizione e modernità, tra stato d’animo e posizione fisica, tra momento di vita ed esistenza in generale. È una sorte di ode agli infiniti respiri che la sensibilità del poeta è in grado di captare (e inoculare nei suoi versi) pensando ad un dato momento della giornata, forse quello più magico ed evocativo, soffuso, confuso nel buio: è l’“ora incerta” in cui si muove il fare poetico della produzione di Levi. In particolare, la struttura anaforica (poiché il primo verso di ogni strofa è uguale, e recita “in una notte come questa”) rappresenta lo snodo che conduce ai diversi soggetti descritti, ai quali punta lo sguardo del poeta.

È presente in particolare un rimando fisico ben specifico: quello a Corso Matteotti, non troppo lontano da corso Re Umberto, dove Levi immagina la presenza di un travestito che passeggia trascorrendo la propria vita, tormentato dai propri pensieri: “donerebbe un polmone od un rene / Per incavarsi e diventare femmina”. È una delle preoccupazioni più diffuse tra i transessuali e transgender: la maledizione della natura che li ha costretti in un corpo in cui non si sentono a proprio agio, che vorrebbero cambiare nelle sue parti più costitutive per poter finalmente realizzare se stessi ogni giorno e sentire finalmente che la propria anima si trova a casa.

È molto singolare che Levi, ritroso nei confronti del sesso e della sessualità, scelga di dedicare una strofa a questo malessere; tuttavia, ciò non stupisce più di tanto, in quanto il pensiero va subito al mito di Tiresia, l’indovino tebano che per magia era stato tramutato da uomo a donna e poi di nuovo da donna a uomo. Una figura affatto aliena dall’immaginario di Levi: nella chiara stella dedica un capitolo a questa figura mitologica, e confessa di sentire una comunanza non da poco: così come Tiresia aveva cambiato corpo durante la sua vita, egli stesso aveva sperimentato conturbante mistero della metamorfosi. Aveva infatti provato diversi mestieri, in quanto prima fu chimico, poi scrittore perché testimone, testimone perché deportato, e deportato perché ebreo. Sta proprio qui la vicinanza con il travestito citato nella strofa in questione: come lui e come ogni altro essere naturale, la natura obbliga i corpi a mutare, a volte spietatamente, oppure li lascia imprigionati per tutta la loro vita in una forma che non è per loro opportuna. Ben conscio di quale peso sia sperimentare la conseguenza della metamorfosi direttamente sulla propria pelle, Levi inserisce il problema esistenziale del travestito nella sua enumerazione e si fa suo araldo, includendolo nella rappresentativa disamina che traccia un profilo muovendosi dal particolare all’universale, dalle singole esistenze che, nel loro insieme, formano la multiformità dei casi della vita.

Via Cigna

Citato in
Ad ora incerta, 1973, AOI, II: 705

Passo
In questa città non c’è via più frusta.
È nebbia e notte; le ombre sui marciapiedi
Che il chiaro dei fanali attraversa
Come se fossero intrise di nulla, grumi
Di nulla, sono pure i nostri simili.
Forse non esiste più il sole.
Forse sarà buio sempre: eppure
In altre notti ridevano le Pleiadi.
Forse è questa l’eternità che ci attende:
Non il grembo del Padre, ma frizione,
Freno, frizione, ingranare la prima.
Forse l’eternità sono i semafori.
Forse era meglio spendere la vita
In una sola notte, come il fuco.

Fonte: facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2353903314894444

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Risalente al febbraio 1973, è forse una tra le più singolari poesie di Levi. Ha un forte valore geocritico, in quanto è dedicata interamente ad una via di Torino: via Francesco Cigna, una delle più importanti e più lunghe, che attraversano la città dividendola in molti quadrati geometrici quasi perfetti.

In particolare, via Cigna è incredibilmente trafficata, oggi come allora: è “frusta” ed è il simbolo della modernità industriale della città, che Levi vede rispecchiata nel traffico che ogni giorno si genera sulle sue strade. Non è dunque, nonostante il contesto poetico, la descrizione di un quadro idilliaco: anzi, il poeta scrive che la via “è nebbia e notte”, che l’unica traccia di luce proviene dai fasci elettrici dei fari delle auto mobili che la attraversano, o dei semafori che ne scandiscono il caotico passaggio. Sono proprio questi “fanali” l’unica traccia di “chiaro”: illuminano i marciapiedi (elemento fondamentale della città, come scrive anche in un articolo dell’Altrui mestiere), e con essi le dantesche ombre che li popolano, anche a tarda notte.

Compare a quest’altezza della poesia il punto più desolante: nella comparativa ipotetica al quarto verso, compare la terrificante parola “nulla”, che priva della propria personalità ogni qualsivoglia presenza descritta in questo giro di versi. Quelli che dovrebbero essere i nostri “simili”, pur rimanendo tali, sono qui descritti come “grumi / Di nulla”, come spettrali presenze che formicolano nella città durante la notte. È infatti scomparso ogni quadro che possa far pensare ad una poesia a sfondo arcadico o idilliaco, e l’incertezza inizia ora a regnare sovrana, spazzando via ciò che invece sembra essere sicuro al di fuori di ogni dubbio: “Forse non esiste più il sole. / Forse sarà buio sempre”, scrive Levi abbandonandosi ad un quadro eccessivamente grigio, cupo, quanto mai distante dalla bellezza naturale di un paesaggio o di un quadro naturalistico (come quelli che tanto gli piaceva visitare e vivere, nelle oasi di natura incontaminata che conosceva).

Ci troviamo qui agli antipodi: nemmeno ci sono più le stelle in cielo, quelle che guidavano i marinai nella navigazione tantissimo tempo fa. Sono sparite le Pleiadi, le quali non ridono più, cioè non formano più costellazioni nel cielo; non che siano sparite del tutto, ma certo non sono più visibili ad occhio nudo dall’uomo a causa della coltre di inquinamento luminoso che copre la città.

Sparisce infatti nel verso successivo ogni qualsivoglia traccia di relazione panica con l’universo: non c’è più un “grembo del Padre” in cui redimersi, cioè un’opportunità di divenire un tutt’uno con la Terra su cui viviamo e sentirci parte di essa, bensì soltanto la modernità imperante: “frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “Forse è questa l’eternità che ci attende”. Non è un quadro disperato, però di certo non è tra i più rose: forse esaurito dal soffocante traffico che tutti i giorni doveva attraversare per spostarsi, o per recarsi al lavoro, Levi non riesce a pensare ad altro se non alla snervante attesa nella colonna di veicoli in cui tutti i giorni si trova imbottigliato. Il pensiero è tanto forte da lasciarlo con un amaro pensiero che, non casualmente, guarda proprio a quell’ormai lontano mondo naturale sepolto sotto al cemento e all’asfalto: piuttosto di aspettare così a lungo per raggiungere la propria meta, “Forse era meglio spendere la vita / In una sola notte, come il fuco”.

Corso Re Umberto 75

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La mia casa, 1982, poi in AM, II: 803-806

Passo
Abito da sempre (con involontarie interruzioni) nella casa in cui sono nato: il mio modo di abitare non è stato quindi oggetto di una scelta. […] La mia casa si caratterizza per la sua assenza di caratterizzazione. Assomiglia a molte altre case quasi signorili del primo Nove­ cento, costruite in mattoni poco prima dell’avvento irresistibile del cemento armato; è quasi priva di decorazioni, se si eccettuino alcune timide reminiscenze di Liberty nei fregi che sormontano le finestre e nelle porte in legno che dànno sulle scale. È disadorna e funzionale, inespressiva e solida: lo ha dimostrato durante l’ultimo conflitto, in cui ha sopportato tutti i bombardamenti cavandosela con qualche danno ai serramenti, e qualche screpolatura che porta tuttora con l’orgoglio con cui un veterano porta le cicatrici. Non ha ambizioni, è una macchina per abitare, possiede quasi tutto ciò che è essenziale per vivere, e quasi nulla di quanto è superfluo.

Con questa casa, e con l’alloggio in cui abito, ho un rapporto inavvertito ma profondo, come si ha con le persone con cui si è convissuto a lungo […].

Fonte: http://www.atlanteditorino.it/approfondimenti/ippocastano.html

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Questa è una delle parti centrali della Torino di Primo Levi: è il punto in cui iniziò e finì la sua vita, dove crebbe e visse ad eccezione dei periodi di lavoro fuori Torino, e ovviamente dell’oscura e vorticosa parentesi di Auschwitz. L’edificio è tanto importante che Levi vi dedica l’articolo iniziale dell’Altrui mestiere (pubblicato nel 1985), una delle sue più sentite e sincere prove di scrittura che racchiudono in sé tutta la bellezza del luogo (che sta, qui come nel detto, negli occhi di chi guarda).

Levi è chiaro: ammette sin da subito di sentirsi fortemente legato a quelle mura, tanto solide da resistere addirittura alla formidabile tempesta della Seconda Guerra Mondiale, e di sentirsi pienamente a proprio agio: ci sono, in particolare, tre similitudini di natura biologica che testimoniano questo legame. Nelle prime righe Levi scrive di sentirsi come «certi molluschi, ad esempio le patelle, che dopo un breve stadio larvale in cui nuotano liberamente, si fissano ad uno scoglio, secernono un guscio e non si muovono più per tutta la vita»: ecco il suo occhio entomologico che ritrova, nella natura delle cose, un correlativo in cui rispecchiarsi. In seguito, passa a dire che, se vi fosse separato (come tristemente gli toccò in sorte), si sentirebbe «come una pianta che venga trapiantata in un terreno a cui non è avvezza»: il metaforismo botanico di questa citazione richiama lo stesso di Cromo, nel Sistema periodico, dove questo paragone ricorre per indicare la stesura di Se questo è un uomo, quando Levi sperimenta appieno il potere catarticamente curativo della scrittura, grazie alla quale può esorcizzare i fantasmi del Lager. La terza similitudine si trova invece alla fine: «Abito a casa mia come abito all’interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia». In queste parole, Levi suggella il sodalizio con uno dei suoi luoghi preferiti, il migliore per essere se stesso, che lo conosceva da tutta una vita, della quale fu costante punto di riferimento.

MOVIMENTO II – Morte in fiore

Alice Ferretti, in queste sue due composizioni, si concentra sulla nascita della vita come declinata secondo l’Edda poetica, proponendo una lettura personale e un suo disegno inedito. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini I. I miti e la scienza, Letterature comparate B, modd. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Riparto dalla fine del primo movimento. L’uomo e la donna vivono nel mondo moderno e come nel mito dell’androgino desiderano tornare ad essere un unico corpo (acqua nel movimento I), ma l’unico modo che hanno per riuscirci e unirsi nell’atto d’amore. L’amore consumato porta la gioia, un senso di completezza che però scivola via e non può durare, così come neppure il loro essere giovani, innamorati, vivi. L’io cerca disperatamente un modo per sfuggire al tempo, rivolgendosi alle proprie mani e alla propria arte, ma non è in grado neppure di immaginare tutti gli infiniti momenti che vorrebbe insieme potessero passare e così si rivolge alla natura e le chiede di trasformarli in rosa: un fiore che ancora una volta li renda uno e che per il mondo sia monito di cosa vuol dire amare. La poesia si ispira a moltissimi temi affrontati durante il corso: il mito dell’androgino, l’atto creativo e la bellezza come cure alla morte e al tempo, l’incapacità dell’artista di creare la perfezione e l’infelice tensione all’infinito, la trasmutazione grazie all’amore. Inoltre sono ripresi diversi topoi ricorrenti negli stessi testi: il fiore e la rosa, gli occhi come tramite d’amore, l’arco d’amore, la fiamma della passione; e figure retoriche come la personificazione della Notte e del Caos.
Il testo si pone come controparte asimmetrica rispetto al primo: le prime strofe (se così si possono chiamare) riprendono la struttura ritmica e molto altro dal primo testo per segnarlo come sua continuazione naturale, ma questo movimento II presenta una strofa in più a chiusura e conclusione.

*

Ti ho cercata,

in corpi che non conosciamo[AF1] ,

mentre la Notte cammina

– tra lampioni spenti e lattine abbandonate –

ti ho cercata.

Vorrei ci riunissimo in un abbraccio che è di carne e di acqua,

scorre tra le pieghe della nostra vita arrossata.

Ma cammino solo.

Tu che scompari lontana, con i piedi che strisciano l’asfalto

E lo trasformano

in polvere, e vapore di brina [AF2] 

che annebbia e rattrista ogni cosa.

Mentre sdraiamo i nostri piedi su questa strada

È l’Amore che cammina.

Chiudo forte questi occhi che non hanno che la tua immagine a mira[AF3] , perché sei il mio eterno presente, dove non ci sono rimpianti

Ma solo sogni da sperare e speranze da scoprire.

E il tempo è il tiranno contro cui lottare

E che ci insegue da una vita,

in lungo e in largo,

fino a spingerci lontano,

lontano[AF4] .

Ti sento andare a fuoco,

la pelle rientrare,                        

i tuoi battiti aumentare,

Le tue carni calde che premono sulle mie

i nostri corpi trasformare

questo abbraccio che ci unisce, non è privilegio di un mortale.

“Ti voglio”

Lascio che il desiderio ci scivoli addosso,

che i respiri si mischino piano.

Vorrei riassorbirci, cancellarci in uno: eliminiamo le distanze

Di quest’esistenza solitaria.

Ma cammino solo.

Ci attraiamo e ci allontaniamo. [AF5] 

Cammino solo.

E il mondo resta fermo a quest’incrocio

Tra ciò che siamo e ciò che sentiamo. [AF6] 

Ti stringo.

E ci stringiamo.

Ci allontaniamo e ci attraiamo.

“Ti voglio”.

Ma l’Amore resta fermo a quell’incrocio

Tra ciò che non sappiamo e ciò che non sentiamo.  [AF7] 

Solo l’eco del tuo bacio rimbomba

Come una fiamma[AF8]  nel mio ventre

Che non muore e non si estingue

Vorrei plasmarla per creare

Il tuo volto

Su questo foglio sottile

E stringerlo tra i palmi

E poterci annegare[AF9] .

Che se la morte poi dovesse venire

Sarei fuggito e ti avrei salvata

Al sicuro dipinta tra parole

Sussurrate dalle mie labbra

e trasformate in futuri mai avvenuti

che solo così potrò avverare.

Ma a me non appartiene

né foglio né inchiostro [AF10] 

E soffro e desidero. [AF11] 

E quando ti guardo negli occhi

E le tue labbra sfioro

Non ho più corpo da cercare[AF12] 

E semplicemente sono.

E allora, se poi dovessi andare,

Pianterò per noi una rosa

che al mondo i suoi petali ricordino qualcosa [AF13] 

e che la sua essenza [AF14] ci confonda[AF15]  ancora. [AF16] 


[AF1]I corpi così definiti e separati, così diversi dall’essere acqua fluida che scorre e muta

[AF2]L’oggetto rimanda alla condizione prima della vita che provoca una tristezza nostalgica e inconsapevole

[AF3]Il topos dell’arco d’amore legato al topos degli occhi

[AF4]È l’eco, della solitudine e della voce amata, che raddoppia l’espressione della solitudine

[AF5]Quello che in Movimento I era il moto ondoso dell’acqua, nel Movimento II è l’oscillare dei corpi nell’atto d’amore

[AF6]Il mondo bloccato dal sentimento d’amore è pronto ad avanzare, perché sentirsi uno non è esserlo: l’abbraccio dovrà sciogliersi. 

[AF7]Ora è l’Amore ad essere bloccato, perché gli innamorati non sanno che l’essere uno era il loro stato originale

[AF8]Il topos della fiamma come simbolo della passione è qui al contempo tramite della passione amorosa e della passione creativa

[AF9]Il verbo richiama volutamente l’acqua elemento portante del Movimento I, e fa riferimento all’annullamento come individuo ma anche all’immergersi nel proprio subconscio, come in un liquido amniotico che preserva e rigenera.

[AF10]Ma l’artista non ha il mezzo né il concetto per poterli salvare dal tempo

[AF11]Citazione da Tramontata la luna di Saffo.

 [AF12]Ripresa dei versi iniziali

[AF13]L’Amore è incomunicabile, non può essere spiegato o insegnato, ma è sentimento ancestrale che la bellezza risveglia.

 [AF14]Il profumo è il primo dei sensi che sviluppiamo, e la memoria olfattiva è profondamente legata all’affetto.

[AF15]Ripresa di verbo dal Movimento I, usato lì proprio per indicare i corpi che si mescolavano nel momento della creazione: qui è l’iter inverso.

[AF16]L’ultimo verso è il trionfo dell’amore. Allo stesso tempo la sua rinuncia: i due innamorati riescono a tornare uno, ma non recuperano il loro corpo materiale.

MOVIMENTO I – Genesi dall’acqua

Alice Ferretti, in queste sue due composizioni, si concentra sulla nascita della vita come declinata secondo l’Edda poetica, proponendo una lettura personale e un suo disegno inedito. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini I. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1-2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Riprendendo la parte in versetti e alcune versioni dell’origine riportate dagli Asi, tento di riscrivere del passaggio dal caos alla vita. Come fa l’Edda riconduco il principio vitale all’incontro tra gelo e calore, e in particolare all’acqua che, trasmutando prima in vapore e poi in brina, dà forma alla prima figura d’uomo, nel testo semplicemente un corpo, e tornando acqua sotto forma di sudore origina l’uomo (versione di Har, capitolo 5). Scelgo l’acqua non solo perché elemento centrale alla narrazione delle origini norrena, ma anche per il suo fluire e mutare di stato che certo può essere associato alla metamorfosi. La forma scelta per la riscrittura è quella di una prosa liricizzata, che permetta con le assonanze di ricostruire il fluire e mutare dell’acqua, non lento ma agitato e turbato affinché trasmetta la sensazione di angoscia che pensare al caos mi porta, e in rimando a quella malvagità che i norreni attribuivano intrinsecamente a ogni cosa.

*

Nulla che grida al vuoto,

il tempo remoto che rinnega i pensieri[mf1] ,

il caos di cosa non è

– né sabbia né mare né onde –

e ha spazio ma nessun luogo.

Una voragine immensa che squarta, violenta,

scartavetra una terra e una volta del cielo che non ci sono.

Non cresce ancora l’erba.

Io che fluisco lontana, come schiuma velenosa[mf2] 

che indurisce e diventa ghiaccio

e, quando ghiaccio mi faccio,

mi disperdo in vapore di brina, e ricompro ogni cosa.

È innumerevoli inverni prima che la terra sia creata,

ma nel nulla c’è odore di primavera[mf3].

Trasudo forte [mf4] questo gelo vitale che crea il passato che non so,

perché sono un eterno presente, dove non ci sono ieri

ma solo spazi già inondati e quelli da coprire.

Ed il domani è un verbo[mf5]  contro cui andare

e che mi sale da una vita,

su e giu, giu e su,

fino a spingermi lontano,

lassù[mf6].

Mi sento andare a fuoco,

le molecole rientrare,

gli atomi sfrigolare.

Le arie calde che premono sulle gocce,

la mia massa trasmutare.

Colui che invia questo calore ha una parola solida, letale[mf7] .

“Smettila”

Lascia che il caldo [mf8] mi scivoli addosso,

che le gocce scorrano piano.

Vorrei riassorbirle; cancellarci in una: eliminiamo le tracce di questo smarrimento momentaneo.[mf9] 

“Lasciaci andare”

Ci allontaniamo e ci attraiamo.[mf10] 

Mi aggrego e sono nato.

E, solo, regno dormiente in questa sala profonda,

senza né volta né pavimenti.

E mi agito.

E ci agitiamo.

Ci attraiamo e ci allontaniamo.

“Lasciaci andare”.

Siamo acqua che è confusione: non ci capisco più niente.

Gocce di sudore che confondono i contorni di questo corpo.[mf11] 

Li mischiano, li sbavano, indeboliscono.

Acqua che è movimento, che è terrore, è panico,

aiutami, aiutami,

dimmi che non c’è niente da temere,

perché va tutto bene, perché ci siamo immaginati ogni cosa, e se non è così

dimmi che è tutto a posto,

perché siamo un tutt’uno, perché non siamo cambiati,

e se siamo cambiati non importa,

perché siamo io e te

assieme.[mf12] 

Acqua che si asciuga e ci forma.

Siamo l’uomo e la donna.


[mf1]Il pensiero è associato agli esseri viventi, e siamo in un passato dove non c’è vita.

[mf2]La coppia è ripresa direttamente dalla traduzione dell’Edda di riferimento.

[mf3]La primavera rappresenta la vita che nasce.

[mf4]Ripresa di “respiro forte”, associabile a un momento di concentrazione prima di un’azione particolare, e rielaborato sul tema dell’acqua e del liquido: un dare che è generare; lo scorrere del sudore; il mutare della fatica in liquido…

[mf5]Qui per ‘ordine’: l’acqua va letteralmente incontro al domani, rappresentazione dei luoghi davanti a lei; allo stesso tempo è prigioniera di un corso tracciato, un fato a cui nel tentativo di opporsi finisce per sottostare “su e giù…. lassù”(ripresa della concezione greca, sull’esempio del mito edipico). 

[mf6]La creazione è legata generalmente a una divinita celeste.

[mf7]La frase si apre con “Colui che invia questo calore”, ripresa pari dalla traduzione dell’Edda di riferimento. L’associazione di questa identità, indefinita ma certa, a “parola” è un rimando ai testi biblici, dove la parola è emanazione del potere divino, qui “letale” perché appartenente a colui che ha potere sulla vita e sulla morte, ma allo stesso tempo designata solo nella sua componente negativa per un’associazione degli opposti: il gelo vitale (v.14) opposto al calore letale. 

[mf8]Come in Blake, il principio vitale e l’evoluzione vengono dagli opposti: il caldo scioglie il ghiaccio, e permette alle gocce di assumere nuova forma.

[mf9]Il cambio continuo tra prima persona plurale e prima persona singolare, e viceversa, fa riferimento alla natura particellare dell’acqua e dei corpi.

[mf10]Movimento degli atomi al variare della temperatura.

[mf11]Una variante significativa dalla prima stesura “confondono i contorni di questo abbraccio”: gli atomi si legano gli uni agli altri per formare la materia (corpo).

[mf12]La forma è stata preferita ad “insieme” perché la s mima il rumore dell’acqua, e l’assimilazione consonantica trasmette un idea di coppia e di indivisibile.

Il blog degli studenti di Culture e Letterature Comparate di Torino