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Pagliaccio non son

Carlotta Petruccioli dopo essersi laureata al Conservatorio di Torino, aver fatto parte del Coro di Voci Bianche del Teatro Regio di Torino per più di dieci anni e aver partecipato a centinaia di rappresentazioni ha sviluppato una grande passione, al limite dell’ossessione, in realtà, per l’opera lirica e per la musica in generale. Avendo la possibilità di rileggere a fondo l’Hamlet di Shakespeare e di stenderne una riscrittura, non ha resistito e ha scelto di coniugare le sue due passioni (quella musicale e quella letteraria) in quella che vuole essere una nuova interpretazione della tragedia shakespeariana alla luce dell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.

Il lavoro è stato presentato nell’ambito del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Recitar! Mentre preso dal delirio| non so più quel che dico e quel che faccio!| Eppur è d’uopo…sforzati!| Bah! sei tu forse un uom?| Tu se’ Pagliaccio! (Canio, Atto I, Scena IV, n. 12a – Recitativo)”

*

Ogni cosa, nella vita, è accompagnata dal suono. Movimenti, respiri e pensieri sono accompagnati da suoni. I colori hanno un suono, i sapori anche.

Ogni cosa, nella vita, è accompagnata dal suono. È per questo che, quando l’illuminazione arrivò, era più che naturale che fosse portata ad Amleto da un suono. Se era stato il suono di un frutto caduto a far scendere i primi uomini dagli alberi, perché mai non avrebbe dovuto essere sempre un suono a spalancare gli occhi e la mente di un giovane, ricco e tormentato uomo di fine Ottocento?

Amleto aveva seguito di nascosto le prove per parecchi giorni. Aveva potuto vedere come l’uomo con i baffi più all’insù che avesse mai visto si fosse barcamenato tra cantanti e musicisti, sempre cercando di soddisfare tutti ed evitare di mandare all’aria la possibilità di mettere in scena la propria creazione.

Amleto, in realtà, tra le seggiole in velluto rosso si sentiva a casa. Ci era cresciuto, correndo, bambino, sul parquet lucidato da migliaia di eleganti passi di dame e gentiluomini. Eppure, ora si doveva nascondere, in casa propria, da chi gli aveva portato via tutto. Claudio, lo zio che una volta lo accompagnava a comprare mandorle caramellate da sgranocchiare assistendo alla magia dell’Opera, ora era diventato il suo incubo. Si sentiva solo, abbandonato da quelle che erano state le figure cardine della propria infanzia. Non che biasimasse il padre, naturalmente. Un tempo sì. Il pensiero aveva sfiorato la sua mente più volte, mentre le sue dita accarezzavano i pesanti tessuti di costumi di scena nello sgabuzzino della sartoria, costumi lasciati ad accumulare polvere. Forse il padre lo aveva abbandonato proprio come erano stati abbandonati l’abito di organza che sussurrava sensuali notturni al primo tocco e la marsina di velluto damascato che profumava di serenate e allemande. Questo prima che sentisse i muri del teatro ripetere un pettegolezzo: sembrava che il padrone, quello precedente, fosse stato ucciso. Da chi? Ovviamente da quello nuovo, il fratello, che dalla sua morte aveva guadagnato una sposa e una posizione.

E così Amleto si era trovato a odiare lo zio, a odiare la madre per non aver respinto le sue avances, a evitare gli amici. Si era rintanato nel teatro, quello che avrebbe dovuto essere suo, ma che suo non era più. Per questo aveva spiato la nuova opera da lontano, cogliendone qualche spezzone qui e qualche battuta là, talvolta senza scena, all’italiana, e talvolta con i cantanti vestiti metà con gli abiti preparati dalla sartoria e metà con i propri, con gli oggetti di scena ancora raffazzonati, in attesa di direttive definitive.

Non si era ancora fatto un’idea di questo nuovo titolo verista. I corridoi dei palchi, anzi no, erano stati quelli del foyer, gli avevano sussurrato che la trama si basava su un episodio vissuto in gioventù dal compositore. Amleto si era sentito vicino all’uomo baffuto: forse il mondo aveva lo stesso suono per loro. O forse no, forse i suoni erano tanti e tutti diversi, forse per questo Amleto non riusciva ad agire, mentre Ruggero ora stava per mettere in scena quello che, le seggiole del loggione ne erano sicure, sarebbe stato un successo. Forse Amleto non aveva ancora sentito il suono giusto, forse il mondo non aveva ancora vibrato alla frequenza perfetta.

Una sera, finalmente, Amleto poté vedere l’opera nella sua interezza. Questa volta non dovette nemmeno nascondersi, anzi. Lo zio, con il sorriso che una volta sembrava elegantemente disinteressato e ora appariva freddo e cinico, lo aveva invitato nel palco di famiglia, quello che sarebbe dovuto appartenere di diritto ad Amleto e per il quale, invece, ora aveva bisogno di un invito formale. La madre si era presentata ingioiellata, bella come sempre, ma Amleto non aveva potuto fare altro che osservare con disgusto la mano dello zio accarezzarle la spalla, spostando uno dei riccioli elegantemente acconciati che sfiorava il collo della donna. Amleto non riuscì a frenare la propria immaginazione, a impedirle di proiettare immagini oscene e suoni raccapriccianti, sovrapponendo i volti che ora, sorridenti, venivano accarezzati dalle luci soffuse della sala, alle immagini viste nei bordelli quando, con gli amici, aveva avuto le sue prime esperienze di uomo.

Amleto riconobbe subito il baritono, non appena si presentò sul palco. Non ne ricordava il nome. Una cosa colpì il giovane appoggiato alla balconata e leggermente sporto in avanti, come per non perdere nemmeno una sillaba: il cantante, vestito con un costume da commedia dell’arte, chiedeva al pubblico di tenere conto del fatto che quelle sulla scena fossero persone vere e proprie, non personaggi bidimensionali. Amleto sapeva che la vicenda aveva come protagonisti degli attori itineranti e si chiese se a parlare fosse il cantante, di cui non ricordava il nome, o Tonio, l’attore, o ancora Taddeo, lo storpio, lo scemo della commedia. Alla realtà, all’uomo che aveva visto trangugiare bestialmente i bicchieri d’acqua offerti dal personale del teatro durante le prove e che aveva visto sputare sul palco nonostante gli fosse stato chiesto più volte di non farlo, si aggiungevano non uno, ma ben due strati di finzione. Due maschere. Amleto si chiese quante ne indossasse lui, quante il pubblico. All’improvviso ne percepì il peso sul volto, ne avverti l’odore, ne senti quasi lo scricchiolio. Quando Canio, nonostante il cuore spezzato, ricordò a sé stesso di sorridere, di recitare, di non essere un uomo, ma Pagliaccio…Amleto sussultò. Lui non poteva essere un pagliaccio, non poteva sorridere davanti all’orrore e all’ingiustizia che ogni mattina, appena sveglio, gli si paravano davanti agli occhi. Non poteva vestire la giubba, infarinare la faccia e far ridere il pubblico.

Ma il suono giusto, la frequenza che portò la mente di Amleto a congegnare, per la prima volta, un vero e proprio piano per vendicare il padre e sé stesso, fu il rumore lacerante dello squarcio aperto da Canio nel velo tra finta realtà e vera finzione. L’urlo di dolore, la disperata richiesta di riconoscimento rivolta alla moglie.

«No, Pagliaccio non son; se il viso è pallido, è di vergogna e smania di vendetta!».

Canio aveva detto: “Il teatro e la vita non son la stessa cosa”, eppure ora il suo dolore dimostrava il contrario.

Amleto non poté far altro che perdersi nei propri pensieri. Era stato il teatro a rendere veramente consapevole Canio del tradimento della moglie. Era stata la finzione, quella vera in quanto esplicita, quella in cui vivevano Pagliaccio e Colombina, a portare la verità nel mondo della finta realtà, il mondo di Canio e Nedda. Amleto doveva seguire lo stesso percorso. Doveva fare sì che lo zio si tradisse, fargli ammettere l’orrendo delitto attraverso il teatro: doveva far mettere in scena un’opera. D’altra parte, non ci sarebbe stato nulla che avrebbe fatto sentire più a proprio agio Amleto del mondo dei suoni e delle parole. Doveva solo trovare il titolo perfetto, qualcosa che provocasse in Claudio una reazione talmente evidente da far crollare la maschera che aveva indossato, da rivelare il disgustoso volto al di sotto della raffinata opera di dissimulazione.

L’Artaserse di Metastasio.

Intrighi, lotte per il potere e un fratello assassino: Amleto sul momento non riuscì a pensare a nulla di meglio.

Quasi vide la consapevolezza farsi strada nella mente dello zio. Vide il volto dell’uomo impallidire, le mani chiudersi strettamente attorno ai braccioli della poltrona. Vide lo sguardo dell’impresario posarsi prima sulla moglie e poi sul nipote. Osservò il pugnale affondare nel petto dello zio, senti il suono dei tessuti lacerarsi. Come sempre, il suono. Le mani gli si tinsero di rosso, non aveva mai visto un colore tanto brillante, tanto vitale e tintinnante. Senti le proprie ginocchia piegarsi, il tonfo del proprio corpo sul pavimento in legno.

«La commedia è finita».

BIBLIOGRAFIA:

Testi primari:

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci, Edizione critica a cura di Giacomo Zani, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano, consultato online il 02/01/2024 al link:

https://www.teatroregio.torino.it/sites/default/files/uploads/inline-files/20210807%20-

%20Pagliacci%20-%20Libretto.pdf

William Shakespeare, Hamlet in Tutte le opere, Vol. 1: Le tragedie, Edizione critica a cura di Franco Marenco, Bompiani, Milano, 2015

Testi critici:

Bernhard Kuhn, “Il teatro e la vita non son la stessa cosa?” Self Refereces and Their Cultural Context in Leoncavallo’s “Pagliacci” in Italica, Vol. 94, No. 1, pp. 31-51, Indiana University, Bloomington, USA, 2017

John Wright, “La commedia è finite”: An Examination of Leoncavallo’s Pagliacci in Italica, Vol. 55, No. 2, pp.167-178, Indiana University, Bloomington, USA, 1978

Ruggero Leoncavallo, How I wrote “Pagliacci” in The North American Review, Vol. 175, No. 552, pp, 652-654, University of Northern Iowa, Cedar Falls, USA, 1902

L’assedio

Questa riscrittura di Camilla Cattunar mira ad una rappresentazione concreta dell’interiorità di Petrarca attraverso l’impiego di personificazioni ispirate dal romanzo cavalleresco, facendo leva sul lessico bellico con cui l’autore caratterizza alcuni dei componimenti del suo Canzoniere, nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Ci troviamo nel profondo del cuore di un autore cardine nella storia della letteratura, qui egli non è solo, abbiamo modo di conoscere ciò che lo caratterizza, i suoi valori e la sua debolezza più grande. Viviamo con lui il suo dissidio, non più solo interiore ma reale, per quanto una riscrittura che si spinge fino al cuore di un uomo possa esserlo.”

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Quella che sto per raccontarvi è la storia di un assedio, un lungo assedio durato decenni ma vinto grazie ad un sol gesto, che senza fatica sbaragliò ogni difesa, anche la più salda e sicura. L’oggetto della contesa fu un semplice ragazzino, ormai cresciuto, nascosto da tempo nella fortezza della sua interiorità. A difenderlo diversi cavalieri di grande esperienza e valore, addestrati dal più potente dei comandanti: la Fede in Dio. Tra loro presenziano Occhi, Cuore, Virtù e Ragione[1], gentiluomini fedeli, paladini difensori di quest’uomo che nulla può all’attacco del più potente dei rivali, Amore, la cui unica mira, a suo dire, è quella di distoglierlo dal raggiungimento della santità, dalla devozione a Colui solo che la merita, Dio.

Il protagonista è un uomo che presto nella sua vita ha intrapreso un’aspra via: rifugiarsi dall’Amore ch’egli considera maligno, costruendo una roccaforte imponente, dotata di sei torri almeno, numerosissime finestre, grandi abbastanza perché la luce del giorno possa raggiungere ogni sala ma non a sufficienza perché occhi indiscreti riescano ad osservare che cosa accade tra le sue mura. Ha diverse camere da letto, la fortezza, una grande biblioteca dove l’inquilino usa scrivere di sé e un giardino con diversi alberi da frutto e un ruscello, raramente frequentato per semplici ragioni, è di un assedio che parliamo. Il ragazzo ci vive da solo, ci cresce da solo, i suoi servitori non parlano e sempre più spesso si trovano ad affrontare gli attacchi di Amore, che imperterrito con la sua determinazione e i suoi dardi scandaglia il perimetro di quelle altissime mura, osserva i cavalieri, nell’attesa di trovare una breccia, fragilità, mollezza o difetto. Attende con pazienza il punto e il momento giusto per colpire, e poi attacca. Non è parsimonioso, non teme di sprecare i suoi dardi, al contrario è convinto, colpo dopo colpo, di ottenere il successo. Ma la rocca resiste. Nessun segno di cedimento, il giovane adulto che ci abita non esce allo scoperto e chi lo difende è competente e combatte valorosamente. Non è facile infastidire Amore, egli sa di non esser malvagio, in pochi hanno osato avere tale considerazione di lui, ma la situazione ristagna da troppo tempo ormai, come osa costui respingerlo con tanta violenza? Allora s’infuria, ripensa ad Apollo, sente quello stesso desiderio di vendetta ardergli dentro. Dubitare della mia forza? Pensare di essere più potente? Prendersi gioco di me con tale leggerezza? Non avete capito con chi avete a che fare. Dunque, ecco incominciare l’azione.

Mentre il ragazzo trascorre i suoi giorni come d’uso, l’irato arciere, anche abile stregone, escogita un piano per dimostrare la propria superiorità: per sua mano una donna apparirà in sogno all’uomo, talmente bella ch’egli alla sola apparizione rimarrà rapito, sarà il giusto diversivo per sconfiggere i suoi cavalieri e finalmente vendicarsi. Non resta che aspettare la notte.

È il 5 aprile 1327 e l’uomo dopo una giornata tranquilla s’addormenta. Cade in un sonno profondo e si risveglia in un prato agli albori di un giorno nuovo, il cielo è terso e c’è odore di rugiada. Inizia a camminare ma s’ arresta di colpo: davanti a lui una donna gli dà le spalle, ora si volta appena, forse attirata dal rumore, lo guarda di sfuggita e poi inizia a camminare leggera in quella distesa d’erba verde. L’uomo è rapito. Costei ha capelli dorati, splendenti alla luce del sole e un abito turchese svolazzante che lo inducono a dubitare della sua natura. Umana o divina? Qualunque sia la risposta, nessuno potrebbe far altrimenti se non seguirla.[2]

Intanto al castello Amore agisce indisturbato, questa volta Cuore non ha nemmeno il tempo di accorgersi del pericolo, ecco un dardo conficcarsi in una piega della sua armatura e subito dopo un altro penetrarla all’altezza del petto, spostato a sinistra di poco rispetto al perfetto centro. Occhi invece assume un comportamento del tutto inaspettato, che i suoi compari Virtù e Ragione trovano spregevole. Per qualche assurda ragione il cavaliere si avvicina allo stregone, pregandolo di ascoltare le sue parole: “Accetta la mia sottomissione a te, fin ora non conoscevo la ragione profonda delle mie azioni, grazie a te ho trovato uno scopo. Contemplare tanta bellezza. È questo ciò per cui sono nato”. Ecco che il combattimento si bilancia. Ragione, da sempre il più risoluto e potente di tutti si scaglia incollerito verso Amore, deciso a farla finita una volta per tutte. Occhi si affretta a difenderlo ma Virtù, pronta e scaltra lo blocca prima che riesca a sfiorare Ragione. Così i due, che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente si assalgono ma così simili nell’addestramento non hanno la capacità, forse nemmeno l’intima volontà, di prevalere sull’altro. Si trafiggono vicendevolmente e rimangono agonizzanti quanto increduli, supini nel vasto giardino del forte a contemplare l’aurora. Contemporaneamente Ragione si accorge, con suo grandissimo disgusto, di non avere alcun mezzo per ferire Amore, la spada non ha effetto, si piega come ferro bollente maneggiato da un maniscalco, e nello scontro fisico si scopre un agnellino di fronte al più possente dei leoni. Non resta che la fuga. Ragione si precipita all’interno, cerca il ragazzo, per avvisarlo del pericolo. Amore non si disturba nemmeno ad inseguire il cavaliere impaurito, il suo piano si è realizzato, la sua vendetta è conclusa, ha dimostrato che nessuno può rifuggirgli per tutta la vita, nemmeno un uomo con il suo esercito. Da quel momento, infatti, il suo cuore è gravemente ferito, il suo sguardo rapito, la sua virtù troppo debole per permettergli di agire nei confini di ciò che lui reputa giusto; cerca rifugio e forza nella ragione, che sola non ha potere alcuno davanti alla grandezza dell’Amore. Il ragazzo è rimasto solo, nella sua maestosa fortezza ormai espugnata. Un pensiero sconnesso gli si presenta alla mente, “forse non mi sarei dovuto nascondere”. “Ma di cosa ti convinci? – si risponde immediatamente – non senti il dolore che ti ha procurato?”.


[1] I cavalieri fanno riferimento a rispettivamente a occhi, cor, virtute ed al poggio faticoso et alto protagonisti dell’assalto di Amor nel sonetto 2 del Rerum Vulgarium Fragmenta.

[2] Il sogno si ispira al sonetto 190 del Rerum Vulgarium Fragmenta.