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La Madonna Sistina

Emanuele Mendozzi ha riscritto l’opera di Dostoevskij nel tentativo di sciogliere la matassa significante che la costituisce; saccheggiando la letteratura delle sue formule e raschiando la superficie del testo per scoprirne le conversazioni nascoste, nell’ambito del corso di Letterature Comparate, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

Qui all’ombra d’un muro azzurro cieco, tra i denti bianchi d’una staccionata, poco a ridosso della strada, riposano le spoglie d’una vecchia ammazzata, coperti d’una lapide nera nel freddo abbraccio della terra abbeverata.”

*

La Madonna Sistina

Guarda tra due tende verde scuro appena scoste, incidendo avanti appena appenaposa su una nuvoletta acquerellata, cinta da una veste e da un velo che d’un vento lieve accarezzano l’ittero cielo. Un sacerdote dolce e pacifico resta incredulo e sgomento indica d’un indice nodoso al nostro capo e sembra dire: “Proprio a loro sono infine aperte le porte del perdono?”, mentre una santa tra i panni ruvidi e le spine, invita con clemenza a gioire della gioia, d’un volto sfumato, d’una madre e il suo bambino. “Non è una visione piacevole?”. E al pargoletto han cavato gli occhi gli uccelli, il pittore ne ha dipinti due da adulto, persin due occhi da vecchio eroe caduto, rubati forse a vecchio marinaio ubriaco, servirebbe al piccolo una barba e folta e ispida, una foresta di conifere brune a tratti incenerite, che con quelli della madre vedono di fuori d’uno specchio, penetrando in fondo e scintillando di lacrime e fiammelle nemmeno accennate, rovesciando estasi, rimestando animi allucinati. I due putti fan capolino alla cornice, pensando e ripensando tradiscono l’incertezza che a noi tocca, così affettati da una scure tra il tempo e l’eternità.


Tra le sette e le otto

Tra le sette e le otto saltellava a Pietroburgo

Incespicando su un discorso un calabrone vola

Con la lingua trema vaporelle di propositi:

Allucinanti illusioni, d’un cavallo, d’un cappello.

Quale al fegato son cresciuti i glicini stellati,

Tra una folla di pidocchi, la testa scintillante

Scoppietta a ogni passo e si ferma e gli occhi ronzavano

affabulando tele fantasiose: un laccio appeso

uno straccio, un’accetta, gli stivali, il quartierino

della vecchia, il suo canile, cerca di fuggir gli sguardi.

La fortuna o la scelta si separa a colpi d’ascia,

Nel riflesso vetrato d’un finto portasigarette,

quegli occhi rugosi lo spiano diffidenti senza

posa tra una porta e una catenella, quel pidocchio

è in casa e lo cesella e lo sgrana vispamente

e il delirio intanto gli penetra gl’intestini

e grida silenzioso: “Tu sarai un Napoleone”.

Ora è entrato, s’è fidata, ha aperto, è sola.



Tra le sette e le otto saltellava a Pietroburgo

Un’accetta sospesa a un lembo frastagliato canta

Motivi argentini e colpi sordi d’un tamburello

Bianco, bianca è la sclera, trasalisce a un sogno d’oro

Da benefattore, brucando in cerca d’una chiave,

su una mandria appiccicosa, pascola un pidocchio.

Gli batteva il cuore in gola e intanto lei zampillava

Violetti rivoli e torrenti ferrosi e nuvole

Sulfuree ora davano dalla carta da parati

Quel tenore del sogno e della febbre, d’un guanciale

Sudato d’estate, d’un divano logoro, una croce

Di rame, un borsello, un baule, carta di giornale.

La vista gli tremava di vertigine fin l’orlo

Del soffitto, non un fiato usciva se non spezzato

Condensando sullo specchio d’una lama imbrattata.

Per la stanza lo studente andava e veniva, i nervi

Impazziti d’un Napoleone, d’uno Schiller folle.

Nella stanza attigua un’altra donna andava e veniva.



Tra le sette e le otto a Pietroburgo si son spente

Due sorelle e uno studente, spiccando alla nottata

In una bettola in velluto al lume della luna

Una poco più che bambina, poco men che donna,

Offre i suoi servizi all’ombra d’una candela trema

Del rarefatto pianto d’una madre disperata

D’un nobile passato, del francese, dei balletti.

Presto s’incontreranno questo lupo e quest’agnello.


Libretto giallo

Verginità, verginità, perché
Mi lasci? Dove andrai? Come è stretto
Un passerotto tra le braccia troppo…
Troppo forti d’un uomo arrossato,
Spiri alla luce fioca della sera,
che su di noi senza riserve cala
a spiare i giallini patimenti.
Quando muore il giorno nel riverbero
all’orlo d’un lenzuolo stropicciato
nella carta da parati consunta
suonan le nostre preghiere notturne
e ci copriamo il capo com’è giusto
di sciallini sgualciti, di sorelle
in coro, di bibbie sporche e stracciate,
di pianti di neonati. Mi dici
con voce spezzata: “Sonja adorata
non piangere così, non disperare.
ormai io da te mai più tornerò.


Hanno schiacciato un poveretto

O città fantastica piena di suoni sordi, quanto stridono gli zoccoli e alla via delle bettole danno un prete e un medico. Da tre finestre e una parete, l’acqua d’estate imbiancata marroncina rifletteva il puzzo e l’arsura al vento come i poveri turbina, quando li mena il vino, uno appresso all’altro. Che occhi hanno gli ubriachi e i progressisti, dotati di voci spaventose, d’acciaio trapunto di stelle dorate. Sbuffano i treni tra le vie e le folle, nel reticolo metafisico dei palazzi, delle vetrate viola, dei vapori fetidi, pisciano per strada. Qui a Pietroburgo la gente borbotta, attorcigliati, tutti improvvisamente s’ammassano a ascoltar sventure suonate dalle piccole voci dei bambini, a mirare tutt’intenti quelle piccole passioni, esaltati come sono dall’aria asfissiata. E le divise, le divise battono un poveretto, lo portano via, mentre quello… quello grida intanto che è figlio di re e cerca il suo regno tra i fasti e i riflessi d’una bottiglia aguzza. Ho incontrato ieri mia madre, nascosto tenevo un foglietto di sole, qualche soldo poi non può guastare ai bambini, alla tosse, a quel fuoco lentigginoso. L’han picchiata sulla scala e pioveva. E poi mio padre… a mio padre… gli occhi infiammati, il sangue cantava, le ossa schiacciate, sgorgavano lacrime e rivoli rossi.


Venne a trovarmi un assassino (La resurrezione di Lazzaro)
*
E fu forse al tremar della serata
Che venni a stillarmi il sangue dal petto
Quando sudava il canale accaldato
La testa avevi allora tutta piena
Di che pidocchi e gli occhi saltellanti
m’inniettaron sotto pelle un fuoco
nascosto. Parlando un po’ della mamma
giocavi a ferirmi, premendo gli occhi 
in cerca della pietà. “Leggi forza
-me lo dissi- come facevi per lei…
Dove si parla qui del redivivo”
E allora io cuore colmo, speranza
Passai su un dito in cerca di Giovanni.
Quanto poi rombaron quelle parole
Nelle fresche membra dei peccatori
Che ancor si rizzano come i fioretti
Al gelo notturno e poi il sol li imbianca
Volaron passerotti nelle orecchie
E quasi mi colse la verde febbre
Che avevi tu. Eravamo due pazzi
Congiunti dall’eternità ridente
Uniti i peccatori nel vangelo

*

Al di là delle rive del giordano
dove prima Giovanni Battezzava
il cielo ammutoliva alla notizia
del sonno sordo d’un amico caro


tal era rimasto il corpo malato
all’ombra d’un sepolcro marrone
per quattro giorni e quattro notti intere
sudando fiori afoni alle pareti


quante lacrime lavavano i piedi
piovendo giù sconnesse soffocando
i volti solfiti di Marta e Maria
Di lamenti azzurri a rivoli pieni


-“Signore se solo ci fossi stato …”
-“Io sono resurrezione e vita
“chiunque vive in me vivrà in eterno
“non morrà in eterno, credi questo?”


Un profuso lamento e contagioso
Inondò le guance di blu di Maria
E come un tremito trafisse i cuori
E presto fu di lacrime un gran coro


Quando poi sulle sue gracili gambe
Mise un passo di fuori dal sepolcro
Sonja batteva l’aria della stanza
Trema d’estasi si rovesciò in lui


Sotto un sasso riposa un’ammazzata

Scendendo il sole a destra incontra uno steccato che s’infrange nel cortile. Al di là d’un muro cieco azzurro intrattengono i passanti i soffocanti vapori estivi, le strade sciolte e i furiosi schiamazzi che fuman dalle bettole. Sulla via carri trainati dai cavalli insanguinati gridano strepitando il ciottolato, trasportano persone di cristallo impomatato. I bambini fanno la carità, strimpella un organetto qualche canzone popolare e una rossa fanciulla inebetita da angeli invisibili guarda lo sguardo appiccicoso d’un vecchio ingiallito. Se ci si perde nel viola di quel prato, dove questo si fonde al cielo verde, poco più in là verso la dentata staccionata, si scorge un sasso sacro tutto nero. Qui riposano tra le braccia rinfrescanti della terra scintillando a un sole inesistente, a una luna impazzita, pietre preziose, metalli nascosti. Quando piove scrosciano d’una testa spaccata, si sciolgono tra le carte d’un giornale illeggibile, pigolando disperati come canarini d’argento. Qui all’ombra d’un muro azzurro cieco, tra i denti bianchi d’una staccionata, poco a ridosso della strada, riposano le spoglie d’una vecchia ammazzata coperti d’una lapide nera nel freddo abbraccio della terra abbeverata.


Canta ancora madre mia

Quanta gente tra i poveri s’affaccia
Come avvoltoi alle porte dei malati.
In eterno t’amerò. il tuo petto
Abbeverato dal pianto del cielo
e le mani che dolcemente tristi
carezzavan la terribile notte,
tenevan le mie giunte per pregare.
È freddo e fiocchi cadono per te,
Non più color t’innaffia a sparsi fuochi,
ma dalla bocca stilla miele rosso.
Al tuo viso infrange, si sgrana un labbro,
dalla finestra un tremito di luna.
Il tempo s’è fermato a Pietroburgo.
Chiamami ancora per nome… ti prego…
Ti prego mamma canta… canta ancora…


Si è impiccato un santo (confessione di un imbianchino)

Nel campo sterminato di blu verde
Aggrappato a brandelli dell’eterno
Allo scoppiettio viola della luna
Che il vento batte lungo il fiume cieco
S’è appeso un imbianchino azzurro
Come santo di vernice, a un albero
D’ulivo. Aveva commesso un delitto
per trenta denari d’argento appena,
per aver un po’ di dolor paonazzo,
la medicina d’un cuore malato.
Fu poi un battito di cielo che scosse
Il ramo straziato, quel viso azzurro
Come un fulmine cadde bianco in terra.
D’un raggio colorito si trafigge
Il volto e gli spunta sgomento un riso
Patendo la clemenza dell’eterno,
Arricciando le labbra si prepara,
Domani verrà la sua confessione.


Gli orfani della legge
*
Quanto è fredda la Siberia e i detenuti rompono incessanti pietre preziose e picconi, salgono dalle schiene curve i muscoli tesi di formiche verticali. Direste vedendoli dormire che come bambini piangono sognando la visita d’un angelo misericordioso, foss’anche per un nonnulla, per asciugargli un po’ le lacrime. Il fumo ferroso dei forni li seguiva nella notte e al mattino col suo brusio stringente, quello era uno stendardo terribile e straziato, il vessillo d’una libertà ceduta, giocata per qualche gioiello incartato, per un tozzo di pane, per una bottiglia in più.
Quanto poi a dormire non si può fare altro, sognare e lavorare uccidono le ore e le lasciano stremate al cielo che abbaglia ogni cosa quando si mescola alla neve. La noia s’innamora di loro come una fedelissima sposa, incollandosi alle suole delle scarpe bucate. Tra uomini del genere si rafforza la fortezza della fede, fa infatti città d’avorio turrite e campanili, tra i più cinici e increduli s’annida l’eternità e il suo gioco, finché il più arido dei cuori non si abbevera per avere un lembo dell’altissimo dalle cime azzurrine, sarà forse la fatica, sarà la bianchezza tutt’intorno, un muro sudicio, un libro logoro.  Non parlano tra sé come in città, ma come monaci devoti iscrivono nelle conversazioni il più grande dei silenzi, rotte sillabe di solitudine, annotano l’inesprimibile loro patimento in piccole lettere e a molti mancano le parole. Quando arrivano zuppe le missive assaporano un po’ il dolce venticello che solleva l’odore di casa loro. Vogliono con quelle braccia indurite stringere ancora qualcuno, fosse anche in sogno.
*
in una giornata di nuovo tiepida e serena, quando la steppa intorno strillava di bianchezza, e alla riva il largo fiume nascondeva la baracca, mi sedetti insieme al sole accanto a te.
Guardavi all’orizzonte neri puntini e parlavi a mezza voce, sospirando parole, di come quelli sì erano uomini liberi e di come lì ancora… lì ancora vivessero i tempi di Abramo. intanto sul tuo dolcissimo capo un tempo rigoglioso di spazzoline sabbiose si poggiavano allegri coriandoli di cenere, e uno ti cadde proprio su una guancia, scavata com’era dalla prigione, dal lavoro.
L’altoforno e i muri bianchi d’una cella e un refettorio, avevano ormai da tempo rubato i tuoi vent’anni, e quel tuo brobottar fiumesco era ormai per me il ricordo d’una serena sera passata in preghiera. Io poi sempre t’allungavo la mia mano trasparente e tu la prendevi riluttante, non fosse che per me, per sentire un po’ qualcosa. Quella volta in riva al fiume, ti buttasti a capofitto in pianti e lamenti, m’avevi lavato i piedi. E l’acqua disperando lacrime faceva a te da coro, del tuo patimento. Ho capito allora che m’amavi, e come poco più a te guardo più non posso parlare. Da tempo per te mi son sentita mancare e le ginocchia han preso a stringersi come al cedere d’un palazzo, un terremoto, una malattia. Prendiamoci per mano adesso, mancano appena otto anni e poi…

Bibliografia

Alighieri D. (1995), La divina commedia, BUR Rizzoli, Milano.Dostoevskij F. (2013), Delitto e castigo, Feltrinelli Editore, Milano.
Nietzsche F. (1979), Umano, troppo umano, I, Adelphi edizioni, Milano.
Rimbaud A. (2019), Opere, a cura di Olivier Bivort, Marsilio Editori, Venezia.
Saffo (2016), Poesie, traduzione di Franco Ferrari, BUR Rizzoli, Milano.
T. S. Eliot (1998), The Waste Land and other poems, Signet classic, Londra.

Francesco de Cristofaro (a cura di) (2020), Letterature comparate, Carocci, Roma.
Stefano Ercolino e Massimo Fusillo (2022), Empatia negativa. Il punto di vista del male, Bompiani, Milano.

I passi biblici sono citati secondo La Sacra Bibbia della conferenza Episcopale Italiana, Roma, Cei-Uelci (2008).

Il male a fin di bene

Laura Rossotti intende mostrare in questo racconto le sfumature del male in relazione a un determinato tipo psicologico: il misantropo, un essere dotato di altrettante sfaccettature, dall’omicidio, al confronto, all’analisi della coscienza e della vita. La riscrittura è stata svolta nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua”

*

Timore e sconcerto opprimevano gli animi dei cittadini, insieme alla consapevolezza di impotenza nei confronti di un’entità molto più forte di loro ed estremamente pericolosa. “Ci serve aiuto”, “qualcuno che possa fermarlo”, “altrimenti chissà quale destino buio ci attenderà”: ecco i normali e ripetitivi pensieri di una comunità che nel frattempo se ne stava con le mani in mano, senza azzardare una mossa concreta. Insomma la resistenza contro i mali della società era piuttosto debole, praticamente inconsistente, e pur essendo tali misfatti deplorati e condannati da tutti, essi esistevano ed è questo il grande paradosso tipico delle calamità provocate dall’uomo.

Il tiranno Macbeth continuava infatti indisturbato la sua guerra, bramando una posizione di indiscutibile superiorità e invincibilità sui popoli che intendeva travolgere e sottomettere, seminando morte e disperazione a ogni attacco. In realtà il terribile dittatore assaporava già la sua forza illimitata e si sentiva ormai da tempo inarrestabile: come girava la voce, Macbeth aveva dalla sua parte il favore di tre streghe che gli comunicavano esclusivamente fauste profezie. Esattamente come diversi mesi dopo si poté verificare, grazie al ritrovamento di una lettera scritta dal perfido tiranno e indirizzata a sua moglie, Lady Macbeth, che si riporta in seguito.

“Mia adorata,

Ti scrivo per informarti di una nuova e certamente propizia apparizione delle streghe: questa volta non ho dubbi sul significato delle loro parole e dunque ti annuncio il nostro successo assicurato. Così le tre vecchie donne mi parlarono: “Salute, Macbeth! Salute a te Re del mondo! Macbeth, Macbeth, guardati dall’uomo condannato ad odiare e amare allo stesso tempo! Devi essere spietato, risoluto e sanguinario. Finché sveglio e cosciente nulla potrà contro di te, nessuno tenterà alla tua vita. Altrettanto salvo e quieto sarai quando deciderai di dormire!”.

Ovviamente ero curioso di saperne di più, ma dovetti accontentarmi per via dell’usuale sparizione delle streghe che segue la rivelazione. Spero di averti tranquillizzata con queste magnifiche notizie, dal momento che non devo temere per la mia vita né da sveglio né da addormentato!

Aspetto con ansia il nostro prossimo incontro durante il quale ti mostrerò orgoglioso le nuove terre conquistate.

Ciò che ti ho confidato in questa lettera tienilo per te soltanto.

A presto”

Fu il ritrovamento di questa lettera a sconvolgere ulteriormente i ragionamenti e le ipotesi dei cittadini, che a seguito della morte di Macbeth si erano prodigati ad esporre personali interpretazioni della vicenda, che di per sé risultava apparentemente inspiegabile e totalmente irrazionale: il corpo del tiranno fu infatti rinvenuto esanime nella sua sfarzosa dimora in collina, più precisamente nel suo ufficio e presso la scrivania. Esso non riportava alcuna ferita superficiale e la decisione di etichettarla come una morte avvenuta per cause naturali fu confermata una volta a conoscenza della profezia delle streghe.

Forse qualcuno aveva intuito la verità sull’accaduto e la reale causa del decesso, ammettendo l’esistenza di un assassino; tuttavia la caduta di quel governo del terrore aveva significato immediatamente libertà e fine delle sofferenze, permettendo all’intero genere umano di tirare un enorme sospiro di sollievo.

Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua. I suoi occhi non esprimevano alcun tipo di emozione o pensiero, si sentiva vuoto e non provava la minima esigenza fisica; egli giaceva immobile nella stessa posizione ormai da ore, da quando era rincasato dopo aver compiuto l’omicidio. Di tanto in tanto quello stato di trance si interrompeva e i ricordi delle sue più recenti e biasimevoli azioni gli scorrevano davanti agli occhi come un treno veloce e inarrestabile. Si rivedeva mentre alcune settimane prima veniva assunto come cameriere a servizio di Macbeth, dopo essersi presentato con identità e informazioni false; poi quando acquistò presso un’apoteca ambulante del sonnifero e un veleno letale. Infine ripercorreva i movimenti del giorno prima, come servì tranquillamente il tiranno all’ora di pranzo e come più tardi gli porse gentilmente un bicchiere di acqua calda mescolata a un “infuso energizzante”, ma che in realtà, ovviamente, conteneva il sonnifero. Dopo aver sorseggiato quella miscela, Macbeth non poté resistere all’effetto del medicinale e nonostante il lavoro che avesse da sbrigare, fu costretto a lasciarsi andare ad un sonno pesantissimo. Dopodiché l’assassino gli somministrò il veleno e il tiranno morì nel sonno, inconsapevolmente e senza provare dolore.

L’ennesimo treno di pensieri e ricordi sfrecciò da una parte all’altra della sua mente riempendo il suo cuore di tristezza e svuotandolo subito dopo, per lasciare posto al conseguente stato di trance. Questa volta però qualcuno bussò improvvisamente alla porta.

Entrando, il nuovo arrivato salutò l’amico: «Ciao Alceste».

Raskol’nikov varcò la soglia e si mise comodo su una sedia.

«Chi ti ha dato il permesso di entrare Rodion?».

«Lo so che è strano detto da me, ma se non vuoi che qualcuno entri allora forse dovresti chiudere la porta a chiave».

Alceste non rispose e si limitò a fissarlo in attesa che palesasse il motivo della sua visita.

«Mi sembra di notare che tu stia bene amico mio e di ciò mi rallegro molto», disse Raskol’nikov con leggera meraviglia e quasi con una punta di delusione, che Alceste non mancò di notare.

«Non sembri così felice della mia buona salute come dici di essere… Speravi dunque che io stessi male? E per quale motivo poi?»

«Non me ne volere, d’altronde sarai sicuramente a conoscenza della morte di Macbeth, un evento a cui si può attribuire un rilievo epocale, e di come questa abbia sorpreso tutti quanti. Perciò come minimo mi aspettavo di vedere una qualche reazione sconcertata da parte tua, mentre ti ritrovo qui in assoluta tranquillità».

Qualcosa nel suo modo di parlare non convinceva Alceste. Riteneva Raskol’nikov una persona intelligente e sentiva di potersi fidare di lui, nonostante non lo stimasse e lo considerasse per certi versi ambiguo e crudele. Poteva anche darsi che sospettasse già, e chissà come, di lui e di ciò che aveva compiuto, dal momento che era venuto visibilmente per parlare del recente caso di morte. Conoscendolo, pensò comunque che avrebbe potuto persino discuterne ragionevolmente con lui e che egli non l’avrebbe biasimato. Infine aveva davvero bisogno di qualcuno che valutasse la sua scelta e ascoltarne poi l’opinione.

«Secondo te – ricominciò Raskol’nikov, incalzato dal silenzio dell’amico – è davvero morto per cause naturali oppure…»

«L’ho ucciso io», lo interruppe Alceste vedendo che ormai quella recita stava diventando ridicola da entrambe le parti e non volendo perdere ulteriore tempo.

Come c’era da aspettarsi, Raskol’nikov non fu minimamente scioccato dall’improvvisa confessione, quando chiunque altro al posto suo sarebbe stato incredulo e sarebbe scoppiato a ridere, oppure sarebbe sbiancato senza riuscire a proferire parola. Egli invece rispose immediatamente rivelando i suoi pensieri con estrema onestà e razionalità.

«Caro Alceste, ti domando scusa per averti preso in giro fino ad ora e ti assicuro che da qui in avanti sarò chiaro e trasparente riguardo a ciò che penso; ovviamente non ci sono prove per dichiararti colpevole ma conoscendo il tuo carattere e i tuoi ideali potevo indovinare facilmente che si fosse trattato di te. Io non ti giudico e anzi ti comprendo pienamente; infatti il motivo essenziale per cui ho capito che l’assassino eri tu, sta nel fatto che io e te ci somigliamo molto e io mi sarei comportato nello stesso modo qualora mi si fosse presentata un’occasione ideale».

Alceste ascoltava con attenzione le parole dell’amico e quando questi faceva delle pause, lo pregava di continuare. Voleva sapere ogni singola cosa che Raskol’nikov pensava, poiché, contrariamente a ciò che poteva sembrare, Alceste teneva in alta considerazione le opinioni altrui; tuttavia vi erano aspetti contrastanti nel suo carattere, per cui se da una parte egli desiderasse essere apprezzato e a sua volta ammirava sinceramente le qualità di certi individui, dall’altra perdeva costantemente speranza nel genere umano, rimanendo deluso ogni qualvolta che avesse provato a fidarsi; tant’è che era nato in lui ormai da tempo un certo odio, un odio che si era sviluppato di giorno in giorno, facendogli provare una sorta di ribrezzo per la vicinanza con chiunque e che l’aveva portato inevitabilmente ad allontanarsi e isolarsi. Per questo dunque Raskol’nikov, individuo piuttosto schivo e solitario, poteva forse dire di poterlo capire alla perfezione.

«Non ti biasimo per le tue azioni, caro Alceste, e anzi approvo la tua decisione e la tua determinazione. Ovviamente non ti denuncerò e mai nessuno che venga a sapere della verità dovrebbe farlo, dal momento che sarebbe un’ingiustizia bella e buona, compiuta nella falsità più totale. Sì, perché devi sapere che non vi è cittadino del popolo che non ti sarebbe grato per aver ucciso Macbeth, anche se non lo ammetterebbe mai e sarebbe perfino capace di condannare il proprio salvatore all’insegna di una falsa moralità di cui vuole farsi portatore agli occhi della società, con lo scopo di ricevere approvazione. Mentre qui, Alceste, dovresti essere tu l’unico a ricevere i meriti della questione ed è triste essere un eroe all’insaputa di tutti. Sai, nella mia visione del mondo è giusto che certi uomini, superiori rispetto ai semplici uomini comuni, compiano azioni che questi ultimi non possano; ovvero questa categoria di superuomini, all’interno della quale includo te e il sottoscritto, avrebbe il diritto di agire come vuole, violando la legge ma senza venire punito da essa, per raggiungere obiettivi di ampia portata che abbiano a che fare con il bene della comunità, se non dell’umanità. Dunque Alceste, tu sei pienamente giustificato e l’omicidio che hai compiuto lo si può vedere come un normale dovere svolto nel tuo lavoro di superuomo. Non lasciare che la morte di Macbeth ti appesantisca la coscienza, perché, piuttosto, ti saresti dovuto sentire in colpa se non l’avessi ucciso e ora staresti continuando ad assistere inerme alle sue malefatte. Guarda dunque al futuro luminoso che hai regalato a tutti noi e continua con me quest’opera di disinfestazione del male che avvelena la società».

Alceste rifletté per qualche minuto in silenzio ripercorrendo e analizzando il lungo discorso di Raskol’nikov. Non si riconosceva nel profilo che l’amico aveva tracciato di lui ed era quasi terrorizzato dall’eventualità di poter apparire realmente in questo modo. Finalmente si decise a rispondere:

«Io non credo di essere uguale a te Rodion. Sono onesto e devo ammettere che non mi pento di ciò che ho fatto. Tuttora sono convinto che fosse l’unica soluzione per fermare Macbeth e con lui tutto il dolore e la morte che stavano distruggendo la popolazione e minacciando l’intero genere umano…

Devi sapere che fino a poco tempo fa mi ero stancato di vivere una vita falsa, colma di infelicità e delusioni, tante sono state le volte in cui mi sono fidato di qualcuno e puntualmente mi dovevo ricredere. Ti confesso che molteplici e difficili sono stati i momenti in cui sentivo il cuore opprimermi nel petto al punto di volermelo quasi strappare per eliminare per sempre quella sensazione di soffocamento, ponendo fine alla mia esistenza. Tuttavia, e questo è un fatto che davvero non riesco a spiegarmi, quando non si tratta della mia sofferenza ma di quella altrui, specialmente delle persone più deboli, indifese e innocenti, siano esse le medesime che mi avevano deluso un attimo prima, ho l’esigenza di fermarla, non nello stesso modo in cui fermerei la mia, ma facendo il possibile per risolvere qualsiasi problema si ponga tra quelle persone e la felicità. Ed è quindi poi quando riesco finalmente a contribuire alla serenità di qualcuno che riesco a sentirmi felice e appagato. Dunque sì, ho agito per il bene dei più, ma sacrificando una persona e compiendo un atto atroce, tale è l’omicidio di un essere vivente. Sono perciò colpevole e non sono meritevole di niente. Continuo a rattristarmi profondamente per la scelta che ho dovuto prendere e il senso di colpa graverà per sempre sulla mia coscienza.

Ora però Rodion, ho realizzato che la vita è un privilegio, e se non piace quella che si ha, è comunque inutile privarsene e gettarla via, mentre vale la pena continuare a vivere, se non per se stessi, soprattutto per gli altri e provare ad essere curiosi di cosa può succedere nel futuro».

Raskol’nikov per tutto il tempo aveva ascoltato perplesso le idee dell’amico e alla fine, pur non condividendole pienamente, lo ringraziò per essersi fidato, garantendogli che almeno lui si sarebbe sempre impegnato a non deluderlo e promettendogli di abbandonare i suoi propositi da superuomo, convincendosi quanto meno del fatto che infine nessuno può essere veramente definito tale per la troppa umanità e coscienza presenti come una sorta di tratto genetico in ogni essere vivente che ragiona.

Soltanto mezzo secolo più tardi, dopo la morte di Alceste fu scoperta la verità sull’omicidio di Macbeth grazie al rinvenimento di un diario personale. Egli infatti con il tempo, dopo essersi trasferito in una casa nei boschi lontana chilometri e chilometri dal più vicino centro abitato, aveva deciso di scrivere i suoi pensieri e le sue scelte in un diario, quasi a volerli spostare dalla coscienza alla carta per alleggerire il peso che portava nel cuore. Dal momento che si trattava per lo più di annotazioni confuse e ricordi sparsi, la poesia in ultima pagina risultava contrastante, saltando subito all’occhio. Tale poesia era preceduta da una nota di Alceste, una sorta di scusa e giustificazione per aver deciso di sigillare quella raccolta di riflessioni con un componimento poetico:

“Oggi mi ritrovo a riempire l’ultima pagina di questo diario. E mi sento di farlo con una poesia. Questa strana, improvvisa voglia di poetare ha colto me stesso alla sprovvista e mi fa tornare alla mente certi ricordi per i quali ora rido nostalgicamente: anni fa umiliai tremendamente un mio conoscente, cercando di fargli capire di aver composto un sonetto nauseante e di essersi sbagliato decidendo di esporlo con tanta sicurezza e orgoglio davanti ad altre persone. Un brivido di ripugnanza mi attraversa ancora la schiena quando richiamo alla memoria alcuni di quei pessimi versi. Per questa ragione arrossisco e mi vergogno se penso che sto per scriverne d’altrettanto cattivi. Io però mi guarderò bene dal mostrarli ad alcuno e devo sperare che nessuno legga queste pagine fin tanto che sarò in vita. Ciò di cui mi pentirò sarà soprattutto il tempo e l’impegno che adopererò nella stesura di questa poesia; ma dopotutto, qui e in questo momento non vi è anima viva che possa fermarmi dal compiere i miei bizzarri propositi, anche se ogni tentativo sarebbe comunque vano per via del mio incontenibile desiderio di esprimermi”.

L’amore secondo un misantropo

Sempre, quando il silenzio mi avvolge rimango in ascolto:
Osservando le stelle, dell’universo percepisco la pace e la calma;
In me la mente si svuota e il cuore si scalda;

Su di un prato disteso, pongo al cielo una domanda:
Il mondo inonda la vista e vengo sovrastato dalla natura immensa;
Non cerco una definizione, a me soddisfa questo motivo intenso.

Voci allegre e distanti giungono al mio udito e
Immagino che ogni umano sorriso altrui rivolto
Avrebbe la forza di allontanare qualsiasi tormento.

 Immergersi e annegare nel luogo dove mi sento tanto bene;
Non potrei essere più libero altrove, eppure qui mi vorrei trattenere,
Legarmi in eterno a queste emozioni: vi chiedo, allora, le catene.

*

Bibliografia

Fonti primarie    

Shakespeare W. (2016), Macbeth, a cura di Nemi D’Agostino, Milano, Garzanti

Molière (2006), Il tartufo-Il misantropo. Testo francese a fronte, a cura di Sandro Bajini, Milano, Garzanti

Dostoevskij F. (2013), Delitto e castigo, a cura di Damiano Rebecchini, Milano, Feltrinelli

Fil rouge: il filo rosso

Letizia Baldioli, prendendo ispirazione dalla storia di John Nash raccontata nel film A beautiful Mind, dà vita, partendo da ritagli di quotidiani e riviste, ad un evidence board proprio come quelli creati dagli investigatori nei vecchi film polizieschi per scovare il colpevole nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Delitto, caso, premeditazione, prove, povertà, sofferenza, sogni ed incubi, fede, ideale. Nove tappe, nove parole chiave. Il lettore di Delitto e castigo si trasforma in un vero viaggiatore pronto a seguire il percorso indicato per conoscere i segreti celati dietro l’omicidio delle due donne”.

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La mia idea per il lavoro di riscrittura è stata quella di realizzare un mood board / mappa concettuale che riprendesse tematiche, parole chiavi e immagini caratteristiche dell’opera Delitto e Castigo dell’autore russo Dostoevskij. Utilizzando ritagli di riviste e di quotidiani, ho realizzato una mappa o più propriamente un percorso come quelli creati per scovare il colpevole dagli investigatori nei vecchi film polizieschi. Ho deciso di impostare il lavoro in questo modo dopo aver rivisto uno dei miei film preferiti: A beautiful mind di Ron Howard. John Nash, talentuoso matematico interpretato da Russell Crowe, una volta contattato dal dipartimento di difesa degli Stati Uniti, viene incaricato di trovare il luogo in cui i Russi avrebbero dovuto innescare una bomba atomica contenuta in uno zaino. John Nash, dopo essere stato informato che i nemici avrebbero comunicato tra loro per mezzo di messaggi in codice inseriti in quotidiani e riviste del tempo, comincia ad analizzarle minuziosamente, a ritagliarle e ad appenderle alle pareti della sua stanza, creando un vero e proprio groviglio di informazioni, una ragnatela, una mappa di codici da decifrare per poi arrivare alla soluzione. La sua vita viene sconvolta ancora una volta quando scopre che la cospirazione, in verità, non esisteva, ma era unicamente frutto della sua mente, colpita da una grave forma di schizofrenia. Il mio mood board/mappa concettuale si trasforma allora in una “crazy wall” o in un “evidence board” ispirato a quello di John Nash. Il filo rosso che ho voluto inserire rappresenta il fil rouge del racconto, che collega concetti importanti tra loro, intorno ai quali si sviluppa l’opera dostoevskiana. Il nostro percorso inizia dal centro, dalla parola delitto. Come si può inferire dal titolo, l’opera si sviluppa attorno all’omicidio della vecchia usuraia, Alëna Ivànovna e della dolce sorella Lizaveta, per mano del giovane Rodiòn Romànovič Raskol’nikov. Se l’uccisione della prima venne premeditata per mesi, l’omicidio di Lizaveta avvenne per puro caso. La donna infatti non doveva essere uccisa, ma irruppe nell’abitazione della sorella proprio nel momento in cui Raskol’nikov si trovava ancora lì con la scure insanguinata tra le mani e la vecchia stesa a terra in una pozza di sangue.

Seconda tappa del nostro viaggio, il caso è un importante elemento tragico che, nell’opera, sembra proprio assecondare la buona riuscita del delitto. Raskol’nikov però decide di sfidarlo. Sfida il caso per tutto il tempo della narrazione come se volesse portarlo contro di sé. Il giovane concepisce le fantasie del delitto, frutto di una creatività negativa nata dal sonno della ragione che, come dice Goya, genera mostri, tra le quattro mura della sua stanza, facendo di sé stesso un eroe negativo. Un buco, così viene descritto il luogo in cui abitava, talmente piccolo, soffocante e claustrofobico da essere paragonato ad una vera e propria bara. Raskol’nikov ormai aveva deciso di sfidare i limiti dell’uomo, togliendo la vita e comportandosi come Dio. Premeditazione, ecco la nostra terza tappa. Proprio qui ho decido di inserire un’immagine che, in questo caso, diventa fortemente simbolica. L’opera in questione è l’Albero rosso di Mondrian. Tra il 1909 e il 1912, il pittore lavorò sul tema dell’albero, alla ricerca di nuove forme e nuovi accostamenti cromatici, giocando sui contrasti dei colori caldi e freddi. L’albero rosso creato da Mondrian diventa nel mio “evidence board” l’albero rosso sangue, simbolo del male e della corruzione. Raskol’nikov decise infatti di macchiare le sue mani e di sfidare i limiti, di essere un uomo straordinario e libero, usurpando il potere divino. Decide di uccidere per un motivo ben preciso e mettere fine all’esistenza.

Ed eccoci alla quarta tappa. L’omicidio era ormai compiuto, il colpevole era riuscito a fuggire dall’abitazione della donna senza farsi scovare, ma ora era tempo di fare i conti con le proprie azioni e di capire come e se dovesse distruggere le prove. Ogni assassino ha le sue tracce da nascondere, ma l’atteggiamento di Raskol’nikov nei loro confronti è senz’altro ambivalente. Decide in un primo momento di sfidare la sorte e presentarsi in commissariato con il calzino ancora sporco di sangue, dimostrandosi coraggioso, sicuro di sé; dall’altro diventa ossessionato dal fatto che qualcuno avesse potuto trovare una prova della sua colpevolezza, trasformandosi così in un uomo paranoico. Il voler continuamente nascondere e sviare le indagini e la sua volontà di far emergere le prove del delitto ci dice molto sul personaggio di Raskol’nikov, tormentato, secondo una mia interpretazione, sia da un costante senso di colpa, che lo porterà poi alla confessione, sia dalla paura, sensazione inizialmente estranea al protagonista ma che ora lo stava perseguitando.

Giunti alla quinta tappa ecco che ci troviamo di fronte alla parola povertà. Il ragazzo pietroburghese non aveva denaro, era povero. Tutto l’ambiente di Delitto e castigo è legato a questa condizione che diventa la vera cornice dell’opera. Essa è comune a molti personaggi come lo stesso Mermeladov e la sua famiglia. Raskol’nikov provava vergogna e fastidio per il fatto di essere povero. Analizzandolo attentamente, capiamo che in lui qualcosa non andava. Era un ipocondriaco, un malinconico. Ma con la sua condizione economica ci aveva fatto l’abitudine. Semplicemente non gli interessa più. Ed ecco che la domanda giunge spontanea. Uccide davvero solo per denaro? Qual è il vero motivo del delitto? Bisogna solo seguire il percorso.

È qui che subentra la sofferenza, una caratteristica importante nell’opera dell’autore russo. Raskol’nikov soffre proprio come Sonja. Ragazza credente e pura d’animo, è lei a rappresentare una figura tipica della tradizione russa ovvero quella del “jurodivyj”, personaggio che arriva al sacrificio totale di sé per amore del prossimo. Sonja è così. Si sacrifica per la sua famiglia tanto da prostituirsi per racimolare del denaro per i suoi fratelli. Lei e il giovane di Pietroburgo sono uniti nella sofferenza, nel dolore e nella corruzione, del delitto per lui, del mestiere da prostituta per lei. In questa sesta tappa ho deciso di riprendere e utilizzare immagini di attualità proprio per rappresentare l’idea di dolore e tragedia. Gli incendi, i disboscamenti, lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento delle acque sono simbolo della sofferenza del nostro pianeta e di conseguenza di quella di tutti noi. Raskol’nikov, capendo di essere un corrotto, soffre. Era diventato e si era comportato proprio come l’uomo che bastonava il povero cavallino nel sogno che aveva fatto.

Sogni e incubi rappresentano la settima tappa del viaggio. Non possiamo parlare di sogni senza parlare di Sigmund Freud. Secondo il padre della psicoanalisi, essi sono il modo in cui il nostro inconscio comunica con noi, mostrandoci i nostri desideri più segreti e ciò che non riusciamo ad accettare. E proprio perché non riusciamo ad accettarle, la nostra mente le camuffa, le censura, e alla fine crea storie e immagini insensate. Il sogno in questo caso rappresenta la proiezione della coscienza di Raskol’nikov, una coscienza che nasce in negativo con il delitto. Sono due le opere d’arte che ho voluto inserire nel mio “crazy wall” a proposito dei sogni, o meglio dire, incubi.  La prima a sinistra di Pablo Picasso, il Ratto delle sabine del 1962 e la seconda di Franz Marc, intitolata I piccoli cavalli gialli, realizzata nel 1912. Entrambe riprendono la figura del cavallo, sognata da Raskol’nikov prima che mettesse in atto il suo piano diabolico. Molto più rappresentativa è sicuramente quella di Picasso. I colori, o sarebbe meglio dire i non colori, il bianco e il nero, trasmettono paura. Non è il pugnale, non è la criniera che ondeggia come lingue di fuoco a incutere terrore la ma testa dello stesso cavallo che nel sogno del giovane rappresentava la vecchia usuraia, o forse, lo stesso Raskol’nikov.

Ma ecco che grazie a quella sofferenza il giovane raggiunge la salvezza, una salvezza interiore. La verità viene sempre a galla. Il giovane decide finalmente di confessare il suo delitto alla ragazza. Proprio grazie a lei e alla lettura del vangelo Raskol’nikov capisce che un Dio, non solo fatto di castigo ma, anche di amore e perdono esisteva davvero. Ecco allora la nostra penultima tappa: la fede. Ho voluto in questo caso far sì che la creazione di Adamo di Michelangelo rappresentasse, in modo simbolico, il momento in cui il ragazzo decise finalmente di accogliere un nuovo Dio nella sua vita.

Il nostro viaggio che si conclude con la parola ideale. Ecco svelato il mistero. Raskol’nikov uccise la vecchia usuraia unicamente per un suo ideale. Era convinto, come aveva scritto nel suo articolo, che al mondo esistessero due tipologie di uomini: gli uomini ordinari e quelli straordinari. I primi sottoposti e leggi divine e civili, vivono come schiavi ma pur sempre felici, i secondi regole e limiti non ne hanno. La loro morale viene abbattuta dalla coscienza. Sono uomini legittimati a uccidere nel presente per la creazione di un futuro migliore. Napoleone, secondo Raskol’nikov era uno di questi. Emblema del super uomo, decide di uccidere solo per affermare la sua superiorità e le sue idee. Si comporta come Dio, non è schiavo ed è felice. Ma Raskol’nikov non è Napoleone. Non trova felicità nel delitto, anzi. Il suo ideale crolla appena compiuto il fatto ed ecco che inizia il suo castigo. Tutto è nelle mani dell’uomo secondo il nostro protagonista, un pensiero apparentemente rassicurante ma angoscioso. La libertà non è soltanto qualcosa di positivo, non essendoci limiti il male è dietro l’angolo.

La speranza dell’amore

Alice Nesta, in questo suo secondo racconto breve, ha voluto dare descrivere un momento di gioia e di speranza contrastando l’atmosfera di soffocamento e chiusura del romanzo di Dostoeskij Delitto e castigo, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato.”

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Razumichin ogni tanto si fermava a riflettere su quanto fosse cambiata la sua vita nell’ultimo anno.

Sapeva perfettamente che la casualità e il destino erano due concetti che si sfioravano, forse volevano dire la stessa cosa, ma non aveva mai capito esattamente secondo quale criterio si insinuassero nella vita degli uomini e ne modificassero le sorti. C’erano stati momenti in cui l’idea che il futuro fosse solo un’insieme di cose indefinite, che l’essere umano non poteva controllare, gli aveva messo paura e si era chiesto se forse l’idea di destino e casualità non fossero state inventate dall’uomo stesso per giustificare le cose che succedevano al di fuori del suo controllo.

Non sapeva quale legge governasse l’universo, ma di una cosa era sempre stato certo: dalla prima volta che aveva visto la sua futura moglie si era irrevocabilmente innamorato di lei.

Ricordava il giorno in cui era entrato nell’appartamento dell’amico Raskolnikov e l’aveva vista seduta lì, impaurita e incerta su come comportarsi mentre il fratello discuteva con la madre.

Per quanto si leggesse la stanchezza sul suo volto, per quanto sembrasse piccola seduta su quella sedia cigolante, per quanto potesse rimanere in silenzio ad osservare gli altri due litigare, Razumichin aveva percepito una forza e una sicurezza quando l’aveva guardata negli occhi che l’avevano atterrito.

Dal momento in cui quegli occhi si erano incastrati nei suoi, aveva sentito la terra mancargli sotto i piedi, come se la gravità dipendesse dalla presenza di Dunja nella stanza e non dalle leggi della fisica che governavano il mondo. Da allora le era sempre stato affianco.

Razumichin era consapevole che Dunja avesse dovuto affrontare tanti dolori nella propria vita; lei ne parlava poco e malvolentieri. Lui non voleva vedere il suo volto delicato rabbuiarsi e aveva imparato a non chiederle mai troppo del suo passato e di tutto quello che aveva sopportato prima di conoscerlo. Portava tanti dolori nel cuore, Razumichin lo sapeva, ma questo non lo aveva mai fermato dall’amarla incondizionatamente.

Il giorno in cui avevano arrestato Raskolnicov per l’omicidio di due donne, Dunja aveva passato tutta la giornata con la madre e non aveva versato una sola lacrima. Era rimasta al fianco della madre per darle forza fino a quando non si era fatta sera e si era addormentata. Solo a quel punto Dunja era andata da lui, si era appoggiata alla sua spalla, lui l’aveva abbracciata e lei era scoppiata in un pianto silenzioso. Non si erano detti niente, non c’erano parole che avrebbero potuto migliorare quella situazione. Avevano passato la notte così, finchè non si erano addormentati entrambi sfiniti e stanchi.

Da quella sera non si erano più separati. Razumichin, qualche settimana dopo, le aveva chiesto la mano e Dunja gli aveva chiesto perché mai la amasse, lui era un uomo buono e di bell’aspetto, poteva sicuramente aspirare a qualcuna migliore di lei. Razumichin non poteva credere che lei potesse pensare una cosa del genere. L’aveva guardata e le aveva detto che lei era il suo mondo e lui le gravitava intorno come fosse la Luna per la Terra. La forza dell’amore che provava lo portava a guardarla e ad innamorarsi ogni giorno un po’ di più. Dunja aveva sorriso e gli aveva accarezzato il viso con la mano fredda. Ricordava perfettamente la sensazione di quella carezza sulla guancia, se si concentrava poteva sentire la mano morbida di lei sfiorargli la pelle dove la barba stava ricrescendo.

All’università aveva studiato tanti filosofi e letterati che parlavano di amore, di quel sentimento tanto forte da portare un uomo a fare qualsiasi cosa, persino a fare guerre o a percorrere tutti i regni ultraterreni pur di rivedere anche per pochi attimi la donna che amava. Un sentimento così astratto e sconfinato che nessuno sembrava riuscire a descriverlo davvero, come se non esistessero delle parole per delineare quello che voleva dire amare una persona al di fuori di se stessi.

Razumichin non aveva mai compreso a pieno quel sentimento finchè non aveva conosciuto Dunja.

Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato. I raggi di luce contornavano perfettamente la sagoma di Dunja dandole un aspetto angelico. La sua pelle bianca risaltava così tanto che sembrava brillare di luce propria, il vestito bianco le avvolgeva il corpo in modo delicato e il velo le gettava un ombra seria sul viso.

Mentre camminava verso di lui guardava dritto davanti a sè. Il suo passo era sicuro.

Al suo fianco camminava sua madre che aveva gli occhi lucidi per la commozione e per la gioia di porter accompagnare sua figlia all’altare. Questo matrimonio aveva reso la madre di Dunja estremamente felice, era la prima cosa bella dopo un lungo periodo di sofferenza e le si leggeva negli occhi che era orgogliosa di quanto forte fosse sua figlia. Ma era anche consapevole che avrebbe dovuto essere il fratello ad accompagnarla all’altare, e questo aveva amareggiato profondamente quella donna che faceva di tutto per non crollare sotto il peso del dolore.

Nella chiesa angusta c’erano poche persone, ma Razumichin avrebbe avuto occhi solo per Dunja anche se si fossero trovati in mezzo ad una folla di centinaia di persone. Sentiva il cuore battere all’impazzata nel petto. Era impazziente di averla davanti e di prometterle che l’avrebbe amata in eterno, che avrebbe asciugato ogni sua lacrima e che avrebbe condiviso con lei ogni gioia che la vita gli avrebbe donato.

Quando le due donne finalmente giunsero all’altare, la madre di Dunja porse a Razumichin la mano della figlia. Lui le sorrise gentilmente e strinse tra le sue mani ruvide quella della sua sposa. Dunja salì sull’altare e si mise davanti a lui. La stava ancora tenendo per mano e per nessun motivo al mondo l’avvrebbe lasciata.

Lei gli sorrise e ricambiò quella stretta. Quello era il suo modo per fargli capire che anche lei era impaziente di iniziare finalmente la loro vita insieme e di prendersi cura l’uno dell’altra.

In quel momento Razumichin capì che per quanti dolori possano esserci nella vita, l’amore è tutto quello che serve ad un essere umano per essere definito tale. Quel giorno comprese il senso di tutte le poesie degli scrittori e i pensieri dei filosofi che aveva letto all’università e che gli erano sembrate solo fantasticherie.

Continuando a stringere la mano di Dunja capì che da quel momento in poi si sarebbero scelti l’un l’altro ogni giorno della loro vita, e improvvisamente il futuro non gli fece più paura.

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Bibliografia:

Delitto e castigo, Fedor Dostoevskij