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MOVIMENTO II – Morte in fiore

Alice Ferretti, in queste sue due composizioni, si concentra sulla nascita della vita come declinata secondo l’Edda poetica, proponendo una lettura personale e un suo disegno inedito. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini I. I miti e la scienza, Letterature comparate B, modd. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Riparto dalla fine del primo movimento. L’uomo e la donna vivono nel mondo moderno e come nel mito dell’androgino desiderano tornare ad essere un unico corpo (acqua nel movimento I), ma l’unico modo che hanno per riuscirci e unirsi nell’atto d’amore. L’amore consumato porta la gioia, un senso di completezza che però scivola via e non può durare, così come neppure il loro essere giovani, innamorati, vivi. L’io cerca disperatamente un modo per sfuggire al tempo, rivolgendosi alle proprie mani e alla propria arte, ma non è in grado neppure di immaginare tutti gli infiniti momenti che vorrebbe insieme potessero passare e così si rivolge alla natura e le chiede di trasformarli in rosa: un fiore che ancora una volta li renda uno e che per il mondo sia monito di cosa vuol dire amare. La poesia si ispira a moltissimi temi affrontati durante il corso: il mito dell’androgino, l’atto creativo e la bellezza come cure alla morte e al tempo, l’incapacità dell’artista di creare la perfezione e l’infelice tensione all’infinito, la trasmutazione grazie all’amore. Inoltre sono ripresi diversi topoi ricorrenti negli stessi testi: il fiore e la rosa, gli occhi come tramite d’amore, l’arco d’amore, la fiamma della passione; e figure retoriche come la personificazione della Notte e del Caos.
Il testo si pone come controparte asimmetrica rispetto al primo: le prime strofe (se così si possono chiamare) riprendono la struttura ritmica e molto altro dal primo testo per segnarlo come sua continuazione naturale, ma questo movimento II presenta una strofa in più a chiusura e conclusione.

*

Ti ho cercata,

in corpi che non conosciamo[AF1] ,

mentre la Notte cammina

– tra lampioni spenti e lattine abbandonate –

ti ho cercata.

Vorrei ci riunissimo in un abbraccio che è di carne e di acqua,

scorre tra le pieghe della nostra vita arrossata.

Ma cammino solo.

Tu che scompari lontana, con i piedi che strisciano l’asfalto

E lo trasformano

in polvere, e vapore di brina [AF2] 

che annebbia e rattrista ogni cosa.

Mentre sdraiamo i nostri piedi su questa strada

È l’Amore che cammina.

Chiudo forte questi occhi che non hanno che la tua immagine a mira[AF3] , perché sei il mio eterno presente, dove non ci sono rimpianti

Ma solo sogni da sperare e speranze da scoprire.

E il tempo è il tiranno contro cui lottare

E che ci insegue da una vita,

in lungo e in largo,

fino a spingerci lontano,

lontano[AF4] .

Ti sento andare a fuoco,

la pelle rientrare,                        

i tuoi battiti aumentare,

Le tue carni calde che premono sulle mie

i nostri corpi trasformare

questo abbraccio che ci unisce, non è privilegio di un mortale.

“Ti voglio”

Lascio che il desiderio ci scivoli addosso,

che i respiri si mischino piano.

Vorrei riassorbirci, cancellarci in uno: eliminiamo le distanze

Di quest’esistenza solitaria.

Ma cammino solo.

Ci attraiamo e ci allontaniamo. [AF5] 

Cammino solo.

E il mondo resta fermo a quest’incrocio

Tra ciò che siamo e ciò che sentiamo. [AF6] 

Ti stringo.

E ci stringiamo.

Ci allontaniamo e ci attraiamo.

“Ti voglio”.

Ma l’Amore resta fermo a quell’incrocio

Tra ciò che non sappiamo e ciò che non sentiamo.  [AF7] 

Solo l’eco del tuo bacio rimbomba

Come una fiamma[AF8]  nel mio ventre

Che non muore e non si estingue

Vorrei plasmarla per creare

Il tuo volto

Su questo foglio sottile

E stringerlo tra i palmi

E poterci annegare[AF9] .

Che se la morte poi dovesse venire

Sarei fuggito e ti avrei salvata

Al sicuro dipinta tra parole

Sussurrate dalle mie labbra

e trasformate in futuri mai avvenuti

che solo così potrò avverare.

Ma a me non appartiene

né foglio né inchiostro [AF10] 

E soffro e desidero. [AF11] 

E quando ti guardo negli occhi

E le tue labbra sfioro

Non ho più corpo da cercare[AF12] 

E semplicemente sono.

E allora, se poi dovessi andare,

Pianterò per noi una rosa

che al mondo i suoi petali ricordino qualcosa [AF13] 

e che la sua essenza [AF14] ci confonda[AF15]  ancora. [AF16] 


[AF1]I corpi così definiti e separati, così diversi dall’essere acqua fluida che scorre e muta

[AF2]L’oggetto rimanda alla condizione prima della vita che provoca una tristezza nostalgica e inconsapevole

[AF3]Il topos dell’arco d’amore legato al topos degli occhi

[AF4]È l’eco, della solitudine e della voce amata, che raddoppia l’espressione della solitudine

[AF5]Quello che in Movimento I era il moto ondoso dell’acqua, nel Movimento II è l’oscillare dei corpi nell’atto d’amore

[AF6]Il mondo bloccato dal sentimento d’amore è pronto ad avanzare, perché sentirsi uno non è esserlo: l’abbraccio dovrà sciogliersi. 

[AF7]Ora è l’Amore ad essere bloccato, perché gli innamorati non sanno che l’essere uno era il loro stato originale

[AF8]Il topos della fiamma come simbolo della passione è qui al contempo tramite della passione amorosa e della passione creativa

[AF9]Il verbo richiama volutamente l’acqua elemento portante del Movimento I, e fa riferimento all’annullamento come individuo ma anche all’immergersi nel proprio subconscio, come in un liquido amniotico che preserva e rigenera.

[AF10]Ma l’artista non ha il mezzo né il concetto per poterli salvare dal tempo

[AF11]Citazione da Tramontata la luna di Saffo.

 [AF12]Ripresa dei versi iniziali

[AF13]L’Amore è incomunicabile, non può essere spiegato o insegnato, ma è sentimento ancestrale che la bellezza risveglia.

 [AF14]Il profumo è il primo dei sensi che sviluppiamo, e la memoria olfattiva è profondamente legata all’affetto.

[AF15]Ripresa di verbo dal Movimento I, usato lì proprio per indicare i corpi che si mescolavano nel momento della creazione: qui è l’iter inverso.

[AF16]L’ultimo verso è il trionfo dell’amore. Allo stesso tempo la sua rinuncia: i due innamorati riescono a tornare uno, ma non recuperano il loro corpo materiale.

MOVIMENTO I – Genesi dall’acqua

Alice Ferretti, in queste sue due composizioni, si concentra sulla nascita della vita come declinata secondo l’Edda poetica, proponendo una lettura personale e un suo disegno inedito. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini I. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1-2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Riprendendo la parte in versetti e alcune versioni dell’origine riportate dagli Asi, tento di riscrivere del passaggio dal caos alla vita. Come fa l’Edda riconduco il principio vitale all’incontro tra gelo e calore, e in particolare all’acqua che, trasmutando prima in vapore e poi in brina, dà forma alla prima figura d’uomo, nel testo semplicemente un corpo, e tornando acqua sotto forma di sudore origina l’uomo (versione di Har, capitolo 5). Scelgo l’acqua non solo perché elemento centrale alla narrazione delle origini norrena, ma anche per il suo fluire e mutare di stato che certo può essere associato alla metamorfosi. La forma scelta per la riscrittura è quella di una prosa liricizzata, che permetta con le assonanze di ricostruire il fluire e mutare dell’acqua, non lento ma agitato e turbato affinché trasmetta la sensazione di angoscia che pensare al caos mi porta, e in rimando a quella malvagità che i norreni attribuivano intrinsecamente a ogni cosa.

*

Nulla che grida al vuoto,

il tempo remoto che rinnega i pensieri[mf1] ,

il caos di cosa non è

– né sabbia né mare né onde –

e ha spazio ma nessun luogo.

Una voragine immensa che squarta, violenta,

scartavetra una terra e una volta del cielo che non ci sono.

Non cresce ancora l’erba.

Io che fluisco lontana, come schiuma velenosa[mf2] 

che indurisce e diventa ghiaccio

e, quando ghiaccio mi faccio,

mi disperdo in vapore di brina, e ricompro ogni cosa.

È innumerevoli inverni prima che la terra sia creata,

ma nel nulla c’è odore di primavera[mf3].

Trasudo forte [mf4] questo gelo vitale che crea il passato che non so,

perché sono un eterno presente, dove non ci sono ieri

ma solo spazi già inondati e quelli da coprire.

Ed il domani è un verbo[mf5]  contro cui andare

e che mi sale da una vita,

su e giu, giu e su,

fino a spingermi lontano,

lassù[mf6].

Mi sento andare a fuoco,

le molecole rientrare,

gli atomi sfrigolare.

Le arie calde che premono sulle gocce,

la mia massa trasmutare.

Colui che invia questo calore ha una parola solida, letale[mf7] .

“Smettila”

Lascia che il caldo [mf8] mi scivoli addosso,

che le gocce scorrano piano.

Vorrei riassorbirle; cancellarci in una: eliminiamo le tracce di questo smarrimento momentaneo.[mf9] 

“Lasciaci andare”

Ci allontaniamo e ci attraiamo.[mf10] 

Mi aggrego e sono nato.

E, solo, regno dormiente in questa sala profonda,

senza né volta né pavimenti.

E mi agito.

E ci agitiamo.

Ci attraiamo e ci allontaniamo.

“Lasciaci andare”.

Siamo acqua che è confusione: non ci capisco più niente.

Gocce di sudore che confondono i contorni di questo corpo.[mf11] 

Li mischiano, li sbavano, indeboliscono.

Acqua che è movimento, che è terrore, è panico,

aiutami, aiutami,

dimmi che non c’è niente da temere,

perché va tutto bene, perché ci siamo immaginati ogni cosa, e se non è così

dimmi che è tutto a posto,

perché siamo un tutt’uno, perché non siamo cambiati,

e se siamo cambiati non importa,

perché siamo io e te

assieme.[mf12] 

Acqua che si asciuga e ci forma.

Siamo l’uomo e la donna.


[mf1]Il pensiero è associato agli esseri viventi, e siamo in un passato dove non c’è vita.

[mf2]La coppia è ripresa direttamente dalla traduzione dell’Edda di riferimento.

[mf3]La primavera rappresenta la vita che nasce.

[mf4]Ripresa di “respiro forte”, associabile a un momento di concentrazione prima di un’azione particolare, e rielaborato sul tema dell’acqua e del liquido: un dare che è generare; lo scorrere del sudore; il mutare della fatica in liquido…

[mf5]Qui per ‘ordine’: l’acqua va letteralmente incontro al domani, rappresentazione dei luoghi davanti a lei; allo stesso tempo è prigioniera di un corso tracciato, un fato a cui nel tentativo di opporsi finisce per sottostare “su e giù…. lassù”(ripresa della concezione greca, sull’esempio del mito edipico). 

[mf6]La creazione è legata generalmente a una divinita celeste.

[mf7]La frase si apre con “Colui che invia questo calore”, ripresa pari dalla traduzione dell’Edda di riferimento. L’associazione di questa identità, indefinita ma certa, a “parola” è un rimando ai testi biblici, dove la parola è emanazione del potere divino, qui “letale” perché appartenente a colui che ha potere sulla vita e sulla morte, ma allo stesso tempo designata solo nella sua componente negativa per un’associazione degli opposti: il gelo vitale (v.14) opposto al calore letale. 

[mf8]Come in Blake, il principio vitale e l’evoluzione vengono dagli opposti: il caldo scioglie il ghiaccio, e permette alle gocce di assumere nuova forma.

[mf9]Il cambio continuo tra prima persona plurale e prima persona singolare, e viceversa, fa riferimento alla natura particellare dell’acqua e dei corpi.

[mf10]Movimento degli atomi al variare della temperatura.

[mf11]Una variante significativa dalla prima stesura “confondono i contorni di questo abbraccio”: gli atomi si legano gli uni agli altri per formare la materia (corpo).

[mf12]La forma è stata preferita ad “insieme” perché la s mima il rumore dell’acqua, e l’assimilazione consonantica trasmette un idea di coppia e di indivisibile.

Rivoluzione a colori

Giulia Rista, in questa sua composizione, si concentra sul concetto di arte come forza creatrice. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1-2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il mio racconto si pone l’obiettivo di nobilitare l’attività artistica, sia essa letteraria, figurativa o di altro genere. Il personaggio principale trova nella pittura non solo un rifugio, ma lo strumento per una nuova genesi del suo mondo, il quale subisce una vera e propria trasformazione; in questo senso, la figura di Milo viaggia in parallelo con i grandi protagonisti dei miti delle origini. Ho tratto ispirazione, per l’ambientazione di questo testo, da Zaandam, cittadina olandese dove Claude Monet ha operato per svariati anni: ho scelto di riportare un suo dipinto che mostra in maniera particolare il trionfo del colore sul grigio piattume della realtà, contrasto a mio parere emblematico del percorso di formazione cui il protagonista della storia è sottoposto. 

*

Milo era venuto al mondo in un giorno d’inverno, uno di quelli in cui il peso inerte dell’aria grava sulle tue spalle e ti schiaccia al suolo. I suoi occhi si erano aperti su uno scenario di pareti grigie e facce indistinte, mentre, fuori dalla finestra, il cielo plumbeo pareva una lastra di metallo su cui la mole informe dell’ospedale si specchiava.

La stessa vena di opacità era riecheggiata nei successivi anni della sua vita, spesi tra i corridoi immobili della scuola e gli anfratti rinsecchiti del giardino di casa; più tardi, si era iscritto a economia e aveva intrapreso la carriera di commercialista: forse non aveva perseguito una passione bruciante, ma si era guadagnato un posto nel mondo e tanto bastava.

Nel frattempo, aveva avuto una buona dose di amici e perfino alcune donne, ma non poteva dire di aver mai provato alla bocca dello stomaco quella sensazione di cui sentiva parlare con sempre maggiore frequenza, e che si diceva fosse in grado di domare anche i cuori più reticenti. Nel pieno crepuscolo della seconda decade della sua vita, infatti, Milo si era reso conto che tutti attorno a lui si ostinavano a menzionare il grandioso sentimento che inizia per A, e a chiedere quando si sarebbe deciso a sposare Agatha, la sua ragazza: era stato più per mettere a tacere quello sciabordio di voci che per altro se alla fine i due si erano sposati davvero.

A quarant’anni, Milo ancora non riusciva a smettere di rimuginare sulla propria incapacità di amare la moglie. La notte, quando la camera era silenziosa e la saracinesca abbassata, teneva gli occhi sbarrati a fissare l’oscurità e corrugava la fronte. Perché non provava niente? Era sempre andata così: si era compiaciuto dei sentimenti mediocri, delle abitudini ordinarie e dell’aspetto lineare e sbiadito della sua intera esistenza.

Una mattina, il peso dei pensieri gli sembrò insopportabile, e provò il desiderio impellente di allontanarsi da una realtà che d’improvviso gli andava stretta. Così prese la valigetta da lavoro, uscì dalla porta di casa e si incamminò per le strade deserte e polverose.

Sentiva un’intercapedine dentro, come se il sole del mattino fosse una sorta di gigantesca aspirapolvere che gli stava risucchiando l’anima. Attraversava il lungo ponte che tagliava in due la città: lontano, sull’acqua sotto di lui, vedeva il riflesso dei grandi mulini che costeggiavano il lago. Una brezza gelida gli sferzava le guance, quasi ferendolo.

Fu solo quando il suo respiro si fece corto che Milo si fermò di colpo: i gomiti appoggiati alla ringhiera, si sforzò di respirare a fondo, mentre scrutava l’acqua torbida al di là del parapetto e immaginava di lasciarsi cadere a peso morto. Di nuovo, scorse il riflesso di un grande mulino, un cono dall’intonaco verde pallido che distava solo di qualche metro dal ponte. Un ricordo affiorò alla sua mente: Agatha che, con la testa adagiata sulla sua spalla e un sorriso sereno in volto, gli confessava di amarlo, lasciando che le sillabe ruzzolassero fuori dalla bocca e che il vento le trasportasse verso uno di quegli imponenti edifici. Forse le pale avevano catturato le parole e le avevano fatte proprie per sempre, perché, anche se Milo non aveva replicato, un silenzio inattesamente rilassato era calato tra i due, e Agatha non aveva preteso alcuna risposta; lui l’aveva scrutata in volto, convinto di scorgere del disappunto, ma non aveva trovato altro che la stessa pace di poco prima. Dieci mesi più tardi si erano sposati.

Ora Milo avvertiva il battito cardiaco normalizzarsi, e una nuvoletta di condensa si faceva largo tra le sue labbra ad ogni respiro. Fece per riprendere il cammino lungo il ponte, quando con lo scarpone urtò qualcosa di rigido che andò a sbattere contro il parapetto e produsse un rumore metallico; una volta raccolto l’oggetto da terra, Milo constatò che si trattava di un taccuino rilegato in cuoio ormai vecchio, e che le pagine ruvide, benché sgualcite dall’umidità, erano perlopiù intonse. Un sorrisetto sbilenco gli sollevò un angolo della bocca nel momento in cui ricordò che, da bambino, un blocchetto da disegno simile a quello aveva rappresentato per lui il più grande tesoro.

Come gli piaceva disegnare! Non lo aveva più fatto dai tempi dell’infanzia, troppo preso dall’etica del ceto medio e intento ad accantonare tutto ciò che non gli avrebbe portato profitto. Gettando una rapida occhiata alla valigetta, e voltandosi poi a perlustrare il ponte, un’idea percorse furtiva l’anticamera del suo cervello: chissà se ne era ancora in grado. Si chinò, aprì la valigetta ed estrasse una matita.

Visto attraverso le sbarre del parapetto, il mulino sembrava più snello e più alto: Milo, seduto a terra, ebbe qualche attimo di esitazione, ma poi iniziò a tratteggiare i contorni dell’edificio, curandosi appena di rimanere fedele al soggetto. Era trascorsa solo una manciata di secondi, quando gli parve di sentire un vago pizzicore al braccio; non avrebbe saputo descriverlo, ma era come se il foglio fosse pervaso da una lieve scarica elettrica che attraversava il legno della matita e si propagava nelle dita della sua mano. Inizialmente ne fu quasi infastidito, ma poi la sensazione iniziò a farsi sempre più piacevole, fino ad avvolgerlo come un vento caldo. Nel momento in cui iniziava a delineare il profilo delle pale, Milo era ormai preda di una vera e propria euforia che gli faceva sgranare gli occhi e tracciare con la matita segni sempre più rapidi. Per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva felice, come se la sua intera esistenza non fosse stata altro che un preludio a quel momento di puro piacere e stesse iniziando solo allora a vivere.

Improvvisamente, un pensiero gli fece alzare di scatto la testa. “Ci vuole un po’ di colore” si disse, il viso tornato serio e una nota di urgenza nella voce. Poi si allontanò a grandi passi dal luogo della sua arte. Era la seconda volta, quel giorno, che un impulso involontario lo spingeva a correre.

*

Entrare in casa era stato come ritrovarsi immerso nello smog della città dopo aver respirato a pieni polmoni l’aria limpida e sottile della montagna, ma ora tornava a inebriarsi di quella purezza: dipingeva, e le pennellate non si limitavano a decorare le pagine del blocchetto, ma coloravano pian piano la sua stessa vita, fino a quel momento grigia e fiacca e spenta e labile. Per la prima volta i suoi sensi si acuivano, il cielo si faceva più terso, l’erba era di un verde più brillante e, un paio di metri più in là, il lago era trasparente. Sotto il suo tocco, il disegno del mulino sbocciava come un fiore, e le pale rosse parevano fragole di cui riusciva quasi a sentire il profumo, forgiate nel fuoco della sua frenesia.

“Ma l’amore!” gridava. “L’amore!” Ora lo sapeva anche lui: provava quello che gli altri provavano, un sentimento che si schiudeva nel suo petto come uova raccolte di fresco. Sollevava gli occhi al sole di ottobre e lo ringraziava per la sua luce. Apriva le braccia e chiedeva al mondo di pervaderlo, gli offriva la sua protezione incondizionata. Avrebbe sacrificato il suo corpo per lui, ogni cellula scissa dalle altre e donata al cosmo affinché facesse di sé qualcosa di più.

“Sono nato per essere un artista” si ripeteva. Malediceva tutto quello che l’aveva fatto sentire piccolo o mediocre o insignificante. Doveva dipingere, e sentiva quell’esigenza esplodergli dentro e fare a brandelli la sua vecchia anima, ormai secca e raggrinzita. Ne aveva bisogno, perché la realtà non gli bastava.

Il resto della mattinata trascorse veloce, ma Milo non rincasò per pranzo; voleva, doveva rimanere lì, anche se aveva terminato il primo disegno e si accingeva a iniziarne uno nuovo. Nemmeno a pomeriggio inoltrato si decise a rientrare, e fu solo quando il sole era tramontato da un pezzo e il buio gli impediva di distinguere nitidamente i colori che si trovò costretto a interrompere il suo operato. “Però non posso andarmene” si disse. Decise di dormire sul ponte: era convinto che, una volta spiegato tutto ad Agatha, lei avrebbe capito.

Si concluse così quello che gli era sembrato il primo giorno della sua vita.

Quella notte non dormì, intento a studiare nuove angolazioni per i suoi dipinti e a rimuginare sulle tecniche da impiegarsi; una volta sorto il sole, non volle perdere tempo e si mise subito all’opera. I piedi gli dolevano per le ore trascorse al freddo, non sentiva più la punta delle orecchie e le dita presentavano piccoli tagli arrossati, ma nulla di tutto ciò aveva importanza: quel giorno avrebbe riprodotto il mulino blu, e poi quello giallo, e poi tutti e due insieme.

Nel tardo pomeriggio, Agatha lo trovò mentre mordicchiava la matita. “Milo” gli corse incontro. “Mi hai fatta stare in pena. Stai bene?”

Milo le disse che stava bene, che aveva trascorso la notte al motel perché era molto stanco e che sì, aveva mangiato, al chiosco di panini più in là. Non era vero: non toccava cibo da più di un giorno; eppure il suo stomaco non sembrava patire la fame. Il suo corpo era impermeabile alle comuni esigenze umane, e Milo quasi le ripudiava.

Agatha era preoccupata, ma il viso di suo marito irradiava per la prima volta una gratificazione tale che alla fine decise di concedergli ancora qualche ora con i suoi schizzi, facendosi promettere che l’avrebbe rivisto a cena.

Milo, però, non aveva intenzione di tornare. La vita non gli mancava: quella era vita. Temeva il momento in cui avrebbe rivisto la sua casa fatta di mattoni, e cercava di allontanarlo da sé il più possibile; ora sapeva che non si poteva essere uomini e felici, ma artisti e felici… Questo forse sì.

Non tornò da Agatha neanche a tarda notte. Il giorno dopo, la donna si presentò nuovamente sul posto: nonostante i movimenti frenetici delle mani, Milo era pallido, smunto; i suoi occhi erano cerchiati e ridotti a fessure, come se si rifiutassero di rimanere aperti, e le guance scavate gli conferivano l’aspetto di un malato. Indossava gli stessi vestiti da quasi tre giorni.

Agatha tornò a reclamare la sua presenza più volte, ma fu tutto inutile: i giorni passavano e Milo non si decideva a schiodarsi da lì. Era in una sorta di trance, e il suo mondo finiva laddove i contorni del blocchetto da disegno cedevano il posto alla realtà.

“Ora basta.” Agatha si sforzava di suonare il più autoritaria possibile, ingoiando la frustrazione che le riempiva il petto. “La tua passione ti sta logorando. Devi venire a casa, metterti dei vestiti puliti, tornare al lavoro. Non te lo ripeterò.”

Milo continuava a tenere gli occhi fissi sul blocchetto. Sembrava non sentirla nemmeno.

Esausta, Agatha alla fine si sedette accanto a lui. “Milo.” Ora la sua voce era rotta: le parole tremolavano, sospese nella luce fioca. “Voglio portarti via da qui.”

Per la prima volta dopo diversi giorni, Milo alzò lo sguardo e la scrutò, gli occhi grandi come la luna che cominciava a spuntare in cielo e velati da quella che sembrava una lancinante compassione.

“Andremo lontano dal lago e dai mulini. Possiamo ricominciare insieme.”

Milo non parlava. La fissava con aria contrariata, come se l’idea di muovere anche un solo passo lo scocciasse e intaccasse i suoi progetti.

“Io partirò comunque” proseguì Agatha, recuperando parte della sua autorevolezza. “Puoi decidere di venire con me, oppure di essere solo.” Parlava in tono duro, i lineamenti resi spigolosi dalla collera, ma, quando fece una pausa, il suo viso si addolcì, e gli occhi si fecero umidi mentre, in un estremo tentativo, aggiungeva: “La scelta è tua. Ma io ti sto pregando: torna da me.”

Milo deglutì mentre continuava a guardarla – sentiva la bocca asciutta. Spostò gli occhi sul dipinto che stava ultimando, poi sui mulini al di là del parapetto, poi di nuovo su Agatha. Lentamente, allungò le dita verso di lei e le prese la mano.

*

Una giornata tersa. Uno stormo di uccelli che si librano nell’azzurro. Un uomo in piedi su un ponte, che porta vestiti sdruciti e una lunga barba incolta. Ha le mani devastate dai calli e le unghie sporche di colore; guarda verso l’orizzonte, ammiccando e stringendo gli occhi, e cerca di intravedere tra le pale dei mulini due parole che vi sono rimaste intrappolate tanto tempo fa. Non vuole liberarle dalla tirannia dei mulini, né tentare di riprendersele: vuole solo essere certo che siano lì, perché significherebbe che una parte di Agatha non è mai andata via.

Poi Milo si siede, afferra un pennello, sorride e torna a dipingere.

Bibliografia
Ovidio, Metamorfosi, libro I, tr. it. di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino, 2015
Esiodo, Teogonia, tr. it. di G. Arrighetti, BUR, Milano, 2020
Michelangelo, Rime, a cura di P. Zaja, Rizzoli, Milano, 2010
Pierre de Ronsard, Premier livre des amours, intr., bibl., relevé de variantes, notes et lexique par Henri Weber et Catherine Waber, Paris, Garnier, 1963 
Snorri Sturluson, Edda, a tr. it. di G. Dolfini, Milano, Adelphi 2019
Bibbia, Genesi I, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2006

C’era una volta una cavaliera

Irene Giovannini, in questa sua composizione, rielabora in chiave ironica e femminista il Venus and Adonis di William Shakespeare. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. Dal Rinascimento a Leopardi. Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Dal mio stupore nel vedere la dea dell’Amore supplicare colui di cui è innamorata di concederle attenzioni, oltre che dal mio personale interesse nell’approfondire e rivalutare il ruolo della donna nella società contemporanea, deriva la scelta di proporre una lettura della figura di Venere che abbracci in parte quella shakespeariana, ma che si ponga l’ambizioso obbiettivo di proporre una versione originale largamente indipendente dalla fonte. La figura femminile non viene elogiata per la sua bellezza, ma per forza, coraggio e determinazione. Al contrario, l’uomo si spoglia della tradizionale virtù per indossare i panni di un giovane narcisista, il cui atteggiamento richiama, in parte, quello di Adone. Ho, quindi, adottato il genere della favola per bambini, utilizzando l’ironia per evidenziare il ribaltamento dei ruoli tradizionali e rendere innovativo, e spero divertente, il racconto. Probabilmente se Shakespeare leggesse questa riscrittura, si indignerebbe. Tuttavia, se io potessi tornare alla condizione di spensierata infante quale ero, mi piacerebbe crescere capendo che essere fiere di sé stesse e credere nelle proprie capacità vale più di quanto non si pensi.

*

C’era una volta una cavaliera[1]. Sì, avete capito bene: proprio una cavaliera! Armatura, elmo, un cavallo bianco e una spada: tutto ciò di cui bisogna essere dotati per affrontare un’avventura. Rosalinda[2] non era particolarmente bella né alta né magra, ma era coraggiosa, perspicace e, soprattutto, deteneva il record di migliore cacciatrice di draghi di tutta la valle di Sospiro Ventoso. Rosalinda non aveva paura di niente: era stata allevata nella Foresta del Tasso Puzzone[3] da una famigliola di lepri che, nonostante le volessero un gran bene, le avevano insegnato come cavarsela da sola e ad affrontare i pericoli. Pensate che a soli cinque giorni era già in grado di arrampicarsi sugli alberi e a sette giorni di domare un lupo cattivo! Quando divenne abbastanza grande per sconfiggere un Drago Fiammarossa, partì con il suo destriero, pronta a scoprire il magnifico mondo che si trovava oltre i confini della Foresta. Dovette resistere alle intemperie, attraversare mari e monti, sopravvivere alle insidie degli Gnomi Brutticeffi, fuggire da un Orco. Insomma, dimostrò innumerevoli volte il proprio coraggio.

Un giorno giunse alla corte di Re Igor il Pezzato. Il sovrano, che soffriva evidentemente di sudorazione eccessiva, la accolse con un ricco banchetto e alcuni omaggi: una forma di fontina, qualche pennacchio nuovo e un liuto realizzato per lei da Mastro Centomani. Rosalinda rimase soddisfatta dei doni ricevuti, anche se di quel liuto proprio non sapeva cosa farsene: l’unica cosa che sapeva suonare, e anche discretamente, era il guscio di tartaruga! Re Igor aspettò che Rosalinda terminasse il suo pasto: la giovane divorò otto cosce di pollo, trenta code di lucertola, cinque panini con la frittata di uova di rana e mezza torta a sei piani con la fragola. Poi, il sovrano le chiese il suo aiuto: da tempo una bestia feroce spaventava i cittadini del regno e divorava il bestiame. Ormai l’inverno era alle porte e la gente sarebbe morta di fame, se qualcuno non avesse sconfitto al più presto quel mostro. Rosalinda non ci pensò neanche un momento: avrebbe lottato contro la terribile bestia. In cambio, però, voleva che il re le permettesse di andare a vivere nella vecchia Torre che si ergeva sulla vetta Oltremare. Re Igor acconsentì, dal momento che la Torre stava cadendo a pezzi e nessuno avrebbe mai voluto abitarci. Fu così che Rosalinda, legato il liuto alla sella del cavallo, partì alla ricerca dell’orrenda fiera. Trascorse alcune notti in una caverna: accese un fuoco, andò a caccia e si impegnò a suonare quello strambo strumento. In poco tempo comprese che ogni corda, se pizzicata, produceva un suono diverso, a volte più acuto a volte più grave, e che se suonava in sequenza tutti i suoni poteva realizzare una dolce melodia. Rimase incantata dalla propria capacità di imparare così in fretta, da sola, l’arte della musica, a lei sconosciuta fino a qualche giorno prima. Si sentì fiera e soddisfatta di sé stessa, quasi come quando aveva sconfitto un Drago Aspirasangue. Con questa piacevole sensazione chiuse gli occhi e si riposò: l’indomani avrebbe affrontato una grande sfida.

L’audace cavaliera si alzò all’alba, indossò l’armatura e partì. Stava cavalcando da ore nella fitta boscaglia del Grande Bosco, quando sentì un agghiacciante verso provenire da poco distante. Dopo essere scesa da cavallo, legò il proprio destriero ad un albero e, munita di spada e liuto, si addentrò tra i rovi. Improvvisamente udì urla umane. Strizzò gli occhi per vedere meglio e rimase in silenzio per qualche minuto. Poi, lo vide: un giovane stava correndo a perdifiato e ad inseguirlo era un’orribile fiera a tre teste con le zanne da cinghiale e il corpo di scimmia[4]. Rosalinda corse verso il mostro, sguainando la sua spada; quello, accortosi della presenza della cavaliera, lasciò perdere il giovane e si scagliò contro di lei. Rosalinda, non appena gli fu abbastanza vicino da vederne gli occhi rossi come il sangue, tentò di trafiggerlo con la spada. Si accorse subito però che la pelle del mostro era troppo dura: niente avrebbe potuto scalfirla. La bestia nel frattempo tentava di scagliarle contro alcuni tronchi d’albero, ma l’astuta cavaliera era così veloce da riuscire a schivarli tutti. Rosalinda ebbe una rivelazione: le tradizionali tecniche cavalleresche non sarebbero servite in quel caso; doveva usare qualcosa di speciale, qualcosa che solamente lei era in grado di fare. Tirò fuori il liuto e iniziò a suonarlo. La bestia si acquietò, chiuse gli occhi e si accasciò a terra, dormiente. Fu in quel momento che Rosalinda sferrò il colpo finale: sollevò un enorme masso e lo scaraventò contro il mostro, schiacciandolo. La forzuta cavaliera esultò, sentendo crescere in lei l’orgoglio di essere riuscita a portare a termine anche quel difficile compito affidatole. Stava raccogliendo da terra la propria spada, quando il giovane che poco prima aveva visto scappare le si avvicinò. La cavaliera ne osservò per un istante il bel volto, impreziosito da incantevoli occhi castani e labbra corallo. Il ragazzo, dopo essersi aggiustato i capelli ricciolini e aver ripulito la giubba rossa che indossava, si presentò come Ascanio[5], figlio del re Sonbello Manonballo e della regina Bella Delreame. Ammiccando, ringraziò la cavaliera per aver sconfitto la temibile fiera e avergli salvato la vita, permettendogli così di partecipare al concorso di bellezza “Il principe che tutte vorrebbero”. Come ricompensa propose alla giovane di darle un dolce bacio e di farle l’onore di renderla la sua principessa. Stava già chinandosi verso la cavaliera per baciarla, quando questa lo colpì sulla testa con il liuto. Poi, si allontanò, lamentandosi della frivolezza dei principi d’oggi.

Rosalinda fece ritorno alla corte di re Igor il giorno stesso: era decisa ad ottenere la propria ricompensa e a godersi il meritato riposo. Giunta a palazzo e annunciata la vittoria, ricevette le congratulazioni di tutti e il sovrano le consegnò le chiavi della Torre di Oltremare. La cavaliera fremeva dalla gioia e non indugiò oltre. Sellato il suo destriero, raggiunse la sua nuova dimora, dalla quale da quel giorno, ogni sera, intonò canti soavi accompagnata dal suo liuto. E visse per sempre felice e… fiera di sé stessa.


[1] Nonostante il termine non sia presente sul vocabolario di lingua italiana, ho scelto di utilizzarlo per mettere in risalto il ribaltamento del ruolo femminile all’interno del racconto.

[2] La protagonista non è una donna bisognosa di amore o una dea, ma una coraggiosa cavaliera. Viene così ribaltata la struttura tradizionale sia della fiaba, che vuole l’uomo come eroe, sia del poemetto shakespeariano, visto il focus non sulle vicende amorose e sulla bellezza, ma sull’esaltazione delle proprie capacità.

[3] L’ambientazione non è più il locus amoenus descritto da Shakespeare, ma un bosco insidioso.

[4] Il cinghiale che assale e poi uccide Adone in Venus and Adonis viene qui sostituito da un’orribile fiera dall’aspetto multiforme.

[5] La descrizione del giovane riprende l’Adone nel dipinto di Tiziano, Venere e Adone ( olio su tela, 186 x 207 cm, 1553), oltre che l’atteggiamento di Narciso (Metamorfosi, Ovidio)

Bibliografia
Ovidio, Metamorfosi, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2015
W. Shakespeare, Venus and Adonis, tr. it. di V. Malosti, Marco Valerio Editore, Torino, 2007
Tiziano, Venere e Adone, olio su tela, 186 x 207 cm, 1553

Destino Funesto

Beatrice Ruggiero, in questa sua composizione, rielabora in una prospettiva inedita l’infelice storia di Hel, rivista qui dal punto di vista della stessa dea. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

Il seguente elaborato nasce dalla volontà di riscattare una figura complessa all’interno della mitologia norrena; si parla infatti di Hel, dea dei morti senza onore, posta a tale ruolo da Odino poiché parte dei tre figli del male. Nonostante la terribile condizione che il destino le ha riservato, ella si dispera per la sorte dei propri fratelli, motivo per cui nel testo tesse loro lacrime e lodi. Qui mi pongo umilmente da sua portavoce.

*

Figlia del fuoco
fui costretta alla romba
del gelido vento
che soffia nell’ombra,
or domino il ghiaccio
e la sorte dei morti
che non per onore
da me sono accolti.
Tra tutti coloro
che m’han conosciuta
uno tra gli altri
m’ha assai meno temuta,
non per inganno
né per sua colpa
costui al mio cospetto
si ritrova la tomba.
Dyggvi fu ‘l nome
quando ancor il rintrono
dei passi suoi vivi
risuonava sul suolo:
nubile allor
accettai la sua mano,
divenne consorte
del mio lato umano.
Così io, di fatti,
fui costretta dal fato
metà così bella
da lasciar senza fiato;
tuttavia l’altra parte
del mio povero volto
rappresenta con carne
l’altra faccia del mondo.

Nacqui da Loki,
dio ancor conosciuto:
agli dèi inganna gli occhi,
all’uomo offre aiuto;
purtroppo di questo
in pochi si accorgono
concentrati su quello
che fu il suo tramonto.
Egli ai mortali
diede attrezzi d’ingegno
ma ‘l sol male si vide
nonostante l’impegno;
fu però da noi figli
che Odino si avvide
ci tolse dal nido
e poi ci divise.
Al fratello mio lupo,
di Fenrir che ha il nome,
infatti il futuro
riservava più onore:
lui vincerà il padre
dell’uomo che a me
venne e cui Hermodhr
far tornare richiese.
Fratello mio cane,
a me ti han disgiunto
ti han con le catene
a Lyngi rinchiuso,
ma verrà il gran giorno
che paura assai incute,
sconfitto al tuo ritorno
sarà il dio delle rune.

Purtroppo fratello
sarà già perduta
la speranza di vita
che ti era stata preclusa:
Vidhar di spada
sarà infatti lesto
e del sangue versato
pagherai subito il prezzo.
Dolore mi invade
per tale destino,
ma non sol per te
si riversa il mio grido:
infatti il mio sangue
non ha solo Fenrir,
vi è Jǫrmungandranche
tra noi maledetti.
Serpente di forma
cresce nel fondo
del mondo dell’acqua
dove giace pensando
a Ragnarok, quando
morente sul suolo
vedrà lo spavaldo
morir del suo siero.
Quest’ultimo, infatti,
quando Odino lo chiese
lo scagliò giù nel mare
dove ancor oggi cresce.
Questa è la storia
del fato dei miei
poiché nostra natura
allor non piacque agli dèi.

Bibliografia
Snorri Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Milano, Adelphi Edizioni, 2019

Novembre 2015

Vittorio Punzo, in questo suo testo di finzione, prova a guardare dagli occhi di una giovane lavoratrice parigina, morta nell’attentato al Bataclan di Parigi nel Novembre del 2015, la realtà prima e dopo il proiettile che la colpisce allo stomaco. Nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi, il testo comprende citazioni e riscritture dei testi inseriti nelle fonti in calce al racconto.

La riscrittura è un tentativo, forse fin troppo presuntuoso, di ricordare e caratterizzare una vita, tra le tante, persa nell’attacco del 2015 al Bataclan di Parigi, evento ricorrente per modalità e motivi in luoghi e tempi vari.
Ho volutamente sbilanciato il tempo del racconto a prima dello sparo: la narrazione quasi surreale mi serviva per alcuni motivi: 1) la ragazza ha un presentimento 2) ha un particolare rapporto con la nostalgia 3) Il suo umore è instabile, è incinta.
Nella parte centrale ho pensato che se la convenzione vuole che prima di un evento tragico succeda qualcosa di bello, la ragazza avrebbe potuto semplicemente desiderare-immaginare una cosa bella senza però ottenerla.
Le ultime 1000 battute sono dedicate a un pensare ostinato e metaforico sul proiettile nello stomaco. Cambio il tempo della narrazione, uso il presente, tutta la prima parte del racconto assume la forma di un ricordo racchiuso nell’istante dello sparo. In questo, forse, risuona l’incipit di Underworld di Don De Lillo.
La ragazza è stata colpita, adesso si sente quasi utile, non prova rabbia, forse addirittura, con freddo raziocinio, è felice che la sua vita e quella che si portava in grembo non saranno (più) partecipi alla corsa umana, da ora in poi la vita che portava in grembo resterà immobile nel nulla oscuro della non-nascita, in quel buco nero della pre-origine. I freschi ciuffi d’erba sono un’immagine sostitutiva della nascita che non avverrà mai, dunque simbolo di serenità.

*

Mi travestivo spesso, mi piaceva farlo. Quando mettevo addosso un travestimento diverso ogni cosa appariva cambiata, colorata di una nuova tonalità più calda o tendente al violaceo, meno satura o più in rilievo, più esposta, talvolta meglio definita. Poche volte la realtà mi appariva ombrosa o sfocata, quando succedeva scattavano in me degli strani turbamenti. Queste evocazioni turbinanti e confuse non duravano mai che qualche secondo; spesso, la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi trovavo non staccava l’una dall’altra le diverse supposizioni di cui essa era fatta. Non meglio di quando, scegliendo una fragranza, non riusciamo ad isolare le varietà proposte dal venditore e finiamo per immaginare profumi che non esistono. Ma avendo riascoltato un po’ l’una un po’ l’altra, come fossero lontane decadi di anni tra loro, le camere dove avevo abitato nella mia vita, come i travestimenti che avevo adottato, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano il risveglio. Una delle quali era la camera d’inverno dove, quando si è coricati, si ficca la testa in un nido messo insieme con le cose più disparate, un angolo del guanciale, l’estremità delle coperte, il capo d’uno scialle, il bordo del letto, un numero di Charlie Hebdo, cementati infine tra loro con la tecnica del dis-ordine costruttivo. E poiché in casa mia quel quindici novembre il fuoco è rimasto spento tutto il giorno, ho deciso di uscire prima del tempo per cercare qualcosa di buono in città.

Qualcosa di buono, di notte a Parigi sui bulevard, prima del lavoro è: mangiare cibo da strada oppure bere birra calda. Qualcosa di buono è incrociare un amico. Ma qualcosa di buono è anche vedere propria madre svegliarsi, cosa non verosimile sul bulevard. Qualcosa di buono e sapere i propri genitori smetterla di lottare per un pezzo di terra o per il potere. Qualcosa di buono è sapere che la vita su questo mondo continua anche senza una promessa radicale volta a eliminare chi ha categorie di pensiero diverse dalle tue. Qualcosa di buono, l’ho accarezzato, saresti tu, e lui ha risposto con una botta. Allora ho pensato:

Vi fu un tempo remoto
in cui nulla era:
non sabbia né mare
né gelide onde.
Non c’era la terra
Né la volta del cielo;
ma voragine immane
e non c’era erba.

Avevo fame. L’orologio della farmacia segnava le 7, ero nell’XI arrondissement e nel freddo novembrino, avevo ricordi insoliti: fantasticavo, fuori luogo, e vedevo me bambina. Avevo un’ora prima del lavoro e strani pensieri per la testa. Così il tempo si è accavallato e incastrato nella sua stessa morsa, i miei vestiti si sono sovrapposti e ora passato e futuro prendevano le sembianze di un unico succoso boccone. Morsicavo del pane asciutto mentre camminavo sul bulevard. Ho guardato i miei passi fino al 50 di bulevard Voltaire. Poi ho guardato l’ingresso, un ingresso per nulla singolare, e mi è venuta voglia di descriverlo come l’ingresso a uno dei mondi paralleli che ho trovato nelle narrazioni mitiche. Ne avrei parlato con qualcuno molto volentieri, avevo un’improvvisa voglia di sprofondare nelle parole, con un qualunque vicino ad ascoltarmi mentre dicevo una qualsiasi cosa stravagante; oppure immagina, gli avrei detto, zero lotte, nessuna proprietà terriera o di credenza. Nessun disadattamento sociale. Nessun occidente, nessun oriente. Nessun Niflheimr, non un Muspellheir. Nessun gigante protestante, pentecostale, cristiano, islamista. Nessuna modernità, nessuna madre delle certezze. Solo energie, senza gravità, solo una fredda era di Plank e questo ingresso al teatro per nulla singolare.

Il mio lavoro al teatro è indicare alle persone il loro posto: “In fondo a destra”, “Il suo posto è a sinistra”. “Ecco questo è il suo posto, signore”. Io sono la prima che vede chiunque entri nel teatro, ero la prima che chiunque trovava all’ingresso. Accoglievo, per prima, anche un esercito.

Accoglievo anche giganti con i fucili e la lana in faccia. Dopo essermi vestita e aver fatto il mio lavoro, iniziato il concerto: c’era musica. La stessa musica che si suona in altri mille posti così. Poi c’è stato un fragore incomprensibile. Il pavimento dell’atrio aspettava le mie stanze, i miei travestimenti, le mie intimità. Le aspettava non senza il mio sangue. Quei giganti con le armi intarsiate di legno hanno voluto me come primo dono prezioso per una nuova umanità. Non pensavo di essere così importante, eppure sono stata la prima. Ero, e ora sono lì, travestita delle stesse origini dell’universo, una voragine immane mi separa il lembo destro dal lembo sinistro di carne, il centro è bollente se provo a poggiarvi il dito e mi accorgo che una scissione nucleare imminente sta accadendo sotto la mia falange; la spina la sento che è rigida come il ghiaccio, quando il sangue caldo toccherà la vertebra ialina vedrò, vedranno, il paradiso al centro del mio corpo. Vi fu un tempo remoto, in cui nulla era non sabbia non mare non gelide onde. Non c’era la terra, né il firmamento, ma una voragine immane dove la mia vita è iniziata, dove un’altra stava crescendo e ora al suo posto crescevano lenti e freschi ciuffi d’erba.

Bibliografia
J. Baggott, Origini. La storia scientifica della creazione, tr. it. di I. C. Blum, Adelphi, Milano, 2017
G. Génette, Figure III, tr. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino, 1986
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla Parte di Swann,  tr. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano, 1983:128
S. Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 1975:52,53

Storia del Re Supremo e della sua Creazione

Ilaria Elmo, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la Creazione divina, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione delle origini bibliche in chiave fantastica. Infatti il suo contenuto aggiunge un tocco di magia e d’incanto modernizzando il tema stesso e avvicinandolo alle nuove generazioni.

*

C’era una volta, prima che tutto nascesse, un essere talmente potente da non poter essere comparato a nessun altro. La sua bellezza era impareggiabile, così come la sua bontà e il suo senso di giustizia. Nel corso dei secoli avrebbe avuto diversi nomi, e, perciò noi lo chiameremo semplicemente Re Supremo.

Il Re Supremo viveva in uno splendido castello, al di sopra di tutto l’Universo. Egli poteva avere qualunque cosa desiderasse, ma dopo un po’ di anni iniziò ad annoiarsi, a causa della solitudine. Nonostante non gli mancasse nulla all’interno della sua maestosa dimora, sotto di essa c’era il vuoto assoluto; perciò il Re supremo decise di creare un mondo gradevole da osservare in cui potesse esserci vita.

Egli compì la sua opera in sei giorni. Nell’arco della settimana si rese conto che la vista dal suo castello era sempre più bella e affascinante: poteva osservare le stelle luccicanti nel cielo e le acque scintillanti sulla Terra. Con il passare del tempo la terra acquistava vita e bellezza in ogni dove. I fiori e le piante presero vita e diedero tocchi di colore magnifici. C’erano rose, gigli, alberi da frutto e tutto ciò che si potesse immaginare. La terra acquistava sempre più l’aspetto di un’opera d’arte dalle mille sfumature. Dopo aver creato le piante, il Re Supremo decise di creare gli animali, perché popolassero il pianeta. Dato però che le apparenze possono ingannare è necessario specificare che sotto la magnificenza della Terra si nascondevano mille pericoli, e gli esseri che la popolavano dovevano lottare per la propria sopravvivenza.

Nonostante il Re Supremo avesse alleviato la propria solitudine popolando la Terra, non era ancora pienamente soddisfatto, quindi decise di creare gli esseri umani. Essi erano diversi dagli altri animali che popolavano il pianeta, al di sotto del castello: erano stati creati ad immagine e somiglianza del Re Supremo. Egli era talmente affezionato agli esseri umani che decise di farli vivere con sé al castello; questo per evitare loro di affrontare i pericoli della Terra sottostante. Gli uomini potevano usufruire di tutti i divertimenti presenti nella dimora del Re Supremo; l’unico divieto che egli pose loro era quello di non avventurarsi all’interno della Biblioteca Infinita: essa conteneva tutto il Sapere dell’Universo.

I mesi passarono e gli uomini, insieme al Re supremo, si divertirono tantissimo. Passavano le giornate ballando, cantando e sognando ad occhi aperti. Tutto sembrava perfetto. Ma la fine di quell’idillio si avvicinava a grandi passi.

Una notte, una ragazza di nome Eva, fece un sogno diverso dagli altri: sentiva il suo corpo muoversi senza che lei lo volesse e poteva vedere tutto al di fuori di esso. Vide sé stessa alzarsi dal letto senza alcun rumore e, con la massima circospezione, dirigersi lentamente verso la Biblioteca Infinita. Al suo risveglio provò sollievo nel constatare che si era trattato solo di un sogno e cercò di passare la giornata senza pensarci troppo. La notte seguente però il sogno si ripeté e così quella successiva. Il terzo giorno Eva non poté più fare finta di niente e, questa volta per davvero, si diresse verso la Biblioteca Infinita, per poi farvi ingresso. Al suo interno si perse, talmente tanti erano i volumi in essa contenuti. La giovane iniziò a leggerli, uno dopo l’altro; non poteva smettere.

Il Re Supremo aveva anche la capacità di essere a conoscenza di tutto ciò che accadeva all’interno delle mura del castello. Vedendo ciò che Eva aveva compiuto, la convocò urgentemente e le chiese spiegazioni. La giovane, non avendo altra scelta, raccontò al Re Supremo dei suoi sogni, verso cui non era riuscita ad opporsi. Egli, dopo aver ascoltato le parole di Eva, si adirò immensamente e per punirla condannò tutto il genere umano a vivere sulla Terra, tanto bella quanto piena di pericoli, per l’Eternità.

Bibliografia
La Bibbia, Nuova versione dai testi antichi,1° edizione settembre 2014, Genesi,Edizioni San Paolo, Milano

Chi è come Dio?

Alice Giambrone, in questa sua riscrittura, racconta la creazione tramite gli occhi di un artista, il quale assume il ruolo del dio che modella la propria opera d’arte, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

È la voce di Michelangelo Buonarroti a narrare la creazione, nello specifico di una delle sue opere d’arte più illustri: il Mosè del monumento funebre per la tomba di Papa Giulio II. La figura dell’artista si sovrappone così alla figura del dio artigiano, che plasma il creato. Narrando il processo di scultura che accompagna i pensieri dell’artista, la riscrittura vuole raccontare il passaggio dalla materia informe alla creatura, che pare prendere vita.[1]

*

[…] he formed thee, O man,
Dust of the ground, and in thy nostrils breathed
The breath of life; in his own image he
Created thee, in the image of God
Express, and thou becam’st a living soul[2].
J. Milton, Paradise Lost

L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi[3].

Quando ricevetti l’incarico di creare, scelsi personalmente la materia prima da cui avrei estratto una forma nuova e, il giorno in cui giunsi nella Città Eterna, unico e indistinto era l’aspetto del marmo da me selezionato, un ammasso di venature discordi, mole informe e confusa, nient’altro che peso inerte[4]. Tenevo dinanzi solo un blocco: un embrione immaturo confuso della creatura non era ancora visibile[5].

Studiai la natura senza forma che in sé racchiudeva potenzialità infinite di immagini. Con le mani in un fremito posi lo scalpello sulla materia da plasmare, alzai il braccio reggendo il martello e posai un primo colpo deciso. La natura vibrò appena sotto il segno del mio gesto.

E vidi che era cosa buona[6].

Spinsi lo scalpello più a fondo e smussai l’ammasso informe, distinguendone le parti e separandone le venature marmoree, fino a quando cominciò a identificarsi una forma più umana, ma ancora mal rifinita, un abbozzo d’uomo.

E fu sera e fu mattina[7] per molti mesi, mentre con l’uso del martello e dello scalpello lasciavo l’aria scorrere tra le membra e gli arti di una nuova vita.

Separai il marmo dall’esistenza che vi giaceva insita, levando l’eccesso di materia, poiché l’immagine già era dentro, non dovevo che spogliarla, sollevare un velo, spesso, pesante. Sotto quel peso l’aria, che è nulla, prendeva forma. Diventava viva[8].

Lo osservai. L’uomo assumeva una posizione seduta, con una gamba più piegata dell’altra come fosse in procinto di alzarsi in piedi, la veste gli ricadeva adagiandosi sulle ginocchia. Definii delle tavole sotto il suo braccio, le levigai, le studiai con cura, e vidi che era cosa buona.

E fu sera e fu mattina lungo numerosi mesi, durante i quali il mio estro dai torti pensieri[9] non si concedeva pace alcuna.

Quando lo scalpello giunse più in alto, nella mole marmorea che mutava la sua forma, delineai la barba in movimento, fluida, intrecciata alle dita affusolate, prolungamento delle braccia dai muscoli tonici e le vene prominenti.

Scolpii il volto accigliato, dallo sguardo altero, le labbra serrate e gli occhi irosi negli incavi bui delle orbite che conferivano alle forme un’espressione d’importanza.

Anche se l’immagine diveniva via via più reale, il marmo racchiudeva porosità, venature, striature caotiche, celava in sé un potenziale infinito di creazioni. Quell’ordine apparente che gli attribuivo non era che esteriore, poiché dentro di sé conteneva un disordine di particelle nell’attesa di essere portate alla luce dal luogo indefinito nel quale risiedevano, che un anno non sarebbe stato abbastanza tempo per giungere al suo fondo[10].

Soffiai sul marmo un alito di vita[11]: con le lime sfregavo i lineamenti del profeta, arrotondavo le ginocchia, delineavo i gomiti, ammorbidivo le articolazioni delle dita. E vidi che era cosa buona. Si disegnò quella figura d’uomo che, dalla stazza imponente, mi sedeva dinanzi con portamento fiero.

Restai a guardare l’immagine che avevo fabbricato, che era un uomo, non più marmo: tanta era l’arte, che l’arte non si vedeva[12].

Il profeta sedeva immobile, come ad attendere.

Anche io rimasi in attesa, aspettando che lui si alzasse, che proferisse verbo al suo Creatore. Eppure, egli tacque. Passai una mano sulla statua per sentire se fosse carne, ed ebbi la sensazione che le dita affondassero nei suoi muscoli, che le sue vene pulsassero sotto ai miei pollici[13]. Fu solo una parvenza.

Allora lo chiamai per nome, a gran voce, così che egli si potesse voltare e mi potesse guardare negli occhi. Tuttavia, egli rimase statuario.

Sentii l’esasperazione crescere in me: guardavo quelle membra umane alle quali avevo dato forma, dalle umane venature e dalle umane sembianze, e non sapevo come donare loro moto, o verbo. Brandii il martello. – Mosè, perché non parli?[14]


[1] “Chi [è] come Dio?”: etimologia del nome Michele (riferito all’Arcangelo), dall’ebraico מִיכָאֵל (Mikha’el), mi (“chi”), kha (“come”) ed El (“Dio”). Da qui deriva il nome dell’illustre artista rinascimentale Michelangelo Buonarroti. Aa. Vv. (1997) Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Fossano (CN) 2005, p. 660.

[2] Oh uomo, a te diede forma, polvere della terra, / e nelle tue narici soffiò un alito di vita; / ti creò a propria immagine, / e così fosti un’anima vivente. Paradiso Perduto, libro VII, vv. 524-528.

[3] In nova fert animus mutatas dicere formas corpora, Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 1-2.

[4] Unus erat toto naturae vultus in orbe, / quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles […] Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 6-9

[5] Milton, J., Paradise Lost, VII, vv. 277-278.

[6] Genesi, I.

[7] Genesi, I.

[8] Mastrocola P., L’amore prima di noi, Pigmalione.

[9] Esiodo, Teogonia, v. 168.

[10] Esiodo, Teogonia, vv. 736-741.

[11] Genesi, II.

[12] Ars adeo latet arte sua, Ovidio, Metamorfosi, X, v. 252.

[13] Ovidio, Metamorfosi, X, vv. 254-255, 256-257, 289.

[14] Secondo una leggenda, compiuta la sua famosa opera in marmo per il complesso statuario della tomba di Giulio II, Michelangelo si rivolse verso il Mosè, il quale era tanto realistico da parere vivo eppur muto, ed esclamò “Perché non parli?” percuotendogli il ginocchio con il martello, in un gesto di esasperazione. Non vi è traccia di fratture intenzionali a conferma della leggenda.

Bibliografia
Aa. Vv. Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Fossano, 2005
Cricco G. e Di Teodoro F. P., Itinerario nell’arte, Dal Gotico Internazionale al Manierismo, Zanichelli, Bologna, 2016
Esiodo, Teogonia, tr. it. di P. Mureddu, BUR Rizzoli, Milano 2020
Mastrocola P, L’amore prima di noi. Pigmalione, Einaudi, Torino 2016
Milton J., Paradise Lost, tr. it. di R. Sanesi, Mondadori, Cles, 2016
Ovidio, Metamorfosi, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2015
Genesi, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006

HELENE

Arianna di Pascale, in questa sua composizione, propone una riflessione inedita sulla figura di Elena di Troia e sul suo ruolo in un ambito di rinascita. La riscrittura è stata elaborata durante il corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature Comparate B mod. 1, prof. ssa Chiara Lombardi.

In questa riscrittura ho rimaneggiato la storia e la fama di Elena di Troia, proponendone una nuova lettura in chiave di rinascita. Elena è da sempre una figura negativa nelle narrazioni mitiche, colei che scelse di macchiarsi non solo di adulterio, ma di tradimento verso la patria. Nel mio scritto, da una situazione iniziale di desolazione e caos post apocalittico dopo la terribile guerra di Troia – che rappresenta anche la negatività del ruolo assunto dalla donna nell’immaginario comune – si arriva ad una conclusione di ribaltamento in positivo della figura di Elena, dando così inizio ad una nuova età dell’oro. Questa rinascita avviene grazie al processo di “catarsi” provocato in Afrodite dal discorso di Elena; si verifica così una nuova origine della razza umana.

*

“…ἢ γὰρ Τύχης βουλήμασι
καὶ θεῶν βουλεύμασι καὶ Ἀνάγκης
ψηφίσμασιν ἔπραξεν ἃ ἔπραξεν,
 ἢ βίᾳ ἁρπασθεῖσα,
ἢ λόγοις πεισθεῖσα,
ἢ ὄψει ὲρασθεῖσα
[1]

La terra si mischia con il cielo urlante, come le lacrime sono ormai indistinguibili dalle gote, non più degne dell’epiteto “belle” che le designava un tempo. Lacrime amare, di un dolore dall’ampio petto[2], che raccoglie colpa, disperazione, rabbia. Molte lune sono trascorse dalla causa del pianto, eppure i fiumi che scorrono dai begli occhi sembrano avere fonte infinita.

Elena alza gli occhi alla volta celeste, che ricambia con sguardo iroso e scoppia in un tuono che sembra divorare quel che resta della terra, ormai sterile stagno di fuoco e di zolfo[3].

Ebbene questa è la mia colpa… anche il mare, il cielo, sono attraversati da tempesta e sconvolgimento alla mia vista: solo incrociando il mio sguardo perdono ogni lume, e si abbandonano al Caos.

Ebbene, questa è la mia colpa… il dono tanto gradito ai più è per me insieme vita e morte.

Sopravvivere alla mia stessa bellezza, è forse vita questa?

Guardare fiumi di sangue scorrere violenti, in piena, mentre tingono gli oceani di rosso. Molte volte il sole ha danzato attorno alla terra, e cammino da altrettante, alla ricerca anche solo di una goccia d’acqua che, non toccata dalla mia colpa, abbia conservato il colore della purezza.

Non merito tuttavia quella goccia, qualora ancora ce ne fosse una; o così credono gli Dei dell’Olimpo.

La mia sventura ebbe inizio in un giorno che avrebbe dovuto essere il giorno più felice. Si celebravano le nozze di una dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti a festeggiare gli sposi portando loro una grande quantità di doni.

Nessuno però giudicò opportuno invitare Eris, dea della Discordia, ché la sua presenza, degna di biasimo, avrebbe assicurato litigi furibondi in un giorno tanto piacevole. Infatti, se è vero che nessun mortale l’ama, gli dei, costretti, fanno sì che le si ponga rispetto[4].

Il banchetto procedeva lieto, e già Teti e Peleo erano andati nel talamo, condottivi da Anfitrite e da Nettuno. La Discordia, stizzita, colse il tempo, e, non veduta da nessuno gettò nella sala del banchetto un pomo lucente, tutto d’oro, e con una scritta che diceva: la più bella l’abbia. Quello ruzzolò, e giunse, come a posta, dove erano sedute Giunone, Venere e Minerva. Tra loro sorse contesa, e ciascuna desiderava il pomo per sé; così Giove designò giudice Paride. Eris, ridendo del male provocato[5], ammirava il banchetto.

Ogni dea offerse doni per persuadere il bel giovane a proprio favore, e tuttavia egli scelse Afrodite- insieme con il premio da lei offerto, che fu la mia persona.

La sua scelta, che da un lato pose fine alla contesa, diede adito ad altro tipo di odio: Minerva e Giunone, adirate, maledissero il premio offerto dalla dea vincitrice, facendo della mia bellezza, ritenuta impareggiabile da alcuna donna, ragione di follia per chiunque posasse lo sguardo sulle gradevoli membra.

Afrodite però promise l’amore di una donna sposata; Paride, così, mi rapì dalla casa achea e dagli affetti.

Menelao, mio legittimo marito, dichiarò guerra alla patria del figlio di Priamo: quel conflitto, l’ennesimo, nella bellicosa storia dell’uomo, fu tuttavia l’ultimo. Come il fuoco vorace, rovina dei rami[6], divora ogni cosa sul suo cammino, così la furia di Ares si scatenò, mortale, sull’umanità: un ardore prodigioso penetrava Caos[7].

Il marchio della mia maledizione ruppe le ordinate file di soldati, volgendo la guerra in scontro informe, indistinto, in cui non v’erano più nemici né alleati. La follia pose ambo le mani sugli occhi di coloro che, anche solo una volta, avevano incrociato lo sguardo con il mio, e come una pestilenza la follia si diffuse, rapida e invisibile, nel campo di battaglia.

Non rimase nessuno, sola camminai tra gli scudi abbandonati, i nudi piedi dolenti sulla terra sterile.

Strappati furono i figli dalle braccia materne, i mariti dalle mogli, gli amici dal simposio, e non rimase nulla se non macerie e corpi senza anime. Così, come Achille cullò, invocando la morte, il corpo di Patroclo, la madre del Pelìde pianse il corpo del figlio, nato dall’unione che fornì l’occasione della mia disgrazia.

Sola, sola con la mia colpa.

Colpa che mi macchiò le mani, mentre la spingevo via con tutte le forze. È colpa, esser parte del rincorrersi degli eventi?

Certamente nella storia, nella memoria, ciò che conta sono i fatti, le evidenze, le conclusioni: solamente i gloriosi, i valorosi, meritano di essere ricordati come esempio di virtù.

O madre, Nemesi, giustizia riparatrice, non ho nulla di te nel mio essere, nessuna giustizia è in serbo per me.

È certamente dire il falso, affermare di non aver peccato; nonostante il desiderio, bruciante, di porre la mia verità agli occhi di alcuno mi abbia ormai consumata. Donna superba, adultera… così morirò ai miei occhi, gli unici che ancora conservano il lume della vita e conservano memoria.

Sarebbe forse più terribile finire i miei giorni in una pace apparente, e sopravvivere in tal guisa alla memoria dei miei figli, che avrebbero vissuto col capo chino per la vergogna causata dal terribile strappo sul mio onore. Tuttavia la guerra che ho causato mi rende imperdonabile, ai miei occhi per prima.

La mia bellezza? Peccai di superbia.

La mia fuga con Paride? Peccai di adulterio e lussuria.

Che sia una colpa essere parte del piano divino, questo è l’amaro destino umano.

Afrodite,

a te devo i tre mali della mia vita.

Con il tuo favore la madre legò, indissolubile, l’anima impalpabile a questo corpo funesto.

Tu, Citerea[8] dalla splendida chioma, mi maledicesti una seconda volta facendo di me premio e trofeo,

e infine, ferendo la vanità delle contendenti, ne scatenasti l’invidia.

E tuttavia tu stessa fosti ugualmente colpevole di azioni non tue: la triste Eris tirò la mela, il bel Paride ti scelse.

Con questo mio ultimo gesto ti rendo giustizia, l’unica, temo, che riuscirò mai ad ottenere.

E come il suo corpo cadde dall’alta roccia nel mare agitato, esso fu portato al largo per molto tempo; attorno alla bianca spuma, dalle mortali membra, lambita dai flutti nacque una figlia, e poi un figlio, e dopo essi molti[9]; come gocce di pioggia, dal fecondo oceano si generarono nuove stirpi. Questi figli, con il cuore ignaro del dolore, abiteranno terre spontaneamente feconde e corpi liberi dalla fatica e dal pianto; non li inseguirà il tempo e la vecchiaia misera, ma anzi, dopo una vita di pace, moriranno come colti dal sonno[10].
Per loro la dea fatta di spuma marina terrà separati i beni dai mali; il turbamento per le parole di Elena ne commuove ancora l’animo.

Bibliografia

Esiodo, Teogonia , BUR Rizzoli, Milano 2020
G. Guidorizzi, Kosmos – l’universo dei greci, vol. 1, Einaudi Scuola – Mondadori, Milano 2016
La Sacra Bibbia, Apocalisse, Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1924
L. Settembrini, Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Vol I, 9. Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1862
S. Stulson, Edda, edizione a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 2018 [1975].


[1] Ella infatti fece quel che fece per volontà del Caso, e desiderio di Dei, e Decreto di Necessità, oppure rapita per forza, o persuasa con parole, o presa da Amore”. Gorgia, Encomio di Elena, 1, 6.

[2] Esiodo, Teogonia, vv. 117.

[3] Apocalisse, 20: 14 – 15.

[4] Esiodo, Opere e Giorni, vv. 11 – 16.

[5] Esiodo, ibidem, vv. 28.

[6] S. Stulson, Edda, cap. 4, p. 53.

[7] Esiodo, Teogonia, vv. 699.

[8] Esiodo, ibidem, vv. 196 – 198.

[9] Esiodo, ibidem, vv. 188 – 193.

[10] Esiodo, Opere e Giorni, vv. 112 – 120.

L’ultima tempesta

Aurora Fenocchio, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

In questa mia riscrittura ho tentato di dar voce ad un Pericle moderno che vive immerso in un presente di sale, a stento ricordando d’esser stato, un tempo lontano, qualcosa di diverso da un uomo che ha perso la sposa, un padre senza più la figlia.

*

Con una lentezza straziante il sole di mezzogiorno prosciuga le pozze d’acqua salata. I granchi nerastri, retroguardia della marea, si contendono gli scogli, mentre i gabbiani calano dal cielo a fargli la guerra.
Il piccolo muggine sa che la fine è vicina. Passano i minuti, e la vita defluisce dal suo corpo; il soffio che anima gli ultimi guizzi si disperde, per sempre, nell’aria.
L’occhio del pesce si annebbia del tutto, e in un attimo dentro ci trovo il mio. La smania di vita che incontra il desiderio di morte.
Mi alzo lentamente in piedi, stordito, mentre le acque riassestano il loro dominio, indifferenti verso chi lasciano indietro.
Mentre mi allontano, un gabbiano scende in picchiata sulla spiaggia e in un attimo fa scomparire  il muggine nella sua gola bramosa.

Amata Marina,
prima ho guardato la morte negli occhi. Uno di quei pesci che abitano la costa, forse perché timorosi del buio delle profondità voraci (conosceranno, i pesci, la paura del buio?), ha avuto la sfortuna di trovarsi a combattere contro il sole, imprigionato in due dita scarse d’acqua.
Penso di aver fissato la morte fare il suo corso con uno strano bisogno di risposte, forse con  quello sguardo curioso che hanno i bambini quando cercano di capire il senso del tramonto, o l’assenza dei frutti sul ciliegio in pieno inverno, o il perché del fatto che, ad un certo punto, la trottola si ferma- chissà qual è la forma che la curiosità assume sul tuo viso, Marina. Il tuo viso che per me è rimasto per sempre un viso di bambina.
La morte è stata una fedele compagna della mia vita e, devo dire, probabilmente senza di lei sarei stato qualcuno di molto diverso. Ricordo la morte di mio madre, mia madre che profumava di buono, andata via con i primi freddi, come le rondini, l’anno in cui io imparavo a camminare. Poi quella di mio padre, colui che mi trasmise il compito del sovrano, il senso della guerra e della pace, l’importanza di avere consiglieri fidati e sudditi dalle pance piene; mi insegnò come a volte un nemico sia più utile di un alleato, ma trascurò di farmi conoscere il tepore di un abbraccio e la freschezza di una mano amica che asciuga le lacrime.
La sua morte mi rese re e, soprattutto, mi donò la limpida consapevolezza dell’ordine delle cose, del fatto che tutti i regni e le meraviglie di questo mondo sono destinati ad essere ingurgitati dall’oblio, a scomparire come la rugiada sotto il sole del mattino. Da allora non riesco a guardare un fiore senza vederlo già cenere, anche se a suo tempo feci di tutto per rendermi cieco a queste visioni, per rendermi sordo a certi sussurri di morte, al fine di cercare con tutte le mie forze di realizzare il mio compito di re.
  Solo per un breve momento nella mia vita qualcosa mi ha sottratto a questa terribile consapevolezza, rendendomi dimentico e felice, e quel qualcosa è stato tua madre, Marina. Tua madre era per me la pioggia dopo una siccità secolare, una mano delicata che mi chiudeva gli occhi di fronte alla putrefazione circostante, la musica delle sfere che copriva il suono delle forbici delle Moire. Troppo presto se ne andò, e per colpa mia: fui io a volerla con me nel viaggio fatale.
 La tempesta si abbatté sulla nave in una notte senza stelle, verso la metà del nostro viaggio per Tiro, dove mi richiamavano i miei doveri di re. Il capitano aveva provato a farmi notare le nubi che si addensavano come cupi presagi dinnanzi all’incendio del tramonto, quella sera, ma io non avevo occhi che per la mia sposa dilaniata dalle doglie del parto imminente. D’altronde, a quel punto non avremmo potuto fare niente per evitare la tempesta, sperduti come eravamo in mezzo al mare, senza nemmeno uno scoglio all’orizzonte in tutte le direzioni. Così, nella notte la tempesta si schiantò rombando sul legno, e noi sopra come fragili conchiglie.
Tua madre, Marina, ti diede alla luce fra atroci sofferenze, senza neanche il conforto di un fuoco, senz’altra luce che quella dei lampi sovraccoperta, quei lampi che parevano incendiare il mare, in una guerra fra elementi in cui noi uomini non eravamo che impotenti bambole di pezza. Il mio pensiero era con voi due mentre facevo del mio meglio per restare in piedi sul ponte, intento a dare ordini ai miei uomini, nella terribile furia delle acque e dei venti. D’un tratto la buona Licorida venne a chiamarmi urlando nel vento parole agghiaccianti, di cui mi rifiutavo di cogliere il senso. Sottocoperta non potei fare altro che gettarmi sul corpo ancora caldo della mia sposa, madido di sangue e sudore freddo, avvinghiato alla sua creatura in un ultimo abbraccio che con la sua disperata tenacia sfidava la morte, e perdendo vinceva. Nel momento in cui il mio sguardo si posò sugli occhi senza vita di Taisa, seppi con certezza che la morte era tornata nella mia vita per incidermi nelle iridi il suo ghigno ammiccante, e che mai più se ne sarebbe andata.
Ora, lasciato il mio regno a chi sappia governarlo meglio di quanto io, naufrago della vita, possa fare, deposta la porpora per coprirmi di un ruvido saio, in riva al mare sto, immobile come un sasso, mentre il vento ed il sole mi screpolano la pelle e si insinuano fra le rughe scolpite dal dolore. Dopo che il mare ha ridiscusso ancora una volta gli antichi patti con la terra, dopo che l’acqua si è ripresa le conchiglie che aveva smarrito in una tempesta ormai dimenticata, io, Pericle, tendo l’orecchio: ma non trovo pace. Solo, strida di gabbiani affamati, clangore di chele bellicose e il ciaf ciaf d’un pesce che muore.
Nell’occhio del muggine vedo la morte, e nel sorriso senza denti di questa trovo la stessa domanda che mi perseguita da tutta la vita: perché?


Amata Marina,
mia immane perdita; ti chiedo perdono per questi miei perché? urlati al vento, che tuttavia tu non leggerai mai: è alle acque che affido queste mie, saranno gli oscuri abitanti degli abissi a posare i loro occhi ciechi su tali sillabe inquiete. Forse gli occhi di tua madre, fattisi perle incastonate in ossa coralline e pelle fredda di squame, vedranno passarsi davanti queste lettere, e le profondità risuoneranno dell’eco del mio bisogno, sirene e serpi marine si commuoveranno di fronte alle mie sventure. Forse a quel punto il mare, sempre indifferente alla tragedia del vivere, verrà finalmente a portarmi la pace: in una notte stellata, dopo una lunga veglia, sarò rapito da un sonno leggero, e allora le acque si insinueranno nella mia nuda caverna, qui sugli scogli, dandomi l’agognata morte con un bacio leggero. Morirò così, fra nebbie soavi, sognando te, figlia mia, che giungi a questo remoto angolo di mondo per riabbracciare il perduto padre – questa la speranza che mi tiene lontano dal punto in cui la scogliera scende a precipizio sugli scogli, sempre biancheggianti di schiuma.
Ancora una volta le onde della mia memoria si tramutano in quella tempesta atroce e, a distanza di anni, vengo di nuovo precipitato sulla nave illuminata a giorno dai lampi.
Mentre ancora lo spirito di tua madre vagava nell’aria, quasi visibile fra i bagliori dei lampi, Licorida mi poneva in braccio te, piccolo bruscolo di natura, che prima ancora di aprire gli occhi avevi perduto più di quanto la vita avrebbe mai potuto renderti. Annichilito dal dolore ma nel contempo deciso ad agire per amor tuo, dovetti fronteggiare il ricatto superstizioso dei marinai, che nel mezzo della tempesta esigevano che il corpo di Taisa fosse buttato fuori bordo, al fine – così dicevano – di non inimicarsi gli dei e propiziare la fine della tempesta. Fu solo per timore di essere ucciso e quindi di non poter proteggere te che, alla fine, mi rassegnai a tale barbarie. Sotto i miei occhi Taisa sprofondò fra le gelide braccia della tempesta, i capelli sciolti come alghe rosse, la pelle candida di madreperla. Al solo ricordo avverto i miei stessi polmoni riempirsi di acqua gelida, e saluto questo alito di morte col sorriso.
  Cessata la tempesta, navigammo verso Tarso, dove ti lasciai al sicuro – o almeno così credevo; separarmi da te, Marina, fu come morire con Taisa una seconda volta, ma affrontare l’ultimo tratto del viaggio verso Tiro ti sarebbe stato fatale, priva com’eri del seno materno e di ogni conforto.
Questo mi ripeto quando oggi penso a come quel nostro saluto fu anche l’ultimo: dopo una veloce sosta a Tiro tornai a riprenderti ma, ahimè, i sovrani di Tarso mi dissero con le lacrime agli occhi che eri perduta per sempre. In una notte senza luna la culla in cui dormivi era rimasta vuota, pian piano il tepore del tuo corpo si era dileguato verso gli angoli bui della stanza, unici testimoni del mistero accaduto.
Il vuoto che la tua scomparsa misteriosa lasciava in me fu la goccia che fece traboccare il vaso della mia tempesta interiore. In quell’ora terribile, i miei occhi persero ogni traccia dell’antico lume, già molto affievolito, mentre le membra si agitavano in singhiozzi che cercavano di uccidere il respiro, e fra le labbra tremanti si facevano strada motti più simili a urla ferine che non a favella umana. Quando la marea furiosa del dolore sembrava ritirarsi, una nuova tempesta mi assaliva il cuore, spolpandomi fino all’osso ma senza tuttavia concedermi il colpo di grazia che tanto agognavo.
Corroso dalla disperazione, esile legno in mezzo alla burrasca, io, che ero stato un grande re, un guerriero di cui i nemici temevano l’ira, non fui in grado di adempiere al mio dovere di padre: non riuscii a trovare la forza di partire alla tua ricerca. Fu la mia più imperdonabile colpa: questo mi dicono gli occhi di Taisa quando mi appare in sogno e mi guarda senza far motto sino all’aurora, allorché piangendo fa ritorno al mondo dei morti.
Dopo aver constatato la gravità del morbo che mi affliggeva, i miei consiglieri non poterono rifiutarsi di esaudire le mie preghiere, e fu così che fui infine abbandonato a me stesso, su una spiaggia qualsiasi, per non venire più avvicinato da creatura umana.
Molti anni solo passati dalla tua scomparsa, mia amata Marina, e molte lacrime hanno solcato queste guance scavate, fino a prosciugare la fonte. Da innumerevoli lune il mio pianto rifiuta di esprimersi nell’acqua, l’acqua che ha segnato il mio destino, sancendo la perdita e la rovina.
Ormai simile ad una pietra, così prosciugato e refrattario, riempio i miei giorni delle grida dei gabbiani e di poche, pochissime gocce di speranza salmastra.
Ed invoco il destino che mi ha reso non vivo, non morto, sperando in una prossima tempesta, temuta eppur benedetta, che mi dia la pace della morte e mi porti in ginocchio da tua madre, per chiederle perdono per non aver saputo proteggere né lei, gioia della mia esistenza, né te, carne della nostra carne.

Bibliografia
W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019