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La rivolta di Briseide

Gaia Garofali e Clara Vallauri, in questa composizione, riscrivono un’inedita Briseide in ribellione nei confronti di Achille. Il testo è stato sviluppato nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

 “L’elaborato seguente nasce per volontà di riscattare la figura di Briseide che si rende gradualmente conto di essersi innamorata di colui che l’aveva privata del proprio corpo, della propria famiglia e della propria libertà.  Finalmente la ragazza prende coscienza del proprio ruolo come sacerdotessa di Apollo e sente di meritare di più rispetto ad essere una schiava di un vanitoso Acheo.”

*

SCENA: Sera. Accampamento di Agamennone.

 ATTO PRIMO

 Briseide giace a terra, lo sguardo fisso su Euribate e Taltibio che sono ormai figure lontane.

BRISEIDE Queste lacrime che mi rigano il volto sono lo specchio della mia sofferenza.  Ma saranno le ultime, lo giuro, che io, Briseide, sacerdotessa del Dio Apollo verserò per un uomo così indegno.  In Lui credevo di aver ritrovato l’abbraccio di una madre, la protezione di un padre e la passione di un marito. Mi sbagliavo. Tutti vedono in lui un eroe, invece non è altro che una cinica macchina da guerra. Egli, infatti, si lancia in battaglia non per amore della sua patria, ma per decantare il suo primato in forza.  Chissà quante altre schiave come me si sono infatuate del proprio tormentatore, vedendo in lui una figura salvifica. Dobbiamo renderci conto della bassezza di essere bottino da guerra, futile merce di scambio. Il nostro carnefice non può essere l’unica salvezza che ci rimane. Dobbiamo trovare il modo di ribellarci a questa condizione umiliante, ma come? Non attraverso le armi perché, per via del loro burbero cuore non avremmo pari possibilità. Forse scappando alla ricerca di un futuro migliore?  Si, forse è la soluzione scappare, e affidarci ai numi celesti.

Briseide lentamente si alza e tende le braccia verso il cielo.

ATTO SECONDO

Mattina. Briseide dopo una notte insonne di preghiere rivolge l’ultima invocazione ad Apollo.

 BRISEIDE Io, come tua devotissima ancella, ti invoco, o Dio delle arti e della medicina, se mai hai sofferto pene d’amore, ascolta questo mio cuore lacerato, tanto distrutto quanto sincero.

Qualche dimesso singhiozzo interrompe la sua supplica.

BRISEIDE Come tu, o luminoso, non fosti ricambiato dall’amore carnale di Dafne, così io soffro per le menzogne di Achille che in realtà non ha mai corrisposto il mio sentimento. Infatti, fui la sua schiava e più volte a lui mi unii, ma scoprii di essere solo un suo effimero piacere. Ricordo con amarezza quelle volte in cui mi esortava con gentili parole ad uscire dalla tenda per poter accogliere il suo amato Patroclo. Ed io, in disparte, senza neppure una coperta per ripararmi dal freddo, con gli Achei che si facevano beffe di me, rimanevo ad attendere, per un tempo che sembrava essere infinito, il richiamo del mio carnefice. Adesso mi rendo conto di quanto vana e superflua fosse la mia vergogna di fronte alle urla dei combattenti: il vero disonore  è quello che mi arrecò Achille, preferendo la compagnia di Patroclo alla mia.

In nome di quel tormentato amore che lui stesso aveva vissuto e riconosciute le sofferenze della giovane fanciulla troiana, Apollo discese dal Parnaso, avvolto da una nube luminosa. Briseide, alla vista di cotanta luce fu costretta a coprirsi gli occhi.

APOLLO Mia fedele servitrice, i tuoi lamenti mi hanno commosso. Anche tu, come Criseide meriti la tua vendetta. Ai Greci non sono bastate le morti provocate dai miei dardi fatali.

BRISEIDE Sono grata della tua bontà d’animo e stupita della compassione che rivolgi verso un umile mortale.  O dio che porti l’arco d’argento, scaglia ancora una volta la tua ira contro questi tracotanti invasori. Presta particolare attenzione verso colui che ha preferito al profumo e alla morbidezza di una donna il sudore e il corpo d’acciaio di un uomo.

APOLLO Mia cara Briseide, ciò che mi chiedi è un’ardua impresa, poiché Achille dal piede veloce è stato immerso nello Stige dalla madre Teti. Tuttavia, il tallone non è il suo unico punto vulnerabile: egli si strugge per Patroclo come tu stessa notasti. Solo privandolo del suo amato compagno riusciremo a turbare l’imperturbabile figlio di Peleo. Ma tu, degna sacerdotessa di un dio clemente, non devi temere: verrai presto vendicata per affronto.  Al calar della sera una pestilenza di ratti invaderà l’accampamento greco e tu non dovrai far altro che cogliere il momento di confusione generale per scappare. Io ti aspetterò laddove sono attraccate le triremi nemiche. Adesso va, fanciulla dalla guancia graziosa, e non turbare oltre la tua anima. Chi ti ha offesa avrà quello che si merita. Le mie parole ti siano di conforto.

Queste furono le ultime parole del dio che se ne andò, portando con sé la sua immensa luce.

ATTO TERZO

Apollo mantiene la sua promessa e un’invasione di ratti ricopre il suolo fuori dalle mura della città, mentre Briseide attua la sua fuga.

BRISEIDE Il momento propizio è giunto, mentre gli occhi inorriditi degli stranieri sono occupati a fissare l’invasione delle bestie senza sapere come liberarsene, finalmente mi riprendo la mia libertà. Ecco il seduttore Achille, questa sarà l’ultima occasione per affrontarlo.

BRISEIDE Tu che ti credi superiore persino agli dei, voltati e guardami per l’ultima volta.

ACHILLE Come osi rivolgerti al tuo padrone ed amante con questo tono sprezzante. Non ho ancora trovato il modo di riscattare te, il mio bottino che mi spetta di diritto, da Agamennone.

BRISEIDE Non fingere che questa lontananza ti rattristi, stai indugiando perché preferisci startene disteso con il giovane Patroclo! E non provare a negarlo, è più che evidente.

ACHILLE Mia dolce Briseide, come puoi rivolgere proprio a me tali accuse? Io che ti ho accolto tra le mie braccia, quando, stremato, tornavo dai campi di battaglia. Tu confondi la compagnia del mio più fedele amico e compagno di armi, poiché sei accecata dalla gelosia. Torna in tenda e vai a ripararti dall’invasione.

BRISEIDE No, nelle vostre sudicie tende giammai ritornerò. Me ne vado, ancora una volta sottovalutate il potere di una sacerdotessa. Sono stata io ad invocare su di voi questa nuova sventura. Adesso che Ettore è morto ti credi invincibile, ma sappi che perirai sotto la rocca di Priamo, colpito in un punto che per te sarà fatale. Nello Stige raggiungerai le anime da te martoriate. Addio.

Nel momento in cui Achille stupefatto stava per replicare le parole della donna, sentì in lontananza la voce di Patroclo chiedere disperatamente aiuto. E Briseide sparì, inghiottita dal caos, compiaciuta dell’opera del divino Apollo.

ATTO QUARTO

Briseide arriva alle Triremi greche.

APOLLO Briseide, dalle guance purpuree, non hai più patria, né famiglia e sei stata coraggiosa a seguire le mie parole. Adesso non ti resta che venire sul Parnaso con me, lì potrai dimostrarmi la tua infinita gratitudine. Visto che ti sono venuto in soccorso per le tue sofferenze d’amore così tu mi appagherai, seminando attorno alla mia dimora un’infinità di allori che mi ricorderanno ogni giorno la mia amata Dafne. Ti dovrai prendere cura delle mie piante predilette e vivrai il resto della tua vita libera dal talamo nuziale.

Invincibile

Agnese Genta, in questo suo scritto, rielabora il celeberrimo mito degli androgini raccontato nel Simposio, concentrandosi sull’interiorità e sulla condizione di incompiutezza e confusione dell’essere rimasto dimezzato e paragonandola allo stato di incompletezza che caratterizza la natura umana. Il testo è stato sviluppato nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

“Perché a volte ci sentiamo incompleti, come se ci mancasse qualcosa, ma non sapessimo bene cosa? E qualunque cosa facciamo quella sensazione non passa. Sehnsucht, malinconia, desiderio, mancanza, un vuoto incolmabile e indefinibile. Questa riscrittura, sotto forma di introspezione, vuole essere una sorta di mito eziologico che risponde a tale domanda reinterpretando, anche con l’aggiunta di elementi innovativi di finzione narrativa, in chiave romantico – schopenhaueriana il mito degli androgini raccontato da Platone nel Simposio attraverso la maschera di Aristofane”.

*

Apro gli occhi.

Luce abbagliante. Luce, luce, luce e ancora luce. Basta.
Li richiudo.
Respiro. Una, due, tre volte. Più piano o mi mancherà l’aria.
Sono vivo, quindi.
Sono malamente appoggiato a qualcosa di duro e rovente. Dovrei provare a tastarlo per capire se sono in pericolo, ma ho paura a muovermi. Sono terrorizzato dalla possibilità di provarci e non riuscirci, di essere in qualche modo bloccato da qualcosa o da qualcuno.
Devo capire dove sono. Devo aprire gli occhi. Di nuovo. Non voglio.
Mi paralizza solamente percepire quella luminosità penetrante al di là delle palpebre. Mi lascia impaurito e tremante, con il torace che tutto d’un tratto sembra essere troppo debole per contenere il cuore, il sangue e tutti gli altri organi. Un nero luminescente e accecante, anche con gli occhi chiusi. È terribile, come se milioni di minuscoli aghi mi stessero trapassando gli occhi, la fronte, il cranio, fino ad arrivare al cervello.
Schiudo lentamente le palpebre facendo tremolare le ciglia un paio di volte prima di mettere finalmente a fuoco qualcosa oltre quel banco di luce. L’azzurro del cielo, il verde delle colline, il nero dei corvi che comunicano tra loro gracchiando. Riesco anche a sentire dei grilli. Una folata di vento solleva la polvere del terreno arido e mi solletica il naso in modo familiare.
Inspiro a fondo e tiro un sospiro di sollievo, ma nel farlo sento la pelle dell’addome tirare dolorosamente, come se fossi stato per giorni interi sotto il sole. Ma non lo sono stato, giusto? Respiro a fondo di nuovo. Ora riesco a percepire un punto preciso, proprio al centro del mio ventre, in cui tutto il dolore sembra convergere. Una cicatrice? Una cucitura? Mi sento rotto. So di essere rotto. Perché? Non guardare. Non guardare.
Apro del tutto gli occhi e li rivolgo verso l’alto per evitare di pensare allo stato del mio corpo. Il mio corpo. Non lo sento neanche più mio. Non lo sento e basta. Prima o poi dovrò farlo, dovrò identificare il problema e trovare una soluzione, ma per ora posso concedermi una manciata di secondi in più di beata ignoranza. Codardo.
La fonte di quella luce tanto opprimente era il sole. Solo il sole.
Perché non riesco a sopportare di vedere la luce del sole? Perché ne sono terrorizzato? Perché quando la fisso mi manca il respiro e mi sento svenire? Perché non riesco a muovermi? Perché sento un dolore lancinante in tutto il corpo, ma non sento le parti del mio corpo? Solo dolore. E soprattutto perché non riesco ad abbassare lo sguardo, e a provare a trovare una risposta a queste domande?
Sono bloccato, incapace di fare qualunque cosa che non sia fissare quel tunnel di un candore ipnotizzante e sentirmi morire. Ancora e ancora. Istante dopo istante. Senza morire mai effettivamente: una tortura infinita che riprende volta dopo volta sempre uguale a se stessa. Non riesco a pensare, non riesco a ricordare, non riesco a capire perché sono qui e non so cosa potrei fare dopo. Non riesco neanche più a sentire i grilli e i corvi o a vedere il cielo. Solo quel bianco, quell’urticante chiarore che mi svuota l’anima e lo stomaco, sempre che io ne abbia ancora uno. 
Non ne posso più. Chiudo gli occhi.
Perché quel puntino luminoso ha tanto potere su di me? Eppure è solo luce. È solo il sole. Così piccolo rispetto all’ imponente vetta della montagna che gli si staglia a fianco. Ecco dove sono accasciato: su una sporgenza rocciosa di quella stessa altura.
La luce. La montagna.
Volevo raggiungere il cielo.
Ecco perché sono qui.
Io non… Non mi sembra di essere caduto, però deve essere capitato.
Ora ricordo.
La sensazione della roccia fredda sulla punta delle dita. L’aria che diventava sempre più rarefatta. Il sole splendente nel cielo, più vicino a ogni passo. Prima o poi l’avrei toccato, ne ero sicuro. La stanchezza fisica che era in realtà solo una sensazione sfumata, sovrastata dal desiderio di raggiungere la vetta, di toccare il cielo, di chiacchierare con il sole, di dormire accanto alla luna e alle stelle. Quel fuoco che mi bruciava dentro, scintille scoppiettanti che mi esplodevano nel petto dandomi la forza di fare qualunque cosa. Mi sentivo invincibile. Ero invincibile.
Avevo lo sguardo fisso sull’obiettivo, i sensi annebbiati dall’ossessione di raggiungere quella sfera luminosa. Mi sembrava già di poter toccare le nuvole, di tastarne la soffice inconsistenza.
Poi all’improvviso quella luce familiare viene sovrastata da una del tutto sconosciuta che, in un secondo di violenza, cancella ogni cosa. Un lampo. Un fulmine a ciel sereno. Bianco. Il nulla.
Chiudo gli occhi. Un tuono romba in lontananza.
Strizzo gli occhi tanto da sentirli bruciare nella speranza di poter cancellare quel ricordo dalla mia mente.
Dopo il tuono cadevo in una voragine.
Via, via. Va’ via.
Era tutto buio.
Basta con tutto questo, basta frustrazione.
Urlavo, ma non usciva un suono.
Voglio tornare lì, sulla montagna, voglio scalare il cielo.
Volevo piangere, singhiozzare, disperarmi, tirare pugni, ma non riuscivo a fare nulla.
Una goccia gelida scende sul mio zigomo sinistro. Non è pioggia.
Così fragile nella mia impotenza.
Apro gli occhi per l’ennesima volta e capisco che è una lacrima, ma non sto piangendo. Una singola goccia salata.
Poi un taglio, un dolore allucinante ovunque.
Possibile che sia lì da prima? Il pianto di un morto, di qualcuno che non esiste più, e che ha provato ad ancorarsi con tutte le sue forze lì, nella coda dell’occhio.
Squarciato, mi sono sentito squarciato.
Se è davvero così allora questa piccola lacrima è tutto ciò che mi rimane di quello che ero. Come farei se la perdessi? Perderei anche me stesso? Resterei per sempre questo debole e inutile fantoccio?
Una persona divisa in due. Così, come se niente fosse.
Almeno il ricordo, almeno quello.
Aperto in metà, lasciato a sanguinare e poi buttato via come un giocattolo rotto.
Alzati! Per la miseria alzati! Sei ancora vivo, no? Fa’ qualcosa allora. Dimostralo!
In fondo sapevo di essere rotto.
Mi alzo di scatto e mi metto a sedere. Un brivido di disagio attraversa una ad una le mie vertebre.
Prima invece …
La lacrima inizia a scorrere velocemente lungo la guancia.
… ero …
No, non andare!
… felice, …
Mi tocco il mento per cercare di raccoglierla, ma non c’è già più.
… ero …
Cade a terra.
… completo.

Rimango ipnotizzato a fissare quella minuscola chiazza di colore più scuro che si asciuga per un lasso di tempo che non riesco a definire. Poi non rimane più nulla.
Ma nulla di cosa? A cosa stavo pensando prima? Non ricordo. Perché sto fissando il terreno? Non lo so. È strano: per quanto mi sforzi non riesco a ricordare niente di specifico. Quando ci provo tutti i miei pensieri si interrompono e non mi rimane una sola idea in mente.
Forse sono rimasto qui troppo a lungo e mi sono preso un’insolazione.
Devo proprio alzarmi e trovare un posto in cui ripararmi da questo sole cocente, sono quasi ustionato. Chissà come mai non mi sono spostato prima.
Faccio leva con la mano sulla roccia che ho a fianco e mi alzo in piedi piegando le gambe, ma non appena provo a muovere un passo perdo l’equilibrio, scivolo all’indietro e finisco di nuovo per terra alzando un nuvolone di polvere e insetti.
Ci riprovo: stesso risultato. È come se mi mancasse un appoggio da qualche parte.
Probabilmente l’insolazione è una questione molto più grave di quanto non pensassi.
Provo a gattonare per spostarmi e sembra funzionare meglio, anche se di tanto in tanto perdo ancora l’equilibrio e finisco per strisciare. Anche muovendomi lentamente sento comunque un dolore diffuso in tutto il corpo che non accenna a diminuire.
Ma cosa diamine mi è successo? Non può essere solo l’insolazione, forse sono caduto e mi sono fatto male da qualche parte. Appena al sicuro devo controllare di non avere ferite o ossa rotte.
Mentre mi sposto a fatica noto che, ben presto, il sole cocente non sarà più un problema dato che sta per tramontare. Fortunatamente poco dopo riesco a trovare un luogo riparato in cui passare la notte: una rientranza nella roccia circondata da una foresta di pini. Mi accascio contro la parete rocciosa e riprendo fiato con una certa difficoltà. L’odore del sottobosco mi inonda le narici e riesco a calmarmi. Rimango lì per minuti interi a sentire il mio stesso respiro, con la mente sgombra e incapace di formulare un qualunque pensiero.
Distendo per bene le gambe e inizio a ispezionare il mio corpo: i piedi, le caviglie, le gambe, le ginocchia, le cosce, l’inguine, i fianchi, il ventre. Porto la mano sul petto e la lascio così per qualche momento, la osservo alzarsi e abbassarsi. Passo alle spalle e al collo, poi alla schiena, alle natiche e infine alle braccia. Provo a muovere i gomiti, i polsi, le dita. Tasto la nuca, sposto le dita dietro alle orecchie, tra i capelli, sulla fronte: non è più calda. Le palpebre, le guance, il naso, le labbra, il mento. Sembra essere tutto a posto, non ho alcuna ragione per non riuscire a camminare.
E allora perché sento di non stare bene? Come se avessi un buco nero da qualche parte nelle viscere, un tarlo che striscia nello stomaco e divora piccole parti di me lasciandosi dietro solo dei cunicoli cavi. E più divora più vuole divorare. Ci sono cavità del mio animo che non pensavo esistessero e ora pulsano, bramando di essere riempite. Potrò mai colmarle? E se non potessi? È davvero possibile sopravvivere, vivere così? Ma come può mancarmi qualcosa? Non posso avere nostalgia di qualcosa che non c’è mai stato, sono sempre stato così. E se invece non lo fossi stato? Non posso esserne certo se non riesco a ricordare nient’altro. Presumo di essere nato, di essere stato creato intero, ma se non lo fossi stato? Chi o cosa sarei a quel punto? Se prima fossi stato un uccello e avessi perso le ali, o un serpente e avessi perso la coda? Mi passo la mano sulle scapole e poi sulla parte bassa della schiena. Nessun fantasma. Ormai il sole è tramontato. Gattono, questa volta con più sicurezza, fino a una radura vicina e cerco due rami abbastanza resistenti che possano fungere da sostegno. Ne trovo uno per terra e ne stacco uno da un pino aiutandomi con l’altro. Li spoglio di alcuni rametti e degli aghi e, appoggiandomi a un tronco, con l’aiuto dei miei nuovi bastoni, riesco a stare in piedi. La mia schiena è quasi incollata all’albero a causa della resina e le mie gambe stanno tremando, ma ci devo provare. Mi stacco dal tronco, sento i muscoli cedere, però mi faccio forza e, tenendo la presa salda, sposto uno dei bastoni più avanti e lo seguo con il piede. Barcollo un po’, ma riesco a non perdere l’equilibrio. Lentamente e con fatica riesco finalmente a camminare. Non dovrebbe essere così difficile, non dovrei sentirmi così inadeguato nel mio stesso corpo. È quasi del tutto buio quando riesco a ritrovare la ormai familiare rientranza nella roccia. Appena la riconosco cado in ginocchio sfinito e getto i bastoni lì vicino, mi trascino nel punto più nascosto e riparato e mi corico per terra. Lo sento ancora. Quel vuoto senza nome. È quasi insopportabile. Non appena penso di essermene liberato, non appena penso di aver portato a termine quello che volevo fare, ritorna, uguale a prima. Sono riuscito a camminare, non perfettamente, ma migliorerò, che altro può mancarmi ancora? La soddisfazione per essere riuscito a fare quello che volevo fare da tutto il pomeriggio è durata un secondo, giusto il tempo di riprendere fiato, poi sono tornato a sentirmi angosciato. Condannato alla frustrazione e al dolore in eterno. Vorrei solo poter capire questa sensazione in qualche modo, dargli un senso, un’origine, una soluzione, ma non riesco. Inizio a respirare sempre più affannosamente, poi comincio a prendere a pugni la terra, tiro calci contro la roccia, mi copro la faccia di polvere, urlo disperato singhiozzando. Continuo con questa scarica di violenza irrazionale finché, stremato, sporco e ferito, non mi raggomitolo su me stesso, portandomi le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra la testa. Mi stringo più forte che posso sperando che la resina che ho ancora addosso riesca a incollare tutto me stesso, a riempire tutti i buchi.
Mi addormento tremando. Sogno di essere sulla cima di una montagna, e per un attimo sono di nuovo invincibile.

Un dio ci ha reso monchi, continuamente alla ricerca di ciò che ci manca, e una lacrima caduta ci ha fatto dimenticare tutto, ci ha reso ignari di ciò che davvero desideriamo. Quindi spesso ci sentiamo frustrati, inadeguati, insufficienti a noi stessi e senza possibilità di uscita da questo stato, proprio come il nostro androgino. Tuttavia, esiste il mondo notturno dei sogni in cui, per un momento infinito, torniamo a essere perfetti, non mancanti di nulla, soddisfatti di noi stessi. Invincibili.

Bibliografia
Platone, Simposio, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2000
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giorgio Brianese, Torino, Einaudi, 2013


Amore e Psiche

Viviana Zanirato riscrive la favola apuleiana di Amore e Psiche prendendosi la libertà di cambiarne parzialmente gli avvenimenti, nel corso di un seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, a.s 2021/2022

“Con questa riscrittura creativa ho provato ad immaginare come sarebbe potuta andare la storia di Amore e Psiche, raccontata ne Le Metamorfosi di Apuleio, se Amore non si fosse accidentalmente innamorato della fanciulla. Sappiamo da Apuleio che Amore e Psiche alla fine del racconto hanno una figlia, Edonè (Voluttà); anche in questa versione Psiche ha una figlia, che però prende il nome di Sofia, in greco “saggezza”, proprio per il desiderio della giovane che è allo stesso tempo romantico e di conoscenza. L’estetica del principe sposo di Psiche è liberamente ispirata alla figura di Leopardi. In tutto il testo infine si possono cogliere tracce della tradizione greca”.

*

C’era una volta un antico regno governato da un re saggio e giusto. Egli, pur desiderandolo con tutte le sue forze, non ebbe mai un erede maschio; al suo posto tuttavia, gli dèi gli concessero tre figlie femmine, che eccellevano in bellezza e grazia. Le due sorelle maggiori erano molto lodate con parole umane dal popolo per la loro bellezza, ma la minore, di nome Psiche, aveva una bellezza considerata divina, e per questo motivo le lodi non potevano che essere tessute con parole divine. La bellezza di Psiche viaggiò in lungo e in largo, e arrivò fino alle orecchie della dea della bellezza, Afrodite, che fu subito estremamente gelosa della giovane rivale e decise di mandare suo figlio, Amore, a compiere la sua vendetta: la fanciulla bellissima si sarebbe dovuta innamorare di un un uomo dall’aspetto mostruoso.
Amore, figlio devoto, eseguì senza indugio gli ordini della madre e una notte, mentre Psiche era addormentata nel suo letto, si intrufolò nelle stanze della fanciulla armato delle sue frecce che sciolgono le membra; vedendola addormentata, si trovò a pensare anche lui che fosse di una bellezza divina, e si soffermò per un momento ad ammirala, ma ben presto si riprese e svolse diligentemente il compito a lui assegnato.
Il giorno seguente la bella Psiche, durante una passeggiata vicino al castello con le sue dame, si imbatté in un uomo sicuramente non di bell’aspetto: egli era infatti pallido, stempiato, basso, esile e sicuramente anche di salute cagionevole.
Le dame, inorridite da quella vista, esortarono la fanciulla a proseguire la sua passeggiata senza neanche avvicinarsi all’uomo, ma Psiche fu subito sicura di aver visto in quell’uomo di aver visto qualcosa oltre il suo aspetto fisico, e di nascosto dalle dame riuscì a intavolare con lui un breve colloquio e a ottenere dall’uomo un appuntamento per la sera successiva.
I due si incontrarono quindi in gran segreto, unica complice e sentinella la vecchia nutrice di Psiche per la quale la fanciulla era un libro aperto e aveva subito capito che qualcosa in lei non andasse, per cui si era fatta raccontare tutto e di conseguenza si era fatta più o meno involontariamente coinvolgere nella storia.
In tal modo i due giovani poterono trascorrere del tempo insieme e finalmente conoscersi meglio; l’uomo era già a conoscenza delle origini reali di Psiche e aveva sentito parlare della sua bellezza, ed era proprio per questo motivo che era giunto nel regno: per chiederla in sposa.
Spiegò infatti alla giovane di essere anch’egli un principe, proveniente da un regno lontano, e di essere venuto da lei con la speranza di un matrimonio, ma aspettandosi un suo rifiuto poiché, anche se ricchissimo e di nobili origini, era di brutto aspetto: sapeva infatti per esperienza diretta quanto le persone, e in particolare le giovani fanciulle, fossero superficiali e si limitassero all’apparenza; più volte infatti camminando per strada si era sentito criticato e giudicato da persone che, credendo di non essere sentite, elogiavano la sua ricchezza ma erano convinte che non avrebbe mai trovato l’amore proprio a causa del suo aspetto.
I due giovani trascorsero l’intera notte a parlare e a conoscersi, e il giorno seguente il giovane, incoraggiato da Psiche, si presentò alla corte del re per chiedere la mano della principessa.
Il re prese subito in considerazione il pretendente, dal momento che l’alleanza con il regno del principe gli avrebbe fatto molto comodo, ma allo stesso tempo era combattuto, perché per nulla al mondo avrebbe imposto alla sua figlia più bella un tale marito, soprattutto se ella non era la prima a desiderarlo.
Padre e figlia quindi ebbero un breve colloquio, e il padre si mostrò sinceramente stupito nel vedere la figlia, che avrebbe potuto avere davvero chiunque, entusiasta di sposare un uomo di tale aspetto; subito si trovò a giustificare l’entusiasmo della figlia con la ricchezza senza pari del futuro marito, deluso in cuor suo credendo di aver cresciuto una figlia tanto venale e ignorando quanto i sentimenti della figlia fossero invece puri.
Il matrimonio tra i giovani si svolse con grandi e numerose celebrazioni una settimana dopo il consenso del re, e Psiche si trovò a salutare per sempre la sua famiglia e il suo regno per andare a vivere in quello del nuovo marito, felice e follemente innamorata. Giunta nel nuovo regno, i suoi nuovi sudditi rimasero a bocca aperta quando videro il loro principe tornato con una principessa bella quanto una dea, e ben presto cominciarono ad osannarla anche loro come tale.
Questa reazione causò una nuova ondata di ira nel cuore della dea Afrodite, la quale notò infastidita che il suo piano non aveva funzionato, e che inoltre la fanciulla appariva addirittura ben felice e innamorata di quell’uomo dall’aspetto orribile.
Afrodite decise quindi di intervenire lei stessa, e sotto le spoglie di una vecchia mendicante si recò al palazzo della giovane coppia. Lì pronunciò una serie di incantesimi e sortilegi con il fine di non permettere a Psiche di superare i confini del castello, poi inviò un oracolo in sogno alla fanciulla per avvisarla che, se mai fosse uscita dalle mura, l’avrebbe colta una malattia terribile che l’avrebbe potuta addirittura uccidere.
Nonostante l’avvertimento, per tre volte Psiche tentò di uscire dal castello, e per tre volte cadde malata e costretta a letto per intere settimane, il novello sposo come unico conforto in quella situazione; fu proprio in quei momenti che, vedendo la bellissima moglie nelle condizioni terribili in cui solo un malato sa essere, il giovane cominciò ad innamorarsi profondamente della persona che lei effettivamente era, e non più solo della sua tanto famosa quanto veritiera bellezza.
Data questa condizione di malattia e di costrizione all’interno delle mura, il principe decise di far ampliare la biblioteca del castello per la sua sposa, ed esortò Psiche a non tentare più di uscire dal castello in modo fisico, ma di volare fuori di lì con la fantasia per andare nei boschi, nelle città, nelle valli e in tutti i numerosi luoghi narrati nei libri.
La biblioteca era il luogo prediletto del principe, e molti tra i medici che lo seguivano per la sua salute cagionevole sostenevano che fosse stata proprio questa sua passione per la lettura, che lo accompagnava fin dall’infanzia, a renderlo così poco piacevole alla vista: passava infatti ore ricurvo sui libri a leggere e studiare, nella penombra della biblioteca, e passavano giornate intere senza che si ricordasse anche solo di uscirne per le azioni più banali, come i pasti.
Ripresasi dall’ultima malattia, che le era risultata quasi fatale, Psiche decise di seguire il consiglio del marito: lei non era mai stata un’appassionata di letteratura, anzi: fin da bambina l’avevano caldamente esortata a interessarsi poco o nulla di libri, per potersi concentrare meglio su ciò di cui una fanciulla ha davvero la necessità di sapere, come l’apprendere il modo in cui trovare marito, le tecniche per curare la sua bionda chioma lucente al meglio e come porsi risultare sempre gradevole alla presenza di uomini senza mai dover aprir bocca.
Tra Psiche e la biblioteca fu un vero e proprio colpo di fulmine: nonostante l’approccio iniziale fosse abbastanza timido, una volta incoraggiata dal marito la fanciulla cominciò a leggere e non si fermò più: in pochi mesi aveva finito di leggere tutti i numerosissimi volumi presenti nella biblioteca del marito, e la sera i due coniugi presero l’abitudine di discutere lungamente prima di andare a dormire dei temi più alti.
Il tempo trascorso nella biblioteca insieme al marito aveva abbellito la mente della fanciulla, ma aveva intaccato la sua bellezza; ora chi la vedeva all’interno delle mura del castello pensava sempre che fosse molto bella, ma non veniva più paragonata alla dea della bellezza stessa.
Afrodite allora, lieta che il suo piano avesse finalmente funzionato e non più invidiosa della ragazza, decise di togliere il sortilegio che limitava Psiche nelle mura del castello, e avvisò la fanciulla con lo stesso metodo della prima volta.
Nonostante la ritrovata libertà, Psiche non uscì subito dal castello: erano infatti ormai trascorsi anni e lei insieme al suo consorte erano diventati i sovrani del loro regno, per cui erano entrambi occupatissimi ad amministrare i possedimenti e curare i sudditi al meglio.
Il loro regno viene ancora oggi ricordato con grande ammirazione e nostalgia: non si era mai visto un regno tanto prospero e felice, e molti attribuirono tali caratteristiche alla cultura dei sovrani, che era sconfinata e che giorno dopo giorno si accresceva e aggiornava con nuovi studi su qualsiasi tema: questo desiderio di conoscenza aveva reso i due sovrani i più illuminati di tutti i tempi.
La coppia ebbe anche una figlia, Sofia, bella come la madre e anch’ella con una cultura considerevole; il fatto che fosse femmina infatti non aveva impedito ai genitori di fornirle un’istruzione completa, e anche se furono criticati non se ne curarono.
Fu proprio Sofia a succedere ai genitori quando essi furono troppo anziani per occuparsi del regno e decisero di trascorrere il resto delle loro vite in viaggio, per conoscere persone e culture provenienti da tutto il mondo, e per vedere con i propri occhi quegli stessi luoghi descritti con dovizia di dettagli e letti nei libri, che avevano impegnato la maggior parte dei loro lunghi pomeriggi.



Destino Funesto

Beatrice Ruggiero, in questa sua composizione, rielabora in una prospettiva inedita l’infelice storia di Hel, rivista qui dal punto di vista della stessa dea. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

Il seguente elaborato nasce dalla volontà di riscattare una figura complessa all’interno della mitologia norrena; si parla infatti di Hel, dea dei morti senza onore, posta a tale ruolo da Odino poiché parte dei tre figli del male. Nonostante la terribile condizione che il destino le ha riservato, ella si dispera per la sorte dei propri fratelli, motivo per cui nel testo tesse loro lacrime e lodi. Qui mi pongo umilmente da sua portavoce.

*

Figlia del fuoco
fui costretta alla romba
del gelido vento
che soffia nell’ombra,
or domino il ghiaccio
e la sorte dei morti
che non per onore
da me sono accolti.
Tra tutti coloro
che m’han conosciuta
uno tra gli altri
m’ha assai meno temuta,
non per inganno
né per sua colpa
costui al mio cospetto
si ritrova la tomba.
Dyggvi fu ‘l nome
quando ancor il rintrono
dei passi suoi vivi
risuonava sul suolo:
nubile allor
accettai la sua mano,
divenne consorte
del mio lato umano.
Così io, di fatti,
fui costretta dal fato
metà così bella
da lasciar senza fiato;
tuttavia l’altra parte
del mio povero volto
rappresenta con carne
l’altra faccia del mondo.

Nacqui da Loki,
dio ancor conosciuto:
agli dèi inganna gli occhi,
all’uomo offre aiuto;
purtroppo di questo
in pochi si accorgono
concentrati su quello
che fu il suo tramonto.
Egli ai mortali
diede attrezzi d’ingegno
ma ‘l sol male si vide
nonostante l’impegno;
fu però da noi figli
che Odino si avvide
ci tolse dal nido
e poi ci divise.
Al fratello mio lupo,
di Fenrir che ha il nome,
infatti il futuro
riservava più onore:
lui vincerà il padre
dell’uomo che a me
venne e cui Hermodhr
far tornare richiese.
Fratello mio cane,
a me ti han disgiunto
ti han con le catene
a Lyngi rinchiuso,
ma verrà il gran giorno
che paura assai incute,
sconfitto al tuo ritorno
sarà il dio delle rune.

Purtroppo fratello
sarà già perduta
la speranza di vita
che ti era stata preclusa:
Vidhar di spada
sarà infatti lesto
e del sangue versato
pagherai subito il prezzo.
Dolore mi invade
per tale destino,
ma non sol per te
si riversa il mio grido:
infatti il mio sangue
non ha solo Fenrir,
vi è Jǫrmungandranche
tra noi maledetti.
Serpente di forma
cresce nel fondo
del mondo dell’acqua
dove giace pensando
a Ragnarok, quando
morente sul suolo
vedrà lo spavaldo
morir del suo siero.
Quest’ultimo, infatti,
quando Odino lo chiese
lo scagliò giù nel mare
dove ancor oggi cresce.
Questa è la storia
del fato dei miei
poiché nostra natura
allor non piacque agli dèi.

Bibliografia
Snorri Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Milano, Adelphi Edizioni, 2019

Novembre 2015

Vittorio Punzo, in questo suo testo di finzione, prova a guardare dagli occhi di una giovane lavoratrice parigina, morta nell’attentato al Bataclan di Parigi nel Novembre del 2015, la realtà prima e dopo il proiettile che la colpisce allo stomaco. Nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi, il testo comprende citazioni e riscritture dei testi inseriti nelle fonti in calce al racconto.

La riscrittura è un tentativo, forse fin troppo presuntuoso, di ricordare e caratterizzare una vita, tra le tante, persa nell’attacco del 2015 al Bataclan di Parigi, evento ricorrente per modalità e motivi in luoghi e tempi vari.
Ho volutamente sbilanciato il tempo del racconto a prima dello sparo: la narrazione quasi surreale mi serviva per alcuni motivi: 1) la ragazza ha un presentimento 2) ha un particolare rapporto con la nostalgia 3) Il suo umore è instabile, è incinta.
Nella parte centrale ho pensato che se la convenzione vuole che prima di un evento tragico succeda qualcosa di bello, la ragazza avrebbe potuto semplicemente desiderare-immaginare una cosa bella senza però ottenerla.
Le ultime 1000 battute sono dedicate a un pensare ostinato e metaforico sul proiettile nello stomaco. Cambio il tempo della narrazione, uso il presente, tutta la prima parte del racconto assume la forma di un ricordo racchiuso nell’istante dello sparo. In questo, forse, risuona l’incipit di Underworld di Don De Lillo.
La ragazza è stata colpita, adesso si sente quasi utile, non prova rabbia, forse addirittura, con freddo raziocinio, è felice che la sua vita e quella che si portava in grembo non saranno (più) partecipi alla corsa umana, da ora in poi la vita che portava in grembo resterà immobile nel nulla oscuro della non-nascita, in quel buco nero della pre-origine. I freschi ciuffi d’erba sono un’immagine sostitutiva della nascita che non avverrà mai, dunque simbolo di serenità.

*

Mi travestivo spesso, mi piaceva farlo. Quando mettevo addosso un travestimento diverso ogni cosa appariva cambiata, colorata di una nuova tonalità più calda o tendente al violaceo, meno satura o più in rilievo, più esposta, talvolta meglio definita. Poche volte la realtà mi appariva ombrosa o sfocata, quando succedeva scattavano in me degli strani turbamenti. Queste evocazioni turbinanti e confuse non duravano mai che qualche secondo; spesso, la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi trovavo non staccava l’una dall’altra le diverse supposizioni di cui essa era fatta. Non meglio di quando, scegliendo una fragranza, non riusciamo ad isolare le varietà proposte dal venditore e finiamo per immaginare profumi che non esistono. Ma avendo riascoltato un po’ l’una un po’ l’altra, come fossero lontane decadi di anni tra loro, le camere dove avevo abitato nella mia vita, come i travestimenti che avevo adottato, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano il risveglio. Una delle quali era la camera d’inverno dove, quando si è coricati, si ficca la testa in un nido messo insieme con le cose più disparate, un angolo del guanciale, l’estremità delle coperte, il capo d’uno scialle, il bordo del letto, un numero di Charlie Hebdo, cementati infine tra loro con la tecnica del dis-ordine costruttivo. E poiché in casa mia quel quindici novembre il fuoco è rimasto spento tutto il giorno, ho deciso di uscire prima del tempo per cercare qualcosa di buono in città.

Qualcosa di buono, di notte a Parigi sui bulevard, prima del lavoro è: mangiare cibo da strada oppure bere birra calda. Qualcosa di buono è incrociare un amico. Ma qualcosa di buono è anche vedere propria madre svegliarsi, cosa non verosimile sul bulevard. Qualcosa di buono e sapere i propri genitori smetterla di lottare per un pezzo di terra o per il potere. Qualcosa di buono è sapere che la vita su questo mondo continua anche senza una promessa radicale volta a eliminare chi ha categorie di pensiero diverse dalle tue. Qualcosa di buono, l’ho accarezzato, saresti tu, e lui ha risposto con una botta. Allora ho pensato:

Vi fu un tempo remoto
in cui nulla era:
non sabbia né mare
né gelide onde.
Non c’era la terra
Né la volta del cielo;
ma voragine immane
e non c’era erba.

Avevo fame. L’orologio della farmacia segnava le 7, ero nell’XI arrondissement e nel freddo novembrino, avevo ricordi insoliti: fantasticavo, fuori luogo, e vedevo me bambina. Avevo un’ora prima del lavoro e strani pensieri per la testa. Così il tempo si è accavallato e incastrato nella sua stessa morsa, i miei vestiti si sono sovrapposti e ora passato e futuro prendevano le sembianze di un unico succoso boccone. Morsicavo del pane asciutto mentre camminavo sul bulevard. Ho guardato i miei passi fino al 50 di bulevard Voltaire. Poi ho guardato l’ingresso, un ingresso per nulla singolare, e mi è venuta voglia di descriverlo come l’ingresso a uno dei mondi paralleli che ho trovato nelle narrazioni mitiche. Ne avrei parlato con qualcuno molto volentieri, avevo un’improvvisa voglia di sprofondare nelle parole, con un qualunque vicino ad ascoltarmi mentre dicevo una qualsiasi cosa stravagante; oppure immagina, gli avrei detto, zero lotte, nessuna proprietà terriera o di credenza. Nessun disadattamento sociale. Nessun occidente, nessun oriente. Nessun Niflheimr, non un Muspellheir. Nessun gigante protestante, pentecostale, cristiano, islamista. Nessuna modernità, nessuna madre delle certezze. Solo energie, senza gravità, solo una fredda era di Plank e questo ingresso al teatro per nulla singolare.

Il mio lavoro al teatro è indicare alle persone il loro posto: “In fondo a destra”, “Il suo posto è a sinistra”. “Ecco questo è il suo posto, signore”. Io sono la prima che vede chiunque entri nel teatro, ero la prima che chiunque trovava all’ingresso. Accoglievo, per prima, anche un esercito.

Accoglievo anche giganti con i fucili e la lana in faccia. Dopo essermi vestita e aver fatto il mio lavoro, iniziato il concerto: c’era musica. La stessa musica che si suona in altri mille posti così. Poi c’è stato un fragore incomprensibile. Il pavimento dell’atrio aspettava le mie stanze, i miei travestimenti, le mie intimità. Le aspettava non senza il mio sangue. Quei giganti con le armi intarsiate di legno hanno voluto me come primo dono prezioso per una nuova umanità. Non pensavo di essere così importante, eppure sono stata la prima. Ero, e ora sono lì, travestita delle stesse origini dell’universo, una voragine immane mi separa il lembo destro dal lembo sinistro di carne, il centro è bollente se provo a poggiarvi il dito e mi accorgo che una scissione nucleare imminente sta accadendo sotto la mia falange; la spina la sento che è rigida come il ghiaccio, quando il sangue caldo toccherà la vertebra ialina vedrò, vedranno, il paradiso al centro del mio corpo. Vi fu un tempo remoto, in cui nulla era non sabbia non mare non gelide onde. Non c’era la terra, né il firmamento, ma una voragine immane dove la mia vita è iniziata, dove un’altra stava crescendo e ora al suo posto crescevano lenti e freschi ciuffi d’erba.

Bibliografia
J. Baggott, Origini. La storia scientifica della creazione, tr. it. di I. C. Blum, Adelphi, Milano, 2017
G. Génette, Figure III, tr. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino, 1986
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla Parte di Swann,  tr. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano, 1983:128
S. Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 1975:52,53

Storia del Re Supremo e della sua Creazione

Ilaria Elmo, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la Creazione divina, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione delle origini bibliche in chiave fantastica. Infatti il suo contenuto aggiunge un tocco di magia e d’incanto modernizzando il tema stesso e avvicinandolo alle nuove generazioni.

*

C’era una volta, prima che tutto nascesse, un essere talmente potente da non poter essere comparato a nessun altro. La sua bellezza era impareggiabile, così come la sua bontà e il suo senso di giustizia. Nel corso dei secoli avrebbe avuto diversi nomi, e, perciò noi lo chiameremo semplicemente Re Supremo.

Il Re Supremo viveva in uno splendido castello, al di sopra di tutto l’Universo. Egli poteva avere qualunque cosa desiderasse, ma dopo un po’ di anni iniziò ad annoiarsi, a causa della solitudine. Nonostante non gli mancasse nulla all’interno della sua maestosa dimora, sotto di essa c’era il vuoto assoluto; perciò il Re supremo decise di creare un mondo gradevole da osservare in cui potesse esserci vita.

Egli compì la sua opera in sei giorni. Nell’arco della settimana si rese conto che la vista dal suo castello era sempre più bella e affascinante: poteva osservare le stelle luccicanti nel cielo e le acque scintillanti sulla Terra. Con il passare del tempo la terra acquistava vita e bellezza in ogni dove. I fiori e le piante presero vita e diedero tocchi di colore magnifici. C’erano rose, gigli, alberi da frutto e tutto ciò che si potesse immaginare. La terra acquistava sempre più l’aspetto di un’opera d’arte dalle mille sfumature. Dopo aver creato le piante, il Re Supremo decise di creare gli animali, perché popolassero il pianeta. Dato però che le apparenze possono ingannare è necessario specificare che sotto la magnificenza della Terra si nascondevano mille pericoli, e gli esseri che la popolavano dovevano lottare per la propria sopravvivenza.

Nonostante il Re Supremo avesse alleviato la propria solitudine popolando la Terra, non era ancora pienamente soddisfatto, quindi decise di creare gli esseri umani. Essi erano diversi dagli altri animali che popolavano il pianeta, al di sotto del castello: erano stati creati ad immagine e somiglianza del Re Supremo. Egli era talmente affezionato agli esseri umani che decise di farli vivere con sé al castello; questo per evitare loro di affrontare i pericoli della Terra sottostante. Gli uomini potevano usufruire di tutti i divertimenti presenti nella dimora del Re Supremo; l’unico divieto che egli pose loro era quello di non avventurarsi all’interno della Biblioteca Infinita: essa conteneva tutto il Sapere dell’Universo.

I mesi passarono e gli uomini, insieme al Re supremo, si divertirono tantissimo. Passavano le giornate ballando, cantando e sognando ad occhi aperti. Tutto sembrava perfetto. Ma la fine di quell’idillio si avvicinava a grandi passi.

Una notte, una ragazza di nome Eva, fece un sogno diverso dagli altri: sentiva il suo corpo muoversi senza che lei lo volesse e poteva vedere tutto al di fuori di esso. Vide sé stessa alzarsi dal letto senza alcun rumore e, con la massima circospezione, dirigersi lentamente verso la Biblioteca Infinita. Al suo risveglio provò sollievo nel constatare che si era trattato solo di un sogno e cercò di passare la giornata senza pensarci troppo. La notte seguente però il sogno si ripeté e così quella successiva. Il terzo giorno Eva non poté più fare finta di niente e, questa volta per davvero, si diresse verso la Biblioteca Infinita, per poi farvi ingresso. Al suo interno si perse, talmente tanti erano i volumi in essa contenuti. La giovane iniziò a leggerli, uno dopo l’altro; non poteva smettere.

Il Re Supremo aveva anche la capacità di essere a conoscenza di tutto ciò che accadeva all’interno delle mura del castello. Vedendo ciò che Eva aveva compiuto, la convocò urgentemente e le chiese spiegazioni. La giovane, non avendo altra scelta, raccontò al Re Supremo dei suoi sogni, verso cui non era riuscita ad opporsi. Egli, dopo aver ascoltato le parole di Eva, si adirò immensamente e per punirla condannò tutto il genere umano a vivere sulla Terra, tanto bella quanto piena di pericoli, per l’Eternità.

Bibliografia
La Bibbia, Nuova versione dai testi antichi,1° edizione settembre 2014, Genesi,Edizioni San Paolo, Milano

Chi è come Dio?

Alice Giambrone, in questa sua riscrittura, racconta la creazione tramite gli occhi di un artista, il quale assume il ruolo del dio che modella la propria opera d’arte, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

È la voce di Michelangelo Buonarroti a narrare la creazione, nello specifico di una delle sue opere d’arte più illustri: il Mosè del monumento funebre per la tomba di Papa Giulio II. La figura dell’artista si sovrappone così alla figura del dio artigiano, che plasma il creato. Narrando il processo di scultura che accompagna i pensieri dell’artista, la riscrittura vuole raccontare il passaggio dalla materia informe alla creatura, che pare prendere vita.[1]

*

[…] he formed thee, O man,
Dust of the ground, and in thy nostrils breathed
The breath of life; in his own image he
Created thee, in the image of God
Express, and thou becam’st a living soul[2].
J. Milton, Paradise Lost

L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi[3].

Quando ricevetti l’incarico di creare, scelsi personalmente la materia prima da cui avrei estratto una forma nuova e, il giorno in cui giunsi nella Città Eterna, unico e indistinto era l’aspetto del marmo da me selezionato, un ammasso di venature discordi, mole informe e confusa, nient’altro che peso inerte[4]. Tenevo dinanzi solo un blocco: un embrione immaturo confuso della creatura non era ancora visibile[5].

Studiai la natura senza forma che in sé racchiudeva potenzialità infinite di immagini. Con le mani in un fremito posi lo scalpello sulla materia da plasmare, alzai il braccio reggendo il martello e posai un primo colpo deciso. La natura vibrò appena sotto il segno del mio gesto.

E vidi che era cosa buona[6].

Spinsi lo scalpello più a fondo e smussai l’ammasso informe, distinguendone le parti e separandone le venature marmoree, fino a quando cominciò a identificarsi una forma più umana, ma ancora mal rifinita, un abbozzo d’uomo.

E fu sera e fu mattina[7] per molti mesi, mentre con l’uso del martello e dello scalpello lasciavo l’aria scorrere tra le membra e gli arti di una nuova vita.

Separai il marmo dall’esistenza che vi giaceva insita, levando l’eccesso di materia, poiché l’immagine già era dentro, non dovevo che spogliarla, sollevare un velo, spesso, pesante. Sotto quel peso l’aria, che è nulla, prendeva forma. Diventava viva[8].

Lo osservai. L’uomo assumeva una posizione seduta, con una gamba più piegata dell’altra come fosse in procinto di alzarsi in piedi, la veste gli ricadeva adagiandosi sulle ginocchia. Definii delle tavole sotto il suo braccio, le levigai, le studiai con cura, e vidi che era cosa buona.

E fu sera e fu mattina lungo numerosi mesi, durante i quali il mio estro dai torti pensieri[9] non si concedeva pace alcuna.

Quando lo scalpello giunse più in alto, nella mole marmorea che mutava la sua forma, delineai la barba in movimento, fluida, intrecciata alle dita affusolate, prolungamento delle braccia dai muscoli tonici e le vene prominenti.

Scolpii il volto accigliato, dallo sguardo altero, le labbra serrate e gli occhi irosi negli incavi bui delle orbite che conferivano alle forme un’espressione d’importanza.

Anche se l’immagine diveniva via via più reale, il marmo racchiudeva porosità, venature, striature caotiche, celava in sé un potenziale infinito di creazioni. Quell’ordine apparente che gli attribuivo non era che esteriore, poiché dentro di sé conteneva un disordine di particelle nell’attesa di essere portate alla luce dal luogo indefinito nel quale risiedevano, che un anno non sarebbe stato abbastanza tempo per giungere al suo fondo[10].

Soffiai sul marmo un alito di vita[11]: con le lime sfregavo i lineamenti del profeta, arrotondavo le ginocchia, delineavo i gomiti, ammorbidivo le articolazioni delle dita. E vidi che era cosa buona. Si disegnò quella figura d’uomo che, dalla stazza imponente, mi sedeva dinanzi con portamento fiero.

Restai a guardare l’immagine che avevo fabbricato, che era un uomo, non più marmo: tanta era l’arte, che l’arte non si vedeva[12].

Il profeta sedeva immobile, come ad attendere.

Anche io rimasi in attesa, aspettando che lui si alzasse, che proferisse verbo al suo Creatore. Eppure, egli tacque. Passai una mano sulla statua per sentire se fosse carne, ed ebbi la sensazione che le dita affondassero nei suoi muscoli, che le sue vene pulsassero sotto ai miei pollici[13]. Fu solo una parvenza.

Allora lo chiamai per nome, a gran voce, così che egli si potesse voltare e mi potesse guardare negli occhi. Tuttavia, egli rimase statuario.

Sentii l’esasperazione crescere in me: guardavo quelle membra umane alle quali avevo dato forma, dalle umane venature e dalle umane sembianze, e non sapevo come donare loro moto, o verbo. Brandii il martello. – Mosè, perché non parli?[14]


[1] “Chi [è] come Dio?”: etimologia del nome Michele (riferito all’Arcangelo), dall’ebraico מִיכָאֵל (Mikha’el), mi (“chi”), kha (“come”) ed El (“Dio”). Da qui deriva il nome dell’illustre artista rinascimentale Michelangelo Buonarroti. Aa. Vv. (1997) Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Fossano (CN) 2005, p. 660.

[2] Oh uomo, a te diede forma, polvere della terra, / e nelle tue narici soffiò un alito di vita; / ti creò a propria immagine, / e così fosti un’anima vivente. Paradiso Perduto, libro VII, vv. 524-528.

[3] In nova fert animus mutatas dicere formas corpora, Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 1-2.

[4] Unus erat toto naturae vultus in orbe, / quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles […] Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 6-9

[5] Milton, J., Paradise Lost, VII, vv. 277-278.

[6] Genesi, I.

[7] Genesi, I.

[8] Mastrocola P., L’amore prima di noi, Pigmalione.

[9] Esiodo, Teogonia, v. 168.

[10] Esiodo, Teogonia, vv. 736-741.

[11] Genesi, II.

[12] Ars adeo latet arte sua, Ovidio, Metamorfosi, X, v. 252.

[13] Ovidio, Metamorfosi, X, vv. 254-255, 256-257, 289.

[14] Secondo una leggenda, compiuta la sua famosa opera in marmo per il complesso statuario della tomba di Giulio II, Michelangelo si rivolse verso il Mosè, il quale era tanto realistico da parere vivo eppur muto, ed esclamò “Perché non parli?” percuotendogli il ginocchio con il martello, in un gesto di esasperazione. Non vi è traccia di fratture intenzionali a conferma della leggenda.

Bibliografia
Aa. Vv. Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Fossano, 2005
Cricco G. e Di Teodoro F. P., Itinerario nell’arte, Dal Gotico Internazionale al Manierismo, Zanichelli, Bologna, 2016
Esiodo, Teogonia, tr. it. di P. Mureddu, BUR Rizzoli, Milano 2020
Mastrocola P, L’amore prima di noi. Pigmalione, Einaudi, Torino 2016
Milton J., Paradise Lost, tr. it. di R. Sanesi, Mondadori, Cles, 2016
Ovidio, Metamorfosi, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2015
Genesi, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006

HELENE

Arianna di Pascale, in questa sua composizione, propone una riflessione inedita sulla figura di Elena di Troia e sul suo ruolo in un ambito di rinascita. La riscrittura è stata elaborata durante il corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature Comparate B mod. 1, prof. ssa Chiara Lombardi.

In questa riscrittura ho rimaneggiato la storia e la fama di Elena di Troia, proponendone una nuova lettura in chiave di rinascita. Elena è da sempre una figura negativa nelle narrazioni mitiche, colei che scelse di macchiarsi non solo di adulterio, ma di tradimento verso la patria. Nel mio scritto, da una situazione iniziale di desolazione e caos post apocalittico dopo la terribile guerra di Troia – che rappresenta anche la negatività del ruolo assunto dalla donna nell’immaginario comune – si arriva ad una conclusione di ribaltamento in positivo della figura di Elena, dando così inizio ad una nuova età dell’oro. Questa rinascita avviene grazie al processo di “catarsi” provocato in Afrodite dal discorso di Elena; si verifica così una nuova origine della razza umana.

*

“…ἢ γὰρ Τύχης βουλήμασι
καὶ θεῶν βουλεύμασι καὶ Ἀνάγκης
ψηφίσμασιν ἔπραξεν ἃ ἔπραξεν,
 ἢ βίᾳ ἁρπασθεῖσα,
ἢ λόγοις πεισθεῖσα,
ἢ ὄψει ὲρασθεῖσα
[1]

La terra si mischia con il cielo urlante, come le lacrime sono ormai indistinguibili dalle gote, non più degne dell’epiteto “belle” che le designava un tempo. Lacrime amare, di un dolore dall’ampio petto[2], che raccoglie colpa, disperazione, rabbia. Molte lune sono trascorse dalla causa del pianto, eppure i fiumi che scorrono dai begli occhi sembrano avere fonte infinita.

Elena alza gli occhi alla volta celeste, che ricambia con sguardo iroso e scoppia in un tuono che sembra divorare quel che resta della terra, ormai sterile stagno di fuoco e di zolfo[3].

Ebbene questa è la mia colpa… anche il mare, il cielo, sono attraversati da tempesta e sconvolgimento alla mia vista: solo incrociando il mio sguardo perdono ogni lume, e si abbandonano al Caos.

Ebbene, questa è la mia colpa… il dono tanto gradito ai più è per me insieme vita e morte.

Sopravvivere alla mia stessa bellezza, è forse vita questa?

Guardare fiumi di sangue scorrere violenti, in piena, mentre tingono gli oceani di rosso. Molte volte il sole ha danzato attorno alla terra, e cammino da altrettante, alla ricerca anche solo di una goccia d’acqua che, non toccata dalla mia colpa, abbia conservato il colore della purezza.

Non merito tuttavia quella goccia, qualora ancora ce ne fosse una; o così credono gli Dei dell’Olimpo.

La mia sventura ebbe inizio in un giorno che avrebbe dovuto essere il giorno più felice. Si celebravano le nozze di una dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti a festeggiare gli sposi portando loro una grande quantità di doni.

Nessuno però giudicò opportuno invitare Eris, dea della Discordia, ché la sua presenza, degna di biasimo, avrebbe assicurato litigi furibondi in un giorno tanto piacevole. Infatti, se è vero che nessun mortale l’ama, gli dei, costretti, fanno sì che le si ponga rispetto[4].

Il banchetto procedeva lieto, e già Teti e Peleo erano andati nel talamo, condottivi da Anfitrite e da Nettuno. La Discordia, stizzita, colse il tempo, e, non veduta da nessuno gettò nella sala del banchetto un pomo lucente, tutto d’oro, e con una scritta che diceva: la più bella l’abbia. Quello ruzzolò, e giunse, come a posta, dove erano sedute Giunone, Venere e Minerva. Tra loro sorse contesa, e ciascuna desiderava il pomo per sé; così Giove designò giudice Paride. Eris, ridendo del male provocato[5], ammirava il banchetto.

Ogni dea offerse doni per persuadere il bel giovane a proprio favore, e tuttavia egli scelse Afrodite- insieme con il premio da lei offerto, che fu la mia persona.

La sua scelta, che da un lato pose fine alla contesa, diede adito ad altro tipo di odio: Minerva e Giunone, adirate, maledissero il premio offerto dalla dea vincitrice, facendo della mia bellezza, ritenuta impareggiabile da alcuna donna, ragione di follia per chiunque posasse lo sguardo sulle gradevoli membra.

Afrodite però promise l’amore di una donna sposata; Paride, così, mi rapì dalla casa achea e dagli affetti.

Menelao, mio legittimo marito, dichiarò guerra alla patria del figlio di Priamo: quel conflitto, l’ennesimo, nella bellicosa storia dell’uomo, fu tuttavia l’ultimo. Come il fuoco vorace, rovina dei rami[6], divora ogni cosa sul suo cammino, così la furia di Ares si scatenò, mortale, sull’umanità: un ardore prodigioso penetrava Caos[7].

Il marchio della mia maledizione ruppe le ordinate file di soldati, volgendo la guerra in scontro informe, indistinto, in cui non v’erano più nemici né alleati. La follia pose ambo le mani sugli occhi di coloro che, anche solo una volta, avevano incrociato lo sguardo con il mio, e come una pestilenza la follia si diffuse, rapida e invisibile, nel campo di battaglia.

Non rimase nessuno, sola camminai tra gli scudi abbandonati, i nudi piedi dolenti sulla terra sterile.

Strappati furono i figli dalle braccia materne, i mariti dalle mogli, gli amici dal simposio, e non rimase nulla se non macerie e corpi senza anime. Così, come Achille cullò, invocando la morte, il corpo di Patroclo, la madre del Pelìde pianse il corpo del figlio, nato dall’unione che fornì l’occasione della mia disgrazia.

Sola, sola con la mia colpa.

Colpa che mi macchiò le mani, mentre la spingevo via con tutte le forze. È colpa, esser parte del rincorrersi degli eventi?

Certamente nella storia, nella memoria, ciò che conta sono i fatti, le evidenze, le conclusioni: solamente i gloriosi, i valorosi, meritano di essere ricordati come esempio di virtù.

O madre, Nemesi, giustizia riparatrice, non ho nulla di te nel mio essere, nessuna giustizia è in serbo per me.

È certamente dire il falso, affermare di non aver peccato; nonostante il desiderio, bruciante, di porre la mia verità agli occhi di alcuno mi abbia ormai consumata. Donna superba, adultera… così morirò ai miei occhi, gli unici che ancora conservano il lume della vita e conservano memoria.

Sarebbe forse più terribile finire i miei giorni in una pace apparente, e sopravvivere in tal guisa alla memoria dei miei figli, che avrebbero vissuto col capo chino per la vergogna causata dal terribile strappo sul mio onore. Tuttavia la guerra che ho causato mi rende imperdonabile, ai miei occhi per prima.

La mia bellezza? Peccai di superbia.

La mia fuga con Paride? Peccai di adulterio e lussuria.

Che sia una colpa essere parte del piano divino, questo è l’amaro destino umano.

Afrodite,

a te devo i tre mali della mia vita.

Con il tuo favore la madre legò, indissolubile, l’anima impalpabile a questo corpo funesto.

Tu, Citerea[8] dalla splendida chioma, mi maledicesti una seconda volta facendo di me premio e trofeo,

e infine, ferendo la vanità delle contendenti, ne scatenasti l’invidia.

E tuttavia tu stessa fosti ugualmente colpevole di azioni non tue: la triste Eris tirò la mela, il bel Paride ti scelse.

Con questo mio ultimo gesto ti rendo giustizia, l’unica, temo, che riuscirò mai ad ottenere.

E come il suo corpo cadde dall’alta roccia nel mare agitato, esso fu portato al largo per molto tempo; attorno alla bianca spuma, dalle mortali membra, lambita dai flutti nacque una figlia, e poi un figlio, e dopo essi molti[9]; come gocce di pioggia, dal fecondo oceano si generarono nuove stirpi. Questi figli, con il cuore ignaro del dolore, abiteranno terre spontaneamente feconde e corpi liberi dalla fatica e dal pianto; non li inseguirà il tempo e la vecchiaia misera, ma anzi, dopo una vita di pace, moriranno come colti dal sonno[10].
Per loro la dea fatta di spuma marina terrà separati i beni dai mali; il turbamento per le parole di Elena ne commuove ancora l’animo.

Bibliografia

Esiodo, Teogonia , BUR Rizzoli, Milano 2020
G. Guidorizzi, Kosmos – l’universo dei greci, vol. 1, Einaudi Scuola – Mondadori, Milano 2016
La Sacra Bibbia, Apocalisse, Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1924
L. Settembrini, Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Vol I, 9. Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1862
S. Stulson, Edda, edizione a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 2018 [1975].


[1] Ella infatti fece quel che fece per volontà del Caso, e desiderio di Dei, e Decreto di Necessità, oppure rapita per forza, o persuasa con parole, o presa da Amore”. Gorgia, Encomio di Elena, 1, 6.

[2] Esiodo, Teogonia, vv. 117.

[3] Apocalisse, 20: 14 – 15.

[4] Esiodo, Opere e Giorni, vv. 11 – 16.

[5] Esiodo, ibidem, vv. 28.

[6] S. Stulson, Edda, cap. 4, p. 53.

[7] Esiodo, Teogonia, vv. 699.

[8] Esiodo, ibidem, vv. 196 – 198.

[9] Esiodo, ibidem, vv. 188 – 193.

[10] Esiodo, Opere e Giorni, vv. 112 – 120.

L’ultima tempesta

Aurora Fenocchio, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

In questa mia riscrittura ho tentato di dar voce ad un Pericle moderno che vive immerso in un presente di sale, a stento ricordando d’esser stato, un tempo lontano, qualcosa di diverso da un uomo che ha perso la sposa, un padre senza più la figlia.

*

Con una lentezza straziante il sole di mezzogiorno prosciuga le pozze d’acqua salata. I granchi nerastri, retroguardia della marea, si contendono gli scogli, mentre i gabbiani calano dal cielo a fargli la guerra.
Il piccolo muggine sa che la fine è vicina. Passano i minuti, e la vita defluisce dal suo corpo; il soffio che anima gli ultimi guizzi si disperde, per sempre, nell’aria.
L’occhio del pesce si annebbia del tutto, e in un attimo dentro ci trovo il mio. La smania di vita che incontra il desiderio di morte.
Mi alzo lentamente in piedi, stordito, mentre le acque riassestano il loro dominio, indifferenti verso chi lasciano indietro.
Mentre mi allontano, un gabbiano scende in picchiata sulla spiaggia e in un attimo fa scomparire  il muggine nella sua gola bramosa.

Amata Marina,
prima ho guardato la morte negli occhi. Uno di quei pesci che abitano la costa, forse perché timorosi del buio delle profondità voraci (conosceranno, i pesci, la paura del buio?), ha avuto la sfortuna di trovarsi a combattere contro il sole, imprigionato in due dita scarse d’acqua.
Penso di aver fissato la morte fare il suo corso con uno strano bisogno di risposte, forse con  quello sguardo curioso che hanno i bambini quando cercano di capire il senso del tramonto, o l’assenza dei frutti sul ciliegio in pieno inverno, o il perché del fatto che, ad un certo punto, la trottola si ferma- chissà qual è la forma che la curiosità assume sul tuo viso, Marina. Il tuo viso che per me è rimasto per sempre un viso di bambina.
La morte è stata una fedele compagna della mia vita e, devo dire, probabilmente senza di lei sarei stato qualcuno di molto diverso. Ricordo la morte di mio madre, mia madre che profumava di buono, andata via con i primi freddi, come le rondini, l’anno in cui io imparavo a camminare. Poi quella di mio padre, colui che mi trasmise il compito del sovrano, il senso della guerra e della pace, l’importanza di avere consiglieri fidati e sudditi dalle pance piene; mi insegnò come a volte un nemico sia più utile di un alleato, ma trascurò di farmi conoscere il tepore di un abbraccio e la freschezza di una mano amica che asciuga le lacrime.
La sua morte mi rese re e, soprattutto, mi donò la limpida consapevolezza dell’ordine delle cose, del fatto che tutti i regni e le meraviglie di questo mondo sono destinati ad essere ingurgitati dall’oblio, a scomparire come la rugiada sotto il sole del mattino. Da allora non riesco a guardare un fiore senza vederlo già cenere, anche se a suo tempo feci di tutto per rendermi cieco a queste visioni, per rendermi sordo a certi sussurri di morte, al fine di cercare con tutte le mie forze di realizzare il mio compito di re.
  Solo per un breve momento nella mia vita qualcosa mi ha sottratto a questa terribile consapevolezza, rendendomi dimentico e felice, e quel qualcosa è stato tua madre, Marina. Tua madre era per me la pioggia dopo una siccità secolare, una mano delicata che mi chiudeva gli occhi di fronte alla putrefazione circostante, la musica delle sfere che copriva il suono delle forbici delle Moire. Troppo presto se ne andò, e per colpa mia: fui io a volerla con me nel viaggio fatale.
 La tempesta si abbatté sulla nave in una notte senza stelle, verso la metà del nostro viaggio per Tiro, dove mi richiamavano i miei doveri di re. Il capitano aveva provato a farmi notare le nubi che si addensavano come cupi presagi dinnanzi all’incendio del tramonto, quella sera, ma io non avevo occhi che per la mia sposa dilaniata dalle doglie del parto imminente. D’altronde, a quel punto non avremmo potuto fare niente per evitare la tempesta, sperduti come eravamo in mezzo al mare, senza nemmeno uno scoglio all’orizzonte in tutte le direzioni. Così, nella notte la tempesta si schiantò rombando sul legno, e noi sopra come fragili conchiglie.
Tua madre, Marina, ti diede alla luce fra atroci sofferenze, senza neanche il conforto di un fuoco, senz’altra luce che quella dei lampi sovraccoperta, quei lampi che parevano incendiare il mare, in una guerra fra elementi in cui noi uomini non eravamo che impotenti bambole di pezza. Il mio pensiero era con voi due mentre facevo del mio meglio per restare in piedi sul ponte, intento a dare ordini ai miei uomini, nella terribile furia delle acque e dei venti. D’un tratto la buona Licorida venne a chiamarmi urlando nel vento parole agghiaccianti, di cui mi rifiutavo di cogliere il senso. Sottocoperta non potei fare altro che gettarmi sul corpo ancora caldo della mia sposa, madido di sangue e sudore freddo, avvinghiato alla sua creatura in un ultimo abbraccio che con la sua disperata tenacia sfidava la morte, e perdendo vinceva. Nel momento in cui il mio sguardo si posò sugli occhi senza vita di Taisa, seppi con certezza che la morte era tornata nella mia vita per incidermi nelle iridi il suo ghigno ammiccante, e che mai più se ne sarebbe andata.
Ora, lasciato il mio regno a chi sappia governarlo meglio di quanto io, naufrago della vita, possa fare, deposta la porpora per coprirmi di un ruvido saio, in riva al mare sto, immobile come un sasso, mentre il vento ed il sole mi screpolano la pelle e si insinuano fra le rughe scolpite dal dolore. Dopo che il mare ha ridiscusso ancora una volta gli antichi patti con la terra, dopo che l’acqua si è ripresa le conchiglie che aveva smarrito in una tempesta ormai dimenticata, io, Pericle, tendo l’orecchio: ma non trovo pace. Solo, strida di gabbiani affamati, clangore di chele bellicose e il ciaf ciaf d’un pesce che muore.
Nell’occhio del muggine vedo la morte, e nel sorriso senza denti di questa trovo la stessa domanda che mi perseguita da tutta la vita: perché?


Amata Marina,
mia immane perdita; ti chiedo perdono per questi miei perché? urlati al vento, che tuttavia tu non leggerai mai: è alle acque che affido queste mie, saranno gli oscuri abitanti degli abissi a posare i loro occhi ciechi su tali sillabe inquiete. Forse gli occhi di tua madre, fattisi perle incastonate in ossa coralline e pelle fredda di squame, vedranno passarsi davanti queste lettere, e le profondità risuoneranno dell’eco del mio bisogno, sirene e serpi marine si commuoveranno di fronte alle mie sventure. Forse a quel punto il mare, sempre indifferente alla tragedia del vivere, verrà finalmente a portarmi la pace: in una notte stellata, dopo una lunga veglia, sarò rapito da un sonno leggero, e allora le acque si insinueranno nella mia nuda caverna, qui sugli scogli, dandomi l’agognata morte con un bacio leggero. Morirò così, fra nebbie soavi, sognando te, figlia mia, che giungi a questo remoto angolo di mondo per riabbracciare il perduto padre – questa la speranza che mi tiene lontano dal punto in cui la scogliera scende a precipizio sugli scogli, sempre biancheggianti di schiuma.
Ancora una volta le onde della mia memoria si tramutano in quella tempesta atroce e, a distanza di anni, vengo di nuovo precipitato sulla nave illuminata a giorno dai lampi.
Mentre ancora lo spirito di tua madre vagava nell’aria, quasi visibile fra i bagliori dei lampi, Licorida mi poneva in braccio te, piccolo bruscolo di natura, che prima ancora di aprire gli occhi avevi perduto più di quanto la vita avrebbe mai potuto renderti. Annichilito dal dolore ma nel contempo deciso ad agire per amor tuo, dovetti fronteggiare il ricatto superstizioso dei marinai, che nel mezzo della tempesta esigevano che il corpo di Taisa fosse buttato fuori bordo, al fine – così dicevano – di non inimicarsi gli dei e propiziare la fine della tempesta. Fu solo per timore di essere ucciso e quindi di non poter proteggere te che, alla fine, mi rassegnai a tale barbarie. Sotto i miei occhi Taisa sprofondò fra le gelide braccia della tempesta, i capelli sciolti come alghe rosse, la pelle candida di madreperla. Al solo ricordo avverto i miei stessi polmoni riempirsi di acqua gelida, e saluto questo alito di morte col sorriso.
  Cessata la tempesta, navigammo verso Tarso, dove ti lasciai al sicuro – o almeno così credevo; separarmi da te, Marina, fu come morire con Taisa una seconda volta, ma affrontare l’ultimo tratto del viaggio verso Tiro ti sarebbe stato fatale, priva com’eri del seno materno e di ogni conforto.
Questo mi ripeto quando oggi penso a come quel nostro saluto fu anche l’ultimo: dopo una veloce sosta a Tiro tornai a riprenderti ma, ahimè, i sovrani di Tarso mi dissero con le lacrime agli occhi che eri perduta per sempre. In una notte senza luna la culla in cui dormivi era rimasta vuota, pian piano il tepore del tuo corpo si era dileguato verso gli angoli bui della stanza, unici testimoni del mistero accaduto.
Il vuoto che la tua scomparsa misteriosa lasciava in me fu la goccia che fece traboccare il vaso della mia tempesta interiore. In quell’ora terribile, i miei occhi persero ogni traccia dell’antico lume, già molto affievolito, mentre le membra si agitavano in singhiozzi che cercavano di uccidere il respiro, e fra le labbra tremanti si facevano strada motti più simili a urla ferine che non a favella umana. Quando la marea furiosa del dolore sembrava ritirarsi, una nuova tempesta mi assaliva il cuore, spolpandomi fino all’osso ma senza tuttavia concedermi il colpo di grazia che tanto agognavo.
Corroso dalla disperazione, esile legno in mezzo alla burrasca, io, che ero stato un grande re, un guerriero di cui i nemici temevano l’ira, non fui in grado di adempiere al mio dovere di padre: non riuscii a trovare la forza di partire alla tua ricerca. Fu la mia più imperdonabile colpa: questo mi dicono gli occhi di Taisa quando mi appare in sogno e mi guarda senza far motto sino all’aurora, allorché piangendo fa ritorno al mondo dei morti.
Dopo aver constatato la gravità del morbo che mi affliggeva, i miei consiglieri non poterono rifiutarsi di esaudire le mie preghiere, e fu così che fui infine abbandonato a me stesso, su una spiaggia qualsiasi, per non venire più avvicinato da creatura umana.
Molti anni solo passati dalla tua scomparsa, mia amata Marina, e molte lacrime hanno solcato queste guance scavate, fino a prosciugare la fonte. Da innumerevoli lune il mio pianto rifiuta di esprimersi nell’acqua, l’acqua che ha segnato il mio destino, sancendo la perdita e la rovina.
Ormai simile ad una pietra, così prosciugato e refrattario, riempio i miei giorni delle grida dei gabbiani e di poche, pochissime gocce di speranza salmastra.
Ed invoco il destino che mi ha reso non vivo, non morto, sperando in una prossima tempesta, temuta eppur benedetta, che mi dia la pace della morte e mi porti in ginocchio da tua madre, per chiederle perdono per non aver saputo proteggere né lei, gioia della mia esistenza, né te, carne della nostra carne.

Bibliografia
W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019

Pathétique

Michela Sasso, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il mito di Apollo e Dafne, ambientandolo nella Francia della Restaurazione, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.  
Descrizione sintetica della riscrittura:

Quella di Apollo e Dafne è una storia senza tempo: un amore inaspettato, non voluto, non corrisposto, a cui però nessuno dei due può sfuggire, perché quando Amore si mette all’opera non c’è dio, ninfa o mortale che possa sottrarsi al suo giogo. Ma se la stessa storia fosse stata raccontata in un altro contesto, in un altro tempo, in un altro luogo? Che cosa sarebbe stato diverso e che cosa, d’altra parte, sarebbe rimasto invariato? È da questi presupposti che nasce questa riscrittura. Ci troviamo nella Francia post-napoleonica: un giovane si innamora perdutamente di una bellissima fanciulla, e in cerca di conforto e sollievo, si ritrova a scrivere una serie di brevi lettere alla sorella. Un racconto epistolare che, nel suo piccolo, cerca di mostrare come gli antichi miti abbiano ancora molto da dirci su di noi, anche a distanza di secoli. Nella riscrittura gioca una parte decisamente importante il secondo movimento della Patetica di Beethoven (Sonata per pianoforte n. 8 in do minore, Op. 13, Grande Sonata Patetica, II movimento: Adagio cantabile).

*

16 aprile 1818

Cara sorella,
so che non ti ho scritto spesso negli ultimi tempi, e me ne dispiaccio. Potrei dire che l’ho fatto per non disturbarti, ora che sei divenuta badessa e hai molto più da fare di me, ma sarebbe una menzogna. La realtà è che mi manchi immensamente, e credo che questa potrebbe essere considerata una sorta di vendetta nei tuoi confronti per avermi privato della tua compagnia, ma naturalmente tu sei superiore a queste meschinità. Chiedo il tuo perdono, Diane, e ti prego di leggere questa lettera nonostante le mie mancanze verso di te.
Ho appena visto David. So che non ti è mai piaciuto, parere che condivido, ma dopo la battuta di caccia di oggi è venuto a farmi visita. Mi ha chiesto come avessi trascorso la giornata: quando è venuto fuori l’argomento della battuta, potrei averlo deriso per le sue scarse – per non dire nulle – capacità venatorie, forse chiamandolo patetico… lo ammetto, ho un po’ calcato la mano.
“Ti credi sempre il migliore, vero?” Era parecchio irritato, aveva tutte le guance rosse, gli occhi ridotti a spilli. La cosa mi ha divertito più di quanto avrebbe dovuto. “Perché non vieni al salotto di Madame Rivièry, domani pomeriggio?”
“E a che scopo?” ho ribattuto subito dopo. Mi aveva già fatto questa proposta diverse volte negli ultimi mesi, ma mi ero sempre rifiutato: la politica non mi attira, lo sai bene.
“Per una volta ti dimostrerei che c’è qualcosa in cui io sono più bravo di te”.
“Sono sicuro che ti sbagli”.
“Allora vieni e dimostramelo”.
Se tu fossi stata qui me l’avresti certamente impedito, ma ho finito con l’accettare.
Qualcosa nella risposta di David, però, mi ha fatto correre un brivido lungo la schiena. Sembrava estremamente convinto di quel che diceva. Ho una brutta sensazione, Diane. Sono molto preoccupato.
Spero di sbagliarmi.

20 aprile 1818

Cara sorella,
mi sento un uomo cambiato. Ho una grande notizia: sono innamorato. Sento il cuore che mi scoppia, mi sembra di prendere fuoco come un cumulo di fragili stoppie al solo pensiero del suo viso – mi viene da piangere, e non riesco a distinguere se è per la gioia di averla avuta dinanzi agli occhi o per il dolore di non poter correre subito da lei. Ma lascia che ti racconti tutto.
Sono andato al salotto. C’erano nobili, alti ufficiali, membri del parlamento: credo di aver intravisto un paio degli amici più stretti di Guizot. “Ultimamente”, mi ha detto David mentre prendevamo posto vicino ad alcuni suoi amici, “si parla solo delle modifiche alla Charte. Se vuoi evitarti brutte figure ascolta senza intervenire troppo”.
Se sperava di irritarmi con quel commento, si sbagliava: in effetti non avevo alcun desiderio di prendere parola. Non riesco a trovarli credibili, questi uomini che credono di poter cambiare il mondo, e tanto meno ho voglia di intromettermi nei loro discorsi. Che risultato hanno ottenuto i giacobini con la loro sanguinosa rivoluzione? A che cosa hanno portato quindici anni di Impero sotto la guida di Bonaparte? Un altro re, uguale a tutti gli altri, seduto sullo stesso trono.
Mi ero quasi convinto ad andarmene, quando una ragazza, che non esiterei a definire la più meravigliosa che abbia mai visto, ha preso posto al pianoforte in fondo alla sala e ha iniziato a suonare. Era una musica dolcissima – conoscevo la melodia, ma in quel momento non riuscivo a ricordarne il titolo: prima era un suono sottile come un torrente di montagna, poi placido come un fiume scintillante che scorre sereno tra i boschi; le sue dita inseguivano le note con grazia e naturalezza.
“Chi è?” ho chiesto a David non appena la ragazza ha smesso di suonare. La voce mi tremava in gola per l’emozione, non riuscivo a distogliere lo sguardo.
“La ragazza? È Daphnée, una delle figlie di Monsieur Rivièry”.
In quel momento si è voltata verso di noi… è stato solo un istante, ma ti assicuro che ho visto le stelle brillare nei suoi occhi.
Sono tornato a casa con un piano in mente e tutta l’intenzione di attuarlo: ogni giorno, farò recapitare per lei un mazzo di fiori in forma anonima, così che il mistero intorno al suo ammiratore segreto la incuriosisca. Alla prossima riunione del salotto mi presenterò a lei, recando l’ultimo mazzo di fiori con me a riprova della mia identità, e le chiederò l’onore di conoscerla.

25 aprile 1818

Cara sorella,
sono perduto.
Ieri mi sono recato al salotto di Madame Rivièry. Appena la padrona di casa mi ha visto ha subito capito chi ero e mi ha fatto entrare – quasi non riuscivo a contenere l’emozione.
Poco dopo, però, il mio entusiasmo è stato bruscamente interrotto. “Daphnée oggi non sarà presente al salotto” mi ha detto Madame Rivièry, subito dopo avermi fatto accomodare nella sala principale. Cercando di nascondere la mia delusione, allora, ho chiesto dove potessi trovarla, ma la signora mi ha rivolto uno sguardo dispiaciuto. “Oggi non vuole vedere nessuno, è… indisposta. Ma io e mio marito saremmo più che lieti di avervi con noi oggi pomeriggio”.
Non ho potuto fare a meno di acconsentire, ma il tempo sembrava non passare mai. Mi sono congedato non appena un’apparenza di cortesia me l’ha permesso.
Quando stavo per raggiungere la porta, però, l’ho vista di sfuggita in corridoio. Non so che cosa mi sia preso: riuscivo solo a pensare che non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di vederla, anche solo per qualche minuto, e l’ho seguita.
Mi sono ritrovato su uno dei balconi. Mi ha detto di andarmene. Non mi ha rivolto nemmeno uno sguardo.
Il tono gelido che ha usato… mi sono sentito morire. Sapeva chi ero, che ero stato io a mandarle quei fiori, ma nonostante questo mi odiava – o forse per questo. Ho avuto la netta sensazione che avesse deciso di non presenziare al salotto per evitarmi.
Ho provato a parlarle, ma mi ha nuovamente intimato di lasciare quella casa – anzi, di non mettervi mai più piede. Non ho trovato in me la forza di replicare, dubito che sarebbe servito a qualcosa. Siamo rimasti immobili, in silenzio, per un tempo che mi è sembrato infinito.
Quando ho accennato ad avvicinarmi, lei di riflesso ha iniziato a stringere con forza la ringhiera tra le mani – si stava facendo male, era evidente. Quelle stesse mani che avevano suonato, solo una settimana prima, quella musica meravigliosa… non potevo permettere che si ferisse a causa mia. Mio malgrado, me ne sono andato.
Questa mattina ho chiesto di essere ricevuto dai Rivièry, e adesso sto aspettando la carrozza che mi riporterà da Daphnée: spero di avere maggior fortuna. Ti prego, Diane, rivolgi una preghiera al Signore: che faccia sì che la fanciulla cessi di rifiutarmi.

1° maggio 1818

Cara sorella,
mi sento così sciocco – anzi, sciocco non è la parola giusta. Ti spiegherò presto che cosa intendo.
Dall’ultima volta in cui ti ho scritto, sono andato ogni giorno dai Rivièry, e ogni giorno Daphnée è rimasta chiusa nella sua stanza, rifiutandosi di uscire. Non vi è stato modo di convincerla a vedermi.
Due giorni fa, dopo che me n’ero andato, David è venuto a trovarmi. Ero in una condizione miserabile.
“E io che speravo solo di imbarazzarti un po’ a causa della tua totale inettitudine in fatto di politica… ma così è molto più divertente. Daphnée Rivièry, davvero? Sai che ho sentito dire che vuole farsi monaca?”
All’inizio non gli ho creduto, ma ieri sono tornato ancora dai Rivièry e ho chiesto spiegazioni, per assicurarmi che David stesse davvero mentendo come pensavo. Il loro sguardo colpevole ha però confermato le sue parole. Ho provato una sensazione di gelo in tutto il corpo.
Solo allora ho capito: la loro cortesia, la disponibilità… volevano che convincessi la loro adorata bambina a non scegliere la vita monastica, così che potessero averla vicina. Non ero che uno strumento nelle loro mani, che speravano di poter sfruttare per i loro interessi. Per questo mi hanno illuso, per questo hanno alimentato con la speranza il mio sterile amore.
Non ho mai avuto alcuna possibilità con Daphnée.
Per curiosità, ho voluto sapere in quale monastero avesse scelto di entrare. Quando me l’hanno detto mi è quasi venuto da ridere: è il tuo, Diane. Presto Daphnée sarà una tua novizia.
Alla fine ho ricordato il titolo del brano che stava suonando. Era la Patetica di Beethoven, il secondo movimento.
Patetico, ecco come mi sento. Patetico.

Bibliografia
Ovidio, Metamorfosi, libro I, tr. it. di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino, 2015
P. Mastrocola, L’amore prima di noi, Einaudi, Torino, 2016