Archivi tag: Coscienza e disturbo alimentare

Coscienza e disturbi del comportamento alimentare: come ho fatto amicizia con la mia coscienza

Federica Martire racconta il difficile percorso di guarigione da un disturbo del comportamento alimentare nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro, Prof.ssa Chiara Lombardi (2022-2023)

“Nel corso di quei mesi fotografavo continuamente il mio corpo come se fosse una medaglia da esibire ogni volta che uscivo di casa. Le mie mani sottili, il mio seno piccolo, lo spazio tra le mie gambe erano per me il trofeo che ritiravo ogni mattina quando mi guardavo allo specchio, per aver mangiato poco il giorno precedente.  Avere il controllo su me stessa mi faceva sentire invincibile, amavo quello che la mia malattia mi stava togliendo e invece di battermi contro di lei assecondavo ogni sua richiesta”.

*

Sono le sei e cinquanta, mi alzo dal letto e scorro le notifiche sul mio IPhone.

Cammino verso il bagno e guardo il mio viso attraverso il riflesso dello specchio. Mi guardo negli occhi e sto in silenzio ma è come se non lo fossi.

Osservo le mie mani e i tagli sui polpastrelli, mi guardo di nuovo negli occhi. 

È inverno e stanotte faceva così freddo che non sono riuscita a dormire, sebbene avessi ben tre coperte.

Prendo coraggio e sollevo la maglia, ho i brividi. Guardo il mio corpo allo specchio e sto in silenzio, poi osservo nuovamente le mie piccole mani. Sono zitta ma sento un fastidio incessante; mi guardo allora intorno, ma non c’è nessuno.

Osservo il mio addome allo specchio, ho gli occhi semilucidi e sto tremando. “Domani andrà meglio” mi ripeto ogni giorno.

Abbasso la maglia e guardo di nuovo le mie mani, poi i miei occhi allo specchio. Le stesse mani che mi fanno sentire vittima e colpevole di un destino che non sento mio.

Le mani con cui la sera prima ho mangiato un pezzo di quel delizioso e morbidissimo pane che ha fatto mia nonna per convincermi a mangiare di più.

Le mani con cui ogni mattina, facendo attenzione a non farmi sentire, prendo la bilancia nella speranza di pesare di meno.

Le stesse mani con cui asciugo le mie lacrime quando piango così tanto che non riesco nemmeno a respirare.

Le guardo come se fossero piene di sangue, come se avessi appena commesso un omicidio,

“Forse l’ho fatto davvero” mi dico, ma la vittima sono sempre io.

Esco dal bagno e mi vesto, tra poco sarà il mio compleanno e solo per oggi non farò colazione perché devo mettermi quel vestito rosa che mi piace tanto e ho paura che si veda il segno della pancia.

Incontro mio papà in sala, mi dà il buongiorno ma leggo nei suoi occhi parole che non avrà mai il coraggio di dirmi. Le stesse parole che invece mia mamma mi ripete in continuazione ma che la mia testa sembra non voler ascoltare.

Sento di nuovo una voce, ma intorno a me non c’è nessuno. Non mi è mai successo e sono spaventata.

Mi sento come se avessi accolto dentro di me un ospite indesiderato, come se qualcuno fosse entrato nella mia stanza e avesse iniziato ad usare i miei vestiti, il mio spazzolino per lavarsi i denti e i miei libri per studiare. “Non sono io” mi ripeto mentre cerco di seguire la lezione di filosofia, ma non ne sono sicura.

Torno a casa e trovo mia sorella ad accogliermi seduta a tavola che mi chiede com’è andata la giornata.

La sala da pranzo è da mesi il mio campo di battaglia dove chi lotta sono i miei desideri e la mia speranza di tornare a vivere, contro una voce dentro la mia testa che mi intima di non mangiare ciò che desidero.

Sento la pancia brontolare, da mesi dice quello che io non ho la forza di dire, emette suoni di protesta e di aiuto ma non trova mai nessuno pronta a sostenerla. Per anni il mio stomaco è stato il mio secondo cuore quando quest’ultimo era così debole da non sentire più le mie sofferenze.

Mangio una fetta di carne senza olio, dico a mia mamma che sono piena perché ho fatto merenda a scuola. Non è vero e lei lo sa bene.

Mi rifugio nella mia stanza e leggo per la terza volta il mio romanzo preferito: L’insostenibile leggerezza dell’essere. Mi rifugio nelle parole di Milan Kundera che mi permettono di accettare, anche se per poco, il mio dolore e di non sentirmi rea della mia situazione fisica e mentale.

“Che cos’è positiva, la leggerezza o la pesantezza?” mi chiede questo romanzo ed io che sento la mia anima estremamente pesante, desidero solo essere leggera.

Esattamente come dice Michela Marzano in Volevo essere una farfalla “Mi ero convinta che se fossi riuscita a diventare leggera come una farfalla, tutto sarebbe andato a posto. Sarei divenuta forte, indipendente e libera e non avrei mai più avuto bisogno di nessuno”

Nell’attesa di stare meglio spengo la luce e mi rifugio sotto le coperte. Vorrei dormire, sento la testa pesante ma non riesco nemmeno a chiudere gli occhi.

Sento ancora quella voce.

VITA
Cosa hai mangiato oggi?”

FEDERICA
Un caffè macchiato e una fetta di carne.

VITA
Come un caffè macchiato? Sai che ti fa ingrassare.

Non riesco a capire come farla smettere, non riesco ad ascoltare i miei veri pensieri.

FEDERICA
Ho perso ancora un chilo e mezzo questa settimana. Solo un mese fa pesavo nove chili in più di adesso, credo che vada bene così.

VITA
Hai visto stamattina la tua pancia, era enorme. Sai perché stamattina tutti ti guardavano in classe? Perché quel jeans era troppo stretto e ti segnava sulle cosce.

Non sapevo con chi stessi parlando, intorno a me c’era silenzio; eppure, i miei pensieri mi parlavano.

Sono le 18 e 50 e ho l’appuntamento con la mia psicologa. Quella sera sono rimasta in silenzio fino a quando mi ha chiesto di andare via, perché era scaduto il tempo a mia disposizione.

“Ultimamente sembra che il tempo non passi mai” le ho detto quando mi ha fatto notare che l’orologio segnava le 20.00. Mi guardava con lo stesso sguardo severo che aveva ormai da settimane; durante i nostri incontri facevo fatica anche solo a dirle “ciao”, quando entravo nella stanza, figuriamoci se le avrei mai parlato di come mi sentissi. 

Torno a casa e mi siedo a tavola, sono da sola perché i miei genitori sono fuori città e mia sorella è agli allenamenti di pallavolo.

FEDERICA
Vorrei mangiare un bel piatto di pasta al pesto, non lo mangio da così tanto che non ricordo nemmeno il gusto.

VITA
Non puoi, non lo meriti come non meriti ogni cosa della tua vita
Non meriti di essere amata da tua madre che ogni giorno ti sprona a stare meglio
Nemmeno da tuo padre che soffre in silenzio per te
Non meriti l’amore di Giulia che cerca di assecondarti in ogni tua richiesta
Non meriti l’amore dei tuoi nonni
La gioia di vivere delle tue amiche
I loro progetti per il futuro
Non meriti nemmeno quel voto alto per il quale hai tanto studiato
Sarà stato un caso

Improvvisamente mi agito, mi manca il respiro e inizio a sudare. Mi siedo a terra, conto lentamente fino a dieci. Piango. Mi sento sola come mai non lo sono mai stata in tutta la mia vita.
Prendo il telefono, vado su Spotify e seleziono “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli.
Penso a quando mia mamma me la cantava da piccola. Mi siedo sul divano e mi addormento.

La prima volta che mi è venuto un attacco di panico è stato a causa di quella voce che si agitava nella mia testa e non smetteva di incolparmi con parole di fuoco.
Non mi diceva “non sei abbastanza” “non ce la farai” “fallirai”, si limitava a dirmi che la causa del mio dolore ero io stessa e che non ne sarei mai guarita.

La mattina seguente mi sono svegliata, avevo gli occhi gonfi e il mascara su tutto il viso, mi sono svestita e dopo essermi guardata allo specchio ho risentito quelle parole suonare nella mia testa.

Prendo il telefono, ascolto la stessa canzone che la sera prima mi aveva permesso di addormentarmi, e, finalmente, per la prima volta dopo mesi, sento solo silenzio.

È stato questo il momento in cui ho visto per la prima volta una variazione di colore sulla tavolozza della mia vita che fino a quel momento comprendeva solo il bianco e il nero.
Ho visto uno spiraglio di luce gialla, arancione, azzurra nella mia vita alla quale mi sono aggrappata con le poche forze che avevo.

Da quella mattina, grazie a quella canzone ho finalmente capito cosa Milan Kundera intendesse per “leggerezza”, non superficialità ma semplicemente VITA. Lo stesso nome che per anni ho dato alla voce della mia coscienza che parlava per me, che non mi permetteva di ridere, piangere, urlare, ballare, cantare quando mi andava.

Quella mattina grazie a quella canzone ho capito che non era necessario metterla a tacere e che probabilmente sarebbe impossibile farlo, ma che dovevo semplicemente accoglierla e ascoltarla come se fosse la mia canzone preferita che non avrei mai interrotto sul “Quando sei qui con me…”.

Da quella mattina, e ancora adesso, parlo con quella voce e la ringrazio perché mi permette di vedere la mia vita da un punto di vista differente, perché mi permette di vedere le mille sfumature che ci possono essere tra il bianco e il nero, anche se a volte può ferirmi.
Quello che una volta recepivo come un “Non puoi, non te lo meriti, non starai mai bene” oggi è uno stimolo per dimostrare a me stessa che posso fare qualunque cosa io voglia.

Oggi quando mi guardo allo specchio non sento più la voce della mia coscienza che mi fa credere che se il mio corpo e la mia anima fossero diversi, potrei essere più felice. Non sento silenzio, ma un incredibile frastuono che mi ricorda che sono viva e credo che sia la cosa più bella che possa esserci al mondo.

*

Bibliografia:

  • W. Shakespeare, Macbeth, a cura di Guido Bulla, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 2008.