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…TUA, B.

Schettino Martina, in questa sua composizione, rielabora il concetto di colpa e peso della coscienza sotto forma diaristica, riportando i pensieri più intimi e profondi di una giovane protagonista, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B mod. 1 Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Ho sentito un brivido lungo tutta la schiena; il modo in cui ha pronunciato quelle parole, il suo sguardo che è improvvisamente diventato vuoto… è stata solo una mia percezione?”

*

22/09/2022

Caro Diario,

Eccomi, sono arrivata nella mia nuova casa! Finalmente, non vedevo l’ora!. L’Inghilterra è spettacolare, sono così contenta di essere qui. L’appartamento non è grandissimo ma ho un’intera, spaziosissima parete per la mia libreria. La mia coinquilina, Lizzy, è molto simpatica. Mi ha fatto fare un tour della casa e mi ha già dato qualche informazione sulle varie feste che i suoi amici hanno in programma. Per ora voglio concentrarmi sulla sistemazione della mia roba e voglio prepararmi per l’inizio delle lezioni. Mancano solamente due settimane; mi sento agitata ma al tempo stesso sono emozionata. È il mio sogno da sempre! Oxford! Ancora non ci credo, che gioia! Datemi un pizzicotto o crederò ancora di essere in un sogno. Adesso vado, ne approfitto per chiamare mamma ora che Lizzy è sotto la doccia
Tua, B.

07/10/2022

Caro Diario,

sono tornata, prima settimana di lezioni. Ho smesso di scrivere per un po’… mi dispiace, so bene che la scrittura mi aiuta tanto, eppure in questi giorni sono stata così impegnata. Tra l’inizio delle lezioni e le presentazioni ai tantiamici di Lizzy (dire tanti è un eufemismo, non so come questa ragazza riesca a intrattenere tutti questi rapporti sociali, costantemente…), non ho avuto un attimo di tregua. L’appartamento è finalmente sistemato, io e Lizzy lo abbiamo reso molto carino. Anche a mamma piace molto. Ho ancora una lezione per oggi, storia inglese. Il professore è simpatico e si vede che mette molta passione in quello che fa. Abbiamo iniziato dalle origini della storia inglese, dai Britanni alla conquista dell’Impero romano. Una settimana stancante ma molto produttiva; la professoressa di English ci ha già assegnato un saggio da scrivere su Beowulf… vado a lezione.

h. 19 sono in camera, Lizzy è appena tornata con il suo fidanzato, non sembra che le cose vadano molto bene tra loro. Lei piange, penso stiano per chiudere la relazione, mi ha confidato che è da qualche tempo che le cose tra loro non vanno bene.

10/10/2022

Jordan e Lizzy non si sono lasciati. Io sono a metà del mio saggio di Beowulf e in ritardo per la mia lezione di Storia Inglese ciaoo.

11/10/2022

Caro Diario,

ho dormito male questa notte; Lizzy è tornata tardi e ha fatto molto rumore, penso avesse bevuto troppo la sera. Continuava a ripetere un nome, o meglio, continuava a biascicare un nome, storpiando tutte le lettere che lo compongono; strano…

   13/10/2022

“If you could hear at evert jolt, the blood
Come gargling from the fourth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues, –
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
the old Lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.”

Wilfred Owen, uno dei war poets che preferisco in assoluto. La potenza delle parole con cui esprime il suo disprezzo verso i finti ideali sociali del tempo mi provoca sempre un’emozione indescrivibile. Spero un giorno di riuscire ad esprimermi in maniera così decisa ma allo stesso tempo elegante come Owen.

Il saggio è quasi terminato; per essere il primo vero saggio che io abbia mai scritto, sono abbastanza soddisfatta. Lizzy mi ha aiutata con alcune parti più tecniche, sto ancora perfezionando la mia scrittura saggistica. Ultimamente non sta molto bene, non capisco bene cos’abbia… sembra sempre sull’orlo di una crisi o un pianto, è spesso nervosa e molto moody. Quando provo a chiederle di parlarne ha come un sussulto e cambia velocemente umore e argomento, come se tutto il malumore che c’era non fosse mai esistito, se non nella mia testa. Questi suoi comportamenti mi confondono, non capisco perché si comporti così. Anche Jordan si fa vedere sempre meno in casa. Sarà successo qualcosa tra loro?

 15/10/2022

Finalmente è sabato! L’Università è stancante, un ambiente completamente differente da quello del liceo e gli ambienti scolastici inglesi sono così lontani da quelli italiani. All’inizio è stato veramente difficile ambientarsi, ma ho trovato delle persone fantastiche che non mi hanno fatto sentire sola un solo istante. Posso dire di essere la felicità fatta persona!

16/10/2022

Diario,

questa notte è successo qualcosa a Lizzy… è tornata nuovamente molto tardi a casa, piangeva e continuava a ripetere a qualcuno dall’altra parte del telefono che non poteva più sopportare questa situazione, era stanca e voleva solo dormire. Sono sinceramente preoccupata, ma come sempre non ha voluto parlarmene; neanche quando le ho detto che avrei provato ad aiutarla in ogni modo si è voluta liberare del peso che porta nel cuore. In effetti, ora che ci penso… inizialmente non ci ho fatto molto caso, ero stanca, appena sveglia e nel bel mezzo della notte. Ma ora, ripensandoci… mi ha risposto che a quel punto neanche Dio avrebbe potuto aiutarla. Ho un brutto presentimento, molto brutto…

21/10/2022

La situazione sta diventando sempre più strana. Lizzy è tornata quella di prima. Sorridente e spensierata com’era i primi giorni in cui ci siamo conosciute. È tutto sempre più strano. Come sono strane le persone che sta iniziando a frequentare. Si è allontanata da tutti i suoi amici e ora si è avvicinata ad un gruppo di persone… diverse. Non ho una bella sensazione.

Questa sera il professore di storia inglese non ci sarà a causa di un impegno, questo mi dà il tempo di completare un nuovo saggio a cui sto lavorando per il corso di Poesia e una relazione per il corso di Letteratura Americana. Quest’anno il professore vuole concentrarsi sulla letteratura di Hemingway. Adesso stiamo affrontando “The old man and the sea”; ho finito da poco la lettura di questo racconto spettacolare. Quanto mi affascina la scrittura di questo autore, non vedo l’ora di approfondirlo.

Sono in biblioteca, ho bisogno di prendere in prestito alcuni libri per vari corsi. Sinceramente non me la sento di tornare a casa, con Lizzy e quelle persone… mi mettono i brividi. Non capisco, è una sensazione che ho provato non appena hanno messo piede nell’appartamento…

Appunto di Lizzy ritrovato in un quaderno universitario:

Sadness.
Hopes.
Will she trust me again,
After all the things I’ve done?
-E.

09/11/2022

Diario,

sono finalmente più libera dagli impegni universitari; saggi, scritti critici, composizioni. D’altro canto però, Lizzy mi preoccupa sempre di più e occupa quasi tutti i miei pensieri. Ultimamente non torna a casa a dormire, non risponde a chiamate o messaggi e quando, dopo giorni, torna, la trovo sempre più smagrita, stanca, con profonde occhiaie scure sotto gli occhi. Anche Jordan è sempre meno presente, raramente lo incontro in casa… è successo solo poche volte e l’ho trovato profondamente cambiato. Non fisicamente, non è un cambiamento apparente. È qualcosa nella sua persona che sembra diverso, forse nel suo sguardo, nei piccoli movimenti che inconsciamente una persona compie quando si trova in un luogo dove non vorrebbe essere.

Forse sto sognando tutto, forse nulla di ciò che ho scritto sopra è reale; sarò influenzata dalla preoccupazione che provo per Lizzy…

15/11/2022

Abbiamo iniziato Shakespeare al corso di Letteratura Inglese! I’m not gonna lie, è uno dei miei autori preferiti. Sono affascinata dalle tragedie; è un mondo meraviglioso, ricco di piccoli dettagli che rendono la scrittura di Shakespeare così incredibilmente significativa. Tra pochi giorni inizieremo Macbeth. Ricordo ancora la prima volta che approcciai quest’opera. Ero nella mia vecchia camera, tra le mani il volume delle tragedie shakespeariane preso dalla biblioteca di mio nonno. Pagina dopo pagina, la fermezza e la perseveranza di Lady Macbeth hanno catturato la mia attenzione sin dall’inizio. È una donna che non si è lasciata intimorire da nulla, né sovrastare dal predominio del potere maschile che al tempo regnava sovrano nella società. Queste sono, però, le stesse caratteristiche che l’hanno portata alla rovina. Lady Macbeth non sopportava il peso del delitto che lei e il marito avevano progettato e commesso, nei confronti di un uomo buono e gentile.

Lady Macbeth si toglie la vita, consumata dalla sua stessa sete di potere.

20/11/2022

Domenica, il mio giorno preferito della settimana. Ho finalmente recuperato qualche ora di sonno perso in questi giorni di lezioni interminabili.

Ieri sera ho deciso di parlare con Lizzy; la situazione stava diventando insostenibile. Ci siamo confrontate a lungo; mi ha spiegato che tutte quelle persone sono amici di Jordan, conosciuti in un nuovo centro per artisti che aveva scoperto qualche mese prima. Mi ha anche confidato che per “entrare” in questo gruppo bisogna affrontare una cerimonia di iniziazione. Ho sentito un brivido lungo tutta la schiena; il modo in cui ha pronunciato quelle parole, il suo sguardo che è improvvisamente diventato vuoto. È stato un solo attimo, poi ha continuato a parlarmi come se nulla fosse successo. È stata solo una mia percezione??

La detective Campbell chiuse il piccolo oggetto che da ore stava sfogliando, ripetutamente, in cerca di un indizio, una traccia qualsiasi che potesse condurla a comprendere l’accaduto. Questo diario dava molti spunti di riflessione alla giovane detective; Miriam ripensò al lungo interrogatorio di Jordan Foster, il fidanzato di Elizabeth Wright. Pensieri veloci scorrevano nella mente della detective. Tra le mani aveva uno dei casi più difficili a cui avesse mai lavorato; si sentiva pronta, eppure l’agitazione penetrava ogni suo muscolo. Ogni cellula del suo corpo fremeva. Voleva chiudere il caso; le famiglie delle vittime erano distrutte, le si stringeva il cuore ripensando alle lacrime dei genitori quando aveva comunicato loro la notizia; lei però doveva concentrarsi. Lo doveva a loro; lo doveva a quelle povere ragazze.

La scena del delitto era già stata controllata più e più volte, dalla stessa Miriam e da altri poliziotti dello Scotland Yard presenti durante le indagini. Secondo le ricostruzioni, non ancora ufficiali, della vicenda, il giovane si era introdotto nell’appartamento di sera con la scusa di recuperare dei vestiti dalla camera della fidanzata. Secondo i programmi, sarebbero dovuti andare a cena fuori e poi si sarebbero trovati con degli amici di lui, probabilmente gli stessi amici descritti nel diario di Beatrice.

Jordan affermava di aver trovato le due ragazze già morte quando era entrato in casa, usando le chiavi che Elizabeth gli aveva lasciato. Il ragazzo restava comunque il principale sospettato. Chiudendo il diario, Miriam si rese conto dell’ora. Le 2:20 del mattino. Non riuscì a dormire quella notte. Le stava sfuggendo qualcosa, ne era sicura; un pezzo di quell’infinito puzzle che era la verità le mancava, solo che non sapeva come e dove cercarlo.

L’indomani si recò sul luogo delle indagini. Prima di entrare nell’appartamento fece un respiro profondo. Entrando, notò subito la scientifica alle prese con il soggiorno, dov’erano stati ritrovate le due ragazze. Sentiva ancora quella sensazione della notte precedente; la verità stava lentamente scivolando via. Miriam decise di controllare nuovamente quel posto, come se non fosse mai entrata lì prima, come se fosse la prima volta. Doveva concentrarsi su ciò che non era ovvio o scontato.

Ripensando al diario di Beatrice, decise quasi involontariamente di dirigersi verso la libreria del salotto. “Una bella collezione” pensò subito, sfiorando con le mani guantate i dorsi dei libri perfettamente ordinati. L’occhio le cadde sulla collezione dei volumi di Shakespeare; la detective ricordò che Beatrice stava studiando Shakespeare all’Università in quel periodo. Si recò verso quella sezione e notò un buco tra il “King Lear” e “Anthony and Cleopatra”. Non era mai stata appassionata di letteratura, e di certo non poteva sapere quale opera shakespeariana mancasse alla collezione. Si sfilò velocemente il guanto e cercò su Google la lista completa delle opre dell’autore inglese. Controllò i libri uno ad uno, fino ad arrivare al volume mancante; Macbeth. Nella libreria non era presente. Poteva trovarsi solo in camera di Beatrice. L’istinto di Miriam le suggeriva che valeva la pena seguire questa pista, e così fece. Andò in camera della ragazza e lo vide, impilato sulla scrivania insieme ad un sottile libricino di Hemingway e altri volumi. Senza pensare, come se fosse guidata da una forza esterna, aprì il libro. Un piccolo pezzo di carta scivolò sul pavimento, silenzioso. Inizialmente non fu notato da Miriam e rimase lì, sul pavimento. Nel frattempo la detective, sfogliando le pagine e leggendo distrattamente le varie note scritte a mano ai margini, notò che una pagina era stata segnata.

SEYTON

The queen, my lord, is dead.

MACBETH

She should have died hereafter.
There would have been a time for such a word-
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow.
Creeps in this pretty pace from day to day
To the last syllable of recorded time;
and all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury
Signifying nothing.

Una lacrima scese lungo la guancia di Miriam. Quelle parole l’avevano colpita profondamente, ma la nota a margine che accompagnava quei versi le fece gelare il sangue:

My time is coming
sooner than I thought.

Questa era la stessa scrittura del diario, la scrittura di Beatrice. La ragazza era consapevole di essere in procinto di morire? Se sì, com’era possibile? Qualcuno l’aveva minacciata? Jordan? Uno dei suoi amici? Elizabeth aveva cercato di avvertirla in qualche modo?

Chiuse il libro e si appoggiò alla scrivania; mille ipotesi, domande, pensieri fluivano correndo veloci. Miriam chiuse gli occhi. Questo complicava tutto. Aprendo gli occhi notò il foglietto fino ad ora ignorato, che era rimasto sul pavimento della camera.

Quel pezzo di carta apparteneva alla pagina del diario, la carta era la stessa. La detective era sicura di questo perché aveva maneggiato parecchio l’oggetto negli ultimi tre giorni.

Traduzione italiana della nota ritrovata nella copia del Macbeth appartenuta a Beatrice:

Questa nota è per Jordan, Michael e Susanne.
L’atto è compiuto, lei è morta.
Avete scelto una vittima per me, io ho obbedito ai vostri ordini.
Vederla lì, sul pavimento del nostro salotto, senza vita (vita che io le ho tolto!) mi ha destata dal sonno ipnotico in cui ero entrata.
La cerimonia che tanto bramavate è stata realizzata;
ma lei era mia amica.
Non posso vivere sapendo quello che ho fatto, quello che ho fatto per te, Jordan. Solo per te.
Addio,
Elizabeth.

*

Bibliografia:

William Shakespeare, Macbeth, Milano, Mondadori, 2021.

Wilfred Owen, Dulce et Decorum Est, https://www.raicultura.it/webdoc/grande-guerra/battaglia-somme/pdf/WilfredOwen.pdf

Haerēre

Guglielmo Ferroni rivisita la tendenza molieriana di rarefazione della trama di commedie, come Il Misantropo, in una pièce in cui verità e scherzo condividono labili confini, nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa breve pièce ho cercato di colorare di un tono teso e angosciante, attraverso un espediente semplice, una situazione frivola e priva di interesse e di profondità psicologica, facendo girare attorno al protagonista una schiera di maschere insipide e quasi irreali”.

*

Personaggi (in ordine di apparizione):

Una pecora in tassidermia

Elettra, cameriera e governante

Panfilo, giovane

Elvira, amante di Panfilo

Ettore, giovane, amico di Panfilo

Mercede, madre di Panfilo

Il Padrone, padre di Panfilo

Padre Evaristo, prete

Un cuoco

Interno di un salotto borghese parigino. Costumi e ambientazione in stile inizio Ottocento. Al centro della scena, un tavolo apparecchiato solo in parte. Dal soffitto pende, sopra il centro del tavolo, una pecora in tassidermia, grazie ad una corda che la tiene legata per una zampa posteriore, di modo che l’animale è in verticale e con il muso rivolto verso il pavimento; è libera di oscillare, ed è sospesa a circa un metro dal tavolo. Gli attori devono dare l’impressione di non accorgersi della presenza della pecora, né devono esserne turbati nel modo di recitare e negli spostamenti, salvo differenti indicazioni.

Sipario abbassato; inizia a suonare il I movimento della Sinfonia numero venticinque (K183) di Mozart. Il sipario si alza lentamente e due faretti posti al livello della scena, uno a destra e uno a sinistra, iniziano a lampeggiare ritmicamente. Dopo quaranta secondi o poco più si accendono le luci di scena e illuminano il palco. Dopo ancora qualche secondo, entra Elettra da destra, con in mano una pila di piatti; la musica continua ma a volume ridotto.

ELETTRA: Forza, non c’è un momento da perdere; il campanile ha da poco dato il suo rintocco, il sole schiarisce tutti gli angoli della stanza e il Padrone starà ormai rientrando… piatti, piatti, e i bicchieri, oh quante cose! C’è da sperare solo che quel ragazzaccio del cuoco non sia in ritardo nel preparare le pietanze, altrimenti chi lo sente, il Padrone? Io l’ho detto, fin dal primo momento, l’ho detto, io, che il ragazzo era un buono-a-nulla, ma chi la ascolta, Elettra? Ma io blatero, mentre il tempo scorre, e quanto scorre!

(La musica cresce di volume. Elettra inizia a mettere i piatti in tavola e ad apparecchiare con attenzione, mentre mormora tra sé e sé parole che non si sentono, e si muove veloce ma aggraziata; nel mentre, da sinistra entra, correndo delicatamente, Elvira, seguita da Panfilo. I due si rincorrono per qualche secondo senza parlare, solo ridacchiando ogni tanto. La musica si abbassa di volume e va a sfumare).

PANFILO: Elvira, smettila di farti rincorrere, aspettami! Ah, quant’è difficile il lavoro dell’amante, sottostare al padre e alla madre e perfino rincorrere l’amata come a una battuta di caccia… (Prende il braccio di Elvira, che si divincola ridendo e continua a farsi inseguire per gioco). Basta, rondine impazzita, fermati, fermati e fammi guardare quegli occhi che sembran mandarini… (Elvira esce da destra, Panfilo si abbandona con un sospiro su un divano che è in primo piano, sulla destra). Elettra, quanta grazia, quanta allegria oggi! Che quel nuovo cuoco ti abbia messo qualcosa di diverso dal solito, nel caffè?

ELETTRA (ironica): Quel cuoco non l’ha fatto e non me ne rammarico, signor Panfilo, visto che, come fin dall’inizio Elettra vi aveva fatto presente, egli combina solo guai. Non sono allegra, ma in ritardo! Piuttosto voi, la volete smettere di correre dietro a quella ragazza? Sono giorni che va avanti, e nel vostro viavai mi scombinate tutti i mobili e mi sporcate i pavimenti e…

PANFILO: Suvvia, non vi si può fare un appunto che subito vi mettete a punzecchiare!

ELETTRA: E sia, ma vedete di mettervi in ordine prima che il Padrone arrivi; sapete com’è quando…

PANFILO (stupito, guardando la pecora): E quella? Da dove spunta fuori?

(Pausa)

ELETTRA: Non capisco, signore.

PANFILO: Ma come non capite, Elettra! (Si alza di scatto e si muove verso il tavolo) Non state a prendermi in giro, o a far finta di nulla.

ELETTRA (verso il pubblico): Puah, prenderlo in giro… Davvero, signor Panfilo, io non capisco a cosa stiate facendo riferimento, e per di più sono troppo occupata per star dietro alle vostre sciocchezze.

PANFILO (indicando la pecora): Sciocchezze? E quella vi pare una sciocchezza?

(Elettra segue con lo sguardo la direzione verso cui il suo dito punta, guarda verso la pecora, poi guarda il pubblico, poi Panfilo)

ELETTRA: Lei sragiona e indica il nulla, signore. (Pausa) “A vous dire le vrai, les amants sont bien fous!”. Ora, se permettete, vado a prendere le posate per il pranzo… (Si allontana lentamente, guarda ancora una volta il giovane stranita e poi esce da destra; Panfilo, confuso, la guarda uscire e poi torna a guardare la pecora).

(Pausa)

PANFILO: Che sia… per caso… ma no, Panfilo, cosa vai a pensare! Chiaramente lo scherzo è ben riuscito. E che scherzo, davvero! Me la immagino per bene Elettra, o vai a sapere chi, girare tutte le botteghe della città per trovare questa… pecora! Certo mi rimane da capire perché, ma per il resto… ah, ma ecco che arriva Ettore.

(Entra Ettore, un giovane amico di Panfilo, ben vestito e baldanzoso)

ETTORE: Buongiorno, Panfilo. Deh, ma che pallido che siete oggi.

PANFILO: Su, Ettore, dimmi la verità, non mi si può gabbare a tal punto.

ETTORE: Non ti seguo.

PANFILO: C’è da dire, l’idea è originale, e mi chiedo cosa abbia spinto Elettra o te o vai a sapere chi a metter tanta cura nella preparazione dello scherzo, ve lo concedo… Ma ora basta e dammi una mano a tirarla giù, che quando arriverà mio padre non voglio che un oggetto di così cattivo gusto penda sopra la sua testa. (Pausa. Ettore guarda Panfilo non capendo) E va bene, stiamo al gioco. (Sospira) Ettore, buongiorno, per caso guardandovi intorno notate qualcosa di strano nella stanza, qualcosa che pende?

(Pausa. Ettore si guarda intorno)

ETTORE: Io davvero non… non capisco… cos’è questa cosa che pende? State parlando del lampadario per caso? Non sapevo lo disprezzaste a tal punto, e l’altro ieri quella giovane ragazza che avete preso con voi da poco è stata così tanto a lustrarlo, pendente per pendente; ma se davvero non lo sopportate…

PANFILO: Ettore! Basta! Ve l’ho detto, siete stati bravi e sebbene tu sia solo il secondo di oggi che sento recitare, perché sono convinto che Elettra o mia madre o… Ma non importa! Sì insomma state tutti facendo un’ottima prova da attori, ma basta, aiutami a tirarla giù o lo farò da solo.

(Pausa. Ettore guarda la stanza senza capire)

ETTORE: Panfilo, io non… Cosa volete tirare giù?

PANFILO (urlando): La pecora, Ettore! Questa maledetta pecora che vedi tu stesso, di fronte a te! PE-CO-RA.

(Pausa)

ETTORE: Amico mio, se state scherzando lo state facendo bene. E anzi, a dirvela tutta mi stavo quasi preoccupando! (Scoppia in una risata; poi si avvicina a Panfilo e gli dà una pacca sulla spalla) Suvvia, ora basta, ero passato per vedere come fosse la vostra salute e per sapere se foste infine giunto a una decisione sul matrimonio con Elvira, ma evidentemente (ridacchiando), evidentemente siete troppo impegnato con le vostre… pecore, o che so io! Beh, sempre meglio avere le pecore per la mente che le corna in testa… (ridendo) Vi saluto, Panfilo, e portate i miei saluti anche a vostro padre, mi è stato detto che sta arrivando; arrivederci a tra poco… (Esce da destra, sempre ridacchiando e ripetendo sotto voce “Le pecore… le pecore…”).

(Panfilo, immobile, guarda Ettore uscire. Pausa. Poi si gira verso il pubblico)

PANFILO: Sono… sono… (pausa) Sono tutti ammattiti, ecco cosa sono! Ma io dico, è mai possibile? Basta, questa scenata deve finire.

(Va verso il tavolo, guarda la pecora. Poi, sale in piedi su una sedia e si accinge a slegare il nodo che la tiene legata per la zampa. Entra Elettra, con le posate in mano)

ELETTRA: Panfilo, ma che state facendo! Su, forza, giù di lì. Sporcate la sedia con i vostri stivali, ma insomma! Che vi prende?

PANFILO: Elettra, devo ammetterlo, vi siete superata! Sì, è venuto veramente bene; è di buona fattura, e questa corda legata stretta stretta, e anche l’odore che emana, tutto davvero ben studiato, ma ora basta, la tiro giù.

ELETTRA: Ah, Panfilo, sempre a scherzare… ma che pallido che siete. Su, venite giù. (Inizia a mettere le posate di fianco a ciascun piatto)

PANFILO (a voce alta): No. Non scendo. Non finché non l’ho tirata giù e non mi raccontate il perché di tutta questa faccenda.

(Pausa)

ELETTRA: Ma cosa, cosa volete tirare giù? Smettetela di far finta di essere impazzito, sapete che su queste cose non si scherza! Ricordo di un mio zio, tempo fa, che…

PANFILO: Basta! Silenzio, taci! Tirerò giù questa pecora e tu la porterai via! Non sarò il padrone, o meglio non ancora, ma non mi si può mancare di rispetto così, anche se solamente per scherzare!

(Pausa. Elettra fissa Panfilo. Silenzio prolungato)

ELETTRA: Cheeeee? Una pecora? (Si mette a ridere) Questa vi è davvero uscita bene, signore! Vi va bene che oggi la giornata è bella e che sono di buon umore, altrimenti… cavolo, mi stavate spaventando! (Ridacchia ancora) Ora basta però, scendete da lì che devo…

(Panfilo salta dalla sedia al tavolo e sbatte il piede con prepotenza su di esso)

PANFILO (urlando): Smettetela! Come potete ancora fingere, schiava! Come osate appendere un animale morto sopra le teste di coloro che vi danno da vivere! Che il diavolo ti prenda, maledetta!

(Mentre urla, entra Mercede da destra. Donna sulla quarantina, vestita elegante)

MERCEDE: Allora, che cos’è tutto questo urlare, cosa accade? (Vede Panfilo in piedi sul tavolo) Figlio mio, che ci fai sul tavolo? Perché sbraiti tanto? E tu, Elettra, non gli dici niente?

(Elettra guarda un po’ impaurita Panfilo, che la sta fissando. Dopo una breve pausa, si sposta indietro e verso Mercede)

ELETTRA: Signora, stavo giusto per chiamarvi; già ho cercato, di farlo ragionare, ma egli per tutta risposta mi ingiuria e mi urla contro, al punto che sono indecisa tra la rabbia o la paura, perché è evidente che sia impazzito.

(Pausa. Mercede si avvicina sospettosa verso Panfilo, ed entrambi si fissano)

MERCEDE (lentamente): Ci guardiamo come fiere sospettose, figlio mio; perché mai?

PANFILO (calmo ma teso al tempo stesso): Non lo so, madre, ditemelo voi, ditemelo proprio voi che tirate in ballo queste metafore e parlate di fiere. Non ditemi, ve ne prego, che anche voi avete accettato di far parte di questo insulso scherzo che mi sta snervando. E non ditemi che voi stessa, padrona di casa, moglie di mio padre, avete accettato che questa carcassa pesasse sulla sua, sulla nostra testa, senza pensare alle conseguenze di un gesto tale!

(Pausa)

MERCEDE: Figlio… (pausa). Quale scherzo, quale carcassa?

PANFILO (urlando): Ci risiamo! Ancora! (Batte il piede sul tavolo come prima) Anche tu, Mercede, madre mia! Do i numeri, divento cieco per la rabbia… Com’è possibile che siate tutti così seri! Così convincenti! E per quale motivo mi arrecate tanto dolore… Ah, ma ecco chi mi salverà! (Indica verso la sinistra) Su, vieni Elvira, e facciamola finita con questa farsa, con questa commedia.

(Entra Elvira con le mani in grembo, a capo un po’ chino, evidentemente intimorita dalle grida di Panfilo)

ELVIRA: Eccomi, Panfilo, ho sentito da sopra tutto questo baccano e… Elettra, Mercede, che vi accade? Vi vedo così turbate… e anche tu, Panfilo, ma cosa…

(Viene interrotta da Panfilo che salta giù dal tavolo e corre verso di lei. Elvira si ritrae un po’ impaurita. Panfilo la raggiunge e le prende le mani)

PANFILO: Elvira, Elvira, io… come posso… (si guarda intorno, guarda la pecora, poi di nuovo Elvira negli occhi) Almeno tu, finiamola. Dillo. Dì ciò che vedi nella stanza, sopra il tavolo, per esattezza, su, basta una singola parola.

(Pausa, Elvira si guarda intorno)

ELVIRA: Panfilo, io non ti seguo.

PANFILO (urlando, e spaventando per questo Elvira): Non è possibile. Non è possibile, dovete spiegarvi, dovete spiegarmi, io non ce la faccio più, Elvira! Smettetela! (Pausa. Poi con tono supplichevole) Elvira, rondine, te ne prego… fatela finita, fate finire tutto. Se è vero che mi amate, se tutte quelle risate e quelle lacrime non sono state finte promesse, dite ciò che vedete. Ditemi che quella pecora è uno scherzo, e che voi ed Elettra siete andate da un… venditore di pecore, o che so io… (Pausa. Elvira tace) Dunque…

ELVIRA: Panfilo, oggi è la prima volta che vi vedo in questo stato. Avete la febbre, delirate? Quale pecora, quale venditore… Elettra, ne sapete qualcosa? Io penso che la stanchezza, magari… Ma non spiegherebbe delle allucinazioni tali, e poi dove sarebbe, questa pecora? Starebbe ruminando liberamente, magari mangiando il tappeto che è lì vicino al tavolo… ah!

(Mentre parla, cresce la rabbia in Panfilo. Alla fine, è sul punto di tirarle uno schiaffo, ha già alzato il braccio per colpirla. Elvira, spaventata, si ritrae; Panfilo rimane qualche secondo fermo con il braccio alzato, poi lo abbassa e china il capo. Pausa. Dopo qualche secondo, sempre a capo chino, si dirige verso il divano e vi ci siede sopra, con la testa tra le mani. Elvira, Elettra e Mercede si avvicinano e iniziano a borbottare parole incomprensibili. Dopo qualche secondo, si sentono le voci di due uomini che discorrono e che si fanno sempre più vicine. Entrano da destra, da dietro al divano, il Padrone e Padre Evaristo, un prete)

PADRONE: Ed è per questo, padre, che decisi di ringraziare in tal modo il curato, sapete…

PADRE EVARISTO: Certo, signore.

PADRONE: D’altronde, mi sarebbe altrimenti sembrato di mancar di rispetto… Ah, buongiorno a tutti, qui riuniti! Mi sembra manchi solo Ettore, ma possiamo già accomodarci a tavola, e perdonatemi se senza preavviso Padre Evaristo si unirà al nostro pranzo, ma si deve discutere di certe cose… Ma che accade, vi vedo turbati! Donne, perché state là in disparte… (pausa, poi nota Panfilo sul divano) E Panfilo, figlio mio, che vi succede? State per caso male?

ELETTRA: Signore, vedete, è già da prima che…

PANFILO (urlando, sempre con la testa tra le mani): Taci! (Pausa, poi rialza la testa e guarda suo padre e padre Evaristo) Buongiorno signori, perdonatemi, è da tutta la mattina che sono perseguitato dal mal di testa.

PADRE EVARISTO: Si vede, figliuolo! Siete così pallido, quasi candido…

PANFILO: Sarà la primavera che giunge, padre, non c’è da preoccuparsi. Ma prego, accomodatevi a tavola, arrivo in un attimo.

(Il Padrone e Padre Evaristo si guardano velocemente, poi guardano le donne. Nel mentre, da sinistra entra Ettore)

PADRONE: Ah, Ettore, aspettavamo solo voi!

ETTORE: Eccomi, buongiorno a tutti, ero giusto uscito per delle commissioni.

PADRONE: Bene, allora direi di sederci, signori.

(Il Padrone, Padre Evaristo, Ettore, Mercede ed Elvira si muovono verso il tavolo, mentre Elettra si affretta a mettere in ordine le sedie, i piatti, i bicchieri, per poi uscire di scena dopo aver lanciato un’ultima occhiata a Panfilo. Panfilo rimane ancora sul divano, nuovamente con la testa tra le mani. I convitati si siedono in modo che tutti i posti sono occupati tranne quello centrale, ossia quello che dà la fronte al pubblico, ed è in linea con la pecora. I convitati iniziano a parlare tra loro sottovoce; le donne in modo preoccupato e guardando Panfilo, gli uomini in modo allegro).

ETTORE: Panfilo, allora, che fate? Vi decidete a venire a sedervi con noi, o ancora pensate allo scherzo di poco prima, con cui mi avete burlato?

PADRONE: A cosa vi riferite, Ettore?

ETTORE: Oh beh, vedete, signore, vostro figlio stamattina mi ha quasi fatto credere che solo lui fosse in grado di vedere, sopra il tavolo, una pecora, come se fosse attaccata al soffitto! Va detto, la creatività non gli manca…

PADRONE: Cosa? Una pecora? (Guarda la pecora per qualche istante, poi Ettore, poi Padre Evaristo, seduti di fianco a lui, e poi si rivolge al pubblico) Che assurdità!

PANFILO (si alza dal divano, guarda il pubblico; tono grave): Che assurdità… Mansueto e pacifico, oggi sopporto le offese… eppure si crea il vuoto, intorno a me, è il fuoco che mi isola nel campo… quella sensazione…

(Si dirige verso il tavolo. Arrivato, guarda la pecora, dando le spalle al pubblico, e le dà una spinta, di modo che essa inizi ad oscillare. Solleva le spalle e va a sedersi al posto che è rimasto libero. Da destra entra un cuoco, portando un vassoio con sopra della carne, che pone al centro del tavolo, sotto il muso della pecora; poi esce)

PADRONE: Signori, mi avvantaggerei della presenza di padre Evaristo per recitare una breve preghiera. Uniamo le mani.

(I convitati uniscono le mani, e chinano il capo, tutti tranne Panfilo, che fissa la pecora)

PADRE EVARISTO (con tono sommesso e monotono): “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis…”

TUTTI, tranne PANFILO: “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem”.

(Si fermano. Silenzio. Panfilo guarda il pubblico)

PANFILO: Occhi come mandarini. (Pausa).

Quella sensazione di

giorni verdi

e acerbi come cachi

e il rumore del

crollo delle certezze

arbusti a sud, fichi spaccati

e il prurito

perché abbiamo sudato.

E pace sia.

Riprende, a volume basso, la sinfonia di Mozart dell’inizio. Le luci vanno a sfumare, fino a spegnersi. Dopo che si sono spente del tutto, i due faretti dell’inizio pulsano ritmicamente per qualche secondo. La musica finisce, sipario.

The right choice

Elisa Cannizzaro, in questa sua composizione, riscrive in una diversa prospettiva il tema del rapporto tra essere umano e la sua coscienza nel male, nell’ottica del corso di letterature comparate, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro, della Prof.ssa Chiara Lombardi.

“In questa mia riscrittura ho tentato di descrivere la mia personale opinione sul rapporto che ognuno di noi ha con la propria coscienza nel quotidiano e dei modi che la mente trova per aggirare il male fingendo che non ci abbia mai toccati. In questa prospettiva, l’uomo è alle prese con diverse scelte di cui solo una sembra essere quella giusta; la scelta che illude la coscienza di essere ancora pura.”

*

L’avrò vista mille volte questa strada, e mille altre volte la vedrò. Al mattino, dal vecchio condominio grigio, si costeggia il fiumiciattolo, si gira all’angolo del parco e poi dritto fino alla vecchia fabbrica. E poi la sera, lo stesso percorso ma al rovescio. Ho vissuto ogni stagione e ogni orario di questi mille metri; hanno ascoltato le gioie e le lamentele delle mie giornate e mi hanno permesso di sbirciare nelle vite di chi, come me, li ha percorsi anche solo per qualche minuto.

Oggi però camminare è più difficile, il candore della neve avvolge ogni angolo e mi sento quasi in colpa a sporcare questo manto con le orme nere lasciate dai miei scarponi. Un passo, uno subito dopo e ancora un altro. Al quindicesimo passo, quello che segna la svolta all’angolo del parco per intenderci, mi accorgo che il bianco del vialetto viene spezzato da un bagliore violastro. Una banconota da cinquecento, è il mio giorno fortunato!

Sicuramente qualcuno ai piani alti ha ascoltato le mie lamentele e questo era il segno che aspettavo, le cose andranno meglio. Guardando più attentamente però, mi accorgo di alcune orme vicino ai soldi. Sono leggermente più piccole delle mie e hanno una forma lunga ed elegante. Segnano un percorso davanti a me e portano alla figura di un uomo, ha una bella pelliccia e le scarpe, proprio come le immaginavo, lucide ed eleganti. Devono essere caduti a lui. Ma niente succede per caso giusto ? Dev’essere destino, questi soldi spettano a me. Sicuramente ne ho più bisogno di lui.

Mi stendo sul letto contento, la giornata è andata molto bene. Il ristorante in fondo alla strada era davvero buono come credevo, certo normalmente non avrei mai pagato così tanto per una bistecca, ma oggi non è un giorno qualunque. D’ora in poi andrà meglio. Posso solo immaginare quanti soldi guadagnerò, e quante cose potrò permettermi. Una bistecca in un ristorante in fondo è una cosa da nulla. Comprerò una bella macchina, una televisione che non si blocca quando cambio canale e una pelliccia come quella che indossava quell’uomo. Visto ? Finalmente il destino mi sta ripagando per i miei sforzi.

E se qualcuno mi avesse visto prenderli? Impossibile, non c’era nessuno con me. Se l’uomo se ne fosse accorto? Si, forse mi ha guardato quando gli sono passato affianco. E se fosse stata tutta una prova? Ho rovinato la mia reputazione. Sicuramente quell’uomo era molto potente, almeno a giudicare dai suoi vestiti. Avrà chiamato la polizia? Devo scappare? Non possono arrestarmi, non li ho mica rubati questi soldi. Almeno credo di no. Questa è la voce della mia vicina? Mi avrà visto tornare a casa con i soldi? Devo nasconderli sotto al cuscino, anzi no, è il primo posto dove guarderebbero. Li nascondo sotto il tappeto, in bagno. Ben fatto, non possono più trovarli ora.

Stanno bussando ala porta, le voci fuori si sono moltiplicate. Il fiato si fa sempre più corto nel tragitto, improvvisamente dieci volte più lungo, verso l’uscio di casa.  

Forse non ho davvero bisogno di questi soldi, ho già una casa dove tornare, buon cibo da mettere in tavola ogni giorno, anche se non in misura abbondante, e un lavoro che mi piace. La neve che blocca la banconota dall’essere trascinata via dal vento ora sembra più grigia, come se il pensiero egoistico di potermela portare a casa avesse in qualche modo sporcato ciò che mi circonda. Ora che guardo meglio, la neve attorno a me sembra essere qui da giorni, ha quel colore spento a tratti più scuro e simile alla fuliggine ed è ricoperta di orme che tracciano i tragitti più curiosi e comuni. Non mi sorprende, l’ultima volta che ha nevicato è stato tempo fa. La figura elegante si sta allontanando, fino a scomparire dal mio campo visivo. La scelta migliore, quella che farebbe ogni uomo onesto, è quella di lasciare questi soldi a qualcuno che ne ha più bisogno. Questo si che è un pensiero umile. Ma dopo pochi passi mi assale il dubbio, e se li prendesse qualcuno che non li merita? Devo nascondermi e assicurarmi che sia qualcuno di davvero bisognoso a prenderli.

Certo, è la cosa migliore da fare. Così mi faccio spazio dietro ad uno degli alberi del parco, in attesa che qualcuno noti il bagliore viola in mezzo al grigio. Non passa molto prima che questo accada; un giovane sulla trentina li raccoglie con cura, incredulo di fronte alla cifra stampata sulla banconota. Da una rapida analisi sembra essere degno di prenderli, i lunghi capelli neri sono sciolti e in disordine, è visibile anche da lontano che non se ne prende cura. I vestiti sono troppo leggeri per il mese in cui siamo, porta semplicemente un cappellino trasandato, una felpa della stessa tonalità dei suoi capelli, di qualche taglia più piccola e dei pantaloni sportivi. Lui sta peggio di me, merita di prendere questi soldi. Probabilmente è un senza tetto e questi soldi gli garantiranno un pasto.

Sono un vero eroe, già immagino la faccia dei miei colleghi di lavoro e le lodi che mi faranno quando sapranno che amico magnanimo hanno. Accendere la t.v e guardare una parte del mondo seduto sul mio letto è diventata un’abitudine. Ogni giorno alla stessa ora. Il programma che preferisco è iniziato da poco quando la mia attenzione viene attirata da un rumore di sirene fuori, sembra essere un’ambulanza. Mi affaccio alla finestra e sulla barella riesco a scorgere un uomo sulla trentina, abiti scuri e decisamente troppo leggeri per essere a dicembre. I capelli lunghi gli coprono il viso. Riesco ad udire le voci fuori come se fossero nella mia stanza; il ragazzo ha fatto uso di stupefacenti, ne sono stati trovati in grande quantità dentro il suo appartamento. Rabbrividisco al pensiero, quello non era un senzatetto ! Non riceverò nessuna gratificazione per questo, anzi mi incolperanno di avergli dato i mezzi per comprare quella robaccia!

Non posso capire se una persona è meritevole o meno di prendere questi soldi solo dal modo in cui è vestita, di sicuro cadrei in errore e finirei per non combinare nulla di buono. La scelta più onesta è quella di restituire i soldi al proprietario. Raccolgo la banconota, ormai quasi sommersa dal fango. Non ricordo quando ha iniziato a piovere, forse ancor prima di finire il mio turno di lavoro. O forse ancor prima di uscire di casa. Tutto attorno a me è di un colore scuro, più vicino al nero che al marrone. Decido quindi di fare uno scatto verso l’uomo elegante e, rischiando di scivolare in quella melma castana, lo raggiungo. L’uomo non sembra sorpreso ne turbato, da vicino ha l’aria ancora più fine. Non sembra neanche notare l’insistenza della pioggia. I capelli biondi sono perfettamente sistemati all’indietro e le lievi rughe sotto gli occhi gli danno un tono importante. Mi sta rivolgendo un sorriso gentile. Questa è sicuramente la scelta giusta, quella più onesta. Ho fatto male a giudicarlo, è una brava persona. Il verdetto viene confermato quando, dopo brevi parole di ringraziamento, si offre di pagarmi una cena, per ricompensare la mia onestà. Accetto subito e scegliamo quel buon ristorante in fondo alla strada. Non potrei essere più soddisfatto, ho fatto la scelta giusta, sono stato premiato con una cena deliziosa e non vedo l’ora di vedere la faccia die miei colleghi quando racconterò loro di aver conosciuto un importante CEO. L’abitudine mi porta ad accendere la televisione e godermi, finalmente, il mio programma. Purtroppo il momento non dura molto, un servizio speciale lo interrompe riportando le imprese di un grande gruppo di poliziotti della divisione antidroga che, dopo mesi di interminabili indagini, hanno finalmente arrestato uno dei capibanda. Proprio nel mio quartiere ! Stava creando problemi da molto tempo e i notiziari non facevano altro che parlarne, sono contento che l’abbiano preso. Ma il sollievo sollievo per la notizia si sostituisce all’orrore non appena mostrano la foto di quell’uomo tanto elegante e gentile. Lo stesso con cui poche ore fa ho cenato e a cui ho raccontato di me. Cosa ho fatto? Ora indagheranno anche su di me? Verranno qui? O peggio, i suoi sottoposti verrano a cercarmi pensando che sia colpa mia se il loro capo è dietro le sbarre? Ho aiutato un criminale.

Il fango ormai mi ricopre tutte le scarpe, dovrò faticare per lavarle. La banconota sta li, ormai quasi invisibile sotto quello strato scuro e scivoloso.  Sembra guardarmi divertita, come se sapesse di avermi posto un dilemma a cui non esiste soluzione. Le ho provate tutte e questa pioggia incessante sembra entrarmi nella testa e confondere i pensieri. Possibile che non esista una scelta giusta?

Il terreno sembra quasi sprofondare sotto il mio peso, ovunque poso lo sguardo vedo solo quest’acqua scura e torbida. Non c’è più nulla di bello da vedere qui, questo colore mi disgusta.

Se solo qualcuno colorasse il fango di bianco, così assomiglierebbe alla neve e allora si che il paesaggio sarebbe di nuovo bello da guardare. Riesco quasi a sentirla mentre si prende gioco di me ma poi un pensiero candido si fa spazio tra le idee. Non devo essere io a decidere, basta nascondere la banconota. Nessuno saprà che l’ho trovata e questo dilemma non mi perseguiterà più. Non sarà più affar mio! Problema risolto! Eccola la scelta giusta.

Nascondere i soldi sotto la neve è facile, un gesto che impiega solo pochi secondi ad essere compiuto ma che mi ha liberato per tutta la vita.

*

Ispirazioni testuali e fonti:

L’idea per la riscrittura mi è venuta ricordando una leggenda popolare giapponese, la leggenda di Kuchisake-onna (donna dalla bocca spaccata). Questa è uno Yokai, termine con cui i giapponesi chiamano i mostri tipici della cultura popolare.
Secondo la versione moderna del racconto, centinaia di anni fa viveva una giovane concubina di un samurai, molto bella e vanitosa che tradì il marito. Questi, estremamente geloso, decise di punirla con la propria katana (*spada giapponese corrispondente ad una sciabola ma con un impugnatura a due mani), aprendole la bocca da orecchio a orecchio. Da allora si dice che iniziarono ad esserci avvistamenti di una donna che vagava nelle notti di nebbia con il volto coperto da una mascherina. La leggenda divenne molto popolare nel 1978, anno in cui iniziarono a girare voci incontrollate su una donna, kuchisake, che si aggirava per i sobborghi della città. Pare che essa fermasse i passanti, per lo più giovani uomini, chiedendo alla sfortunata vittima “Pensi che io sia bella?”. Se la risposta era negativa, l’uomo veniva ucciso con delle forbici; se le rispondeva “si”, la donna si toglieva la mascherina chiedendo “e adesso?”. Se la vittima persisteva nella sua risposta positiva la donna, sentendosi presa in giro, gli sfregiava il volto in modo che apparisse come il suo. Se, invece, la risposta alla seconda domanda era negativa, il malcapitato veniva tagliato in due parti uguali. Da alcune versioni pare che l’unico modo che aveva la vittima per sfuggire alla morte fosse quella di confonderla con una risposta vaga e scappare. 
Sembra un dilemma senza via di uscita.
In realtà secondo una delle interpretazioni della leggenda, la donna compie questi gesti perché l’interlocutore risponde alle domande puramente secondo il proprio interesse, quello di non essere ferito, e non con la verità. Per questo Kuchisake decide di punirlo.
Allo stesso modo, seppur in un contesto differente,  il protagonista della mia riscrittura agisce solo secondo il proprio interesse; non è cattivo e, anzi, incarna le qualità dell’uomo medio. Tuttavia, ogni soluzione da lui trovata per usare quei soldi, implica il vantarsi del gesto con i suoi conoscenti. Questo perché l’uomo agisce principalmente per interessi. La sua coscienza però ne è consapevole e alla fine tutti gli scenari si concludono in modo negativo.
L’ultima scelta è quella prediletta, a mio parere, dall’essere umano; nascondere il problema e andare avanti. Si potrebbero fare centinaia di esempi banali e non su questo tema, evitare di prendersi la responsabilità di una scelta sembra essere per l’uomo l’unico modo per auto convincersi di avere ancora la coscienza pulita.
Lo stile è ispirato a quello che Edgar Allan Poe utilizza per i suoi racconti brevi.

Fil rouge: il filo rosso

Letizia Baldioli, prendendo ispirazione dalla storia di John Nash raccontata nel film A beautiful Mind, dà vita, partendo da ritagli di quotidiani e riviste, ad un evidence board proprio come quelli creati dagli investigatori nei vecchi film polizieschi per scovare il colpevole nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Delitto, caso, premeditazione, prove, povertà, sofferenza, sogni ed incubi, fede, ideale. Nove tappe, nove parole chiave. Il lettore di Delitto e castigo si trasforma in un vero viaggiatore pronto a seguire il percorso indicato per conoscere i segreti celati dietro l’omicidio delle due donne”.

*

La mia idea per il lavoro di riscrittura è stata quella di realizzare un mood board / mappa concettuale che riprendesse tematiche, parole chiavi e immagini caratteristiche dell’opera Delitto e Castigo dell’autore russo Dostoevskij. Utilizzando ritagli di riviste e di quotidiani, ho realizzato una mappa o più propriamente un percorso come quelli creati per scovare il colpevole dagli investigatori nei vecchi film polizieschi. Ho deciso di impostare il lavoro in questo modo dopo aver rivisto uno dei miei film preferiti: A beautiful mind di Ron Howard. John Nash, talentuoso matematico interpretato da Russell Crowe, una volta contattato dal dipartimento di difesa degli Stati Uniti, viene incaricato di trovare il luogo in cui i Russi avrebbero dovuto innescare una bomba atomica contenuta in uno zaino. John Nash, dopo essere stato informato che i nemici avrebbero comunicato tra loro per mezzo di messaggi in codice inseriti in quotidiani e riviste del tempo, comincia ad analizzarle minuziosamente, a ritagliarle e ad appenderle alle pareti della sua stanza, creando un vero e proprio groviglio di informazioni, una ragnatela, una mappa di codici da decifrare per poi arrivare alla soluzione. La sua vita viene sconvolta ancora una volta quando scopre che la cospirazione, in verità, non esisteva, ma era unicamente frutto della sua mente, colpita da una grave forma di schizofrenia. Il mio mood board/mappa concettuale si trasforma allora in una “crazy wall” o in un “evidence board” ispirato a quello di John Nash. Il filo rosso che ho voluto inserire rappresenta il fil rouge del racconto, che collega concetti importanti tra loro, intorno ai quali si sviluppa l’opera dostoevskiana. Il nostro percorso inizia dal centro, dalla parola delitto. Come si può inferire dal titolo, l’opera si sviluppa attorno all’omicidio della vecchia usuraia, Alëna Ivànovna e della dolce sorella Lizaveta, per mano del giovane Rodiòn Romànovič Raskol’nikov. Se l’uccisione della prima venne premeditata per mesi, l’omicidio di Lizaveta avvenne per puro caso. La donna infatti non doveva essere uccisa, ma irruppe nell’abitazione della sorella proprio nel momento in cui Raskol’nikov si trovava ancora lì con la scure insanguinata tra le mani e la vecchia stesa a terra in una pozza di sangue.

Seconda tappa del nostro viaggio, il caso è un importante elemento tragico che, nell’opera, sembra proprio assecondare la buona riuscita del delitto. Raskol’nikov però decide di sfidarlo. Sfida il caso per tutto il tempo della narrazione come se volesse portarlo contro di sé. Il giovane concepisce le fantasie del delitto, frutto di una creatività negativa nata dal sonno della ragione che, come dice Goya, genera mostri, tra le quattro mura della sua stanza, facendo di sé stesso un eroe negativo. Un buco, così viene descritto il luogo in cui abitava, talmente piccolo, soffocante e claustrofobico da essere paragonato ad una vera e propria bara. Raskol’nikov ormai aveva deciso di sfidare i limiti dell’uomo, togliendo la vita e comportandosi come Dio. Premeditazione, ecco la nostra terza tappa. Proprio qui ho decido di inserire un’immagine che, in questo caso, diventa fortemente simbolica. L’opera in questione è l’Albero rosso di Mondrian. Tra il 1909 e il 1912, il pittore lavorò sul tema dell’albero, alla ricerca di nuove forme e nuovi accostamenti cromatici, giocando sui contrasti dei colori caldi e freddi. L’albero rosso creato da Mondrian diventa nel mio “evidence board” l’albero rosso sangue, simbolo del male e della corruzione. Raskol’nikov decise infatti di macchiare le sue mani e di sfidare i limiti, di essere un uomo straordinario e libero, usurpando il potere divino. Decide di uccidere per un motivo ben preciso e mettere fine all’esistenza.

Ed eccoci alla quarta tappa. L’omicidio era ormai compiuto, il colpevole era riuscito a fuggire dall’abitazione della donna senza farsi scovare, ma ora era tempo di fare i conti con le proprie azioni e di capire come e se dovesse distruggere le prove. Ogni assassino ha le sue tracce da nascondere, ma l’atteggiamento di Raskol’nikov nei loro confronti è senz’altro ambivalente. Decide in un primo momento di sfidare la sorte e presentarsi in commissariato con il calzino ancora sporco di sangue, dimostrandosi coraggioso, sicuro di sé; dall’altro diventa ossessionato dal fatto che qualcuno avesse potuto trovare una prova della sua colpevolezza, trasformandosi così in un uomo paranoico. Il voler continuamente nascondere e sviare le indagini e la sua volontà di far emergere le prove del delitto ci dice molto sul personaggio di Raskol’nikov, tormentato, secondo una mia interpretazione, sia da un costante senso di colpa, che lo porterà poi alla confessione, sia dalla paura, sensazione inizialmente estranea al protagonista ma che ora lo stava perseguitando.

Giunti alla quinta tappa ecco che ci troviamo di fronte alla parola povertà. Il ragazzo pietroburghese non aveva denaro, era povero. Tutto l’ambiente di Delitto e castigo è legato a questa condizione che diventa la vera cornice dell’opera. Essa è comune a molti personaggi come lo stesso Mermeladov e la sua famiglia. Raskol’nikov provava vergogna e fastidio per il fatto di essere povero. Analizzandolo attentamente, capiamo che in lui qualcosa non andava. Era un ipocondriaco, un malinconico. Ma con la sua condizione economica ci aveva fatto l’abitudine. Semplicemente non gli interessa più. Ed ecco che la domanda giunge spontanea. Uccide davvero solo per denaro? Qual è il vero motivo del delitto? Bisogna solo seguire il percorso.

È qui che subentra la sofferenza, una caratteristica importante nell’opera dell’autore russo. Raskol’nikov soffre proprio come Sonja. Ragazza credente e pura d’animo, è lei a rappresentare una figura tipica della tradizione russa ovvero quella del “jurodivyj”, personaggio che arriva al sacrificio totale di sé per amore del prossimo. Sonja è così. Si sacrifica per la sua famiglia tanto da prostituirsi per racimolare del denaro per i suoi fratelli. Lei e il giovane di Pietroburgo sono uniti nella sofferenza, nel dolore e nella corruzione, del delitto per lui, del mestiere da prostituta per lei. In questa sesta tappa ho deciso di riprendere e utilizzare immagini di attualità proprio per rappresentare l’idea di dolore e tragedia. Gli incendi, i disboscamenti, lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento delle acque sono simbolo della sofferenza del nostro pianeta e di conseguenza di quella di tutti noi. Raskol’nikov, capendo di essere un corrotto, soffre. Era diventato e si era comportato proprio come l’uomo che bastonava il povero cavallino nel sogno che aveva fatto.

Sogni e incubi rappresentano la settima tappa del viaggio. Non possiamo parlare di sogni senza parlare di Sigmund Freud. Secondo il padre della psicoanalisi, essi sono il modo in cui il nostro inconscio comunica con noi, mostrandoci i nostri desideri più segreti e ciò che non riusciamo ad accettare. E proprio perché non riusciamo ad accettarle, la nostra mente le camuffa, le censura, e alla fine crea storie e immagini insensate. Il sogno in questo caso rappresenta la proiezione della coscienza di Raskol’nikov, una coscienza che nasce in negativo con il delitto. Sono due le opere d’arte che ho voluto inserire nel mio “crazy wall” a proposito dei sogni, o meglio dire, incubi.  La prima a sinistra di Pablo Picasso, il Ratto delle sabine del 1962 e la seconda di Franz Marc, intitolata I piccoli cavalli gialli, realizzata nel 1912. Entrambe riprendono la figura del cavallo, sognata da Raskol’nikov prima che mettesse in atto il suo piano diabolico. Molto più rappresentativa è sicuramente quella di Picasso. I colori, o sarebbe meglio dire i non colori, il bianco e il nero, trasmettono paura. Non è il pugnale, non è la criniera che ondeggia come lingue di fuoco a incutere terrore la ma testa dello stesso cavallo che nel sogno del giovane rappresentava la vecchia usuraia, o forse, lo stesso Raskol’nikov.

Ma ecco che grazie a quella sofferenza il giovane raggiunge la salvezza, una salvezza interiore. La verità viene sempre a galla. Il giovane decide finalmente di confessare il suo delitto alla ragazza. Proprio grazie a lei e alla lettura del vangelo Raskol’nikov capisce che un Dio, non solo fatto di castigo ma, anche di amore e perdono esisteva davvero. Ecco allora la nostra penultima tappa: la fede. Ho voluto in questo caso far sì che la creazione di Adamo di Michelangelo rappresentasse, in modo simbolico, il momento in cui il ragazzo decise finalmente di accogliere un nuovo Dio nella sua vita.

Il nostro viaggio che si conclude con la parola ideale. Ecco svelato il mistero. Raskol’nikov uccise la vecchia usuraia unicamente per un suo ideale. Era convinto, come aveva scritto nel suo articolo, che al mondo esistessero due tipologie di uomini: gli uomini ordinari e quelli straordinari. I primi sottoposti e leggi divine e civili, vivono come schiavi ma pur sempre felici, i secondi regole e limiti non ne hanno. La loro morale viene abbattuta dalla coscienza. Sono uomini legittimati a uccidere nel presente per la creazione di un futuro migliore. Napoleone, secondo Raskol’nikov era uno di questi. Emblema del super uomo, decide di uccidere solo per affermare la sua superiorità e le sue idee. Si comporta come Dio, non è schiavo ed è felice. Ma Raskol’nikov non è Napoleone. Non trova felicità nel delitto, anzi. Il suo ideale crolla appena compiuto il fatto ed ecco che inizia il suo castigo. Tutto è nelle mani dell’uomo secondo il nostro protagonista, un pensiero apparentemente rassicurante ma angoscioso. La libertà non è soltanto qualcosa di positivo, non essendoci limiti il male è dietro l’angolo.

La speranza dell’amore

Alice Nesta, in questo suo secondo racconto breve, ha voluto dare descrivere un momento di gioia e di speranza contrastando l’atmosfera di soffocamento e chiusura del romanzo di Dostoeskij Delitto e castigo, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato.”

*

Razumichin ogni tanto si fermava a riflettere su quanto fosse cambiata la sua vita nell’ultimo anno.

Sapeva perfettamente che la casualità e il destino erano due concetti che si sfioravano, forse volevano dire la stessa cosa, ma non aveva mai capito esattamente secondo quale criterio si insinuassero nella vita degli uomini e ne modificassero le sorti. C’erano stati momenti in cui l’idea che il futuro fosse solo un’insieme di cose indefinite, che l’essere umano non poteva controllare, gli aveva messo paura e si era chiesto se forse l’idea di destino e casualità non fossero state inventate dall’uomo stesso per giustificare le cose che succedevano al di fuori del suo controllo.

Non sapeva quale legge governasse l’universo, ma di una cosa era sempre stato certo: dalla prima volta che aveva visto la sua futura moglie si era irrevocabilmente innamorato di lei.

Ricordava il giorno in cui era entrato nell’appartamento dell’amico Raskolnikov e l’aveva vista seduta lì, impaurita e incerta su come comportarsi mentre il fratello discuteva con la madre.

Per quanto si leggesse la stanchezza sul suo volto, per quanto sembrasse piccola seduta su quella sedia cigolante, per quanto potesse rimanere in silenzio ad osservare gli altri due litigare, Razumichin aveva percepito una forza e una sicurezza quando l’aveva guardata negli occhi che l’avevano atterrito.

Dal momento in cui quegli occhi si erano incastrati nei suoi, aveva sentito la terra mancargli sotto i piedi, come se la gravità dipendesse dalla presenza di Dunja nella stanza e non dalle leggi della fisica che governavano il mondo. Da allora le era sempre stato affianco.

Razumichin era consapevole che Dunja avesse dovuto affrontare tanti dolori nella propria vita; lei ne parlava poco e malvolentieri. Lui non voleva vedere il suo volto delicato rabbuiarsi e aveva imparato a non chiederle mai troppo del suo passato e di tutto quello che aveva sopportato prima di conoscerlo. Portava tanti dolori nel cuore, Razumichin lo sapeva, ma questo non lo aveva mai fermato dall’amarla incondizionatamente.

Il giorno in cui avevano arrestato Raskolnicov per l’omicidio di due donne, Dunja aveva passato tutta la giornata con la madre e non aveva versato una sola lacrima. Era rimasta al fianco della madre per darle forza fino a quando non si era fatta sera e si era addormentata. Solo a quel punto Dunja era andata da lui, si era appoggiata alla sua spalla, lui l’aveva abbracciata e lei era scoppiata in un pianto silenzioso. Non si erano detti niente, non c’erano parole che avrebbero potuto migliorare quella situazione. Avevano passato la notte così, finchè non si erano addormentati entrambi sfiniti e stanchi.

Da quella sera non si erano più separati. Razumichin, qualche settimana dopo, le aveva chiesto la mano e Dunja gli aveva chiesto perché mai la amasse, lui era un uomo buono e di bell’aspetto, poteva sicuramente aspirare a qualcuna migliore di lei. Razumichin non poteva credere che lei potesse pensare una cosa del genere. L’aveva guardata e le aveva detto che lei era il suo mondo e lui le gravitava intorno come fosse la Luna per la Terra. La forza dell’amore che provava lo portava a guardarla e ad innamorarsi ogni giorno un po’ di più. Dunja aveva sorriso e gli aveva accarezzato il viso con la mano fredda. Ricordava perfettamente la sensazione di quella carezza sulla guancia, se si concentrava poteva sentire la mano morbida di lei sfiorargli la pelle dove la barba stava ricrescendo.

All’università aveva studiato tanti filosofi e letterati che parlavano di amore, di quel sentimento tanto forte da portare un uomo a fare qualsiasi cosa, persino a fare guerre o a percorrere tutti i regni ultraterreni pur di rivedere anche per pochi attimi la donna che amava. Un sentimento così astratto e sconfinato che nessuno sembrava riuscire a descriverlo davvero, come se non esistessero delle parole per delineare quello che voleva dire amare una persona al di fuori di se stessi.

Razumichin non aveva mai compreso a pieno quel sentimento finchè non aveva conosciuto Dunja.

Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato. I raggi di luce contornavano perfettamente la sagoma di Dunja dandole un aspetto angelico. La sua pelle bianca risaltava così tanto che sembrava brillare di luce propria, il vestito bianco le avvolgeva il corpo in modo delicato e il velo le gettava un ombra seria sul viso.

Mentre camminava verso di lui guardava dritto davanti a sè. Il suo passo era sicuro.

Al suo fianco camminava sua madre che aveva gli occhi lucidi per la commozione e per la gioia di porter accompagnare sua figlia all’altare. Questo matrimonio aveva reso la madre di Dunja estremamente felice, era la prima cosa bella dopo un lungo periodo di sofferenza e le si leggeva negli occhi che era orgogliosa di quanto forte fosse sua figlia. Ma era anche consapevole che avrebbe dovuto essere il fratello ad accompagnarla all’altare, e questo aveva amareggiato profondamente quella donna che faceva di tutto per non crollare sotto il peso del dolore.

Nella chiesa angusta c’erano poche persone, ma Razumichin avrebbe avuto occhi solo per Dunja anche se si fossero trovati in mezzo ad una folla di centinaia di persone. Sentiva il cuore battere all’impazzata nel petto. Era impazziente di averla davanti e di prometterle che l’avrebbe amata in eterno, che avrebbe asciugato ogni sua lacrima e che avrebbe condiviso con lei ogni gioia che la vita gli avrebbe donato.

Quando le due donne finalmente giunsero all’altare, la madre di Dunja porse a Razumichin la mano della figlia. Lui le sorrise gentilmente e strinse tra le sue mani ruvide quella della sua sposa. Dunja salì sull’altare e si mise davanti a lui. La stava ancora tenendo per mano e per nessun motivo al mondo l’avvrebbe lasciata.

Lei gli sorrise e ricambiò quella stretta. Quello era il suo modo per fargli capire che anche lei era impaziente di iniziare finalmente la loro vita insieme e di prendersi cura l’uno dell’altra.

In quel momento Razumichin capì che per quanti dolori possano esserci nella vita, l’amore è tutto quello che serve ad un essere umano per essere definito tale. Quel giorno comprese il senso di tutte le poesie degli scrittori e i pensieri dei filosofi che aveva letto all’università e che gli erano sembrate solo fantasticherie.

Continuando a stringere la mano di Dunja capì che da quel momento in poi si sarebbero scelti l’un l’altro ogni giorno della loro vita, e improvvisamente il futuro non gli fece più paura.

*

 

Bibliografia:

Delitto e castigo, Fedor Dostoevskij

La coscienza del male

Alice Nesta, in questo suo racconto breve, vuole evidenziare come la coscienza del male possa venire a galla creando un clima di crescente inquietudine rivisitando la scena IV dell’atto terzo di Macbeth, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Tutto sembrava andare avanti senza che nessuno si fosse accorto di quello che era successo, ma la verità mostruosa che Macbeth celava in fondo alla sua anima stava diventando estenuante.”

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Il banchetto era stato allestito nella sala principale del castello, una delle più ampie e sfarzose per riuscire ad ospitare comodamente tutti gli ospiti. Grandi tavoli di legno massello erano stati apparecchiati con pesanti tovaglie di un intenso color porpora e disposti a ferrro di cavallo. I candelabri erano stati appoggiati su ogni tavolo e la cera di alcune candele era colata lungo i bordi facendo affievolire la fiamma e creando una luce soffusa che gettava delle ombre inquietanti sulle pareti di pietra della sala.

Le grandi finestre ai lati del salone si affacciavano sulla notte che era ormai calata. Il buio avvolgeva i bastioni, insinuandosi lungo i muri in contorti giochi di luce, mentre il riverbero dei tuoni e della pioggia che batteva sui vetri si estendeva per i corridoi poco illuminati del castello.

Appena furono entrati i musicisti di corte iniziarono a suonare piano per creare un’atmosfera più conviviale, ma l’effetto del flauto e degli strumenti a corda richiamava un’atmosfera tutt’altro che piacevole. La musica, infatti, rimbombava nell’ampio spazio creando un suono ricorrente e tetro che sembrava accompagnare il ritmo angosciante della pioggia che batteva costante sui vetri delle finestre. 

Una volta che tutti presero posto, il re ordinò che fosse servita la cena. Alcuni servi iniziarono a girare intorno al tavolo con brocche di vino pronti a riempire il calice a chi lo desiderava. Vennero appoggiati sulla tavola grandi vassoi ricchi di carne al sangue proveniente dagli animali cacciati quel pomeriggio stesso.

Macbeth, dalla sua posizione centrale, riusciva ad osservare tutti gli invitati, vedeva come si gustavano il vino, muovendo concitati i calici e facendo cadere alcune gocce che macchiavano il drappo porpora che copriva il tavolo. Masticavano sgraziatamente la carne succosa e conversavano fra di loro parlando di cose frivole e di poca importanza. Tutto di quella cena gli sembrava tremendamente grezzo e fastidioso, persino il rumore delle posate che sbattevano contro i piatti lo irritava, tanto che aveva a mala pena toccato il cibo che gli era stato messo davanti.

All’improvviso una delle finestre si spalancò sbattendo contro la parete. Un vento gelido entrò con violenza facendo vacillare pericolosamente il fuoco delle candele. Nella stanza calò il silenzio, come se tutti avessero percepito un brivido di terrore percorrergli la spina dorsale. Il rumore di un tuono rimbombò nel salone e la pioggia, spinta con violenza dal vento, bagnò il pavimento creando una pozza d’acqua vicino ad una delle colonne.

Macbeth fu assalito da una sensazione di panico che sostituì il rozzo fastidio che aveva provato fino a quel momento. Strinse gli occhi per mettere meglio a fuoco le persone intorno a lui poichè solo un paio di candele erano rimaste accese. Cercava con lo sguardo le guardie per ordinare loro di richiudere immediatamente la finestra, ma quando i suoi occhi si furono abituati al buio, si rese conto che attorno a lui noi vi era più nessuno. Le sedie erano vuote e ben sistemate, come se non fossero mai state spostate per sedersi.

Non c’era segno di alcun banchetto.

Il tavolo era privo di qualsiasi pietanza, i vassoi con la carne fresca che odorava di sangue erano scomparsi insieme ai calici ridondanti di vino. Era rimasto da solo.

Incredulo e con le mani tremanti per la paura si alzò dalla sedia, ma qualcosa, una forza di cui non conosceva la provenienza, lo spinse di nuovo a sedere faccendolo sbattere con violenza contro lo schienale e mozzandogli il respiro in gola.

Quando alzò lo sguardo un sentimento di primitivo terrore gli impedì di muoversi ancora: il fantasma di Banquo, il suo fidato compagno d’armi nonché amico e consigliere, era davanti a lui.

Lo spettro aveva i lineamenti deformati dal dolore, la bocca spalancata in modo disumano come se un urlo gli fosse rimasto bloccato al fondo della gola. La pelle del viso sembrava aver perso ogni tipo di consistenza e aderiva al cranio come un guanto, rendendo quell’essere scheletrico e terrificante. Gli occhi vuoti e senza pupille apparivano così profondi da aver aperto nel petto di Macbeth una voragine di paura.

Non riusciva più a muoversi. Quegli occhi lo avevano inchiodato al pavimento come se alle sue caviglie fossero state legate delle pesanti catene.

Il viso era sporco di terra e di sangue, mentre il collo era segnato da un profondo squarcio purulento da cui continuava a sgorgare sangue che si riversava denso sull’abito sgualcito fino a cadere in pesanti gocce rosso scuro sul pavimento.

Lo spettro, con una lentazza straziante, mosse il braccio coperto da lembi di stoffa sporchi e sanguinanti, schiuse le dita dinoccolate che fino a quel momento aveva tenuto strette in una morsa gelata intorno all’elsa della sua spada. Con un dito indicò le mani di Macbeth.

Facendo questo movimento la spada scivolò da quella mano scheletrica e cominciò a cadere verso il pavimento nella pozza di sangue che si era creata ai piedi di quell’essere spaventoso.

Mentre la spada cadeva, il tempo sembrò rallentare. Lo spettro aprì ancora di più la bocca che a quel punto si era allargata così tanto da strappare dei lembi di pelle ai lati delle labbra.

Un’unica parola venne pronunciata da quella figura inquietante: “colpevole”.

Macbeth a quel punto si guardò le mani tremanti che lo spettro aveva indicato con quel suo dito putrefatto e le trovò gocciolanti di sangue fresco, come se quel liquido appiccicoso fosse stato appena versato.

La spada cadde finalmente a terra e il tintinnio del metallo sul pavimento di pietra rimbombò in quel silenzio assordante che aveva riempito la sala fino a quel momento. Un suono che esplose nelle orecchie di Macbeth. Chiuse gli occhi contraendo i muscoli del viso infastidito da quel rumore insistente. Trovò finalmente il coraggio di schiudere le labbra per urlare ma nessun tipo di parola venne emessa dalla sua bocca. Alle sue orecchie arrivava solo quel suono ridondante del ferro della spada che toccava il pavimento.

Quando il rumore cessò, riaprì gli occhi. Quell’essere terrificante era scomparso. Ora, davanti a lui, c’era il viso pallido e sottile di sua moglie che lo fissava con uno sguardo che celava preoccupazione e crescente fastidio. Le luci delle candele gettavano sul suo volto un’ombra grave, quasi lugubre.

Intorno a lui il banchetto continuava indisturbato, i convitati mangiavano e parlavano fra di loro creando un brusio continuo e insopportabile.

Tutto sembrava andare avanti senza che nessuno si fosse accorto di quello che era successo, ma la verità mostruosa che Macbeth celava in fondo alla sua anima stava diventando estenuante.

Lui sapeva che quello era solo l’inizio. La paura lo assalì ancora.

In quel momento un tuono ruggì fuori nella notte e risuonò ovattato nella sala. Un colpo di vento spalancò la finestra facendola sbattere contro la parete di pietra. L’aria gelida entrò portando con se alcune gocce di pioggia. Molti nella sala urlarono per lo spavento.

Il terrore che lo spirito orrendo di Banquo si ripresentasse strinse in una morsa glaciale Macbeth. Rivedeva il collo squarciato, il sangue, gli occhi vuoti, la bocca allargata in modo raccapricciante…risentiva quel sussurro che lo aveva accusato.

Un urlo di pura e primitiva paura gli uscì dalle labbra. Un urlo che aveva tratenuto in fondo alla gola per giorni. Un urlo che suonava vuoto tutte le volte che provava ad aprire la bocca per liberarsene. Un grido così spaventoso che tutti nella sala si girarono a guardarlo e il silenzio calò tra i partecipanti al banchetto.

Quando si rese conto che l’essere terrificante non si sarebbe presentato, ma che davanti a lui c’erano solo gli gli occhi degli invitati che lo fissavano increduli, capì che la follia lo aveva definitivamente raggiunto e che oramai se ne erano accorti tutti.

Tutta l’oscurità che aveva percepito durante quella giornata di agonia e terrore era finalmente venuta a prenderlo.

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Bibliografia:

Macbeth, William Shakespeare

Riscoprendo me stesso: terapia attraverso la parola

Laura Margaria rielabora l’idea letteraria della coscienza, riscoprendo se stessa attraverso la terapia narrativa, nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Le sentivo da tutta la vita, erano voci distanti e da piccolo pensavano tutti che avessi soltanto una grande fantasia o che semplicemente amplificassi le favole della Disney, dove Pinocchio vede il suo grillo che gli spiega cos’è giusto e cos’è sbagliato, perché alla fine tutti sentono una voce nella testa e non è altro che la propria coscienza.”

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Le sentivo da tutta la vita, erano voci distanti e da piccolo pensavano tutti che avessi soltanto una grande fantasia o che semplicemente amplificassi le favole della Disney, dove Pinocchio vede il suo grillo che gli spiega cos’è giusto e cos’è sbagliato, perché alla fine tutti sentono una voce nella testa e non è altro che la propria coscienza. Quando provavo a spiegargli che era diverso non ascoltavano. Effettivamente sentivo una personcina nella mia mente che mi gridava cosa fare, ma la sentivo anche discutere con altri, li sentivo litigare, parlare con termini che neanche io avevo mai sentito. Sembrava di assistere ad uno di quei programmi di polemiche in televisione dove le persone si parlano addosso sputando verità e menzogne, senza neanche riconoscere le une dalle altre. Però gli adulti mi rispondevano: “Il tuo grillo parlante sta protestando molto? Hai forse fatto qualcosa di sbagliato?”. A tredici anni hanno iniziato a capire che forse avrebbero dovuto ascoltarmi un po’ più e mi portarono da uno psicologo. Da lui per la prima volta ho sentito il termine ‘Disturbo dissociativo dell’identità’. Queste parole complicate a cui ancora non associavo un significato preciso spiegavano tutto: i miei sbalzi d’umore improvvisi, le mie proteste di bambino, il fatto che molte volte i miei genitori stessi non mi riconoscessero, anche i miei vuoti di memoria diagnosticati come ‘amnesie dissociative’.

Ho dovuto affrontare l’ipnosi per arrivare a conoscere tutte le altre persone che abitavano nella mia mente, il dottore li chiamava “alter” e tra tutti ho riconosciuto le due voci che principalmente mi avevano accompagnato da tutta la vita, diversi come le due facce della stessa medaglia. Uno mi incitava a dire tutto ciò che pensavo, ad essere sincero, riteneva necessaria la coincidenza tra il cuore e le parole, non importava quanto la verità fosse dura da affrontare; l’altro invece mi incitava ai sotterfugi, alle piccole bugie una dietro l’altra che di certo non avrebbero fatto male a nessuno, si preoccupava che io avessi tutto ciò che desideravo e mi consigliava come fare per arrivare ad ottenerlo, anche se ciò significava affondare altre persone. La mia vita è sempre stata un bilancio tra queste due personalità, talvolta richiamavo gli altri per aver mentito e li ferivo anche nei sentimenti pur di non passare altro tempo con dei bugiardi; altre volte invece ero il primo a mentire, fingevo di stare male soltanto per arrivare ad un misero scopo. Certi giorni loro stessi uscivano dalla testa e iniziavano ad agire come più preferivano scombinando la mia vita e io dovevo raccogliere i pezzi di ciò che avevano distrutto senza neanche ricordare cosa il mio stesso corpo avesse combinato. Avevo tante vocine nella testa ma non ho mai sviluppato quella del mio grillo parlante o forse anche se esisteva non gridava abbastanza forte da farsi sentire e più crescevo più passavo la vita a scegliere tra uno o l’altro dei consigli senza mai sapere cosa fosse giusto o sbagliato. In balia di una vita che forse non potevo neanche definire mia.

Sono seguito da specialisti ormai da tre anni, il dottore mi ha chiesto di iniziare a scrivere queste pagine per prendere più coscienza della mia situazione, vuole che io descriva le mie esperienze per aiutarlo a comprendere meglio i miei sintomi. Inoltre, queste pagine potrebbero aiutarlo ad identificare quelli che chiamano ‘trigger’ ossia qualsiasi cosa possa riportarmi ad un evento traumatico e stimolare in me un cambio di personalità. Devo annotare tutte le situazioni stressanti che mi si pongono davanti e descrivere ogni cosa.

Dottore deve sapere che oggi è successo davvero qualcosa di strano ed è per questo motivo che mi ritrovo per la prima volta a volerla annotare. Oggi dopo le lezioni il mio compagno di classe Oscar si è avvicinato e mi ha chiesto un consiglio riguardante una poesia. Inizialmente non voleva dirmi per chi fosse stata scritta, ma ha ceduto al suo entusiasmo e mi ha rivelato il nome di Clara. Mi sono domandato se sapesse della relazione che io e lei avevamo, mi sono chiesto se fossi io a dovermi sentire di troppo in quel gesto d’amore tanto romantico. Ho accettato più per curiosità che per amicizia e appena il mio compagno ha finito di recitare quella poesia le vocine nella mia testa si sono scatenate: “Non è che uno sciocco adulatore, che neanche riesce ad esaltare la sua amata. Inoltre, come si permette di dedicare una poesia alla nostra Clara, digli che non ha speranze, che lei ha promesso a noi il suo cuore e la sua parola sincera è la nostra più grande garanzia. Dovrebbe provare a resistere alla tentazione di scrivere se questo è il risultato. Dovresti proprio dirgli di rinunciare e gettarla direttamente nel gabinetto, non è certo una poesia d’amore adatta!” urlava uno, mentre l’altro ribatteva “Non essere ingenuo, digli che è meravigliosa, ammira la sua scrittura e quando la reciterà davanti a Clara sarà lei stessa a sfigurarlo, non dovrai più temere che lei lo scelga, sarai tu la sua unica opzione. Fingi di aver sentito un capolavoro, poi andrai a consolarlo quando lei gli volterà le spalle. Lui sarà ancora tuo amico e Clara sarà solo tua. Perché dovrebbe sospettare della tua parola?“.

Sembrava una scelta banale, non fosse stata per lei che veniva inserita in quella mia decisione, qualsiasi mia scelta avrebbe influito su di lei, che per miracolo mi era rimasta accanto nonostante la mia malattia, lei che avrebbe potuto abbandonarmi come tanti altri ma ha scelto di restare. L’unica certezza in quella situazione era che, come al solito, mi ritrovavo schiacciato tra due persone senza sapere chi ascoltare. Avrei potuto dare retta al primo: dirgli la verità e così ferire i suoi sentimenti; al contrario se avessi ascoltato la seconda voce non mi sarei neanche dovuto preoccupare della risposta di Clara, si ritrovava già con troppi pretendenti e toglierne uno dalla lista mi avrebbe avvantaggiato. Hanno iniziato a discutere e in un secondo mi è sembrato di sentire qualcun altro in mezzo a quella loro discussione, sembrava la prima parola di un bambino, inaspettata e straordinaria ma allo stesso tempo leggera come un gesto abituale. Quella piccola voce aveva detto soltanto “No”. E io trascinato da quella sensazione nuova avevo ripetuto lo stesso monosillabo ad alta voce. Oscar mi guardava come se dalle mie labbra pendesse la sorte della sua vita, non capiva come mai gli stessi dicendo di no. Tuttavia, in quel momento non importava ciò che succedeva al di fuori della mia testa, ero sicuro fosse qualcosa di nuovo, che fosse qualcuno di nuovo e per un attimo ho pregato, ma non mi ha risposto. Quale dei due non avrei dovuto ascoltare?  Perché aveva smesso di parlare? Perché non aveva mai parlato prima?

Ero di nuovo in balia di quei due e ancora una volta ho ceduto alla più suadente delle due voci, al che ho risposto ad Oscar: “Mi piacciono, sono veramente dei bei versi, dovresti correre da lei e dirle tutto, vedrai come sarà felice”.

Proprio mentre iniziavo a camminare verso casa l’ho sentito di nuovo, questa volta però era più tenace, il bambino aveva imparato a parlare e non voleva smettere: “Tu vorresti che ti mentissero?“. Mi sono ritrovato a pensare alle mie azioni come se influissero davvero su di me, come se una mia scelta potesse realmente cambiare la mia storia. Se fossi stato nei panni di Oscar avrei voluto una verità dolorosa o una menzogna? Forse la risposta stava proprio in mezzo a questi due estremi. Dottore magari mi correggerà, mi dirà che sono un illuso però io ho pensato che fosse il mio grillo parlante. Aveva detto solo una frase però aveva zittito ogni altra voce e gli uomini che mi guidavano da tutta la vita non avevano più il coraggio di rispondere a quel bambino.

Scorrendo tra i vari pensieri sono arrivato a casa, la testa era pesante; tuttavia, sembrava una stanza vuota dove l’eco di quella voce nuova risuonava inesorabile e non mi lasciava riposare. Scrivo queste pagine per capire bene di che si tratta, per sperare che lei dottore legga dentro di me e capisca quel che ho in questa testa.

Ho chiesto a mio padre come potesse spiegare quella pesantezza, quel vuoto che ti ingloba ma non ti ferisce, quella paura di aver fatto la cosa sbagliata. Ma non c’è stata una vera e propria risposta, come per tutta la mia vita non è mai stato bravo a leggermi e a capirmi. Al momento della buonanotte è entrato in camera mia dicendo: “Stavo pensavo a ciò che mi hai chiesto prima, non sono in grado di spiegare sentimenti del genere io. Perché non ti affidi a Shakespeare?”. Dopodiché ha allungato verso di me un libro con la copertina rigida e sopra riportato in grassetto ed in oro “Macbeth”.

Cinque personaggi in cerca di risposta

Letizia Baldioli immagina, attraverso lo stratagemma del sogno, che una lettrice si ritrovi ad ascoltare pazientemente le confessioni, talvolta disperate, dei personaggi del Macbeth. In questo modo cerca di far conoscere loro il punto di vista di una persona esterna alle vicende, sollevandoli umanamente dal peso della tradizione letteraria, nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Io lo ascoltai attentamente, poi passai ad ascoltare tutti gli altri, parola per parola, per poi essere sicura di poter prendere la decisione più giusta. Chi fu tra loro il vero colpevole? Certamente tutti a loro modo lo furono, ma chi innescò il meccanismo del male, del sangue e dell’omicidio?”

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Una ragazza prima di andare a dormire scorge sul comodino della sorella l’opera shakespeariana Macbeth. Una volta addormentata verrà catapultata in una pagina di quel libro dove incontrerà cinque personaggi i quali, uno alla volta, racconteranno la loro versione dei fatti accaduti nell’opera letteraria seduti su una poltroncina di velluto blu. Il racconto si trasformerà in una vera e propria seduta di psicoanalisi in cui i personaggi si sfogheranno liberamente senza mai essere interrotti dalla giovane. Sarà lei che, alla fine delle sedute, dovrà decidere in modo oggettivo chi tra loro sia il più colpevole tra tutti.

CINQUE PERSONAGGI IN CERCA DI RISPOSTA

Ieri notte ho fatto un sogno. Vagavo per un sentiero senza conoscere la mia destinazione. Ero sola. Il cielo si era fatto bianco, a pensarci bene tutto attorno a me pareva come ammantato di neve. Gli alberi, i cespugli, le colline sembravano disegni a matita su un foglio. Alla fine del sentiero, una casa. La porta era aperta. Decisi di entrare. Seduti ad un tavolo si trovavano cinque figure. Un uomo, una donna e tre… in verità non capì subito cosa fossero, forse delle figure femminili, ma diamine avevano la barba lunga fino alle ginocchia! Non si erano accorti del mio arrivo, parlavano o meglio litigavano incolpandosi a vicenda. Ero convinta che non mi potessero vedere, ma poi la donna si girò di scatto verso di me. Mi guardò per un istante e gridò: «Ho la soluzione!». Io ero la loro soluzione o almeno la sua. «Raccontiamole tutto, uno alla volta. Lei sarà il nostro giudice, lei deciderà chi tra noi si è macchiato di una colpa maggiore». «Io giudice? Di cosa? Ma poi… voi chi siete?». «Chi siamo noi?!» esclamò l’uomo alzandosi precipitosamente dalla sedia, che cadde a terra per la sua furia. Li riguardai attentamente, mi concentrai sui loro volti, esaminai i loro sguardi cercando di scrutarne qualche particolare a me familiare ma… nulla. Allora l’uomo esclamò «Shakespeare in persona ci ha creati, la sua mente ci ha ideato, la sua penna ci ha dato la vita. Macbeth è il mio nome, signore di Glamis, di Cawdor e re di Scozia». Allora capì. Prima di andare a dormire mi ero voltata verso il letto di mia sorella, sul suo comodino avevo notato una sfilza di libri impilati uno sull’altro. Su uno di essi, quello dalla copertina rossa, la scritta: Macbeth, di William Shakespeare. Sì, era andata proprio così. Il cervello gioca strani scherzi, è proprio vero. Avevo letto il titolo di quel libro e, una volta addormentata, la mia mente mi ci aveva catapultato all’interno. Ecco perché tutto ero bianco e nero, bidimensionale. Io mi trovavo esattamente dentro alle memorabili pagine del Macbeth. «Se tu sei Macbeth, allora lei…» dissi indicando la donna «dovrebbe essere lady Macbeth, e loro le tre streghe». L’uomo mi fece un cenno di approvazione con la testa. Conoscevo la trama, ma avendo letto l’opera del grande Shakespeare una sola volta e diversi anni addietro, avevo bisogno che la mia memoria letteraria venisse rinfrescata. «Meglio così» disse Macbeth che aveva partecipato segretamente al mio ragionamento. «Un giudice neutrale è proprio quello che ci serve!» e, prendendomi la mano, mi accompagnò a sedere. Improvvisante apparve una poltroncina. Se fosse sempre stata lì o meno non me lo chiesi, d’altronde era pur sempre un sogno. Ed ecco che su quella seduta blu, uno alla volta, i personaggi dell’opera si misero comodi. Macbeth in particolare attirò la mia attenzione. Appoggiò i piedi su uno sgabello di velluto trapuntato e mise entrambe le mani dietro la testa. Fissò per un momento il vuoto e, come un vero paziente pronto a sfogarsi con il suo terapista, cominciò a parlare. Io lo ascoltai attentamente, poi passai ad ascoltare tutti gli altri, parola per parola, per poi essere sicura di poter prendere la decisione più giusta. Chi fu tra loro il vero colpevole? Certamente tutti a loro modo lo furono, ma chi innescò il meccanismo del male, del sangue e dell’omicidio?

 MACBETH:

«Io sono un tiranno, un assassino. È colpa di quelle streghe, loro non dicevano tutta la verità, o meglio, la dicevano, ma a modo loro, ingannandomi. Le loro profezie erano tutto ciò che io desideravo sentirmi dire. La loro colpa è stata quella di aver dato voce alle mie ambizioni, la mia di averle ascoltate. E anche tu, grande Shakespeare, avresti potuto far sì che le profezie di quelle streghe fossero come quelle degli antichi oracoli. “Tu diventerai re” e allora ecco che, come per magia, mi sarei ritrovato sul trono e invece no, troppo semplice… Eh no perché quel William Shakespeare era convinto, ma cosa dico, era CER-TO che fosse l’uomo il creatore del proprio destino. Beh allora ripensandoci è colpa mia. Oh si è tutta colpa mia, se solo non avessi dato retta alle parole delle streghe e se non mi fossi fatto manipolare da quella donna. Ma aspetta, allora è anche colpa loro. Quella Lady Macbeth mi disse: mostrati come il fiore, innocente, ma sii …»

LADY MACBETH:

«… la serpe che esso nasconde. Sì, gli dissi proprio così, testuali parole» rispose lei con un tono svogliato, come se quella storia l’avesse sentita troppe volte. «Ah quella lettera, è proprio vero, la lettera mi fece rinascere. Tutte le mie fantasie e le mie ambizioni più segrete stavano per realizzarsi. Ma poi ecco che re Duncan decise di nominare suo figlio Malcolm come erede e allora i miei occhi, alla notizia, si irrorarono di sangue, il mio cuore palpitò sempre più velocemente a causa della rabbia e le mie mani si chiusero a pugno tanto che le mie unghie si conficcarono nella carne. Una cosa era certa: Macbeth sarebbe diventato re. Ma ecco, un ostacolo si presentò sul mio cammino.  Il nuovo principino o re Duncan potresti pensare tu, ma… no, eh no mia cara, lui sarebbe stato facile da togliere di mezzo. Il mio problema? Beh, quello aveva un altro nome: Macbeth. Mio marito, un uomo ambizioso, ma giusto, desideroso di potere tuttavia inetto. Sapevo già che per convincerlo dell’efficacia del mio piano avrei dovuto mettere in piedi un bel discorsetto. Così feci. Se avessi fatto tutto questo per lui? Certo che no. Sì, lui avrebbe regnato sul trono di Scozia, ma io… non più moglie di Macbeth, non più signora di Glamis, bensì regina. Una vera corona avrebbe potuto finalmente essere posta sulla mia testa regale. Io, donna, ero convinta di potermi comportare come un vero re. Io ero l’uomo, io ero il coraggio, io ero la mente, lui? Le mie braccia, la mia marionetta. Uno strumento nelle mie mani. Il piano di uccidere re Duncan e di far cadere la colpa sulle guardie era il mio. Era giunto il tempo di essere l’uomo che avevo sempre sognato, di rimboccarmi le maniche e agire da uomo.»

MACBETH:

«Agire, continuò a dirmi di agire, ma commettere un delitto sarebbe davvero stata l’unica soluzione? Duncan era un re ed era mio cugino. Un uomo buono che amava i suoi sudditi. Unico sprone al mio disegno fu l’ambizione, supportata dalla bramosia focosa di mia moglie. La sua alimentò la mia.» Poi, da sdraiato qual era sulla poltroncina, si alzò di scatto e si voltò verso di me. «Un pugnale. Un pugnale fu l’ultima cosa che vidi prima di compiere il fatto. Una fatale visione percettibile al tatto come alla vista o forse solo un pugnale della mente? Questo bisognerebbe chiederlo a quel Shakespeare. Oh, continuavo a vederlo, era uguale al pugnale che stavo per sguainare, uguale eppure diverso. Prima avrei compiuto l’omicidio e prima tutto sarebbe finito. E così io lo uccisi. Sono un assassino. Ma poi…oh, ma poi sentì una voce. Macbeth non dormirai più. Queste parole cominciarono a rimbombare senza pietà nella mia testa, poi il mio sguardo si posò sulle mie mani. Rosse come il…». Si fermò un momento e si corresse «sì, rosse di sangue, sangue reale, sangue fraterno. Vidi solo quelle mani, nient’altro. Le mani di un omicida, di un traditore.»

LADY MACBETH

«Le mie mani erano come le sue. Le guardai bene e mi accorsi che, diamine, non era riuscito a portare a termine il mio piano. I pugnali avrebbero dovuto rimanere in quella stanza e i corpi delle guardie essere sporcati di rosso, solo così la colpa sarebbe ricaduta di loro. Ma lui no, non era stato capace di mettere a punto il mio diabolico progetto. I pugnali li teneva stretti tra le sue mani. L’ho sempre pensato, peccava di coraggio.» disse convinta.  «E così dovetti farlo io al posto suo. Che codardo, lui non voleva neppure rientrarci in quella stanza. Macbeth aveva paura, restò immobile come una statua di cera, lì, con lo sguardo fisso nel vuoto. Cercai di fargli capire che quel sangue sarebbe andato via con l’acqua, ma lui niente, non ne voleva sapere e restava a fissare intensamente le sue mani. Continuò a ripetere che neppure tutta l’acqua del grande oceano avrebbe potuto lavare quel sangue e che quelle mani avrebbero insanguinato tutti i mari del mondo. Io, le mie, non le fissai. Lui si disperava mentre io, sommessamente, sorridevo soddisfatta.»

MACBETH

Macbeth si guardò attorno e solo dopo aver constatato che fossimo soli, mi disse di avvicinarmi a lui e bisbigliò: «Ora ti confesso un segreto. Piena di scorpioni era la mia mente. Ero re, ma non mi bastava più ormai. Mi ero trasformato in una persona nuova che non avevo mai conosciuto fino ad allora e che, tutto sommato, non avrei mai voluto conoscere. Ero stato corrotto dal male e non si poteva più tornare indietro. Mi ricordai all’improvviso le parole delle profetiche sorelle. Si rivolsero a Banquo chiamandolo padre di re. Uccidere era diventata ormai l’unica soluzione ai miei problemi. Banquo e suo figlio avrebbero dovuto morire. Oh, non avrei mai pensato che tali fantasie potessero tormentare tanto la mia mente di brav’uomo e invece… non riuscivo a pensare ad altro. Morte, sangue, omicidio. Fu come se non avessi più il controllo di me stesso. Davvero simili pensieri potevano nascere nella mia mente? Dov’era finito il Macbeth puro di cuore che conoscevo bene?» l’uomo tacque per un momento, si coprì il volto con le mani e cercò di rispondere a quelle domande. «Semplicemente, non esisteva più. Ed ecco la metamorfosi del personaggio che gli studiosi amano tanto. Si dice che Shakespeare avesse creato il personaggio “umano” ma spero che le persone del tuo mondo non siano come me. Banquo era morto. Suo figlio era riuscito a scappare. Eppure io continuai a vedere l’uomo che un tempo chiamavo amico. Non ero pazzo, c’era davvero. Al banchetto reale continuava a fissarmi. Aveva la faccia nera per il sangue che si era mischiato alla terra umida del bosco in cui era stato ucciso dai miei uomini. Mi fissava. Perché mi fissavi?». Gridò talmente forte guardando verso il cielo che il sole per la paura tramontò prima del tempo. Poi, una volta calmatosi, continuò la sua storia. «Gli ordinai di andarsene. Le sue ossa ormai erano senza midollo e il suo sangue gelido come l’inverno. Gli occhi dei presenti allora si posarono su di me, mi guardarono come si guarda un povero pazzo. Sangue chiama sangue. Quella stessa notte decisi di andare dalle sorelle fatali. Ero deciso a sapere coi mezzi peggiori il peggio.»

LE TRE STREGHE

«Macbeth non verrà mai sconfitto, finché il grande bosco di Birnam non avanzerà verso l’alto colle di Dunsinane contro di lui. Sii sanguinario, audace e risoluto. Nessuno nato da donna potrà mai ucciderti. Queste le nostre profezie. Noi dicemmo la verità, nient’altro che la verità. Parole chiare ma ingannevoli. Frasi precise ma confuse. Il bello è il brutto e il brutto è il bello. Shakespeare ci battezzò con queste parole. Noi siamo ambigue di natura. Siamo donne con la barba, questo dice tutto. Siamo la verità e la menzogna. La gloria e la sciagura. Siamo? E se non fossimo? Nulla di reale, solo un finto prodotto della mente. Noi, voce delle fantasie più oscure e delle ambizioni di Macbeth. Solo una voce o qualcosa di più? Il soprannaturale è reale? Perché William ci ha dato una forma? Credeva forse nei fantasmi? D’altronde anche nel suo Hamlet ha dato parola ad un fantasma, non è così? Se non fosse stato per le paure di quel Giacomo I, che accusava streghe e demoni di complottare contro di lui, Shakespeare non ci avrebbe mai create. La colpa di tutte le sciagure non è nostra, lo capisci o no? Non per influenzarti nel tuo giudizio, ma per noi l’unico colpevole qui è Macbeth. Soltanto sua è la colpa. È stato lui a decidere e a disegnare una volta per tutte il proprio destino. Il brutto è il bello e il bello è il brutto. Ma in questa storia di bello c’è ben poco. Praticamente nulla». Aggiunsero di aver provato a far ragionare Shakespeare, di avergli ripetuto spesso che, se le avesse fatte parlare in quel modo tanto ambiguo, nessuno le avrebbe prese seriamente ma, a quanto pare, qualcuno lo ha fatto. Povero Macbeth!

LADY MACBETH

«La situazione di mio marito peggiorò di giorno in giorno. Precipitò quando venne a conoscenza della partenza di Mac Duff per l’Inghilterra. Appresa la notizia, digrignò i denti e le sue mani strinsero sempre più forte la sua tunica che per poco non si strappò. Lui diventò rabbia, tirannia, vendetta. Gli scorpioni nella sua mente si triplicarono. La ragione la perse completamente. Decise di assalire di sorpresa il castello in cui la moglie e i figli di MacDuff vivevano e di ucciderli selvaggiamente. L’onesto Macbeth ormai era morto. Ma perché si comportava così?». La donna si alzò precipitosamente dalla poltroncina e uscì dalla casa correndo. Io la aspettai. L’aspettai per molto. Poi tornò da me. I suoi occhi erano lucidi, come se avesse appena finito di piangere. Numerose lacrime scesero dai quei suoi occhi che, a guardarli bene, erano profondamente cambiati. Non più colmi di sangue o di smania di potere e morte. No, non più. Senso di colpa, sì, era questa la parola giusta. Si mise di nuovo seduta. Mi fissò e ricominciò a parlare. «La colpa era mia. Io l’ho corrotto e portato verso il male e il male pesa sulle nostre coscienze molto più del bene. E io lo so per certo. Diventai ossessionata dalle mie mani, sulle quali il sangue era onnipresente. Non sarebbe mai andato via. La mia condanna, il mio castigo mi avrebbe perseguitato a vita. Vita… morte… l’inferno è buio. Vergona mia signora, vergogna! Un soldato che ha paura? Chi avrebbe mai pensato che in quell’ uomo ci fosse così tanto sangue? Le mie mani non sarebbero mai più tornate pulite. Se solo non avessi dato retta ai miei desideri e se non avessi bramato così intensamente il potere. Io spinsi Macbeth ad uccidere, ma per cosa e per chi? Solo per me stessa! Che egoista sono stata. Stupida ambizione, sciocco potere. Shakespeare inizialmente scrisse un finale diverso per la mia storia. Sarei dovuta essere imprigionata a lungo per poi essere uccisa dal mio stesso marito, ormai anziano.  Guardai l’autore del mio personaggio e una lacrima scese sulla mia guancia. Stetti a fissarlo, gli presi la mano e lui mi sorrise. Cancellò tutto e ricominciò daccapo. Avrei dovuto farlo io, avrei fortemente voluto farlo io. Mi pentì per tutto ciò che avevo compiuto, volevo solo smettere di esistere e farlo subito. Essere o non essere? Mi gettai in un fiume e con la testa rivolta verso il cielo, lo guardai. Tutto si fece buio. Le stelle non splendevano più, la civetta cantò un’ultima volta. Era tutto finito. L’incubo era finito. Me ne andai pentita.»

MACBETH

«Morta. La vita non è che un’ombra che cammina. La vita non significa nulla. Non avrei mai pensato di poter pronunciare parole simili. Ma lo credevo davvero. Uccidere diventò per me qualcosa di meccanico come se la mia coscienza si fosse logorata quasi del tutto. Sarebbe dovuta morire prima o poi, non è così? La strage della famiglia di MacDuff la cambiò nel profondo. Duncan fu meno uomo di quella donna e quei bambini? Proprio non la capì. Fu lei a escogitare il piano diabolico che ci avrebbe condotto sul trono di Scozia. Con lei iniziò tutto, la nostra ascesa e… il mio tracollo. Adesso mi è chiaro! Si è uccisa spinta dal senso di colpa che la stava logorando lentamente dentro. È andata esattamente così. Dopo la sua morte mi giunse notizia del ritorno di Malcolm e MacDuff. Tornarono con quasi diecimila uomini. Paura? Nessuna paura! Avevo dimenticato il sapore che aveva la paura. Passato era il tempo in cui mi sarei raggelato per un grido notturno». Mentre continuava a parlare, lo osservai attentamente. Il suo sguardo era vuoto, quasi alienato. Era lì davanti a me eppure sembrava completamente assente. Appoggiai i gomiti sulle mie ginocchia e con le mani mi tenevo la testa. Stetti ancora ad ascoltarlo. «Secondo la profezia, né Malcolm né MacDuff avrebbero potuto sconfiggermi. Io non sarei stato sconfitto finché il bosco di Birnam non fosse avanzato, eppure venni annientato: il bosco avanzò verso di noi e MacDuff mi uccise. Il sole mi aveva stancato. Vieni rovina!»»

LE TRE STREGHE

«Sì, gli abbiamo detto così, o meglio, è stato Shakespeare a suggerirci di farlo. Macbeth non sapeva che MacDuff non fosse nato da donna ma dal ventre di costei. Avrebbe potuto benissimo ucciderlo. Ma non si aspettava neppure che il bosco si sarebbe mosso per davvero grazie all’esercito di Malcolm. Macbeth sarebbe stato sconfitto. Davvero astuto il nostro Shakespeare. Povero Macbeth! Oltre al danno, la beffa».

Tutti avevano parlato. Ognuno aveva detto la propria. Ora toccava a me. Li richiamai tutti nella stanza. Si sedettero attorno al tavolo che magicamente ricomparve. Avevo cercato di ascoltare tutti con assoluta attenzione, senza distrarmi mai. Camminai avanti e indietro per la stanza, cercando di prendere la decisione più giusta. Poi capì e mi fermai. «Ho la risposta alla vostra domanda!» esclamai soddisfatta di me stessa. «Il responsabile di tutte le vostre disavventure è solo uno. Lui è…», ma la sveglia suonò e io riaprì gli occhi. «Shakespeare. La colpa è solo sua!», urlai talmente forte che persino mia sorella si alzò di soprassalto. Quel libro era ancora sul suo comodino. Lo guardai e sorrisi. Non osai pensare a cosa potesse essere accaduto in quella stanza dopo la mia scomparsa. Ma una cosa era certa, quei personaggi si erano sinceramente sfogati con me e le loro coscienze da quel momento sarebbero state un po’ più leggere. Benché nessuno avesse beneficiato della mia risposta, i loro cuori si erano pacificati nella certezza dell’ascolto. E allora il mio, alla fine, l’avevo fatto.

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Bibliografia selezionata:

Macbeth di William Shakespeare, Feltrinelli 2013

Film Macbeth di Justin Kurzel (2015)

Delitto

Giulia Repetto, in queste due lettere, riscrive il romanzo Delitto e castigo trattando il tema della coscienza in relazione all’attuale conflitto tra Ucraina e Russia, nell’ottica del corso diLetterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Se avessi voluto aspettare che tutti fossero diventati intelligenti, sarebbe passato troppo tempo… Poi ho capito anche che questo momento non sarebbe arrivato mai, che gli uomini non cambieranno mai e che nessuno riuscirà a trasformarli e che tentar di migliorarli sarebbe fatica sprecata!” (F. Dostoevskij, Delitto e castigo)

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Rodion Romanovič Raskol’nikov

                                                                                                                       Mariupol, 18 marzo 2022

              Sof’ja Semënovna Marmeladova

Cara Sonja,

come stai? Come stanno tuo padre, Katerina Ivanovna e i bambini? Alla fine i soldi sono bastati a comprare le scarpine a Pòletschka e a Lènja? Quelle che avevano erano tutte a pezzi. Hai avuto notizie di mia sorella e di mia madre? Dì a Dunja di non stare in pensiero per me.

In questo momento mi trovo nella regione della Priazovia, nella città di Mariupol. È una bella giornata, ma la polvere della devastazione offusca l’occhio del cielo e quelli che un tempo erano tranquilli sobborghi e villaggi sono diventati cumuli di macerie. Nella desolazione della guerra la desolazione della natura: gli alberi sono spogli, nelle aiuole delle piazze spuntano qua e là, piegati su loro stessi, degli esili fili d’erba e l’acqua fredda e sporca del fiume Kal’mius trasporta i detriti delle case. Oltre al vociare dei soldati e al rumore dei caccia militare, ogni tanto si sente il latrato di qualche cane in lontananza. Mi manca sentire il canto degli uccelli. Il bubbolio della guerra mi accompagna anche nel sonno; non ricordo più quale pace può esserci nel silenzio. Sonja, mia cara, anche l’odore qui è quello della guerra, della guerra e della morte, un odore che punge il naso ma a cui ormai sono abituato. Aguzzando lo sguardo riesco ancora a scorgere due colonne di fumo nero che provengono dal teatro cittadino che abbiamo bombardato ieri. Il posto è spaventoso, ma in compenso tranquillo. Il fuoco ucraino è cessato da qualche ora: i nemici stanno sicuramente piangendo i loro morti.

Non piangere Sonečka, tutto ciò è necessario. Credi che Licurgo, Solone, Maometto e Napoleone si siano fatti qualche scrupolo? E Putin? Non è forse la stessa cosa? Perché dovrei preoccuparmene io, io che eseguo solo gli ordini, io che contribuisco alla grandezza della mia patria? Dopotutto non sono anch’io un grande uomo? Io non voglio essere un uomo ordinario; voglio essere un uomo straordinario. Mentre i primi si limitano a conservare il mondo e ad aumentarlo numericamente, i secondi lo muovono e lo conducono verso la meta. Ricordi cosa avevo scritto in quel mio articoletto? Gli uomini si suddividono in due categorie: la categoria inferiore, quella degli uomini ordinari, che è composta di materiali che servono unicamente a procreare individui simili a loro, e quella degli uomini veri e propri, che hanno il dono o la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova. Alla prima categoria appartengono quegli uomini conservatori e morigerati che vivono nell’obbedienza, la quale per loro non è una cosa umiliante, mentre alla seconda categoria appartengono i sovvertitori, coloro che, per attuare la propria idea, si autorizzano in animo loro a passare oltre il sangue senza scrupoli di coscienza. L’uomo straordinario ha un suo diritto personale di permettere alla propria coscienza di superare certi scogli. Perché allora dovrei farmi fermare da certi ostacoli morali? Sì, ho ucciso in questa guerra, ma erano tutti soldati ucraini, nemici. Era necessario, capisci?

Tuttavia proprio questa mattina è successo qualcosa a cui non riesco a smettere di pensare da tutto il giorno. Devi sapere che qui il servizio più penoso tocca alla vedetta posta sul confine, compito che la scorsa notte è toccato a me. Avevo quasi finito il mio turno quando all’improvviso, al primo chiarore dell’alba, la tranquillità fu rotta. Ho sentito un lieve fruscio provenire da dietro un arbusto. Mi sono avvicinato con il cuore che batteva all’impazzata. Ero convinto fosse una spia ucraina, invece era solo un’anziana. Il suo volto mi è rimasto sorprendentemente impresso: era solcato da rughe profonde, accentuate dalla polvere che vi si era insinuata, e anche i capelli grigi erano ricoperti dal fango e dalla sporcizia. Gli zigomi impressionantemente sporgenti, accentuati dall’eccessiva magrezza del viso, e la pelle olivastra, macchiata da ore di esposizione ai raggi solari, non facevano che accentuare l’età avanzata della donna. I vestiti erano di ottima fattura, ma logori e strappati, e, nonostante la temperatura non fosse molto bassa, si stringeva stretta stretta in uno scialle rosso impreziosito da ricami dorati che riflettevano la luce del sole. Era molto bassa, rattrappita, accartocciata su se stessa, evidentemente consumata dalla guerra. Non si è accorta subito della mia presenza. Sono rimasto a guardarla cercare qualcosa tra i cespugli per quello che mi è parso un lasso di tempo infinito, indeciso sul da farsi. Quando si è voltata i suoi occhi color ghiaccio, incorniciati da folte sopracciglia, mi hanno colto alla sprovvista. Vi ho letto la paura. Poi la morte. L’ho uccisa, Sonja. So cosa starai pensando mentre leggi queste parole: era solo una povera innocente. La guerra è spietata Sonja, ma tu cosa puoi saperne? Ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque altro. Poco importa se siano soldati o no; sono pur sempre nemici. I grandi uomini non si fermano davanti al sangue, neppure dinanzi a quello degli innocenti.

Ti confesso però che la mente mi gioca brutti scherzi: ogni volta che chiudo gli occhi mi sembra di rivedere il suo volto. Non so perché mi abbia colpito in questo modo. Era solo una donna qualunque, una vita come le altre, eppure provo pietà nei suoi confronti e soffro quando penso a lei. Dopotutto la sofferenza è l’inevitabile dovere di una coscienza generosa e d’un cuore profondo. Credo che gli uomini veramente grandi debbono provare su questa terra una grande tristezza.

Ora devo salutarti perché la Russia ha bisogno di me. Aspetto tue notizie.

Con affetto,

                     Rodja

Castigo

Rodion Romanovič Raskol’nikov

              Sof’ja Semënovna Marmeladova

Mia cara Sonečka,

sono passati giorni dall’ultima lettera che ti ho scritto, ma non ho ricevuto tue notizie. Probabilmente non l’avranno nemmeno spedita e forse è meglio così perché la tua anima è troppo innocente e candida per essere macchiata dalle mie colpe. Non so perché mi sia preso la briga di procurarmi carta e penna per scriverti queste ultime parole dal momento che so già che non riceverai mai questa lettera. Nonostante ciò, anche solo scrivere il tuo nome mi fa sentire più vicino a te. Sonja, tu sei la mia luce in un abisso di ombre che ormai mi ha ingoiato.

Nella mia solitudine l’unica cosa che mi conforta è rileggere l’undicesimo capitolo del Vangelo di San Giovanni, quello della resurrezione di Lazzaro, perché mi ricorda quando fosti tu a leggermelo. Ho tutto chiaramente impresso nella memoria: la stanza giallastra e sudicia, il Nuovo Testamento tutto consumato, il canale che si intravedeva dalle finestre e il mozzicone di una candela che con la sua luce calda sembrava voler illuminare solamente il tuo volto, l’unica cosa degna di essere rischiarata in quella miseria.

In questo momento non saprei dirti dove mi trovo con esattezza; l’unica cosa che so è che sono in una cella russa. Sì, hai capito bene: russa, non ucraina. Ti chiederai come ci sono finito… ti accontento subito: era passata una settimana da quando avevo ucciso la vecchia e da allora la mia coscienza aveva iniziato a farsi ogni giorno sempre più pesante. Ormai il peso si era fatto insostenibile e, in un attimo di follia, sono fuggito senza una meta né un obiettivo. Non volevo scappare dalla guerra, o almeno non consciamente. Volevo scappare dai miei pensieri, dalla mia coscienza, forse addirittura da me stesso. Sapevo solo che dovevo allontanarmi da lì, ma mentre lo facevo i miei pensieri mi inseguivano e anche se provavo a correre più velocemente, loro tenevano il passo con me. Vedendo che era tutto inutile, stremato dalla corsa disperata, mi sono lasciato cadere al suolo nella leggera stanchezza del mezzogiorno. Da qual momento i miei ricordi sono confusi: ho sentito delle persone sopraggiungere di corsa, delle voci, qualcuno mi ha sollevato di peso e mi ha trasportato fino a qui. In Russia non siamo molto clementi con i disertori, quindi non so perché non mi abbiamo giustiziato subito, ma so che la fine è dietro l’angolo. Anche in questo momento riesco a percepire il respiro della Morte sul mio collo. È dietro di me, la sento, aspetta solo di potermi trascinare all’inferno con lei. Forse sarebbe stato meglio se mi avessero sparato subito, almeno mi sarei risparmiato tutto ciò. Essere rinchiuso in questo buco da solo con i miei pensieri mi sta facendo impazzire. Vivo in un perenne stato febbrile a cui alterno brevi momenti di lucidità, come questo. I secondi scorrono lenti come ore e ho perso completamente la cognizione del tempo. Non riesco a mangiare, non riesco a dormire, in alcuni momenti mi sembra di non riuscire nemmeno a respirare perché un peso mi schiaccia il cuore e mi lascia senza fiato. Ogni volta che chiudo gli occhi vedo il volto di quella vecchia e vi riconosco quello di tutte le altre persone che ho ucciso. Ogni notte in sogno rivivo quel momento e mi risveglio madido di sudore e con il cuore in gola.

La scorsa notte, dopo essermi destato di soprassalto, attraverso una minuscola feritoia, l’unica che c’è, ho intravisto una luna piena e rossa come mai ne ho viste in vita mia e davanti a quello spettacolo della natura per la prima volta dopo molti mesi ho provato una sensazione di pace. I raggi lunari si facevano strada attraverso le sbarre della piccola finestrella illuminando soffusamente lo spazio circostante la mia branda. Il silenzio sembrava assoluto, ma aguzzando meglio le orecchie si riuscivano a udire in lontananza i colpi dei bombardamenti. La brezza primaverile della notte sembrava avvolgermi e per un attimo ho dimenticato la mia condizione, ma quando ho abbassato lo sguardo un urlo spontaneo mi è sorto direttamente dalle profondità dell’animo. Le mie mani erano macchiate del sangue della vecchia e di tutte quelle persone, soldati e civili, che avevo assassinato. Reso pazzo dalla disperazione ho provato a lavarlo via, ma nulla sembrava funzionare, anzi più provavo a sfregarlo più la macchia rossa sembrava allagarsi e l’odore metallico del sangue entrarmi nelle narici. Dopo quelle che mi sono parse ore, stremato e sconfitto, sono ricaduto in un sonno tormentato. Al mattino tutto era svanito, ma il cuscino era ancora bagnato dalle mie lacrime. Quel sangue c’era davvero? Era un effetto ottico provocato dalla luce lunare? O me lo sono immaginato? Credo che la pazzia si stia impossessando della mia mente. O forse sono già completamente impazzito e non me ne rendo conto.

La carta è quasi finita quindi devo concludere questa lettera. Da’ a mia madre e a Dunja un bacio da parte mia e promettimi che ogni tanto passerai a trovarle e che ti occuperai di loro se necessario. Abbraccia Razumichin e digli che è stato un buon amico e che lo ammiro molto: è sempre stato tutto che volevo diventare e che mi illudevo di essere. Quanto a te, Sonja, ti ho voluto molto bene. Spero che conserverai per sempre quell’innocenza così pura che mi ha colpito di te. Non piangere per me, non me lo merito.

Addio Sonja         

Rodja

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Bibliografia selezionata:

F. Dostoevskij., Delitto e castigo, a cura di D. Rebecchini, Feltrinelli, 2013

W. Shakespeare, Macbeth, in Tutte le opere. Vol. 1: Le tragedie, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2015