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Il ghiaccio

Giorgia Bruno, in questo suo racconto, tratta di un giovane Amleto moderno innamorato e stregato che vive in prima persona una delle più tragiche storie cantate dal grande Fabrizio de Andrè, nell’ambito del corso di Letterature comparate, Le forme del sonetto, le forme del tragico: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi). 

PREMESSA

Il racconto ha come intento quello di fondere le trame dei sonetti di Petrarca, dell’Amleto di Shakespeare e, infine, della Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André. Verranno riprese, in questa narrazione, alcune descrizioni tipicamente stilnovistiche della donna-angelo, gli eventi tragici raccontati dal cantautore italiano nella celebre canzone del 1966, e verrà riportato in luce lo sfondo psicologico di un figlio, affranto dalla perdita del padre, che si ritrova, da molto giovane, a dover affrontare una madre che al tempo stesso ama e odia. Il titolo non solo fa un chiaro riferimento al contesto invernale in cui si sviluppa il racconto, ma metaforicamente indica anche la freddezza con cui viene trattato e manipolato il protagonista. Sotto ad un affascinante lago ghiacciato possono nascondersi dei mostri, esattamente come dietro ad una fanciulla dai tratti paradisiaci, può celarsi una natura maligna e subdola.

*

Bene Vagienna, inverno del 1948[1].

La quercia nera nel giardino mi fissava con occhi assopiti, in quel bianco pomeriggio di gennaio. Io me ne stavo seduto sulla vecchia poltrona in vimini del nonno, travolto dall’odore di legna ardente e di sapone di Marsiglia, poggiato poco lontano dal lavandino. Quel giorno tutto sussurrava parole di morte: il vento tra le fessure della finestra, la vecchia radio di nonna sempre accesa e, più di ogni altra cosa, il cigolio del letto di mamma. Il “mostro maledetto”, come lo chiamava lei, era di nuovo tornato quell’anno e come tutte le altre volte l’aveva resa debole come una foglia secca, pallida come le lenzuola su cui giaceva e leggera come un foglio di carta. Il suo cuore allora, non era che un instabile marchingegno dalle viti mal fissate, sempre pronto ad interrompere il suo pulsare.

In pomeriggi come quello, affiorava in me il ricordo di quando mamma, alla domenica, mi passava il mestolo sporco di crema o di cioccolata, dopo aver cucinato una delle sue torte. Il gusto di quel cucchiaio, che ora giace abbandonato nel cassetto, è ancora fisso nella mia mente, tatuato ed indelebile. Proust, forse, parlava già di un concetto simile quando raccontava della memoria rianimata da un piccolo boccone di madeleine[2], o almeno questo è quello che mi ricordo delle lezioni del vecchio professore di Carrù. Mi basterebbe un minuscolo assaggio di quel mestolo per poter rivedere la mia infanzia: la mamma impeccabile ai fornelli con quel grembiule immacolato, la nonna seduta sulla poltrona a cucirmi le toppe della divisa scolastica e il papà…beh il papà non lo so a dire il vero: era partito un giorno del ’43 dicendo che sarebbe andato a comprare il tabacco giù in paese, ma dal vialetto di casa non fece mai ritorno. Lo aspettai per delle settimane, incollato alla finestra, pregando e piangendo. La mamma, invece, passava delle ore sul balcone affacciato sulle Langhe e, per quanto il suo sguardo fosse diventato grigio e i suoi occhi viola dalle lacrime, dava l’impressione di sapere esattamente dove fosse papà. Iniziò a stendere lenzuola nere quando le truppe tedesche giravano in città, e quelle bianche quando le vie di Bene Vagienna erano sgombre dai fascisti. Fu solo qualche anno più tardi che, studiando, capii che mio padre faceva parte dei cosiddetti “partigiani”, e solo quando scoprì la sua malattia, la mamma decise di dirmi che era stato catturato ed ucciso in un campo poco lontano da noi.

Mamma è sempre stata il mio unico punto di riferimento, una sorta di dea, un raggio di luce che penetra e graffia l’atmosfera. Ho sempre provato una sorta di affetto morboso per lei, una pulsione, una scossa d’inestimabile amore edipico, e questo mio sentimento nei suoi confronti lo coltivai fino all’anno seguente la morte di mio padre. Esattamente due mesi dopo la scomparsa di papà, infatti, la mamma mi presentò Claudio[3], un uomo pungente, basso, vecchio, sicuramente intelligente, ma sempre pronto a criticare e a dare consigli di certo non richiesti. Non aveva niente a che fare con mio padre e ciò che ancora di più mi dava noia era il non riuscire a capacitarmi del come mia madre si fosse dimenticata così in fretta dell’armonia della nostra famiglia. Ricordo che una sera, affranto dal dolore per la morte di mio padre e colmo di odio e rancore verso quell’uomo disgustoso, seduto a capotavola mi rivoltai contro mia madre dandole della “bestia”[4]. Un animale avrebbe patito più a lungo la morte di un caro, un animale sarebbe stato più bravo nel portare il lutto. Un Animale avrebbe finto meglio. Da quella sera, il legame tra me e mia madre si ruppe, non ridemmo più, non piangemmo più. L’unico dovere che ancora mi costringeva a lei era la sua dannata malattia al cuore che la divorava dal mattino alla sera, senza sosta. E Claudio? Beh lui, da vero gentiluomo, scappò dopo due anni per una donna molto più giovane di mia madre, abbandonandola nel suo letto che in quel maledetto pomeriggio di gennaio cigolava e strillava. Fu proprio quel giorno del ’48, però, in cui finalmente, dopo tanti anni di buio, rividi un raggio di luce simile a quello che emanava mamma quando ero piccolo: affacciato alla finestra incorniciata dalla muffa, vidi un angelo passeggiare sulla neve del vialetto. Era una creatura con la pelle liscia e di un colore poco più roseo della neve circostante, le labbra della stessa tinta delle rose sul comodino, e i capelli come raggi di sole ondulati che si scioglievano sulle sue spalle[5]. Mai, e dico mai, avrei creduto che si potesse assistere ad una visione come quella: rimasi estasiato, con un vortice di farfalle e falene che volteggiavano non solo nel mio stomaco, ma in tutto il resto del mio corpo, fino a raggiungere i più estremi capillari. Non trovo pace, non riesco a contenere il mio cuore che batte come un tamburo, non voglio nemmeno provarci a contenerlo, a dire il vero. Mi sento ardere e mi sento ghiaccio, mi sembra di volare e mi sembra di essere disteso a terra tra i fiori, piango e rido, grido e non ho una lingua, vedo e non ho gli occhi. Una prigione, quella donna mi aveva appena messo in una prigione da cui non sarei più uscito[6]. “É la nipote di Anita, qua accanto” disse mia madre che nel frattempo si era accovacciata sul bordo del materasso: “Viene da Parigi, è molto acculturata, ma si dice che sia una vera arpia”. Ricordo ancora lo sguardo che posai su mia madre dopo quell’acido “arpia”, sputato fuori dalla sua bocca come veleno. Come poteva essere cattiva una fanciulla arrivata direttamente dalle scale del Paradiso?

Il giorno seguente uscii per andare in centro a Bene a comprare le medicine per mamma. Il freddo quel giorno era ancora più spietato: si infilava in ogni fessura dei vestiti e correva sulla pelle e sui muscoli, penetrando nei pori e raggelando il sangue. Persino la statua di Botero, lì fiera ed inerme sembrava sentire il gelo più degli altri giorni: aveva un cappello di neve e del ghiaccio lungo tutto il mantello e sui manuali di teologia su cui poggiava la mano. Il suo sguardo marmoreo sembrava scrutarmi l’anima, pareva essere a conoscenza della voragine che divorava i miei organi, dopo l’incontro con la creatura fatale. Non appena varcai la soglia della farmacia, una nube di calore incorniciò il mio volto, riscaldando ogni centimetro della mia pelle. Lì l’atmosfera era diversa, più spessa, in qualche modo tangibile. Alzai lo sguardo e tolsi gli occhiali, rimasti appannati dallo sbalzo termico: quello che vidi davanti a me, mi diede una scossa così profonda e prepotente da lasciarmi senza fiato. Un cappotto rosso scuro, decorato da ricami di un colore verde pino e coperto sulle spalle da candidi riccioli d’oro, si ergeva a pochi centimetri da me. Il profumo di orchidea, che emanavano i suoi guanti color perla, ancora adesso mi arde nelle narici, e il suono della sua voce ancora ora risuona nella mia testa come un accordo d’arpa, lontano e delicato come cotone. “Buongiorno, Laurine” mi sembrò di sentire dalle mie orecchie, assordate dal frastuono del mio stesso battito. Laurine, L-A-U-R-I-N-E. Certo, come poteva non chiamarsi allo stesso modo della donna più celebrata dalla letteratura italiana?[7] Tutto di lei emanava luce e diffondeva calore, tutto di lei rendeva ciechi e sordi, tutto di lei era astrazione, niente di lei era umano. Nemmeno i suoi movimenti sembravano appartenere ad una persona in carne ed ossa[8]: lenti, dosati, leggeri come le piume di un cuscino. Si voltò con una pacatezza estrema e finalmente, dopo un tempo per me infinito, riuscii a vedere i suoi occhi. Due sfere del colore del mare, con sprazzi di schiuma bianca e graffi grigi e blu. Sentivo di affogare dentro quei laghi profondi e pericolosi di cui non si conosceva il fondale. Mi vergognavo quasi a guardarla, non riuscivo a mantenere il contatto visivo per più di tre o quattro secondi… come se davanti a me, imponente e spietata ci fosse la Madonna, pronta ad giudicare i miei peccati. Quando Laurine era a meno di venti millimetri da me, mi sentii sfiorare le dita dai suoi guanti di seta lucente: la sua mano corse sul mio braccio e mi disse con la voce di un candore sovraumano: “Tu devi essere Fabrizio[9], il mio vicino, vero?”.

Dentro di me cadde il buio, mi trovavo in un tunnel nero senza uscita: la lingua sembrava anestetizzata, incollata al mio palato senza via di fuga, i miei occhi guardavano a terra impotenti ed incapaci di sollevarsi, il mio corpo era pietrificato, come quello di Botero là fuori, che ancora sbirciava nella bottega. Il mio respiro era cessato e fu solo quando le sue dita d’avorio fecero una leggera pressione sul mio gomito, solleticando il nervo, che riuscii a riprendere vita e colore. Alzai lo sguardo, con una lentezza pari alla sua e per un nano secondo credetti di cedere: le mie gambe tremavano e sentivo il mio battito sussurrarmi il suo pulsare nelle orecchie. Aprii la bocca impastata come sabbia e vomitai un pallido “Si, sono io”. Il suo sguardo si spalancò in un sorriso sincero e compiaciuto, e mi chiese se mi andasse di accompagnarla a casa visto che stringevo tra le mani il mio ombrello viola. Fuori scendevano a gara fiocchi di neve, grossi come batuffoli di cotone, io strinsi con sicurezza l’ombrello rotto e vecchio della nonna e le risposi con maggiore convinzione “SI”. Laurine si attaccò al mio braccio, lo strinse a sé e il mio cuore si fermò. Trattenni il fiato, varcai la porta d’ingresso e con le mani tremanti aprii quell’insieme di ferraglia e bulloni che troppe volte avevo provato (invano) a riparare. Parlò, o meglio cantò, per dei minuti infiniti: la sua voce mi cullava, mi trasportava sulle nubi, mi rendeva aria. Ricordo di essere sembrato un impedito, ma le mie parole erano incastrate lì, tra la gola e l’ugola, e nulla riusciva a superare il palato. Talvolta mi voltavo per qualche millesimo di secondo per osservarla e annuire alle sue affermazioni sulla Sorbone, sul cibo francese decisamente troppo grasso e “burroso”, sui ragazzi troppo precipitosi e sulle riviste di moda banali e fatiscenti. Arrivati davanti alla porta di casa, mi diede un bacio sulla guancia e io rimasi a fissarla impietrito come un vero imbecille. Non potevo credere a cosa mi fosse appena successo. Mi sentivo completamente travolto da una bufera di sensazioni formidabili, calde, eterne, vive. Lei mi sorrise e mi fece un cenno con la mano, al quale io risposi con una pallida smorfia di saluto. Entrai in casa e lasciai che finalmente le mie gambe potessero crollare in un dolce svenimento: restai sull’uscio, accasciato e sorridente per una decina di minuti, quando all’improvviso una voce acuta e debole ruppe l’incantesimo: “Hai trovato le medicine o come al solito bisogna aspettare di morire per ottenere un po’ di aiuto?”. Il mio stomaco divenne un groviglio d’odio e di nervi, mi sollevai con le gambe tremanti e raggiunsi il letto matrimoniale dove giaceva mia madre. “Ho dovuto accompagnare a casa Laurine, mamma. In farmacia non sono stato per più di dieci minuti” “E ora sarà chiusa, immagino. Questo è il tuo grazie per tutti gli anni trascorsi ad allevarti da sola? Per di più per correre dietro a quella megera maliziosa di Laurine. Stalle alla larga, Fabrizio, ti farà del male”. In quell’esatto momento guardai mia madre negli occhi e le dissi con fermezza e piena coscienza: “Spero vivamente questo sia il tuo ultimo inverno”. Silenzio. Non rispose, non aveva parole e forza per farlo: lasciò andare tutti i suoi muscoli e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Con il cuore stretto da mani fantasma, mi voltai e uscii a denti sigillati per camminare nel bosco, proprio dietro la casa del vecchio Tom.

Dopo circa un’ora che passeggiavo sentii una voce lontana che gridava il mio nome: Laurine correva come un cerbiatto tra il muschio e le cortecce degli alberi. Mi raggiunse e il mio cuore cupo tornò a sorridere. Parlai a braccetto per delle ore, mentre i fiocchi le cadevano sui boccoli e sulle ciglia, completamente assopito e avvolto in quel calore e in quella luce che emanava il suo corpo sinuoso e puro. Quando arrivammo al ruscello ghiacciato mi prese le mani per non scivolare e, dopo alcuni minuti, mi trascinò ridendo di gusto sulla lastra di vetro lucente. Rotolammo per terra in meno di dieci secondi, e fu in quel preciso momento, in cui Laurine si stese sopra di me, esausta dalla fatica e dalle risate, che mi guardò e mi baciò. Labbra contro labbra, l’eternità celeste che si scaglia su due giovani fatti di cenere. Sarebbe potuto durare per sempre quell’attimo, sarei morto tra le sue braccia, felice, senza paura del dopo, dell’inferno o del paradiso. Sereno.

Ci tirammo su in piedi e ci mettemmo a sedere sul tronco di una betulla recisa. Lì mi prese le mani e con sguardo sicuro, ed in parte subdolo, pronunciò queste parole: “Tu mi ami, vero? Me ne sono accorta dal primo istante, fate tutti la stessa faccia quando mi vedete, tra l’estasi e lo stupore”. La guardai, perso tra il suo canto di sirena e i suoi capelli in lotta coi raggi di sole. “Tu uccideresti qualcuno per me? Come tua madre? Sono sicura che per me strapperesti via il cuore malato di quel diavolo, per darlo ai miei cani”[10]. Posso giurare di aver visto nei suoi occhi una scintilla di follia, mentre quelle parole taglienti sgorgavano dalla sua bocca. Incapace di riflettere, posai il mio sguardo sulle sue mani che sfioravano il mio braccio e, stregato dalla creatura le risposi: “Io per te fare qualsiasi cosa.” Sogghignò e mi disse “Bravo, ora dimostramelo!”. Tornai a casa con passo svelto e sicuro, spalancai silenziosamente la porta e mi avvicinai al letto, dove mia madre dormiva, con il viso rivolto alla foto di papà sul comodino. Sembrava quasi sorridere, mentre le piantavo il coltello tra lo sterno e le costole. La uccisi con una violenza innata e compiaciuta, e ricordo che ridevo forte. Ridevo, perché allora Laurine mi avrebbe amato; ridevo, perché finalmente papà avrebbe avuto la sua vendetta; ridevo perché ora la mamma, in qualche modo, era libera. Il suo cuore malato, ora, era nelle mie mani, esausto e senza vita: poteva scappare in alto nel cielo, senza più quel peso fastidioso del “maledetto mostro”. Corsi come un pazzo da lei, che ancora mi aspettava dalla betulla: le porsi il cuore di mia madre con orgoglio, in attesa di un suo apprezzamento per il gesto compiuto. Invece, ciò che ricevetti fu un unico e sprezzante: “Disgustoso, Fabrizio. Come puoi anche solo pensare che un orrore simile possa dimostrarmi il tuo cieco amore per me?”.

Mi sentii morire e per il primo istante percepii il magone e il dolore per ciò che avevo commesso: uccidere la propria madre, un gesto avventato ed orribile per cui mai e poi mai mi sarei dato pace. Piansi, piansi e piansi. Mi gettai tra le braccia del mio angelo che dandomi una carezza sulla testa mi sussurrò nell’orecchio con una voce affilata: “Se vuoi convincermi dell’amore che provi per me e soprattutto se vuoi espiare il tuo grave peccato, c’è solo una cosa che devi fare”. Esitò un istante guardando a terra, poi sorrise e mi ipnotizzò con le sue perle celesti: “Tagliati. Le. Vene.”

Gelo. Una scossa di ghiaccio percorse ogni mia vertebra, arrivando fino alla mia nuca. Le chiesi se fosse davvero quello che volesse, se desiderasse vedermi morire in quel bosco, col cuore ormai grigio di mia madre, poggiato poco lontano da noi sulla neve. Laurine mi spostò una ciocca di capelli dalla fronte, mi baciò e con un ghigno crudele, mi disse: “Si”.

Sono passati pochi minuti da quella risposta, arida e violenta, ma nella mia testa sono trascorse delle ore intere. Una cascata di fuoco sta colando tra i miei organi, sento l’adrenalina sulla punta delle dita, la gola secca, le guance umide di lacrime e le gocce di sudore che fanno a gara sul mio collo. Mi volto e vedo inerme il cuore di mamma, quel cuore su cui per tanti anni, da bambino, mi sono appoggiato per sentirne il lento pulsare che mi cullava. Prendo il coltellino svizzero dalla tasca in alto del cappotto, mi accarezzo il polso con la lama e osservo innamorato il primo fiotto di sangue che disegna una riga sulla mia pelle cadaverica. Sento dolore, ma almeno ora Laurine sa che l’amo. La guardo, tremando dalla paura e, invece di vederla pregarmi di smetterla, la trovo seduta sulla betulla che ride a crepapelle. Lei e la sua vanità gioiscono fredde accanto al ruscello, come un pezzo di ghiaccio. Il mio sangue bagna e scioglie la neve, sotto di me, le mani cambiano colore e la creatura si fa sempre più lontana e sfocata. Ora sa che la amo, ora sa che voglio lei e che per lei farei di tutto. Chiudo gli occhi e mi addormento sentendo il suono sinistro della sua risata leggera. Sono felice, sorrido, mamma e papà mi tendono la mano.

BIBILIOGRAFIA

  • À la recherche du temps perdu – Du coté de chez Swann di Marcel Proust (1906-1922).
  • Hamlet di William Shakespeare (1599-1601).
  • Canzoniere di Petrarca (1335-1374): Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; Pace non trovo, et non ó da far guerra.
  • Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André (1966).

[1] La data fa riferimento, nelle ultime due cifre, alla morte della celebre amata di Francesco Petrarca, Laura, avvenuta il 6 aprile del 1348 ad Avignone.

[2] Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust (1906-1922).

[3] Il nome si riferisce al personaggio di Claudius, amante di Gertrude, nella tragedia Hamlet di Shakespeare (1599-1601).

[4] Il termine bestia viene utilizzato nell’Hamlet di Shakespeare (1599-1601) per indicare la madre Gertrude, che non sembra aver realmente sofferto per la morte del primo marito.

[5] Si fa riferimento al primo verso del sonetto di Petrarca Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Canzoniere, 1335-1374), quando vengono descritti i capelli della donna amata.

[6] Queste ultime tre frasi (espresse all’indicativo presente, perché ancora sentite nel momento in cui vengono raccontate) riprendono i primi versi petrarcheschi del sonetto Pace non trovo, et non ó da far guerra (Canzoniere, 1335-1374).

[7] Si intende Laura de Noves, donna colta, amata e celebrata da Francesco Petrarca.

[8] Si fa nuovamente riferimento al sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Canzoniere, 1335-1374), nei versi in cui viene descritto il movimento e l’andatura dell’amata.

[9] Fabrizio come Fabrizio de André, che sarà protagonista dell’ultima parte del racconto.

[10] Questa prova d’amore, proposta da Laurine, fa un chiaro riferimento alla Ballata dell’amore cieco di Fabrizio de André del 1966