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Riflessi

Beatrice Robaldo parte dall’idea e dall’immagine visiva del rispecchiamento, fonte di contatto intimo e profonda conoscenza, per sviluppare un racconto dove i protagonisti sono evocazioni di sentimenti, riflessi emozionali legati al desiderio che cadono l’uno nell’altro e possono accogliere indistintamente le esperienze personali dei lettori, nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, legato al corso di Letterature comparate B, 2021/20221, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina.”

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Cosa può essere più superficiale di uno specchio che riflette? Cosa più fragile, mutevole, inafferrabile di un riflesso, si chiese accarezzando il cielo con le dita, che già scompariva in milioni di rughe ondulanti. Sembrava quasi che l’acqua aggrottasse la fronte ogni volta che lei cercava di toccare le sue nuvole. Amava guardare il cielo riflesso nell’acqua, lí ogni distanza si annullava, ogni affanno si spegneva, il cielo era nell’acqua e l’acqua nel cielo, non li separava neppure un granello d’aria, il loro abbraccio era troppo stretto. Forse non erano neanche più abbracciati, erano solo insieme, così insieme da essere uno. 
Che riflesso bugiardo, che riflesso eterno.
Un passo indietro dalla riva, continuava a guardarli. 
Si passò le dita sul viso e questa volta ciò che incontrarono non si deformò, non sparí, al contrario, solida, fredda, ruvida, si fece sentire in tutta la sua materialità, in tutta la sua presenza. 
Aveva ormai imparato la differenza fra le cose della vita, differenza che si esauriva essenzialmente nella contrapposizione fra ciò che si sente e ciò che si tocca. Ciò che si sente non può essere ne stretto ne toccato, eppure è vero il contrario, ciò che si tocca può essere sentito. Lei ad esempio lo sentiva, il peso della sua maschera tra le dita, il peso sul suo volto, sul suo cuore. Ma quel mondo, il suo mondo, sembrava non essere capace di sentire. Forse non gli piaceva, ascoltare. 
C’era un altro aspetto del mondo che aveva imparato a conoscere: il mondo era insofferente al dolore, così insofferente da cercare ossessivamente un modo per esserne indifferente. E anche per il dolore le cure erano due, una che si poteva sentire, l’amore – forse quella non l’avrebbe mai conosciuta – e una che si poteva toccare, la morfina. Facile capire quale aveva preferito il mondo. 
Ah, che mondo strano, pensò facendo un passo verso la riva.
Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina. Che mondo strano. Chissà quanti cieli e quante acque c’erano stati prima che il mondo avesse smesso di guardare i riflessi, di sentire, di ascoltare… Prima che avesse avuto troppa paura di essere.
Si tolse la maschera e trattenne il respiro. Quella maschera non le permetteva di stare bene, le impediva di respirare morfina e questo significava non essere anestetizzati al dolore. Avrebbe potuto farlo, un piccolo sospiro e anche lei sarebbe diventata indifferente, avrebbe guardato il cielo dal basso e non avrebbe più sentito il peso della mancanza, della lontananza. Sarebbe stato normale, l’indifferenza sarebbe diventata normale. Non essere significava stare bene. 
Trattenne il respiro e fece un ultimo passo avanti. Guardò il suo riflesso nell’acqua, nel cielo, il suo volto nudo, il suo essere. Perderlo, perdersi, la terrorizzava.
Ma essere era così difficile, così dannatamente difficile.
Era davvero?
L’acqua si increspò, il volto sembrò cambiare le sue sembianze.
Si era persa?
Morfina nell’aria, un mondo senza amore, un’anima senza amore.
Si sarebbe mai ritrovata?
Altrove.
Il cielo si rannuvolò, si fece sempre più buio, l’acqua si ghiacciò, divenne dura, scintillante, divenne uno specchio. Era buio, ma riusciva a vedersi, aveva gli occhi chiusi, ma riusciva a specchiarsi. E come al solito non andava bene. Era buio e non andava bene. Era buio. Lei non andava bene.
Gli diede un pugno, non gli era rimasto neanche un briciolo di forze, le aveva risucchiate tutte, le aveva buttate, sprecate, ne era soffocata, e il braccio, quel braccio molle di un corpo molle, mosso da una mente molle, molle e debole, si alzò con una violenza isterica, insulsa e impattò contro la superficie piatta e fredda, fredda del vetro e spaccò in mille pezzi, un milione di schegge e quelle piccole piccole si conficcarono ovunque, sotto le unghie, sotto la pelle, sotto le ciglia. Scorreva l’acqua, era rossa, rossa come il sangue che si ostinava a passare, nelle vene, nel cuore, negli occhi, sanguinavano gli occhi e i polmoni e le mani e i capelli ne erano incrostati. Tirò i capelli, li tirò forte e il vetro si ruppe di nuovo, urlò e il vetro si ruppe ancora, stette immobile e le schegge si conficcarono più a fondo, respirò, e loro andarono più giù, sempre più giù e ancora e ancora. Ancora e ancora. Il petto era un pozzo, un pozzo stretto stretto. Si dimenò, era caduta in un pozzo. Non c’era aria, non c’erano appigli, ma l’aria doveva passare di lì, doveva uscire dal pozzo, ma non poteva, perché lei occupava tutto lo spazio, si stava togliendo l’aria da sola. Il pozzo cercò dolorosamente di aumentare le sue dimensioni e la pelle si stirò innaturalmente. Vide le pareti deformarsi nel buio, innervate dal dolore le fibre risplendevano. Vide il colore del dolore e desiderò di essere cieca, poi ne sentì il rumore e desiderò di essere sorda, poi il sapore e desiderò di non sentire mai più un gusto, poi la consistenza e desiderò che le mani diventassero insensibili – come facevano a non esserlo con tutto quel sangue, con tutte quelle ferite? – poi lo sentì di nuovo, non era un suono, non un colore non un gusto, non lo sentì con le orecchie non con gli occhi non con la lingua, lo sentì e basta e desiderò di non avere un cuore, mai più, di essere abbastanza grossa per non far passare l’aria, mai più. Ma lei era piccola, piccola e insulsa, piccola e inutile, piccola e debole, piccola e isterica, piccola e disgraziata e un filo d’aria passò lo stesso, un filo più sottile dello stelo di una margherita di campo fu abbastanza per squarciarla. Era una margherita, una margherita rossa, squarciata dalla terra e stritolata in un pugno. Strinse i pugni e le lenzuola si strinsero, ballavano, bianche, bianche macchiate di rosso le lenzuola ballavano e si stringevano, sulla bocca, attorno al collo. Ne fece una corda per fuggire, la tirò e poi se ne aggrappò, saltò fuori aggrappandosi alle lenzuola  e quelle sostennero il peso del suo corpo, strette intorno al collo le lenzuola sostenevano il suo corpo, sempre più strette le impedivano di cadere, sempre più strette le impedivano di respirare. 
Il buio avvolgeva ancora ogni cosa, mentre il mondo riposava lei precipitava. 
Lui invece era ancora in bilico, sull’orlo di un precipizio, cercando di non fare ciò che sapeva di non dover fare, guardare giù. 
Chissà perché sapere non è mai sufficiente.
Era giunto il momento del giorno in cui ogni attività rallentava il suo corso, si faceva più distesa e meno frenetica, il cielo aveva smesso di cambiare pelle e sonnecchiava placido, in quel blu profondo che non avrebbe chiuso i suoi mille occhi ancora per un po’. Le onde della strada si infrangevano sempre più rade alle finestre incappucciate. Le poche auto si sentivano arrivare da lontano, il rumore nasceva, impercettibile, si avvicinava, cullante, passava, deciso e poi sempre più sospirante, sempre più lontano. I singhiozzi dei cani erano radi, ancor di più i brontolii degli aerei, il respiro dell’aria costante e ritmato, rotto soltanto da qualche sospiro profondo di vento. La notte era un corpo dalla fisiologia comune, si agitava mollemente, ma non abbastanza per svegliarsi. Era viva, stanca, serena, addormentata, altrove. Anche lui avrebbe voluto essere altrove, ma non era ancora il momento, inutile mettersi a letto ora, il nervoso avrebbe reso l’attesa oltre che noiosa insopportabile e aveva imparato a muoversi con attenzione quando si ritrovava in equilibro. Sapeva che restare immobili non esimeva dal cadere, come sapeva anche di non esserci mai stato davvero, in equilibrio, di non esserne mai stato capace, ma in quei momenti, quelli in cui riusciva a sincronizzare i suoi respiri con quelli del mondo – e solo di notte c’era abbastanza silenzio per poterlo fare – cadere non faceva male, era più semplice e più rasserenante di tentare di mantenersi in equilibrio. All’improvviso sentì un piagnucolio, un gemito provenire dalla boscaglia e si ritrovò a chiedersi se fossero gli animali ad essere più umani di notte o gli uomini ad essere più animali, il risultato in ogni caso era stato lo stesso, la vicinanza. Quel piccolo verso, così caldo e umido, gli scivolò sulla schiena. Un brivido alla volta la mancanza gli ricordò la sua presenza. Eccola, la goccia, il soffio d’aria, la spinta, l’onda. La vicinanza. Una vicinanza fittizia, insufficiente, irraggiungibile. Cadere ricominciò a fare male. 

Le urla dei grilli coprivano i respiri della notte, impossibile cercare di seguirli. Ora tutto stonava, non un’auto, non un aereo, non un cane. Soltanto urla e silenzio, urla e silenzio. Il volto sereno della notte rimaneva imperturbato, sereno, altrove. Anche lui era finito altrove, ma il suo cielo era diverso, il suo cielo non aveva stelle.
Un cielo senza stelle, un cielo di sabbia, un cielo soffocante. 
Scorreva sotto le dita senza fare rumore, era pelle, seta, le corde dell’arpa, i crini biondi di un cavallo senza padrone, scorreva e graffiava, graffiava i polpastrelli incappucciati da calli invecchiati sotto entusiasmo e frustrazione, graffiava senza fare male, le mani non facevano mai male, il cuore sempre. Era così facile, bastava un respiro a muoverla e mille per decidere di farlo, come quando perché, era così difficile, ogni idea sfumata un rimpianto, ogni idea realizzata una delusione, niente andava mai come doveva andare. Lui sentiva, ma non sapeva trascrivere, la sabbia sbagliava il suo corso, sempre, spingendolo a chiedersi ossessivamente chi fosse a mentire, il cuore o le mani? Il cuore non mentiva mai e lui sapeva ascoltarlo, ma le mani, oh le mani, quelle sapevano solo sbagliare… e ancora, era la sabbia ad essere indomabile o le mani incapaci di essere domate? Se il desiderio che il cuore non smetteva di urlare alle sue orecchie era così facile da sentire, perché, si chiedeva, perché era così difficile da nutrire… la mancanza era assordante, accarezzava la sabbia sperando ingenuamente di trovare sollievo laddove aveva conosciuto solo tormento. Le mani avevano fatto il callo ai graffi, il cuore no, eppure continuava, accarezzava la sabbia, viveva di graffi, tra solchi insoddisfacenti e sfumature sbagliate, viveva di desideri urlanti, tra mani disobbedienti e cuori biascicanti, viveva di inizi e di fini, trascrivendo storie che non gli sarebbero mai appartenute. 
I suoi disegni erano così fragili. 
Si ritrovò a disegnare una bambolina, con gli occhi grandi e le ciglia lunghe. Non sapeva dire se fosse fosse felice oppure no, sicuramente, come tutti i suoi disegni, era fragile e presto non sarebbe esistita più.
Ah che bambolina fragile e mortale, qualcuno si sarebbe ricordato di lei? 
Una bambolina si guardò allo specchio. Aveva gli occhi grandi e le ciglia lunghe, cercò di scrutare più a fondo, nei suoi occhi. Non riusciva a capire se fosse felice o no e si chiese se lo fosse mai stata davvero, se sapeva cosa volesse dire, se sapeva cosa voleva. Era tutto troppo grande, i sogni, le aspettative, le delusioni. Solo di una cosa era sicura. Era fragile, fragile di un fragilità odiosa, non come quella fiera di un cristallo che deve essere maneggiato con cura e che può essere rotto solo con la violenza, la sua fragilità era quella sciocca e molle dei petali dei fiori, delle ali delle farfalle o delle bolle di sapone, bastava niente per farle del male, ogni carezza uno schiaffo, ogni emozione uno sconvolgimento. Si guardò ancora. Era un petalo accarezzato da decine di mani indiscrete ognuna delle quali faceva capo ad una delle sue paure, era un paio di ali che sentiva il desiderio di volare e non aveva la capacità di farlo, era una bolla di sapone, una bolla di sapone che sapeva fare soltanto una cosa, scoppiare.
Scoppiare. Scoppiava. Tutto crollava.
Il cielo crollava, anzi no, erano le case a crollare,  il cielo… era lui il colpevole. L’aria esplodeva e non era più aria, era polvere, era gesso, era irrespirabile. Il cielo non era più il cielo, le case non erano più le case, l’aria non era più l’aria.
Gli uomini erano sempre uomini invece. I bambini sempre bambini. Sempre fragili, sempre vulnerabili, sempre mortali. Ma il mondo stava attraversando uno di quei momenti in cui non ricordava che gli uomini erano uomini e che i bambini erano bambini, li calpestava e basta. 
Ah che uomini fragili e mortali, qualcuno si sarebbe ricordato di loro?
Non un fiore, non un farfalla, non una bolla di sapone.
Non un volto, non un nome.
“Morfina,  serve della morfina, adesso, fate presto!”
“Non ne abbiamo più, mi dispiace, l’abbiamo finita. L’abbiamo finita”
Morfina nell’aria, nell’anima del mondo.
È questa la soluzione? L’indifferenza al dolore. O è questa la colpa? Si chiese l’Umanità guardandosi allo specchio. Il riflesso era quello di un corpo vecchio, vecchio e mutilato, vecchio e dolorante, vecchio e pesante, vecchio e sbagliato, vecchio e mancante, vecchio e sofferente. 
Ma c’era un ‘eccezione, c’è sempre un’eccezione. Male nel bene, bene nel male.
Eccezionali, così erano i suoi occhi, occhi bambini, occhi speranza. 
Quanti cieli avevano visto cadere, quanti ancora ne dovevano vedere. 
Ma per qualche misterioso e arcano motivo non avrebbero mai smesso di brillare.
E ridere.
E piangere.
E ridere.
Perché?
Perché si ama? 
Perché si odia?
È la storia di tutti, di tutto, è la storia del mondo. 
Che non ha volto, che non ha nome, 
che sa solo chiedere e non sa rispondere, 
che è, sempre sarà desiderante, mancante, errante.
Che sa amarsi e non osa farsi del male.
Che decide di farsi del male e dimentica di amarsi.

Atopos

Gianni Demo rappresenta, attraverso un calligramma ispirato all’opera di Apollinaire, la similitudine tra Socrate e le statuette di satiri, rintracciata da Alcibiade nel Simposio di Platone. Il testo è stato sviluppato nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate B, mod. 1, 2021/2022, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Secondo me un calligramma è un insieme di segno, disegno e pensiero. Esso rappresenta la via più breve per esprimere un concetto in termini materiali e per costringere l’occhio ad accettare una visione globale della parola scritta”. G. Apollinaire.             

Il nucleo del discorso di Diotima è il “prezioso contenuto” di questo Socrate-Sileno. In calce, le parole di Alcibiade.

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La strana verità su mia sorella Matilde

Silvia Barbieri immagina un’avventura alla Lady Chatterley vissuta attraverso la magia del Sogno di Shakespeare e di Peter Pan di Barrie. Il lavoro è stato sviluppato nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Disse che stava camminando nel bosco quando le era parso di vedere qualcosa muoversi tra le felci e incuriosita aveva seguito quel movimento. Sperava in una volpe o un cucciolo di capriolo e invece ne era uscito un ragazzo. Il più bel ragazzo che avesse mai visto, a suo dire”.

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Cara mamma,

A lungo ho mantenuto questo segreto per paura che nessuno mi avrebbe creduto. Sono pronta a raccontarti come andarono veramente le cose quando Matilde ed io raggiungemmo i nonni in campagna. Non è vero che non mi ricordavo nulla. Io ero presente quando lei… ma tu devi credermi mamma, o questo mio doloroso sforzo per ricordare, per tornare a quei giorni, non varrà nulla.

Sai bene che Matilde non si era dimostrata per nulla entusiasta di lasciare Torino per passare l’estate dai nonni, mentre i suoi amici si organizzavano per trascorrere insieme i giorni di vacanza, ma aveva rapidamente cambiato espressione quando finalmente arrivammo alla fattoria. Nostra nonna ci venne incontro sorridente uscendo da casa sua e questo bastò a farle cambiare umore.

In campagna c’erano molti lavori da fare e, da quando il nonno era stato male, erano aumentati a dismisura. Per questo ci svegliavamo presto tutte le mattine per raccogliere grandi quantità di frutta e ortaggi che la nonna avrebbe rivenduto al mercato del paese.

Ti ricordi l’orto dei nonni come era enorme ma ben curato, i rettangoli di terra erano precisi e altrettanto precise erano disposte le diverse piante. Tutt’attorno al perimetro erano cresciuti i cespugli di fiori colorati e profumatissimi che avevamo piantato insieme quando eravamo bambine.

Al termine di una delle prime giornate, esauste dal lavoro faticoso, dal caldo umido e asfissiante e dallo sciame di zanzare che ci avevano massacrate, ci stendemmo all’ombra del ciliegio più grande della fattoria, per rianimarci prima della cena.

Sdraiata a terra con le palpebre appesantite, mentre guardavo le nuvole spostarsi rapidamente, pensai a come eravamo cambiate, mia sorella ed io, rispetto a quando aiutavamo i nonni da bambine. Allora tutto ci sembrava un gioco e nulla era mai troppo faticoso o stancante, anzi ogni giorno era una nuova avventura.

Il boschetto lì accanto era così silenzioso eppure così vivo, luogo ricco di avventure che insieme a Matilde e agli altri cugini ci immaginavamo da bambini. Senza nemmeno rendermene conto scivolai in un sonno profondo, intontita dalla stanchezza.

Un frullare di ali mi riportò alla realtà. Non sapevo quanto tempo era passato da quando mi ero assopita e guardando l’orologio mi resi conto che erano trascorsi appena dieci minuti.

Una gallina beccava a terra poco lontano da dove mi trovavo io, mentre di mia sorella non c’era alcuna traccia. Provai a chiamarla ma non ottenni alcuna risposta, a parte la gallina che si allontanò zampettando.

Entrai in casa e sul tavolo trovai un bigliettino scritto a mano dalla nonna, in cui diceva di essere andata da qualcuna delle sue amiche a portare un cesto di verdura fresca per la cena. Chiamai Matilde ma non era nemmeno in casa.

Così mi rinfilai le scarpe e cominciai a guardare un po’ ovunque, chiamando mia sorella a gran voce, senza ottenere risposta. Guardai il bosco, che se ne stava quieto davanti a me, con le sue porte sempre spalancate che mi invitavano ad entrare, a scoprire i suoi segreti, i suoi luoghi nascosti.

Mi avviai tra gli alti alberi di castagni e robinie. L’erba cresceva rada sul terreno a causa della poca luce che riusciva a penetrare tra le fronde. L’aria era calda, impregnata di umidità e satura dell’odore del legno e della terra bagnata.

Mi incamminai seguendo uno stretto sentiero tracciato da qualche animale selvatico che abitudinariamente batteva quel tratto di bosco, forse un capriolo o qualche cinghiale.

Mi guardavo attorno chiamando mia sorella, ma più mi inoltravo nel cuore della natura, più l’ambiente attorno si faceva scuro, quasi ostile. Mi intimoriva l’idea di rompere quel silenzio che aveva un che di sacro, al punto che non osavo più urlare il nome di Matilde, per paura che la natura si rivoltasse contro di me. Cominciai a guardarmi intorno con circospezione sempre maggiore, con la crescente e inquietante sensazione che migliaia di occhi fossero puntati su di me, unica creatura umana così stonante in quell’ambiente verde e naturale. Eppure per quanto sforzassi la vista alla ricerca di una qualsiasi creatura vivente in mezzo a tutto quel fogliame, non mi riuscì di trovare alcunché. Fu proprio mentre mi guardavo attorno che non feci caso ad una grossa e nodosa radice in mezzo al sentiero che mi fece inciampare e cadere bocconi.

Appena mi ripresi dalla caduta, riaprendo gli occhi vidi davanti a me un paio di scarponcini da battaglia che ben conoscevo. Mia sorella Matilde mi guardava dall’alto in basso con aria interrogativa. Mi chiese se stavo bene e io mi tirai in piedi. La guardai fissa negli occhi, sembrava strana. Aveva uno sguardo stralunato, come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno.

Le chiesi dov’era stata, le dissi che l’avevo cercata in lungo e in largo e non avendo ricevuto risposta mi ero preoccupata. E Matilde, con il suo sguardo perso nel vuoto, mi disse che si era solo allontanata per fare due passi. Le chiesi se era tutto, se non ci fosse dell’altro. Negò e io, lì per lì, non feci troppe domande, ero solo contenta di non essere più sola e di averla ritrovata.

Durante il viaggio di ritorno e durante la cena nessuna delle due accennò più all’accaduto, ma una volta a letto, con la protezione del buio notturno, Matilde mi disse che nel bosco aveva incontrato un ragazzo.

Le chiesi se avesse voglia di raccontarmi cosa fosse successo e distesa nell’oscurità prese a raccontare.

Disse che stava camminando nel bosco quando le era parso di vedere qualcosa muoversi tra le felci e incuriosita aveva seguito quel movimento. Sperava in una volpe o un cucciolo di capriolo e invece ne era uscito un ragazzo. Il più bel ragazzo che avesse mai visto, a suo dire. Disse che non sapeva molto di lui, ma che si era dimostrato estremamente gentile e che le aveva raccontato un sacco di storielle sugli abitanti dei boschi.

Secondo Zeno, questo era il nome del ragazzo, appena calava la notte, fate e folletti sbucavano gioiosi dalle corolle dei fiori, dai nidi degli uccelli, dagli incavi degli alberi per mettersi a danzare e a preparare succulente pozioni magiche da somministrare a tutti gli uomini o donne che osassero cacciare un animale, tagliare un albero, appiccare un fuoco o persino cogliere un fiore, animando l’intero sottobosco. Per quanto fosse tutto estremamente meraviglioso, Matilde disse che non ci credeva e che fate e folletti esistono solo nelle fiabe di magia. Tuttavia era rimasta stregata dal ragazzo, lo si percepiva dal modo in cui ne parlava. Disse che portava solo un paio di calzoni leggeri e camminava per il bosco a piedi nudi. Aveva folti capelli scuri e due occhi di un verde intenso che parevano sondarti l’anima.

Matilde disse che non aveva mai incontrato un ragazzo del genere e quando gli chiese da dove veniva, Zeno rispose che viveva dall’altra parte del bosco. E poi così come era apparso se n’era andato, tornando a confondersi con l’ambiente circostante. Fu allora che io feci la mia apparizione, inciampando e cadendo a terra.

Quella sera lasciai che la confessione di Matilde restasse sospesa nell’aria, senza che avesse un vero e proprio posto nella realtà: pareva un racconto così irreale e ben presto entrambe scivolammo nel sonno e l’inquietudine che mi era cresciuta nel petto durante la sua confessione parve acquietarsi un poco durante la notte.

Il mattino seguente mi svegliai con un forte mal di testa. Matilde era già scesa e mi stava aspettando con la nonna per fare colazione. Mi chiesero se avessi dormito bene. Risposi di sì, ma in verità avevo sognato per tutta la notte quel ragazzo misterioso il cui viso a me sconosciuto si fondeva e mescolava con quello di mia sorella e di fate arcigne che spremevano succhi velenosi da fiori coloratissimi sugli occhi di mia nonna e mio nonno, che finivano per non riconoscermi più e cacciarmi di casa.

Tentai di scacciare il pensiero dalla mente, liquidandolo come un sogno bizzarro dettato da una mente facilmente impressionabile e, come il giorno prima, presa dai lavori della campagna non ci pensai più.

Al crepuscolo però, mentre mia sorella era in casa con la nonna, uscii e mi avviai verso il bosco.  Nonostante il timore che quel luogo aveva cominciato ad incutermi, volevo vedere anche io quel ragazzo. Con passo spedito mi inoltrai verso il cuore del bosco e seguendo il sentiero oltrepassai uno stretto corso d’acqua, oltre il quale si aprì una radura, al cui centro stava una piccola casetta di legno, circondata da alcune gabbie per l’allevamento di fagiani. Allora di fagiani non c’era alcuna traccia, ma la casetta sembrava ben tenuta e gli alberi attorno disposti in forma circolare non facevano che accentuare la desolazione del luogo.

Mi avvicinai e spinsi leggermente in avanti la porta per dare un’occhiata all’interno. Non c’era nulla di particolare, solo un tavolo e alcune sedie di legno, un piccolo focolare spento e alcuni utensili appesi alle pareti. C’era anche un piccolo baule sul quale era posato un flauto di Pan. Fu allora che mi resi conto dello strano ed inquietante silenzio che era calato tutto attorno, della calma irreale che si stava impadronendo della natura circostante. Spalancai la porta e mi fiondai al di fuori, correndo a gambe levate verso casa, senza nemmeno rendermi conto che si era fatto buio e che migliaia di occhietti erano spuntati tra le foglie degli arbusti, scintillanti alla luce della luna.

Allarmata più che mai chiesi a mia sorella se conosceva la casetta dei fagiani nel bosco, ma il suo sguardo interrogativo lasciò intendere che non sapesse di cosa stessi parlando. Di nuovo evitai di proseguire il discorso e la presenza del nonno a cena contribuì tranquillizzarmi.

Matilde, che per tutto il giorno era sembrata piuttosto spensierata, sentendo che mi rigiravo nel letto, mi chiese se ero stata nel bosco. Non fui in grado di mentire, del resto le avevo chiesto io della casetta dei fagiani. Ma la verità era che non le interessava granché della mia risposta, si trattava solo di un modo per tornare a parlare di Zeno e compresi che i due si erano visti di nuovo, ma quando era successo? Non mi sembrava di averla mai vista allontanarsi. Glielo domandai ma lei proseguì a parlare di Zeno. Lo faceva in modo appassionato, descriveva i suoi movimenti e il suo aspetto come parlerebbe una Giulietta del suo Romeo. Iniziai a preoccuparmi.

Il bosco non mi piaceva più, da luogo edenico, idilliaco era diventato un labirinto infernale, pieno di creature altrettanto strane ed invisibili che parevano avere il solo intento di farti ammattire.

Le proposi di invitare Zeno a casa il giorno seguente, cosicché potessi vederlo e finalmente porre fine a quel vortice di perturbanti sensazioni. 

Per tutto il giorno successivo Matilde non fece alcun cenno alla conversazione avuta la sera precedente. Si comportò in modo del tutto naturale e la giornata proseguì come se nulla fosse mai accaduto. Quel giorno lo dedicammo alla raccolta dei frutti di bosco. Matilde attirò la mia attenzione invitandomi a seguirla, mentre la nonna era rientrata a sistemare alcune cassette cariche di frutta. Una dolce melodia risuonava nell’aria. Mi chiese di fidarmi di lei e di non avere paura, anche se le sue parole, anziché rassicurarmi, non fecero altro che agitarmi ancora di più. Aveva una strana luce negli occhi, tuttavia mi lasciai guidare dal lei e, giunte appena oltre il piccolo ruscello, vidi il ragazzo che accovacciato a terra suonava il flauto a una decina di pulcini di fagiano straordinariamente attenti. Un’espressione sgomenta dovette dipingersi sul mio volto perché quando Matilde attirò l’attenzione del ragazzo, la prima cosa che mi domandò fu se stavo bene.

In effetti Zeno aveva un aspetto magnifico, il fisico asciutto e scattante, i boccoli scuri che gli incorniciavano il volto pallido, spruzzato di efelidi e lo sguardo vigile e intenso contribuivano ad accentuare la sua bellezza e al contempo la sua stranezza. Per quanto esteriormente bello possedeva un’aura bizzarra, al limite dell’inquietante, come se non appartenesse a questo mondo. Davanti a lui persi la parola, non fui in grado di dire nulla.

Lui si presentò e disse immediatamente di essersi innamorato di Matilde.

Io li guardai entrambi, incredula. Mia sorella arrossì un poco, come se non si aspettasse quella pubblica dichiarazione. Appena ritrovai la voce dissi che potevamo tornare verso la fattoria, che alla nonna avrebbe fatto piacere conoscerlo e lo avrebbe sicuramente accolto volentieri se intendeva stare con Matilde. I due si guardarono. Zeno rispose che lui stava bene alla casetta dei fagiani e non aveva intenzione di spingersi oltre al ruscello. Lo disse in modo feroce, come se la mia proposta l’avesse profondamente offeso. Rimasi sbigottita dalla sua reazione e ancora di più da quella impassibile di mia sorella, che assistette alla scena senza alcun intervento. La guardai, in cerca del suo appoggio, ma il suo sguardo era puntato su Zeno. I suoi dolci occhi azzurri erano tutti per lui.

Non avevo mai visto Matilde così persa, come se fosse sotto l’effetto di un potente incantesimo. In quel momento mi tornarono in mente le storie delle creature del sottobosco, le fate e i folletti che spremono pozioni sugli occhi degli esseri umani. Zeno le aveva raccontato solo un mucchio di favole oppure le aveva fatto realmente una magia? Non avrei saputo rispondere con certezza. Matilde sembrava far parte di un altro mondo, che le aveva fatto perdere completamente il contatto con il nostro. Cosa le era successo? Dov’era finita la sua testardaggine e il suo carattere forte e deciso? Quella ragazza sembrava Matilde, aveva il suo viso, i suoi capelli, portava i suoi vestiti. Ma dentro quell’involucro non si agitava l’anima irrequieta di mia sorella. Ella doveva trovarsi lontana da quel bosco, la mente assopita, assuefatta. Cercai di avvicinarmi a lei, di scuoterla e riportarla alla realtà, le dissi che la nonna probabilmente ci stava cercando, ma Zeno s’intromise e strattonando Matilde verso di sé la allontanò ancora di più da me. Mi disse che ormai era sua e non potevo più riportarla indietro. Matilde sarebbe rimasta nel bosco con lui perché era quello il loro rifugio. Fu allora che cominciai a percepire la natura circostante muoversi, diventare sempre più viva e frenetica. A migliaia spuntarono dai bassi cespugli circostanti fate e folletti non più grandi di una pannocchia, ognuno dei quali mi guardava con i loro occhietti neri e vispi, carichi di risentimento per essermi opposta alla volontà di Zeno. Mi si attorcigliarono le viscere e mi si gelò il sangue nelle vene. Non avevo la minima idea di cosa fare, come comportarmi. Avrei voluto urlare, ma ero fin troppo consapevole del fatto che non sarebbe servito a nulla. Matilde restò impassibile, gli occhi sempre puntati verso Zeno, un ghigno maledetto si fece largo sul suo volto. Non avevo armi contro di lui, non avevo modo di oppormi alla volontà di quello spirito del bosco, non nel suo ambiente. Così un passo dopo l’altro, mentre lo sciame di creature fatate si schiantava rapidamente su di me, indietreggiai, mantenendo lo sguardo su Matilde e Zeno che scomparvero dietro la massa di fate e folletti, fino a confondersi con la natura circostante. Prima di cadere a terra e perdere conoscenza, sentii chiaramente la voce di Zeno ridere di gusto ed esclamare: “Chi entra nel bosco non torna più indietro e la sua anima mi apparterrà per sempre.”

Quando mi svegliai ero nel mio letto, nella camera al piano superiore della fattoria. Appena presi coscienza di dove mi trovavo mi voltai di scatto verso il letto di Matilde. Era vuoto. Scoppiai a piangere, mentre nella mente le mostruose immagini del giorno prima cominciavano a riaffiorare.

Fu la nonna a raccontarmi come mi avevano trovato e come avessero cercato per ore mia sorella. Ma di Matilde non c’era alcuna traccia. Era sparita nel nulla e con lei anche quello strano ragazzo, spariti come spariscono i personaggi di un libro appena terminato: non li dimenticherai mai ma non potrai mai vederli davvero.

Come ben sai, mamma, le ricerche proseguirono per molto tempo dopo, senza averne mai ottenuto nulla. So che per te sarà un duro colpo e che non mi crederai. Lo fu anche per me, soprattutto quando, con un’immensa forza di volontà e coraggio mi spinsi nuovamente nel folto del bosco e raggiunta la radura non trovai alcuna traccia della casetta, né dei fagiani. Solamente un cerchio perfetto di funghi bianchi…

Ho sempre sperato che Matilde, ovunque sia andata a finire, si trovi in un posto meraviglioso, dove vivere avventure fantastiche. A volte ho l’impressione di ritrovare un po’ di lei quando leggo un libro che mi appassiona e così mi sembra di riaverla, anche se per poco, accanto a me.

Bibliografia

D. H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterley, a cura di Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, Milano, 2013

W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, a cura di Fernando Cioni, BUR, 2021

J. M. Barrie, Peter Pan, a cura di Aurelia Scorsone, BUR, 2020

La voce di Laide

Rebecca Rametti dà voce e corpo ai pensieri taciuti di Laide, illustrandoli in queste tre tavole. Il lavoro è stato sviluppato nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.
Le tre tavole sono pubblicate separatamente con una didascalia apposita.

L’intento di queste tre tavole, sulla base del romanzo di Un Amore di Dino Buzzati, è quello di capovolgere il finale. Una volta finita la lettura dell’opera ho sentito come se mancasse qualcosa, come se ci fosse un buco da riempire. Quel buco è il pensiero della Laide. Nel capitolo XXXV, durante il suo sonno, durante il continuo ruotare del cavallo in giostra di Antonio, durante i continui pensieri, turbe, affanni e supposizioni dell’uomo, voglio dare voce alla ragazza tramite parole e forme; in modo tale da metterla in luce non solamente sotto la figura della prostituta. In qualche modo voglio riscattarla, cercando di far capire che anche lei ha un cuore e un animo, per quanto enigmatico. Forse lo è perché nessuno le ha mai fatto le domande giuste o non si è mai interessato a lei in maniera tale da poter essere anche luce e non solo ombre.

La terza e ultima tavola è lo sviluppo finale del pensiero della Laide. Lo sfondo è diviso a metà.
Vediamo la torre nera, simbolo della morte per Antonio. Vede la torre nera una volta che si ferma, una
volta che ha smesso di ruotare forsennatamente. Ed è convinto che la Laide, per quanto
inconsapevolmente, gli farà del male. L’inconsapevole sarà lui, perché lei sta sognando una piccola
barca bianca con sfumature confetto. A differenza della torre nera, elemento funesto e ancorato a terra
senza possibilità di muoversi, la candida barchetta si può muovere, non è legata a nulla e di certo non
vuole dipendere da una città borghese alla quale non appartiene. Nel sogno lei è sopra l’imbarcazione,
pronta a ricominciare, ad affrontare il mondo con la luce intorno a sé e non più con il velo enigmatico
che si porta dietro. Non importa da dove viene, non importa a quale famiglia appartiene e non importa
nemmeno come il mondo la vede; lei sta per (ri)partire. È la rinascita della ragazza dai capelli scuri.

In conclusione, in questi tre lavori, la voce della Laide si sviluppa all’interno del sogno. Desidera
farsi sentire tramite le immagini, immagini che coglie solo lei perché è lei solamente che deve vedere
cosa potrebbe accadere se salisse su quella barca. All’interno del sogno Laide non ha etichette, è
semplicemente quello che vorrà essere in un futuro. E quella barca è il suo futuro, dove salirà senza
pregiudizi, senza una forma predefinita perché la sua forma la costruirà nel tempo, lontano da quello
che, fino ad allora, è stato il suo presente e la sua realtà.


La voce di Laide

Rebecca Rametti dà voce e corpo ai pensieri taciuti di Laide, illustrandoli in queste tre tavole. Il lavoro è stato sviluppato nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.
Le tre tavole sono pubblicate separatamente con una didascalia apposita.

L’intento di queste tre tavole, sulla base del romanzo di Un Amore di Dino Buzzati, è quello di capovolgere il finale. Una volta finita la lettura dell’opera ho sentito come se mancasse qualcosa, come se ci fosse un buco da riempire. Quel buco è il pensiero della Laide. Nel capitolo XXXV, durante il suo sonno, durante il continuo ruotare del cavallo in giostra di Antonio, durante i continui pensieri, turbe, affanni e supposizioni dell’uomo, voglio dare voce alla ragazza tramite parole e forme; in modo tale da metterla in luce non solamente sotto la figura della prostituta. In qualche modo voglio riscattarla, cercando di far capire che anche lei ha un cuore e un animo, per quanto enigmatico. Forse lo è perché nessuno le ha mai fatto le domande giuste o non si è mai interessato a lei in maniera tale da poter essere anche luce e non solo ombre.

Nel secondo elaborato lo sfondo è il cavallo in giostra, nonché Dorigo. Lui non si ferma, continua a
girare e a ruotare soffocato dai suoi pensieri, perdendo così forma e non comprendendo più cosa gli
circonda. E al di fuori di questo non esisteva che la Laide. Lei, però, è ferma. Non fa parte della sua
giostra. Attraverso il sogno cerca di comprendere se rimarrà ferma per sempre, se il suo destino è solo
ed esclusivamente essere una prostituta. Si chiede se la sua vita si riduce a questo e se verrà per
sempre considerata al di sotto di tutti, ai margini della società. In fondo lo ha deciso lei. Oppure no?

La voce di Laide

Rebecca Rametti dà voce e corpo ai pensieri taciuti di Laide, illustrandoli in queste tre tavole. Il lavoro è stato sviluppato nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.
Le tre tavole sono pubblicate separatamente con una didascalia apposita.

“L’intento di queste tre tavole, sulla base del romanzo di Un Amore di Dino Buzzati, è quello di
capovolgere il finale. Una volta finita la lettura dell’opera ho sentito come se mancasse qualcosa,
come se ci fosse un buco da riempire. Quel buco è il pensiero della Laide. Nel capitolo XXXV,
durante il suo sonno, durante il continuo ruotare del cavallo in giostra di Antonio, durante i continui
pensieri, turbe, affanni e supposizioni dell’uomo, voglio dare voce alla ragazza tramite parole e forme;
in modo tale da metterla in luce non solamente sotto la figura della prostituta. In qualche modo voglio
riscattarla, cercando di far capire che anche lei ha un cuore e un animo, per quanto enigmatico. Forse
lo è perché nessuno le ha mai fatto le domande giuste o non si è mai interessato a lei in maniera tale
da poter essere anche luce e non solo ombre”.

Nella prima tavola abbiamo lo sfondo della scura Milano, la città che la ingloba. Circondata dalla
borghesia lei è solo una ragazzina che si concede per soldi, per una vita migliore o forse solo perché si
diverte, o forse perché ormai, lei, è solo questo. È considerata socialmente inferiore, per quando
Antonio abbia bisogno di lei. Milano è scura, il buio la copre ma lei sogna di stare alla luce del sole
senza doversi nascondere e camminare per le vie con la consapevolezza di essere sì, ancora una
ragazzina, ma comunque con dei desideri e la voglia di maturare.

E (non) vissero per sempre felici e contenti

Gabriele Corna, in questo lavoro, riscrive Le affinità elettive e Le relazioni pericolose attraverso la penna della rubrica più irriverente di sempre. Il testo è stato scritto nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

Il fascino del primo incontro, gli sguardi e l’innamoramento, poi gli ostacoli, le peripezie, gli equivoci e infine il ricongiungimento. Sono gli ingredienti della classica storia d’amore. Alla conclusione del racconto tutto sembra perfetto, stabile, immutabile. Ma cosa accade dopo il lieto fine? Siamo certi che nulla possa ancora intromettersi e scindere, questa volta irreparabilmente, un legame che si dava ormai consolidato? La seguente riscrittura ripropone l’incipit di un grande capolavoro della letteratura tedesca di inizio Ottocento, trasportandolo nel clima della New York dei giorni nostri, in un’atmosfera pop volutamente stucchevole e polimorfica, e attingendo a piene mani da uno dei fenomeni letterari e televisivi che hanno cambiato il modo di pensare il sesso e le relazioni.

*

New York stava cambiando aspetto. I venditori di hot dog lasciavano spazio ai chioschi di granite, stivali e pellicce tornavano negli armadi e cedevano il passo a tubini e scarpe col tacco, i locali in cui avevamo passato i mesi più freddi dell’anno si stavano svuotando, mentre i ristoranti del Village diventavano il baricentro della vita notturna. La primavera era nel suo fiore e l’estate non era molto lontana.

«If Spring comes, can Summer be far behind?» Potremmo dire, parafrasando Keats.

Era curioso. Vivevo nella Grande Mela da quando Madonna cantava Like a Virgin e le giacche di jeans glitterate andavano di moda. Ma l’avvicinarsi dell’estate era sempre una sorpresa.

Per i magnati di Wall Street l’estate era solo una calda appendice dell’anno lavorativo, mentre per altri il momento del cambio stagione delle vetrine sulla Fifth Avenue. Per me, invece, era l’occasione di sfoggiare le ultime paia di sandali, comprate nei mesi addietro.

Molti eventi significati della mia vita erano accaduti d’estate. Era estate, quando giunsi a Manhattan dalla provincia del Connecticut, a soli 19 anni. Era estate, quando ottenni il mio primo contratto per scrivere una rubrica settimanale, su uno dei più importanti quotidiani della città. Era estate, quando conobbi Edward Preston e me ne innamorai. Era estate anche quando, dopo innumerevoli avventure, tira e molla, fughe, ripensamenti e litigi, Edward ed io convolammo a nozze nell’ufficio del giudice di pace.

Le estati del futuro mi avrebbero riservato altrettante novità? O come in una perfetta fiaba che si rispetti, ero arrivata al mio lieto fine? Non potevo fare a meno di chiedermi: nella vita vera, cosa c’è dopo il “e vissero per sempre felici e contenti”?

Park Avenue, 27 aprile 20**

Era una fresca serata di fine aprile quando, tornando nella nostra elegante casa di Park Avenue, dopo una sessione di shopping con Bree e Serena, trovai Ed al telefono. Generalmente non ci avrei dato particolare importanza, era normale che fosse assorto in lunghe chiamate, di cui spesso io non comprendevo la natura. Ma c’era qualcosa di diverso in lui quella sera. Era talmente preso dalla conversazione che a malapena mi fece un cenno con la mano, quando varcai la soglia del salotto. Guardando il suo volto pareva entusiasta, a tratti eccitato. Non lo vedevo così dall’ultima vittoria degli Yankees. Andava su e giù per l’ampio salone in tappezzeria cinese, mentre si passava la mano sinistra fra i capelli brizzolati. Si limitava ad annuire e a dare qualche segno di approvazione ogni tanto, con una risatina qua e là.

Ad un certo punto sembrò quasi turbato dalla mia presenza, e si ritirò nello studio. Una quindicina di minuti dopo, riemerse dalle tenebre. Non mi disse con chi avesse avuto quella fitta conversazione.

– Buonasera anche a te mio caro marito! – esordii visibilmente confusa e anche un po’ stizzita.

– Ciao piccola, com’è andata la giornata? Serena ha di nuovo spaventato qualche commessa con le sue richieste? – mi rispose facendo finta di nulla.

– Beh, nulla di che. – gli dissi, cercando di non far trapelare la mia curiosità – Un paio di Cosmopolitan ed una visita da Barney’s, ordinaria amministrazione, direi. – continuai nella maniera più disinvolta possibile.

Capii benissimo che qualcosa stava fremendo in Edward. Lo coglievo dal suo sguardo, dalla sua espressione, dal modo in cui teneva le mani, da come stava seduto su quel sofà in perfetto stile rococò, che campeggiava nel nostro salotto.

Dopo quasi dieci anni di matrimonio, ed altrettanti di frequentazione, conoscevo fin troppo bene Edward Morgan Preston. Ma c’era stato un tempo, in cui facevo un gran fatica a decifrarlo, con tutte le sue insicurezze ed indecisioni, che un po’ erano state anche mie. Forse era proprio a causa del mio carattere ispido e della mia scarsa fiducia verso gli uomini, bilanciati però dalla voglia di un amore totale, ridicolo, scomodo, spossante, che ti consuma e non ti fa pensare ad altro.

Una necessità, ma al tempo stesso una grande paura, di essere delusa e di deludere. Probabilmente faceva parte del mio essere una trentenne single nella Manhattan degli anni ’90, e non una giovane donna appartenente alla buona ed operosa borghesia della New York di Edith Wharton ed Henry James. All’epoca il mio porto sicuro, in cui trovavo rifugio dal mare in burrasca, erano le mie amiche, Catherine, Bree e Serena, loro erano le mie vere anime gemelle.

Quando E.M. se ne andò a Parigi, per poi tornare con la sua nuova e giovane moglie Natasha, ed anch’io quasi feci l’errore di farmi portare all’altare, le cose cambiarono. Iniziai a vedere Edward come un mio doppio speculare, come se fossimo due metà di una sfera tagliata perfettamente. Potei dunque immedesimarmi in lui e comprendere.

A quel punto, i dubbi dei trent’anni lasciarono lo spazio ad una maggiore sicurezza, quella dei quaranta, come quella di chi sembra aver capito le regole del gioco. Vidi le mie amiche costruirsi una famiglia, avere figli, e coronare, non senza difficoltà, i tanti progetti di cui avevamo parlato per ore ed ore davanti a cocktail e piatti esotici, nelle nostre peregrinazioni fra i locali del Lower Manhattan e Upper West Side.

Così, quando ci rincontrammo, capimmo che era il momento giusto per entrambi. Mi era capitato di pensare a dei figli, ma non ne avevamo mai parlato, neanche prima del matrimonio. Io non mi ero mai sentita adatta al ruolo materno. In certi momenti avevo percepito quasi il peso della mia scelta di non essere madre, come se la società intera si aspettasse questo da me, dopo il matrimonio. Una volta Ed giocò a baseball con il figlio di Catherine, e io mi interrogai se gli sarebbe piaciuto fare queste cose con un figlio suo, come fanno tutti i padri a Central Park. Ma lui non sollevò mai la questione.

Io stavo lì. Ero fissa in piedi, con il mio bicchiere di chardonnay tra le mani, mentre mio marito, ancora chiuso nei suoi segreti, era di fronte a me a sfilettare del pesce spada per cena.

Decisi di aspettare. Se lo conoscevo bene, come pensavo, avrebbe parlato lui stesso.

Nel mentre cominciammo a discutere della ristrutturazione in atto. Infatti, qualche mese prima, l’appartamento di fianco al nostro era stato messo in vendita per via di un brutto divorzio. Ed, senza dirmi nulla, lo comprò. Voleva espandere la nostra casa, che a me sinceramente sembrava già sufficientemente spaziosa per due persone. Avremmo in quel modo avuto a disposizione l’intero piano del condominio. L’altro appartamento era in pessime condizioni, praticamente tutto era da rifare, per adattarlo ai nostri gusti. Due architetti ci avevano già lasciato, senza essere stati in grado di redigere un progetto che soddisfacesse le nostre esigenze.

– Ha chiamato quell’architetto, quello di Boston. – cominciai a parlare in tutta calma – Dice che è oberato di lavoro in questo periodo. Gli hanno chiesto di occuparsi di una nuova palazzina per non ricordo quale università della Ivy League.

– Serena non ha nessun architetto fra le sue molte ‘conoscenze’? – mi chiese senza evitare un certo tipo di allusione, che di solito non gradivo affatto.

– Oh, quasi sicuramente, ma non sono certa ne abbia memoria.

– Beh, allora potrei avere io una soluzione … – ecco che il mistero della telefonata iniziava a disvelarsi – Quella di prima non era propriamente una chiamata di lavoro.

– Ah no? – chiesi con chiaro tono da finta tonta, che solamente un vero tonto non avrebbe colto.

– Diciamo che potrebbe riguardare il lavoro.- questa affermazione iniziò ad insospettirmi, volevo vedere dove sarebbe arrivato – Era il mio vecchio amico del college, il Capitano. L’ho sempre chiamato così per via della nostra omonimia. Sai, quello che si era sposato con una ricca donna britannica, una marchesa o contessa, non ricordo. Beh, ora lei l’ha lasciato per un altro. Gli ha dato 30 giorni di tempo per andarsene di casa.

– Capisco, quest’altro Edward si trova in una bella situazione insomma – esclamai con una vena di sarcasmo, che evidentemente al mio consorte non piacque molto – E cosa intende fare ora? Dove andrà?

– Mi ha detto che andrà a stare da sua sorella per un po’, nel Vermont. Non si vedono da cinque anni, ma spera che lo ospiterà comunque. Non ha un lavoro né risparmi da parte. Negli ultimi vent’anni si è solamente occupato della tenuta di sua moglie. Ed è stato ripagato in questo modo.

Edward, il mio, era veramente costernato per le sorti del suo omonimo d’Oltreoceano. Pochissime volte l’avevo visto in questo stato.

– Su, non ti crucciare, ce la farà – gli dissi in modo sincero e rassicurante – Non puoi fare nulla per aiutarlo. Troverà la sua strada e si costruirà una nuova vita in Vermont.

– Beh, in realtà io avrei pensato ad una maniera per dargli una mano. Anzi, me l’hai suggerita tu stessa poco fa.

L’oscurità intorno a questa vicenda cominciò a dipanarsi. Tutto si fece più chiaro. Intuì dove mio marito volesse arrivare. Ma lo lasciai proseguire.

– Ho pensato, siccome abbiamo bisogno di qualcuno che si occupi dei lavori … – continuò a parlare con un filo di imbarazzo – che magari potremmo affidare al Capitano la supervisione del tutto.

Rimasi in silenzio ancora per qualche istante. Volevo vedere fino a dove si sarebbe spinto con questa proposta.

– È praticamente un fratello per me, Charlotte. – iniziò come a giustificarsi senza che io dicessi nulla – Vederlo in mezzo ad una strada mi fa riflettere. Io ho avuto tanta fortuna dalla vita. Non posso essere indifferente. Potrebbe venire a stare per un po’ nell’appartamento di fianco. È enorme, e potrebbe occupare la parte non interessata dai lavori. Non dovendo spendere per un hotel o un affitto si rimetterebbe in piedi più in fretta.

A quel punto, non sapevo veramente cosa dire.

Me ne andai sul terrazzo, avevo un estremo bisogno di pensare. Dissi ad Edward di non aver digerito l’aperitivo a base di crudités, ed ebbi una scusa per allontanarmi. Questo lato caritatevole di mio marito mi aveva fortemente stupita. Credevo di aver sposato uno squalo dell’alta finanza, e non San Francesco d’Assisi. Non capivo cosa ci fosse sotto a quella proposta. In tutti gli anni passati insieme mi aveva parlato sì e no 4 volte di questo famoso Capitano, intorno alla cui figura era sempre aleggiata una sorta di aura di mistero. L’avevamo anche invitato al matrimonio, ma aveva declinato con uno scarno biglietto in carta intestata, perlopiù arrivato a destinazione una volta che la cerimonia si era già svolta. Non capivo dunque la tanto millantata amicizia verso quest’uomo assente dalla vita di Edward da più di 30 anni. Era vera affezione o c’era di più? La vita in due per lui era troppo noiosa, e voleva accogliere un mezzo estraneo in casa nostra per ravvivarla? Come se questo Capitano potesse essere un giullare di corte. Forse avevo sbagliato in tutti quegli anni a non parlare apertamente di figli, magari lui ne avrebbe voluti avere, ed io avevo taciuto per così tanto tempo da indurlo ad una passiva accettazione del mio imperante volere. L’amavo veramente tanto, avrei fatto di tutto per renderlo felice. Anche accettare quell’uomo nelle nostre vite, se l’avesse fatto contento.

A quel punto però riflettei anche su un’altra cosa. Avevo una sorella minore, Elizabeth, la quale, sposatasi molto giovane con un suo compagno di liceo, aveva avuto una figlia, Odile. Purtroppo, un brutto male aveva portato via la mia sorellina già da molti anni ed io, per quel poco che avevo potuta essere presente, rappresentavo una sorta di figura materna per la giovane Odile. Quell’estate avrebbe compiuto 18 anni, stava per finire le superiori. Molte volte, in passato, le avevo promesso che l’avrei invitata a passare l’estate con noi a Manhattan, siccome lei era rimasta ad abitare nella cittadina del Connecticut da cui la mia famiglia proveniva. Fino ad allora non ci era ancora sembrato il caso. Suo padre era molto protettivo e aveva paura della fascinazione che la città avrebbe potuto esercitare su di lei. Ma in quel momento, i tempi erano orami maturi. Non era più una ragazzina, poteva permettersi un’estate a New York sotto la supervisione dei suoi zii.

Decisi dunque, dopo un ponderato ed attento ragionamento, di fare una controproposta a mio marito. Avrei accettato di buon grado l’intromissione del Capitano nella nostra vita, e nella nostra casa. Ma anche Odile sarebbe venuta ad abitare con noi, disponevano di camere a sufficienza per tutti.

Dopo cena andai da lui. Erano passate quasi due ore da quando mi ero ritirata a pensare. Edward era semidisteso sul divano, più addormentato che sveglio. Lo scossi un po’ per toglierlo dalle braccia di Morfeo, prima di iniziare a parlare. Gli spiegai che accettavo la sua proposta, e sarei stata felice di poter dare una mano ad un suo amico in difficoltà, ma alla condizione dell’arrivo di Odile. Ed accettò di buon grado, andò a dormire felice.

Il giorno successivo concordammo che il Capitano sarebbe arrivato di lì ad un paio di settimane. Invece, io chiamai la mia dolce nipote. Le comunicai la mia intenzione di farla stare a casa nostra prima che partisse per il college. Fu subito entusiasta, anche se molto sorpresa. Sarebbe arrivata nella prima metà di giugno.

Si andava delineando un’estate particolare, con una famiglia allargata grazie alla compagnia di due ospiti. Avevo uno strano presentimento, qualcosa di nuovo sarebbe accaduto, qualcosa che ci avrebbe scossi e cambiati nel profondo. Evidentemente, anche l’estate che stava arrivando mi avrebbe riservato delle sorprese.

… TO BE CONTINUED…

Bibliografia
Candace Bushnell, Sex and the City, 1991 (trad. B. Casavecchia, F. Paracchini, Milano, Arnaldo Mondadori, 2001).
Massimo Fusillo, Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Bologna, Il Mulino, 2021.
Johann Wolfgang von Goethe, Die Wahlverwandtschaften, 1809 (Le affinità elettive, trad.  di M. Mila, Torino, Einaudi, 2014).
Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, Les liasons dangereuses, 1782 (trad. Bérenice Capatti, Collana Grandi Classici, Milano, BUR-Rizzoli , 2018

Amanti al Clifford’s Coffee

Giorgia Fantino, Diletta Lizzadro, Andrea Polesel e Anna Maria Gribaudo riscrivono, con questa sceneggiatura, un’inedita e attuale Amante di Lady Chatterley perché “Lady Chatterley vive ancora oggi. Vive nei caffè e nelle videochiamate. Vive in ogni corpo recluso, inibito,
frustrato. Vive nella carne che urla, nell’umanità ritrovata”.
Il testo è stato scritto nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

Questo corpo
Così solo
Gettato su un divano
Accartocciato su un letto
Questa Carne
Intorpidita dalla solitudine
Che implora di essere toccata
Implora affetto
Solo così si ricorda di esistere
Le occhiaie che non si riconoscono nemmeno nello specchio
Le terminazioni nervose assopite
Il sangue prosciugato
Mi accorgo di respirare solo tremante sul pavimento
Non mi sembra nemmeno più di avere un corpo
Si è perso fra quelli altrui
A loro apparteneva
Le foglie sono tutte secche
Non c’è nessun sole a riscaldarle
Solo la fredda luce di un monitor.
Ho ventotto anni e sono già appassita.

*

BUIO
SCHERMO NERO. SCRITTA.
«La nostra è sostanzialmente un’era tragica, per cui ci rifiutiamo di prenderla sul tragico»
INT. CASA DI UNA DONNA. GIORNO.
Due donne nude in un letto raggiungono il picco del loro godimento. Si sentono urla di
piacere. Dopo qualche istante Nora si alza e si cambia velocemente, pronta ad andarsene al
più presto.
BARBARA
E quindi sei sposata?
Nora preferisce non rispondere. Infila le scarpe e fugge dalla porta.
BUIO
Nora cammina per le strade di Torino. È una bellissima giornata, il sole splende riflettendo i
suoi raggi nel Po.
NORA
(Voice over)
Mi chiamo Nora, ho 28 anni e sono nata e cresciuta a Torino. La famiglia in cui sono
cresciuta è sempre stata anticonformista, infatti ho sempre potuto godere di esperienze che le
mie coetanee non potevano neanche immaginare. Ogni anno, io e mia sorella andavamo in
vacanza studio nelle migliori accademie di Londra, Parigi, Madrid. Siamo sempre state a
contatto con un mondo fatto di ragazzi e ragazze colte, con un forte interesse per l’arte in
tutte le sue forme. Ma soprattutto, ci sentivamo libere di essere noi stesse, di pensare con la
nostra testa, di avere una nostra opinione e soprattutto di amare chi volevamo. Dopo le
superiori ho deciso di studiare al DAMS e per molti anni ho sognato di poter diventare una
regista, o forse una critica cinematografica, o forse addirittura un’attrice… mmm insomma
un’artista. Poi però a 22 anni ho conosciuto Marco. Quando ci siamo conosciuti non è
scoppiata subito la scintilla, ma con il tempo ho capito quanto lui era per me rassicurante. Si,
rassicurante. Non è facile al giorno d’oggi vivere di arte e diciamo che fin da subito lui è stato
in grado di darmi quella stabilità che mi mancava. Ero persa fuori e dentro di me. E lui mi ha
aiutata. Dopo qualche mese ha preso una casa per noi a Torino e quando ho compiuto 25 anni
ci siamo sposati. Bella storia felice vero? No. Per niente. C’è sempre qualcosa che non va.
Marco vuole un figlio. Ovviamente non ha minimamente pensato al fatto che dovrei
abbandonare la mia aspirazione artistica per dedicarmi totalmente ad un figlio. Ma lui mi
vuole a casa, con un figlio, non lontana in quel mondo frivolo dell’arte. Non so. Sono
confusa. È tutto grigio attorno a me e non ho molte forze. E quindi… Barbara, la ragazza di
prima? Beh diciamo che non voglio reprimere la libertà che mi è stata insegnata fin da
piccola dai miei genitori e dalle esperienze vissute. A volte trovo che gli uomini sono così
ingrati e mai soddisfatti: finiscono per diventare dei bambini capricciosi. Sono una donna
libera, in tutti i sensi e a volte le donne rendono un po’ più colorato il cielo sopra di me.
INT. CASA DI NORA. GIORNO.
Nora è sdraiata sul divano. Ad un certo punto squilla il telefono. È Marco che la sta
videochiamando da Manchester.
NORA
(Annoiata)
Ciao amore.
MARCO
Ciao tesoro. Come stai?
NORA
(Pungente)
Bene grazie.
MARCO
(Capisce che c’è qualcosa che non va, come al solito, ma evita di parlarne)
Senti tesoro, purtroppo non posso ancora tornare. Qui c’è parecchio lavoro da gestire e poi la
situazione pandemica non è delle migliori. Per ora il Regno Unito rimarrà ancora in Lock
down e io non posso muovermi. Ma in Italia la situazione è diversa, quindi è necessario che
tu prenda in gestione il mio bar. Dovrai fare dei colloqui per assumere un nuovo barista e nel
frattempo tu ti occuperai solamente della gestione.
NORA
Solamente? Tu scherzi. Dai Marco, perché proprio io? Lo sai che non sono portata per questo
lavoro. E poi mi toglierebbe un sacco di tempo dal mio progetto artistico. Non puoi assumere
una persona al posto mio?
MARCO
Ma tesoro. Tu ti sottovaluti. Dai, è fuori discussione. Sei tu che devi gestire il bar in mia
assenza. Sono sicuro che troverai la persona adatta e che riuscirai a gestire il tutto senza
problemi.
NORA
Marco, per favore, ascoltami per una volta. Ho davvero un progetto importante in mente. Non
voglio sprecare energie altrove.
MARCO
Durerà pochissimo. E andrà tutto bene. Ora devo andare tesoro. Aggiornami sui colloqui. Ti
amo.
Nora è su tutte le furie. Non riesce a darsi pace. Per l’ennesima volta non è riuscita a far
capire a Marco quello che in realtà è davvero importante per lei. È seduta sul divano e guarda
fissa davanti a sé. Ad un certo punto decide di chiamare sua sorella Gilda per potersi sfogare
e trovare un aiuto.
NORA
(In chiamata con sua sorella)
Ciao Gilda, come stai?
GILDA
Ciao cara, tutto bene, ho passato l’ultima settimana al mare e non mi posso lamentare. Tu
invece? Ti sento strana. È per colpa di Marco?
NORA
Si. Guarda, non ci voglio credere. Marco è davvero odioso. A volte mi chiedo come abbia
fatto a sposare un essere così egoista.
GILDA
Sul fatto che sia odioso, non mi meraviglio, ma egoista? In che senso?
NORA
Si, per me è egoista. Anzi, a volte mi sembra addirittura disumano. È totalmente rinchiuso
nel suo mondo di economia, di numeri, di internet e finisce per non avere contatti con persone
in carne ed ossa. Lui mette un muro con la gente. Ma con chiunque, anche con me.
GILDA
E hai provato a parlargliene?
NORA
Io ci provo a fargli capire che ho bisogno di tempo per dedicarmi all’arte e che non è
sicuramente mia intenzione passare le ore rinchiusa nel suo bar, ma lui è sordo. Per lui, siamo
tutti esseri spregevoli. Lui è superiore e rifiuta ogni contatto umano. Non posso dire che non
sia una persona intelligente, ma è allo stesso tempo presuntuoso e questa chiusura in se stesso
mi manda fuori di testa.
GILDA
Ti senti inutile?
NORA
Dipende. A volte ho la sensazione che senza di me sarebbe perso.
GILDA
Te l’ho detto diverse volte. Prendi in mano la situazione e allontanati per un periodo. Devi
farlo per te, Nora. Finirà per farti ammalare.
NORA
Hai ragione. Forse se una volta me ne andassi per davvero lo capirebbe. Lui ha bisogno di
me, lo so, ma non così. Non a questi patti. Sono umana anche io. Ho un cuore, una sensibilità
e lui, prima o poi, dovrà rispettarla.
INT. BAR. GIORNO
Mattinata di colloqui. Nora è scocciata. Arriva l’ultimo candidato. Occhi azzurri, sguardo
freddo e deciso. Si toglie la giacca. Nel toglierla si alza leggermente la maglietta. Si intravede
il basso ventre. A Nora sembra di essersi intromessa in una scena di intimità. Fissa lo sguardo
sui peli chiari, rossicci, vicino alla cintura di pelle nera. La pelle è bianca, eccetto per delle
linee di inchiostro nero. Ha il muso di uno Spaniel tatuato. Nora sente come un pugno nello
stomaco. Distoglie lo sguardo pensando come spesso ci si dimentichi di essere circondati da
corpi. Di essere corpi. Davanti a lei c’era un corpo.

NORA
Buongiorno, il suo nome?
OSCAR
(porgendole il proprio curriculum)
Oscar Ferraris.
Nora prende il curriculum, fissando le mani che
glielo porgono. Scorre con una rapida occhiata i fogli. 38 anni. Ciclo di studi non terminato,
una miriade di contratti a tempo determinato. Nora spalanca leggermente gli occhi, è
sorpresa. Ha ripreso e completato gli studi qualche anno fa.
NORA
Leggo qui che ha esperienza come barista.
OSCAR
(sfidante)
Sì, l’ho fatto per circa un annetto. Immagino si stia chiedendo come mai quella sfilza di
lavori. Come mai non sia continuativo. Se è perché mi comporto male a livello lavorativo.
Nient’affatto. Sa, è che dopo un po’ mi annoia tutto. E poi non me ne frega granché dei soldi.
Viviamo per qualcos’altro. Non viviamo solo per accumulare denaro. A volte vorrei
tornassimo indietro. Dare un taglio a questa iperproduttività. Ma cosa abbiamo fatto a noi
stessi per colpa del lavoro? Ci siamo rovinati. Con gli occhi spenti e costantemente di corsa,
costantemente in ritardo. Dovremmo essere vivi e belli e invece siamo brutti e mezzi morti.
Non c’è bisogno di lavorare tanto. A me non frega nulla. Non voglio diventare così. Basta
guardarsi intorno, le persone non sanno più parlare, muoversi, vivere, cazzo. Mondi di
plastica con persone di plastica. (Fermandosi un attimo e schiarendosi la voce)
Questo ti avrà sicuramente convinto ad assumermi.
(La guarda con un sorrisetto divertito).
NORA
(Interdetta, catturata dal discorso)
Sincerità per sincerità: nemmeno a me frega nulla di questo colloquio. Anzi, vorrei essere da
tutt’altra parte. Lo sto facendo per mio marito.
OSCAR
(Le guarda le mani, alla ricerca della fede)
E dove vorrebbe essere?

NORA
(Fissando un punto indefinito oltre Oscar)
Non lo so nemmeno io. Però non qui. Vorrei viaggiare. Vorrei studiare recitazione. Oppure
mi piacerebbe diventare una regista.
OSCAR
Mi pare lei possa fare tutto ciò che vuole, no?

NORA
(infastidita)
Senta, tornando a noi: lei abita qui vicino?
OSCAR
Non proprio ma non ci sono problemi, sono comodo con…
NORA
Con la macchina?
OSCAR
…con i mezzi. Non guido, non ho la patente. Farei piazza pulita delle macchine.
NORA
Sarebbe già disponibile per stasera?
OSCAR
Certo. Mi dica a che ora.
NORA
Alle sei? Così le mostro il bar e quale sarebbe la sua mansione.
Si salutano con una stretta di mano. Nora torna a casa e chiama Marco.

INT. CASA DI NORA: GIORNO.
MARCO
(Scocciato, con voce stizzita)
Per quale motivo avresti assunto quello?
NORA
Cosa avrebbe che non va?
MARCO
Ma dai Nora, trentotto anni e ancora fa il barista? Per aver cambiato così tanti lavori significa
che qualcosa di sbagliato lo ha. E poi zero titoli di studio, figurati.
NORA
È diplomato. E poi non vuol dire nulla. E non a tutti interessano i soldi come a te.
MARCO
Nora, Nora… A tutti interessano i soldi. E se non li hai è perché non ne hai le capacità. È
destino. Ogni scarafaggio deve vivere la propria vita. E non attribuire le tue illusioni agli altri.
Tra la classe dei dirigenti e la classe dei subalterni c’è un abisso invalicabile. Sono animali
che non capisci e mai potrai capire.
NORA
(Con rabbia)
Classe dei dirigenti e classe dei subalterni, Dio, Marco ma in che epoca vivi? Tu devi solo
ringraziare di essere nato nella famiglia giusta, non hai nessun merito.

MARCO
(Indifferente e divertito sentendo Nora riscaldarsi)
L’unica cosa buona è che gli serve quel posto. Io posso vivere senza bar, lui non credo.
Quindi assumi chi vuoi Nora, ma al primo errore è licenziato, non me ne frega nulla.
La chiamata si interrompe. Nora cerca di tranquillizzarsi. Si siede sul divano. Si alza.
Cammina per il soggiorno. È irrequieta. Si ferma davanti allo specchio. Torna a sedersi sul
divano. Prende in mano il telefono. Apre le note del telefono e inizia a scrivere.

Questo corpo
Così solo
Gettato su un divano
Accartocciato su un letto
Questa Carne
Intorpidita dalla solitudine
Che implora di essere toccata
Implora affetto
Solo così si ricorda di esistere
Le occhiaie che non si riconoscono nemmeno nello
specchio
Le terminazioni nervose assopite
Il sangue prosciugato
Mi accorgo di respirare solo tremante sul pavimento
Non mi sembra nemmeno più di avere un corpo
Si è perso fra quelli altrui
A loro apparteneva
Le foglie sono tutte secche
Non c’è nessun sole a riscaldarle
Solo la fredda luce di un monitor.
Ho ventotto anni e sono già appassita.
Esce. Si dirige al bar. Davanti all’ingresso c’è Oscar che la aspetta.
NORA
Ciao Oscar, vieni pure dentro. Ah, e diamoci pure del tu.

INT. BAR. GIORNO
Gli mostra l’interno del bar, la cucina, il frigo, il deposito… Poi stanca si siede su uno
sgabello vicino il bancone.
NORA
Alle volte mi fermo e mi chiedo cosa stia facendo. Mi chiedo se è questo quello che voglio
realmente.
OSCAR
E cosa sarebbe questo?
NORA
Un corpo sfiorito a ventotto anni. Un matrimonio che imprigiona. Cosa ho conosciuto della
vita io?
OSCAR
Perché non lasciarlo allora?
NORA
Lo so, dovrei. Ma i nodi d’amore sono quelli più difficili da sciogliere.
(Pausa)
Sai, Marco non sa nemmeno che sono bisessuale. O meglio, finge di non saperlo. Per lui sono
tutte stupidaggini, come tutto quello che mi riguarda, del resto. Si vanta di aver studiato e di
avere la mente più elastica della maggior parte della gente ma in realtà è il 2020 e lui ancora
se ne esce dicendo che fosse per lui le ammazzerebbe le lesbiche.
Si lamenta delle donne frigide, dice così, ma devi vedere non appena gli si propone di fare
qualcosa che si allontani anche solo minimamente da quella che è la sua idea di fare sesso. Si
stupisce che non riesca a venire con la penetrazione. Pensa io abbia qualcosa che non va.
Pensa sia meno femmina. Sembra un bambino geloso quando vengo da sola. Ma tanto non ne
vuole sapere del becco. Te lo giuro, 2020 e ancora non riesce a dire clitoride. Come se fosse
qualcosa di sporco. Come se il sesso fosse qualcosa di sporco. E poi saranno mesi che non lo
facciamo.
(Pausa)
Devi pensare io sia pazza. Dovrei essere la tua datrice di lavoro e invece è la seconda volta
che ci vediamo e sono qui a parlarti di quante volte scopo con mio marito. Anzi, che non
scopo.
OSCAR
(inizialmente scimmiottandola)
Egregia datrice di lavoro…
Per me due cose contano nelle relazioni: la sincerità e l’intesa sessuale. Non vai da nessuna
parte altrimenti, almeno per me. Ho bisogno di quella scintilla. Di sentire la mia carne
bruciare, altrimenti, che senso ha. E poi sai, mi piacerebbe il sesso mantenesse i suoi nomi.
Mi piacerebbe che, così come siamo liberi di parlare con chiunque, fossimo liberi di scopare
con qualsiasi persona solleciti il nostro desiderio.
NORA
(Illuminandosi)
Come se fosse una forma di conversazione! Sì, il sesso come veicolo per comunicare. Come
modo di conoscere. Solo che le parole vengono recitate invece di essere pronunciate.
Magari se facessimo sesso con la stessa spontaneità con cui si sente il bisogno di parlare con
qualcuno, smetteremmo di esserne così tanto ossessionati. Che senso ha essere fedeli se poi si
è aridi? Puoi anche avere la mente pura, ma sarà arida come il deserto.
(Sempre più concitata)
Vorrei fosse così. Un mondo in cui smettessimo di rendere sacro il sesso e lo considerassimo
per quello che è, nè più nè meno. Cioè, è davvero poi tanto importante? E il problema
complessivo della vita non consiste forse nella creazione di una personalità completa? Una
vita disintegrata non ha senso. Se la carenza di incontri rischia di disintegrarti, perché
privarsene?
Nora parlando si è avvicinata sempre di più ad Oscar. I due sono faccia a faccia ora. Le loro
gambe si sfiorano. Oscar alza una mano e fa per avvicinarla al volto di Nora, che si scosta,
realizzando quello che sta per succedere. Guarda l’ora. Dice ad Oscar che è tardi e conviene
iniziare a preparare i tavoli. Oscar si alza.
CASA DI NORA. GIORNO.
Le restrizioni dovute al Covid vanno allentandosi, e Nora ha scoperto che ci sono finalmente
dei voli disponibili da Manchester. Fa quindi una videochiamata a Marco per dargli la notizia.
Quando la scena inizia, i due stanno avendo problemi di connessione.
NORA
Ok, proviamo così… Mi senti ora? Marco?
MARCO
(un po’ indispettito)
Aspetta… va tutto a scatti.
NORA
(sarcastica e poi facendogli il verso)
E meno male che ti avevano dato “uno degli uffici più all’avanguardia della città”.
MARCO
Infatti sarà la tua connessione ad avere problemi, come sempre.
NORA
Ah questo l’hai sentito però.
MARCO
Sì, sembra che ora vada meglio. Dimmi dai, che tra dieci minuti ho una riunione.
NORA
Come tra dieci minuti? Ma mi avevi detto…
MARCO
(interrompendola)
Sì lo so cosa ti avevo detto, mi hanno programmato questa riunione all’ultimo ed è
importante, lo sai come funzionano le cose qui.
NORA
Già, lo so bene…
MARCO
Beh, quindi? Non stiamo qui a perdere tempo allora, visto che ne abbiamo poco: cosa avevi
da dirmi?
NORA
A parte il fatto che mi sarebbe piaciuto parlare un po’, ma ok, vado direttamente…
MARCO
(interrompendola, innervosito)
Non ricominciare con questa storia, per favore, non ora.
NORA
(brusca)
Non sto ricominciando. Ti stavo dicendo che allora vado subito al punto. Hai visto le notizie?
MARCO
Quali?
NORA
(sospira, sconfortata)
Quelle sui voli internazionali.
MARCO
Ah no, scusami, mi sono dimenticato di controllare. Cosa dicono?
NORA
(cercando di riprendere un tono entusiasta)
Che la situazione sta migliorando, e che da settimana prossima si può riprendere a viaggiare!
Finalmente puoi tornare!
MARCO
(senza troppo calore)
Ah, ottimo! Però immagino che i biglietti siano già andati a ruba a questo punto, dubito che…
NORA
(interrompendolo)
No, ho controllato giusto mezz’ora fa! Ci sono ancora un sacco di voli disponibili da
Manchester a Malpensa, forse anche qualcuno per Caselle! Se sei impegnato posso
prenotartelo io, dimmi solo il giorno e l’orario e ci penso io!
MARCO
(elusivo)
Oddio, così su due piedi… Non so se la settimana prossima si può già fare, ho del lavoro qui.
NORA
Ma come no? Avevi detto che ormai potevi andartene quando volevi, no? Che quello che
stavi facendo in queste settimane potevi farlo benissimo anche dall’Italia. Che problema c’è?
MARCO
Sì beh, ecco… Ci sono state delle novità. Te l’avrei detto a breve.
NORA
(raggelata)
Che novità?
MARCO
Senti, dobbiamo parlarne con calma…
NORA
(scaldandosi)
Marco, che novità?
MARCO
Mi hanno proposto un prolungamento del contratto, ma sarebbe qui, in presenza.
NORA
(accusa il colpo, poi dopo un attimo di silenzio risponde)
Quanto tempo?
MARCO
Sarebbero nove mesi.
NORA
Nove mesi?!
MARCO
Amore lo so che sono tanti, ma mi hanno offerto una posizione di altissimo livello, capisci?
Dopo questi nove mesi probabilmente potrei mantenerla anche a distanza dall’Italia, e avrei
uno stipendio molto più alto…
NORA
(interrompendolo)
Lo so, lo capisco, ma tu devi capire che io non ce la faccio più, ok? Sarebbero altri nove
mesi! Nove mesi! Ma ti rendi conto? Per cosa poi, uno stipendio più alto? Non siamo al
verde, perché devi sempre volere di più? Sempre di più! Non ti basta mai! Ti prego pensaci
bene, perché io qui non ce la sto più facendo a stare dietro al bar al posto tuo, e ormai è già
tanto se mi ricordo la tua faccia da quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui siamo stati
insieme! Altri nove mesi… è una follia! Entro quando dovresti dare una risposta?
MARCO
Il fatto però è che con quei soldi potremmo finalmente riuscire ad ampliare la catena dei
Clifford’s Coffee, e anche a pagare qualcuno che se ne occupi al posto tuo.
NORA
Ti ho chiesto entro quando devi dare una risposta.
MARCO
(dopo un attimo di pausa, lentamente, in imbarazzo)
Vedi amore, il fatto è che mi hanno colto di sorpresa, e in più mi sono sentito lusingato da
una simile proposta, voglio dire, è una posizione che non offrono a chiunque, e poi devi
contare che…
NORA
(realizzando, incredula, per poi scoppiare a piangere dalla rabbia)
Hai già deciso… Tu hai già deciso. Hai già deciso da solo, senza dirmi niente! Tu l’hai già
data la tua cazzo di risposta, non è vero?! Hai deciso da solo di stare altri nove mesi lassù!
Altri nove mesi lontano da me, altri nove mesi separati, altri nove mesi in cui io dovrò stare
dietro al tuo bar di merda!
MARCO
Nora ti prego non fare così.
NORA
Faccio così eccome invece! Come hai potuto? Come hai potuto prendere una decisione del
genere con questa leggerezza, senza dirmi nulla? Senza chiedermi cosa ne pensassi?
MARCO
Cerca di capire…
NORA
No, tu cerca di capire! Ma a quanto pare è troppo difficile per te! Vuoi startene lì altri nove
mesi? E allora sai che c’è? Puoi anche andartene a fanculo e restarci tutti i mesi che vuoi!
MARCO
Nora!
Nora interrompe bruscamente la chiamata, chiudendo con rabbia lo schermo del pc portatile,
sul quale poi scoppia in lacrime.

INTERNO BAR. TARDO POMERIGGIO.
Nora arriva al bar verso l’orario di chiusura, per sbrigare alcune faccende burocratiche, che
già normalmente detesta. Inoltre è ancora fortemente scossa per la notizia ricevuta e la
chiamata terminata un paio d’ore prima con Marco. Nel bar non ci sono più clienti, ma trova
Oscar, intento a pulire.
NORA
(dirigendosi verso un armadio nel retro del bancone da cui prende un faldone di documenti)
Ciao Oscar.
OSCAR
Ciao Nora! Come stai? Un po’ di burocrazia, eh?
NORA
Sì.
Oscar resta interdetto dalla freddezza di Nora, capisce che c’è qualcosa che non va ma non
osa ancora chiedere. Nora si siede su uno sgabello all’angolo del bancone e comincia a
scartabellare. Attimo di silenzio tra i due, si sente soltanto in sottofondo la radio del bar che
passa “Time” dei Pink Floyd. Ad un certo punto Nora tira su col naso, Oscar si gira e la vede
con gli occhi lucidi che pretende di guardare il faldone ma in realtà è ferma e fissa il vuoto.
Tenta un approccio ironico per sdrammatizzare.
OSCAR
(cercando di buttarla sull’ironia e riprendendo il motivetto del primo giorno)
Ehi, egregia datrice di lavoro… Va tutto bene? O c’è della cipolla in mezzo a quei
documenti?
NORA
(ricomponendosi, per poi accorgersi della musica)
Eh? Come? Oh, sì, tranquillo Oscar, non è niente… Ma… Questi sono i Pink Floyd. Da
quando sono nella playlist?
OSCAR
Oh, sì, ce li ho messi io. In realtà mi sono permesso di metterne una totalmente diversa, spero
non sia un problema. Non per mancare di rispetto, ma passare le ore qui dentro con la musica
che c’era prima era da manicomio.
NORA
Oh, sì sì, non preoccuparti, anzi, hai fatto benissimo. Hai buon gusto, devo dire. Il sottofondo
musicale che c’è di solito è terribile, è vero, ed è lo stesso da anni. L’aveva scelto mio marito.
Non lo sopporto più neanche io.
OSCAR
(scherzando)
Cosa, il sottofondo o tuo marito?
NORA
(con un sorriso forzato)
Eh…
OSCAR
(dopo un attimo di pausa)
Tasto dolente?
NORA
(con un nodo alla gola)
Un po’.
OSCAR
Ascolta, so che non sono affari miei, però… Le cose che mi hai detto settimana scorsa non
sono da poco. E si vede che non stai bene.
NORA
(soffiandosi il naso)
Sì, faccio schifo, lo so.
OSCAR
(sorridendo, le porge un fazzoletto)
Beh, con il muco al naso in effetti sì, ma come chiunque, no?
NORA
(ridendo e accettando il fazzoletto per poi soffiarsi il naso)
Grazie. Che imbarazzo.
OSCAR
Così come credo che chiunque meriti ben più di questo. Ripeto, non sono affari miei e non
voglio intromettermi, però… Quello che posso dirti è semplicemente: pensa a come stai.
Chiediti cosa vuoi davvero.
NORA
Cosa voglio davvero? Sai che ti dico? Che non lo so. Non lo so cosa voglio davvero. Forse
voglio diventare una regista? Chi lo sa, o magari un’attrice. Eh? O magari qualcos’altro,
qualcosa che ancora non so di volere. Non lo so, non so cosa voglio, ma vorrei anche solo la
possibilità di scoprirlo! Ecco, sì, questo vorrei. Potermi lanciare, buttare a capofitto in
qualcosa di nuovo, di incerto! E invece no, sono bloccata qui, incastrata, impantanata in una
vita che… che non sto vivendo! Obbligata a rispettare questo stabile, grigio e vuoto e stupido
equilibrio, di cui dovrei pure essere grata, giusto? Perché di questi tempi bisogna essere grati
di avere una stabilità, di avere delle certezze, di avere un marito con i soldi che non ti fa
mancare nulla se non se stesso, di avere un bar di cui occuparsi di cui non mi frega
assolutamente nulla, di essere qui circondata da cose che sono certezze, sì, sono stabili, forti,
granitiche. Eppure morte. Morte! Ciò che non si muove muore, Oscar. Non respira. E a me
manca il fiato da molto tempo ormai. Cosa voglio davvero? Non lo so! Ma di sicuro so che
non voglio più tutto questo!
OSCAR
(la guarda un attimo negli occhi, in silenzio, poi accenna un sorriso per confortarla)
Beh, vedi? Sai già molte cose.
NORA
Scusami Oscar, scusami davvero… Tu sei qui che stai lavorando e io piombo dal nulla a
lamentarmi di quanto faccia schifo la mia vita… a lamentarmi di tutta la tremenda stabilità
che ho, con te, che invece la cerchi da anni e in questo momento probabilmente vorresti solo
sputarmi in un occhio. Starai pensando che sono solo una stupida ragazzina privilegiata,
ingrata e arrogante che viene qui a lamentarsi con chi di problemi ne ha davvero, mentre
dovresti pure lavorare… E pure io dovrei lavorare, a dir la verità.
OSCAR
Fidati, se fosse così lo capiresti. Non sono bravo a fingere, quando ho voglia di sputare
nell’occhio a qualcuno.
NORA
(dopo un attimo)
Davvero?
OSCAR
Davvero. Ho sempre avuto poche certezze nella mia vita, e ne vorrei, è vero. Ma anch’io mi
sentirei soffocare nella situazione in cui sei tu ora. Insomma, è vero che sei un po’ borghese,
ma questo non ti rende per forza stronza in automatico.
NORA
(sorride alla battuta)
Grazie, Oscar… Mi fa bene parlare con te.
OSCAR
(abbandonando per un attimo il velo di ironia)
Anche a me.
NORA
(lo guarda negli occhi un momento)
D’accordo, la smetto di piagnucolare, devo finire queste cose.
OSCAR
No, non credo.
NORA
Cosa?
OSCAR
Tu hai bisogno di rilassarti, non di stare dietro a quella robaccia.
NORA
Lo so, ma devo…
OSCAR
Non devi proprio nulla. Facciamo così: il bar lo stai gestendo tu, giusto? Perciò, se ho il tuo
permesso, egregia datrice di lavoro, io adesso chiudo le porte, tanto a quest’ora non arriva
mai nessuno, tiro giù le serrande, lascio la luce accesa, prendo qualcosa da mangiare e una
bottiglia di vino dal retro e stiamo qui a parlare un po’. Che dici?
NORA
(sorridendo, grata)
Va bene. Permesso accordato.
Stacco. Sempre interno bar. La scena riprende con loro due seduti su due sgabelli, molto
vicini, già un po’ alticci e con i calici in mano. Fuori è ormai buio. Stanno ridendo, sono nel
mezzo di un discorso.
OSCAR
…E così, mentre era sopra di me, mi guarda, sgrana gli occhi e mi fa: scusa, ma me lo
spiegheresti cos’è?. Io rimango un attimo zitto con le mie mani su di lei. E faccio: Scusa
cosa?. E così lei, con l’aria anche un po’ di chi fa la sostenuta, mi fa: ma sì quella cosa di cui
stavi parlando, il clitroride. Sono morto…
NORA
(scoppia a ridere)
Cosa?! Stai scherzando?
OSCAR
Te lo giuro! Gliel’ho dovuto spiegare io.
NORA
Ma non ci voglio credere. Ma quanti anni aveva, scusa?
OSCAR
Questa è la cosa ancora più assurda: diciannove!
NORA
Pazzesco. Arrivare a diciannove anni senza minimamente conoscere il proprio corpo.
OSCAR
Come se io a vent’anni mi fossi guardato allo specchio e mi fossi detto “ehi, ma che strane
quelle due biglie che penzolano lì sotto, chissà cosa sono!”.
NORA
(ride, poi incalza, beffarda)
Quasi peggio di Marco che si schifa a pronunciarlo, il clitoride. Va bene, almeno lui sa cos’è,
è vero. Anche se poi essere in grado di trovarlo è un altro discorso.
OSCAR
(ridendo)
Attenzione, partono accuse pesanti.
NORA
(ridendo a sua volta)
Ma fondate, purtroppo! E tu, comunque? Quanti anni avevi quando sei stato con lei?
OSCAR
(reggendo lo scherzo)
Ventidue, una vita fa. Comunque assurdo, davvero. Ma non era mica solo colpa sua, eh, anzi.
Veniva da una famiglia molto, come dire…
NORA
Credente?
OSCAR
No, bigotta. Che è diverso. Si può benissimo essere fortemente credenti senza essere bigotti.
Per i suoi, invece, il sesso e qualunque argomento simile erano dei tabù rigorosissimi.
NORA
Beh, erano anche più di quindici anni fa, non è tantissimo ma si parlava già molto meno di
queste cose.
OSCAR
Sì, è vero. Anche se di passi in avanti ne servono ancora. Ci vorrebbe più educazione sessuale
nelle scuole, ad esempio.
NORA
(toccandogli il braccio mentre lo prende in giro)
Disse quello che la scuola l’aveva abbandonata.
OSCAR
(ridendo)
Ma che stronza. Ti ricordo che poi l’ho finita.
NORA
(sempre ridendo)
Sì sì.
OSCAR
Comunque dico davvero! Farebbe una differenza enorme.
NORA
Lo so. Io sono stata fortunata con i miei, ma a scuola abbiamo affrontato pochissimo
l’argomento, e quel poco che abbiamo fatto è stato fatto male e in modo noioso, che quasi ti
faceva passare la voglia.
OSCAR
(allusivo)
Quasi…
NORA
(sorridendo)
Beh, direi! E non fare quella faccia, che mi sa che tu di avventure ne hai avute molte più di
me.
OSCAR
Non credere. Però forse quanto basta per capire alcune cose. Diciamo che, per quella che è
stata la mia esperienza, credo che ci siano tre grandi tipologie di donne, con tutte le sfumature
in mezzo. Ci sono quelle che chiamerei libere, che per loro fortuna, e anche per fortuna di chi
le incontra, devo dire, riescono a vivere il sesso in modo sano, senza tabù, in base ai propri
gusti, desideri, senza farsi influenzare troppo dalla società. Poi ci sono quelle che invece
vorrebbero fare sesso, e vorrebbero farlo come vogliono loro, ma hanno troppa paura del
giudizio degli altri per lasciarsi andare, e passano la vita a sentirsi frustrate, a desiderare di
più ma a privarsene da sole, consapevolmente. Alcune, lavorandoci su, riescono a dirigersi
verso la prima categoria, altre rimangono bloccate lì, a disprezzare in modo ipocrita quelle
che ce la fanno. E poi ci sono le peggiori, cioè quelle che il giudizio della società l’hanno
assorbito così tanto e così a fondo che è diventato pure il loro, e perciò certe cose non le
fanno perché sono convinte, ma proprio convinte, che siano sbagliate, da zoccole, come
dicono loro. E infatti i loro insulti sono sinceri e sentiti. Ma, senza saperlo, anche loro sono
represse e schiacciate dalla società maschilista e patriarcale che ci circonda.
NORA
Non hai idea di quanto sia bello sentire certe frasi.
OSCAR
(scherzando)
Cos’è, ti eccita se insulto il patriarcato?
NORA
(reggendo lo scherzo)
Un sacco, ti salterei addosso, guarda.
OSCAR
Bene, mi pare di intuire a quale delle categorie tu appartenga, allora.
NORA
(avvicinandosi)
Ma che bravo, riesci a capirlo anche senza prima essere andato a letto con me?
OSCAR
(ironico, ma senza indietreggiare e mantenendo il contatto visivo)
Beh, a dirla tutta, sì, egregia datrice di lavoro, c’è un modo per capirlo anche prima, secondo
me, e in modo molto semplice: è sufficiente chiedere alla ragazza in questione se si masturba.
NORA
(ridendo)
Sul serio?
OSCAR
Sì, davvero. Le prime tendenzialmente ammetteranno di farlo senza problemi, le seconde ti
diranno di no e tenteranno di giustificarsi, ma sotto sotto lo vedi che mentono. E le terze sono
quelle che dicono di no e che davvero non lo fanno.
NORA
Che vita triste.
Nora beve un sorso di vino, intanto Oscar la guarda intensamente. Alla fine del sorso lei
incontra il suo sguardo e gli sorride.
OSCAR
(sorridendo)
Che c’è?
NORA
Niente… Stavo pensando. Pensavo a quanto è facile dimenticarsi di avere un corpo, presi dai
mille affanni di tutti giorni. Spesso diventiamo dei cervelli ambulanti. Tutta testa, testa, testa.
Pensa a questo, ricordati quello, rifletti su quell’altro… E il corpo lo abbandoniamo. Sia il
nostro che quello degli altri. Ce lo ricordiamo solo quando diventa difettoso e dobbiamo
curarlo, ma prima, quando ancora potremmo goderne… nulla.
OSCAR
Già. E sicuramente la pandemia non ha aiutato. Certe volte mi rendo conto che mi manca
tremendamente il contatto umano che avevo prima. O meglio, mi manca la serenità che
avevamo prima nel darlo e nel riceverlo. E d’altronde è ovvio che se ti abitui ad avere a che
fare con delle sagome dentro a un computer, quando ritrovi qualcuno in carne ed ossa rimani
spiazzato.
NORA
Spiazzato sì, è vero, ma in positivo. Come se fosse una bella sorpresa. Inaspettata ma
piacevole.
OSCAR
Non con tutti va così bene.
NORA
(facendosi di nuovo più vicina)
Ma con qualcuno sì. Ogni tanto può capitare di trovare di nuovo qualcuno a cui senti di
poterti avvicinare senza timore.
OSCAR
(sorridente ma leggermente in soggezione)
Sì, ogni tanto capita.
NORA
(gli mette una mano sulla gamba)
Qualcuno che senti di poter toccare. A cui ti vorresti aprire di nuovo, o che vorresti stringere
forte come per strizzargli fuori tutta l’energia che quel contatto ti può dare.
OSCAR
(lasciandosi andare un po’ di più)
Come se in quel tocco, in quel corpo, ritrovassi tutti i corpi che vorresti toccare e stringere.
NORA
(sono ormai vicinissimi)
Tutta l’umanità che abbiamo perso per strada… ritrovata in un corpo solo, tutta insieme.
OSCAR
(si allontana leggermente)
Sarebbe bellissimo, non è vero?
NORA
(scherzando sul discorso di prima)
Già… ma immagino che questo potrebbe succedere solo con certe “categorie” di donne, per
te, giusto?
OSCAR
Probabilmente sì, hai ragione.
NORA
E pensi davvero di riuscire a capire sempre di quale fanno parte?
OSCAR
Forse non sempre, ma… certe volte lo senti.
NORA
(ammiccando)
Ah lo senti, eh? E tu cosa senti ora?
OSCAR
(sorridendo)
Cosa sento?
NORA
(avvicinandosi)
Credi di sapere di quale delle tue categorie faccio parte io?
OSCAR
Beh, non lo so… ma se devo dirla tutta… penso che sarebbe interessante scoprirlo.
NORA
(ormai vicinissimi, con tono malizioso)
Ah sì? E perché mai dovrebbe interessarti?
OSCAR
(sorridendo, malizioso anche lui)
Così.
NORA
Ah, così?
OSCAR
Sì, così.
NORA
Oppure così?
Nel dire quest’ultima frase, Nora lo bacia, e si baciano ancora a lungo prima di andare oltre.
A tratti si distaccano per guardarsi negli occhi e riprendere a baciarsi. Si intuisce che tra loro
è scoccato un legame che non è solo fisico. Poco dopo, comunque, lui la solleva sul bancone
del bar e iniziano a fare sesso.
La scena riprende dopo che hanno terminato, e sono entrambi nudi, sdraiati e abbracciati
dietro al bancone.
OSCAR
(ironico)
E così sei sposata, eh?
NORA
(ha un fremito, si fa più scura in volto)
Già… Tu lo detesteresti uno come lui.
OSCAR
No, non credo. Ho incontrato troppi uomini come lui per prendermi il disturbo di detestarlo.
So a priori che quel tipo di uomo non mi piace, e basta. Mi limito a starne lontano.
NORA
Forse fai bene…
OSCAR
(vedendola turbata, dopo un attimo di silenzio)
Che succede? Mi hai detto che non è la prima volta che ti capita, no? Che eri serena al
riguardo.
NORA
Sì, è vero, ma… questa volta è stato diverso Oscar.
OSCAR
In che senso?
NORA
Non fraintendermi, è stato bellissimo. E io credo di non essere mai stata così bene con
qualcuno come sto con te, nonostante ci conosciamo da così poco. Eppure… è proprio questo
il problema.
OSCAR
Capisco… Mi dispiace che tu stia così, ma… Credo ci sia un problema ancora più grande.
NORA
Cioè?
OSCAR
Che anch’io mi sento così.
NORA
(a metà tra l’incredulità e l’euforia)
Sul serio?
OSCAR
Sul serio. Temo che questa non sia una cosa come le altre… è incredibile che si possa dire
una frase del genere dopo una sola serata insieme. Di solito non ripongo molta fiducia in
nessuno, profondamente, specie dopo così poco. Quando sono con qualcuno non riesco quasi
mai a vedere un futuro con quella persona. Sarà che il tempo passa in fretta e il futuro
incombe come una tempesta davanti a me, e non voglio più sprecare tempo con chi non se lo
merita… Eppure sono qui a dirti tutto questo. Non capisco perché, ma con te è diverso. Mi
sento diverso.
NORA
E io sento la stessa cosa! Oddio, è incredibile… Sono così confusa, non capisco cosa diavolo
stia succedendo…
OSCAR
(sorridendo)
Abbiamo fatto un bel casino, eh?
NORA
(sorridendo e baciandolo subito dopo)
Temo proprio di sì.
OSCAR
Quindi, che pensi di fare?
NORA
Non lo so Oscar, non lo so davvero. Forse… forse dovrei staccare un po’ da tutto. Dovrei
stare un po’ di tempo lontana, farmi due settimane via di qui… Potrei andare a trovare mia
sorella a Venezia. Sì, credo che farò così. Domani parlerò a Marco e gli dirò che con il bar,
almeno per un po’, ho chiuso.
OSCAR
(un po’ preoccupato)
E quindi pensi di partire subito?
NORA
(lo guarda, poi sorride)
No… non subito. Almeno finisco la settimana qui, e poi, beh… Qualche giorno qua con te
potrei ancora passarlo, in effetti.
OSCAR
(scherzando)
Ma quale onore, Vostra Signoria. Anzi: egregia datrice di lavoro. Solo che ora mi hai dato
anche qualcos’altro.
NORA
(ridendo)
Scemo.
Tornano a baciarsi.
Cambio scena. Il giorno dopo, in casa di Nora, videochiamata con Marco, già iniziata.
MARCO
(Arrabbiato ma freddo)
Come sarebbe a dire che non hai più intenzione di gestire il bar?
NORA
(ferma, risoluta)
Mi hai sentito. Non ce la sto più facendo, Marco, mi dispiace. Io da lunedì prossimo in quel
posto non ci metto più piede. Ho bisogno di staccare, da tutto, sto arrivando
all’esasperazione, non posso andare avanti così. Ho bisogno di andarmene per un po’ da qui.
MARCO
Nora ragiona un attimo…
NORA
(interrompendolo)
Io lì non ci entro più. Hai capito?
MARCO
(dopo un attimo di severo silenzio)
Va bene. Se non c’è modo di farti cambiare idea… vorrà dire che dovrò buttare nel cesso dei
soldi per fare questo lavoro. Benissimo, faremo così allora.
NORA
Bene.
MARCO
Bene… Un mezzo nome ce l’ho già in mente, amica di amici, sulla quarantina, con grande
esperienza alle spalle, dicono sia brava. Spero per te che sia vero. Barbara Boldi. Mai sentita?
NORA
(scossa nel sentire il nome dell’amante della prima scena)
Oh… sì. Sì, credo di conoscerla.
MARCO
Credi sia brava?
NORA
(quasi sovrappensiero)
Sì… Sì, è molto brava.
MARCO
Tutto bene?
NORA
Sì, scusami, non mi aspettavo che la conoscessi.
MARCO
Beh, tanto meglio. Quindi? Quando vieni qui a trovarmi?
NORA
Ah, sì…
MARCO
(spazientito)
Nora… che c’è?
NORA
Senti…
MARCO
(interrompendola)
Ah no aspetta, senti tu.
NORA
(infastidita)
Dimmi.
MARCO
Quel tuo amichetto, lì, il signor, com’era? Oscar Ferraris? Beh insomma, il pezzente che hai
assunto: digli che è licenziato.
NORA
(incredula)
Cosa?!
MARCO
Mi hai sentito. Te l’avevo detto che al primo errore era fuori.
NORA
Ma che stai dicendo?! Quale errore? Cosa ha fatto di male?
MARCO
Un signore che vive nel condominio davanti al bar è un nostro cliente fisso, e ha il mio
numero. Ieri sera mi ha telefonato dicendomi che quel porco aveva tirato giù le serrande e
aveva lasciato le luci accese fino a tarda sera. E poi a un certo punto l’ha visto uscire con una.
NORA
(raggelata)
Ah… E… chi era?
MARCO
Era buio e non l’ha riconosciuta, ma che importa, sarà stata una zoccoletta a caso.
Probabilmente l’avrà portata lì perché casa sua faceva troppo schifo persino per una troietta.
NORA
Piantala, lo sai che mi dà fastidio quando parli così.
MARCO
Che c’è, vuoi pure difenderlo ora?
NORA
Non è questo, sto dicendo…
MARCO
(interrompendola)
Senti, la decisione è presa, chiaro? Ti sei presa la responsabilità di farlo entrare nel mio bar,
ora pensi tu a farlo uscire. E fatti ridare le chiavi, che non si sa mai.
NORA
(ha quasi le lacrime agli occhi, ma sapendo di non potersi permettere di risultare sospetta
cerca di nasconderlo)
D’accordo…
MARCO
Quindi, dicevi, quand’è che vieni a trovarmi.
NORA
(rapida e secca)
Non vengo a trovarti. Me ne vado a Venezia da mia sorella.
MARCO
Cosa? Dov’è che vai?
NORA
Mi hai sentito.
MARCO
(alzando man mano sempre più la voce, ma sempre trattenendosi dall’essere scurrile, in modo
quasi ridicolo)
Cioè quindi, fammi capire… è da mesi che mi tormenti perché siamo lontani, perché non ti
rispondo mai, perché non ci sono mai e tutte queste, queste… cialtronerie! Ti rifiuti pure di
fare l’unica cosa che ti chiedo, cioè gestire quel dannatissimo bar, e ora che ti sei liberata a
tutti i costi da questo peso così gravoso anziché venire qui dal tuo maritino che ti manca tanto
che fai? Te ne vai da quella disadattata di tua sorella? A Venezia? A fare cosa? Io non ti
capisco più Nora, cos’è che vuoi da me, eh? Cosa vuoi?
NORA
(rassegnata, senza la forza di reagire alle urla, ma ferma nella sua decisione)
Non lo so cosa voglio, Marco. Non lo so. Ma non voglio venire da te in Inghilterra. Ho
bisogno… Ho bisogno di un momento per me, ho bisogno di tempo.
MARCO
Ma che diavolo dici? Che diavolo dici? Tu stai uscendo di testa, Nora, cosa ti salta in mente?!
NORA
Hai ragione Marco, non mi capisci più. Sto uscendo di testa. Ma tranquillo, so che non
sentirai la mia mancanza. Parto domani mattina, ti avviso quando arrivo.
Dopo uno sguardo di disprezzo e rabbia, Marco chiude la videochiamata senza neanche
salutarla. Nora resta qualche secondo davanti al pc aperto, con lo schermo vuoto e le lacrime
agli occhi, ma senza scoppiare a piangere. Chiude il pc, si tira su dalla sedia con una nuova
determinazione, uscendo dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle.

INTERNO DEL BAR. GIORNO
Due settimane dopo
La porta del bar si apre e Nora entra, si guarda intorno e si siede al bancone, pensierosa.
La signora Barbara arriva dal ripostiglio, indaffarata, si accorge di lei e la saluta raggiante.
BARBARA
Ciao Nora! Bentornata! Che bello rivederti, sei arrivata da tanto?
NORA
(con un sorriso amaro)
Giusto il tempo per farmi tornare la voglia di andarmene di nuovo.
BARBARA
(ridendo)
Eppure, l’aria di Venezia sembra averti ringiovanita! L’ultima volta che ci siamo viste (con
un sorrisetto ambiguo) eri molto più pallida, stanca, adesso sembri tornata un po’ in forze.
NORA
Quello sì, non posso negarlo… ma questo viaggio in solitaria mi ha portato a pensare,
ripensare e pensare ai miei ripensamenti. Stando soli si hanno meno distrazioni capisci? Una
vacanza dai miei pensieri, ecco cosa mi sarebbe servito!
Beh scusa, non voglio annoiarti troppo con i miei discorsi.
BARBARA
No, per quello non preoccuparti, solo se ti sento dire un’altra volta la parola ‘pensieri’ mi
sparo un colpo!
NORA
Al di là dei miei problemi mi sono poi anche guardata intorno e ho notato molte cose. Ad
esempio che alcuni in vacanza cercano semplicemente di distrarsi, riposarsi, mentre altri
vogliono divertirsi a tutti costi, come se glielo prescrivesse il medico insieme all’antibiotico.
Ogni sera festa fino a tardi, alcol a profusione, e il giorno dopo tutto di nuovo. Un loop
continuo, una sorta di dipendenza, per fuggire da se stessi e dalla vita quotidiana, che a
differenza di queste feste è piatta e squallida… E poi secondo te, come siamo arrivati ad
essere così superficiali, a pensare che tutto sia quantificabile, vendibile, acquistabile?
“Compra questa borsa e ti sentirai meglio!” “Sei triste? Regalati questo vestito all’ultima
moda!”. Come con Marco: quando non era ancora un’immagine di pixel sempre incazzata
con una voce robotica, dopo una litigata mi regalava sempre accessori, scarpe, gingilli per
mettermi a tacere, come se per amarci servissero sempre più oggetti. Siamo carne putrida,
come l’odore degli scoli della laguna dopo tanto tempo al sole.
BARBARA
Già mio padre, poveretto, parlava del futuro come del trionfo dell’uomo-macchina, lontano
dalle emozioni, lontano dalla
fede, lontano dalla felicità… Ah, si fosse visto da fuori: come è
poi finito circondato di oggetti inutili come tutti noi!
NORA
Precisamente! E Oscar è stata la scoperta dell’antidoto a tutto questo. In un mondo artificiale
è la spontaneità fatta persona. Non sai che sofferenza, tornare qui al bar e non vederlo dietro
il bancone! Mi sembra di tornare a mesi fa, quando ero chiusa in un doppio recinto, quello
della relazione con Marco e del lockdown. Ci ho riflettuto a lungo e sono decisa a chiedere il
divorzio…Più vado avanti e più Marco mi dà motivi per odiarlo. Ha licenziato Oscar! Ti
rendi conto? Ora è su una strada… ci è sempre stato in realtà, ma ci siamo fatti delle
promesse! Gli avevo promesso che la sua vita sarebbe cambiata, trovando i soldi per studiare!
Comunque tutto questo è accaduto soltanto perché il vicino non sa farsi i fattacci suoi e arriva
a spettegolare anche dall’altro lato dell’oceano! Prima il suo amico che fa la spia e parla delle
avventure di Oscar con una donna, poi questo, che non si fa scrupoli a fare il mio identikit!
Avremmo dovuto essere più prudenti, non farci vedere troppo insieme, ma al diavolo! Da
quando Torino è diventata un paesino di provincia? “Ho ragioni di credere che il barista sia
l’amante di Nora”. Che faccia tosta! Come se sua moglie non si fosse fatta il tour dei letti di
mezzo quartiere!
Vado a Venezia per staccare dai problemi, ma ecco che mi inseguono in gondola! Avresti
dovuto sentirlo, Marco in videochiamata a Venezia era inviperito, uno scandalo
inammissibile, insinuare che la sua fedele mogliettina, delle classi alte, di buon nome, abbia
come amante un comune mortale, un disgraziato che non aveva papino che gli passava i soldi
sul conto! Non ha dubitato un attimo della mia innocenza, che tenerezza! Non ha la più
pallida idea di chi io sia. La sua mentalità è così ristretta …No, non posso tornare con lui. E
con Oscar non può finire tutto così, non può. Anche perché…
BARBARA
(interrompendola bruscamente)
Beh si, hai tirato su tante questioni: se hai bisogno di distrazioni da tutti questi pensieri basta
che batti un colpo.
(sempre con uno sguardo malizioso)
Ma ti capisco, col tempo alcuni matrimoni si rivelano essere delle vere gabbie. Il mio
consiglio è: liberatene finché sei in tempo! Io l’ho capito tardi, ma almeno l’ho capito! Per
quanto riguarda Oscar, insomma, dovresti ricordarti che è finita solo quando tu decidi che è
finita. A quanto pare lui l’ha capito.
Fa un cenno a qualcosa dietro le spalle di Nora. Oscar entra, si avvicina alle due donne,
sedendosi vicino a Nora, mentre Barbara si allontana.
NORA
(estasiata, abbracciandolo d’impeto)
Oscar! Pensavo fossi tornato dai tuoi genitori!
OSCAR
(con tono dolce, ricambiando l’abbraccio)
Pensavo di tornare a casa domani, volevo rivederti.
NORA
(staccandosi dall’abbraccio)
Ehm…
(Tossisce)
OSCAR
(Ammiccante)
Che c’è? Ti sono mancato? Hai già voglia? Io te l’avevo detto che a Venezia non avresti
trovato niente di meglio di me e che…
NORA
No, no, no, non sto ammiccando per quello.
OSCAR
A cosa ti riferisci allora?
NORA
(Tossisce di nuovo)
È difficile da dire…
OSCAR
(Un po’ stupito)
No, ma guarda che se sei stata con qualcun altro, va bene così. Ne
abbiamo parlato… Non siamo la solita coppia perfetta, chiusa nel suo nucleo… Guarda che
lo so che il mondo è talmente grande che…
NORA
(spazientita)
Oscar! Ha a che fare col sesso ma non con quello che pensi tu!
OSCAR
(Pausa lunga)
Non mi viene in mente niente…
NORA
(Scocciata)
Sono incinta!!
OSCAR
(Pausa lunga)
Come?
NORA
Non sei felice?
OSCAR
(intimorito)
Ma, ma sì… Certo…certo che sono felice! Che domande fai?
(con un sorriso forzato)
È che…sì insomma, è un mondo brutto, crudele per far nascere un figlio. Ho-ho una paura
tremenda per il futuro, il mondo che gli daremo in eredità…
NORA
Guarda che siamo noi ad averlo voluto! Poi, guardami: madre, aspirante attrice, compagna di
uno spiantato (ride). Chi lo sa cosa accadrà? Ma con te sento di potere tutto. Ora non
pensiamo al futuro. Sii tenero con lui, e questo sarà già il suo futuro! (fa una pausa e lo
guarda intensamente) E poi, guardati: tu non sei nel mondo per occupare uno spazio e basta.
Sei attivo, vivi nel presente, ti informi, studi, cerchi di capirci qualcosa da questo casino che
chiamiamo vita. Non ti lasci sopraffare dai problemi ma reagisci, li affronti a testa alta. E
quando riesci ti fai carico anche dei problemi degli altri, a volte rimettendoci… Insomma, sei
un padre in tutto e per tutto, con un po’ troppa strafottenza, ma su questo ci possiamo
lavorare!
OSCAR
(colpito e mosso dal discorso, le tocca la gamba e le prende il viso con la mano)
Menomale che ho risposto a quell’annuncio di lavoro. (La bacia) Ma, il divorzio?
NORA
(fiduciosa)
A questo penserò quanto prima. Lasciamo passare un po’ di mesi per tutta la faccenda
burocratica, e poi potremo fuggire insieme, costruire la nostra famiglia.
OSCAR
(guardandola a metà tra il serio e lo scherzoso)
Siamo in una marea di incertezze, ma riporle su qualcosa che è dentro di te mi rassicura
enormemente…Ora che ci penso, invidio questo bambino: lui può stare dentro di te ancora
per molto tempo! Non che non possa farci anch’io un pensierino.
(la guarda ammiccante, mentre si prendono per mano, si alzano ed escono)
INTERNO APPARTAMENTO. NOTTE
È notte fonda. Nora è seduta sul davanzale della finestra. Le luci dei lampioni rischiarano il
buio. Nella penombra si scorge la sagoma di Oscar, steso nudo sul letto, sotto le coperte.
NORA
(fra sé, guardando Oscar)
Incontrarlo è stata la cosa migliore che mi sia capitata. Con lui mi sento viva, la versione
migliore di me. Con lui non provo vergogna. Marco, lui spegneva la luce ancor prima di
spogliarsi: per lui il sesso è sempre stato qualcosa di meccanico, logico, tanto più per la sua
ossessione di avere un bambino. Qualcosa di passivo, freddo, rigido nelle movenze. Con
Oscar è tutto diverso. Lui mi ha ricordato cosa sia la tenerezza, l’ebbrezza di ricevere una
carezza tra le gambe calde. E di avere una testa appoggiata sul seno, come il luogo più
naturale su cui riposarsi. Ha restituito il calore al mio corpo, che stava appassendo ancora nel
fiore degli anni. Dopo mesi di toccate di gomito, di guanti, sorrisi nascosti sotto una
mascherina, e dopo sei anni di baci forzati e abbracci meccanici, finalmente ho riscoperto
cosa siano i corpi, l’istinto, il desiderio che divampa come un incendio, gli abbracci veri,
struggenti, che isolano dal resto del mondo. Oscar mi ha ridato un senso di libertà, di vita.
Con lui posso dire, si cazzo esisto! Esisto, ho le mie esigenze e non posso far finta che la vita
sia questa. Prima di lui la mia non era vita, era sopravvivenza, trascinarsi penosamente di
giorno in giorno, con le ali tappate, le aspirazioni bloccate sul nascere. Avere un bambino con
Marco sarebbe stato un vincolo ulteriore per legarci a vita, la promessa di un futuro
tremendo. Ma avere un bambino con Oscar è un dono, un’occasione per ricominciare tutto di
nuovo, ma per il verso giusto. Con la persona giusta.
Recupera il telefono dalla borsa, che non aveva più controllato perché scarico. Lo attacca alla
presa e attende che si riaccenda. Riceve una notifica da parte di Marco.
MARCO
(messaggio)
Il volo sta per decollare, volevo farti una sorpresa, in questo periodo abbiamo avuto tanti
scontri e vorrei fare pace.
Nora guarda l’ora: gliel’ha scritto 7 ore prima.
Affannata accende la luce, sveglia Oscar. I due si rivestono e sistemano la stanza.
NORA
(aprendo la porta)
Allora alla pros…
Vede nell’androne Marco, che stava per suonare il citofono. Entrambi ammutoliscono. Marco
squadra tutti e due da capo a piedi.
MARCO
Beh, sono tornato.


BIBLIOGRAFIA
David H. Lawrence, Lady Chatterley’s Lover, 1928 (L’amante di Lady Chatterley, tr. it. di S.
Rita Sperti, Milano, Feltrinelli, 2013)

Sleeping beast – La solitudine del coraggio

Tommaso Buffa immagina, in questo suo lavoro, un dialogo sull’amore e la vendetta fra Laclos, Ovidio e i personaggi di Cowboy Bebop. La riscrittura è stata sviluppata nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Easy come, easy go” sentenzia Faye Valentine in Cowboy Bebop. Ma ci si può davvero liberare facilmente del proprio dolore? O è forse esso a dimenticare di chi eravamo, toccando e cambiando la nostra interiorità più profonda? La sofferta lettera di Faye al suo amato traditore ci dimostra, dalla Roma antica al Giappone del XX secolo, passando per la Francia del ‘700, come il lamento, il disprezzo, il desiderio di rivalsa siano solo alcuni dei modi con i quali rinforzare (o distruggere) il proprio cuore segnato da crudele abbandono.

*

Questa lettera giunge a te, traditore di donne, usurpatore del luogo più sacro ed inaccessibile delle loro anime, ladro del sentimento che a loro e loro stesse dovrebbero dedicare. Non vi leggerai tuttavia altro che il mio disprezzo, non vi noterai altro che la mia determinazione, e se, illuso dalla tua stessa reputazione, inorgoglito dai tuoi disprezzabili successi, debole e superbo, la inclinassi contro luce, in cerca dei segni di una lacrima, di odio, di un rimpianto, dell’impronta indelebile che ancora credi di aver lasciata nel mio cuore, non vi troveresti altro che un oceano di indifferenza, ed il mio cuore freddo come una pietra e privo di scalfitture. Con quale audacia ti presentasti a me, fingendoti chi non eri, e se solo avessi saputo allora quanto fosse patetica la tua messinscena, disoneste le tue intenzioni! Ma funzionò, e cento volte sia maledetto il giorno che mi mostrai così debole! Solo un riflusso, l’oceano del mio cuore ancora inquieto, proferisce pensieri che non più gli appartengono. Perché infatti maledire un’occasione per migliorare? Perché disprezzare chi fui, quando amo chi sono? Chi, dopo aver aperto il forziere, lamenta il tempo speso a cercare la chiave? Chi ha sofferto senza riuscire a trovarsi. Io, al contrario, ti sono quasi grata. Ancora, non susciti più sentimenti tanto forti da scomodare il destino, non alimenti alcuna fiamma né tanto brillante né tanto cupa e desolante in me. Il mio cuore è sigillato, ma, ahimé, ecco! una stilettata, un dolore, un sibilo, e un debole lamento che ancora traspira. Mi infastidisce, ma lo lascerò libero di sfogarsi, che sia l’ultima volta e poi ti avrò espulso fuori bordo come un rifiuto. «Nata per vendicare il mio sesso e dominare il vostro, ti ho tolto il potere e la volontà di nuocermi, tiranno divenuto mio schiavo», e dopo questa lettera sarà l’oblio, per te e per il mio cuore.

Ma quale effetto mi facesti, come mi scombussolasti l’animo, quando ti vidi per la prima volta! «Perché mai mi piacquero più del dovuto i tuoi capelli grigi, la tua eleganza ed il garbo artificioso delle tue parole?» Ah, come riconosco e biasimo oggi il mio comportamento come quello delle «donne attive nell’ozio che chiamiamo sensibili, e in cui l’amore si impadronisce facilmente di tutta l’esistenza»! Ma come avrei potuto far accadere altrimenti? all’epoca ero priva delle conoscenze, non possedevo ancora i miei mezzi. Sola, in un mondo straniero, differente da quello che avevo lasciato, ma poi, quale mondo avevo lasciato, quando su nulla la mia volontà aveva avuto autorità? Fu tutto il resto a lasciare me, la mia famiglia, il mio pianeta, i miei ricordi, la mia realtà.

Venisti da me al mio risveglio da un sonno criogenico, cinquantaquattro anni terrestri, innumerevoli vite altrui iniziate e terminate trascorse alla deriva nel vuoto, nell’oscurità infinita, nella solitudine più cupa, nel gelo assoluto. All’alba di quell’interminabile notte, durante la quale la mia Terra era stata distrutta e gli umani avevano cominciato ad abitare l’universo, mi ritrovai priva di memoria, ed ogni traccia del mio passato, tranne il nome, Faye, obliterata. Tratta in salvo solo per essere messa di fronte ad un folle debito di spese mediche per un incidente di cui il mio corpo non portava alcuna traccia, il mondo che tanto a lungo si era dimenticato di me mi restituiva la coscienza per umiliarmi ed espormi al suo squallore. Fu allora che mi promettesti il tuo aiuto, il tuo supporto, poi il tuo amore, e “a che scopo? in cambio di cosa?” furono le domande che volli ma non fui capace di porre. Nuda, priva della mia identità, a malapena riuscivo a tenermi stretta la certezza di averne una, e come avrei potuto chiudere il mio cuore quando quello, completamente vuoto, bramava calore? Si può considerare chiusa una scatola vuota, se al suo interno c’è solo spazio da riempire? Ero ancora me stessa, sì, ma appena nata, e come un neonato che senza conoscere nulla cerca il seno della madre, io cercai qualcuno e ti facesti trovare tu, e «chi riesce a nascondere bene l’amore», quando non possiede altro? «La fiamma appare ben visibile, tradita dal suo stesso chiarore.». «Imprudente, nel mio amante attuale non seppi vedere il nemico del futuro!».

Mi ritrovai a dipendere da te nella mia interezza, il mio corpo, il mio animo, la mia volontà erano le tue, io continuavo a non capire, a non spiegarmi tanta gentilezza, ma intuivo l’affetto, il suo peso rassicurante, ero consapevole della tua presenza al mio fianco, mai troppo lontana ma, ahimé, mai lontana abbastanza! L’iniquo debito non diminuiva, la tua promessa non era mantenuta, ma la tua voce era ferma e rassicurante, ed io, ingenua, ero certa della sincerità del mio amore, e convinta che non servisse altro ad un’esistenza lieta. Poteva forse qualcosa di tanto squallido e materiale competere con l’elettività del nostro rapporto? Come in una fiaba, eravamo legati da un filo rosso, tu ti definivi «il mio principe ed io la tua bella addormentata», e tanto bastava ad allietare il mio cuore di bambina, debole ed illuso, tanto fragile che pareva minacciare di implodere se tu lo avessi nuovamente svuotato, con lo stesso impeto con il quale lo avevi riempito. Succuba e serena, non riuscivo a sentire alcun male nelle tue parole, non riuscivo a vedere alcuna distanza nei tuoi occhi, a notare alcuna menzogna nei tuoi discorsi, a percepire alcuna distanza nei tuoi abbracci. Eri lì al mio fianco, tanto più grande e luminoso di quanto non fossi io ed a me andava bene così, contenta della tua luce riflessa. Ancora priva di memoria come sono adesso, credevo per me stessa di non poter essere altro da ciò che tu la rendevi, e le tue azioni mi parevano sempre prive di malfatto, di un’armonia e bellezza ineguagliabili. Mi sentivo piena, come un frutto maturo appeso al ramo di un albero, piccola ed orgogliosa, orgogliosa di ciò che tu avevi fatta di me, ed in piena estate, bagnata dalla luce del sole, invincibile, non riuscivo nemmeno a concepire la separazione, ed ero sicura nella mia stoltezza.

Ciò che non sapevo, ciò di cui, irradiata da quell’amore bugiardo e che tuttavia era l’unica realtà che il mio sguardo trovasse, non mi rendevo conto, era che l’abbandono, apparentemente così lontano ed estraneo, come la colonia di un piccolo pianeta che si ha difficoltà anche solo a trovare sui radar, era in realtà l’elemento fondamentale della mia storia, il senso stesso del mio vuoto passato. Come potei dimenticarmene? Come potei dimenticare il torto subito dal destino, la beffa che l’universo, l’unica vera casa e famiglia di tutti gli esseri viventi, mi aveva giocato, strappandomi, di certo per invidia, dall’altra mia casa, dall’altra mia famiglia, dallo stesso pianeta che avevo sempre abitato, proiettandomi nel vuoto, intimo ed esterno? Come potei non accorgermi che coloro che mi avevano già abbandonata una volta, le persone, l’avrebbero fatto ancora ed ancora? Come potei non accorgermi della solitudine che è nostra natura più evidente?

Potrei giurare, questo giorno di due anni dopo, con il pensiero della tua patetica figura rinchiusa nella stiva della mia nave a mo’ di zavorra, che sì, me ne accorsi eccome, ma, ahimé, non seppi fuggire, non seppi voltare le spalle al tuo calore così accogliente per volgermi nuovamente all’infinito gelo della solitudine, buio e profondo come un abisso, sconcertante, crudele nella sua indifferenza e nel suo silenzio, dal quale mi avevi tratto in salvo. Che per di più il tempo pareva dissipare ogni dubbio, ed il nostro falso amore pareva più inamovibile del Monte Olimpo. Chi avrebbe immaginato che il periodo passato così dolcemente insieme era solo atto a rafforzare l’inganno!

Eravamo insieme, quella sera come tutte le altre, quando, orrore! mi guardasti con occhi mai stati tuoi, occhi gelidi, impassibili, all’improvviso fra di noi una distanza siderale – riecco l’abbandono! l’antico spettro tornato a tormentare la dimensione che non ha mai lasciato,  nei tuoi occhi, gli occhi del tradimento, vidi riflesse le mie lacrime e laddove avrei dovuto leggere l’inevitabile, il mio destino, resa ingenua e folle – sì, folle, solo ora mi è chiaro! – dalla paura di perderti vi lessi invece la tua determinazione, quando grave mi confessasti che i creditori si erano infine fatti vivi, e la tua intenzione, tragica e solenne, di liberarti di loro una volta per tutte! Ecco l’abile e misera menzogna! Quale imbarazzo mi causa oggi ripensare al trasporto con cui ti credetti quando, nascosto dalle suppliche di non andare, di fuggire solo con me, lontani da tutti, dall’avarizia, dal grigiore degli animi umani!, il mio animo gioiva spavaldo al pensiero tuo coraggioso, luminoso, proprio come un principe sul suo destriero – e quanto mi sentii orgogliosa di te, e di me stessa per essere tua, tua preziosa ed insostituibile, da proteggere a tutti i costi dal peso del mondo! Debole mi coprii con uno sguardo convenientemente infantile e pensai che sì, che sicuramente tu avresti combattuto e sconfitto – quanto risuona ingenuo adesso! – i malvagi creditori come il drago al castello, ma che sì, sicuramente il pericolo dava adito a precauzioni e sì, indubbiamente era necessario che diventassi immediatamente tua erede universale che, il caso non lo volesse (e come avrebbe potuto volerlo, quando il nostro amore era eletto dal destino?), tu fosti morto, avresti potuto continuare a prenderti cura di me. Ah, tanto più è dolorosa l’inevitabile rivelazione della realtà quanto più ci si è ostinati a non guardarla! Ma quale eroe, ma quali nobili intenzioni! Fuggisti come un codardo, e a mio carico la tua eredità, un ammontare di debiti due volte maggiore del primo! Eccovi servito l’amore eletto! Usata ed ingannata, ti permettesti – oh quale onore! – di considerarmi degna di affidarmi il tuo fardello – quale miseria! Esiste forse fardello più infimo? per poi lasciarmi nuovamente al freddo ed alla solitudine. Quale umiliazione dovetti di nuovo subire, ma quale coraggio ne ho tratto!

Ma prima tu, la tua pateticità, la tua meschinità: non un eroe, ma il più squallido dei semplici uomini, ma che dico, inferiore! Animale! Principe ti definisti, quanto è principe il maiale che per ultimo giunge al trogolo! Come osasti consolarmi con le tue parole sudicie, rassicurarmi con le tue false promesse, scaldarmi l’animo con i tuoi malvagi discorsi! Il principe dei serpenti al massimo, con una tale lingua biforcuta! Ti meriti il maggior disprezzo, ma la minima attenzione. Sicuramente sto dando troppa considerazione immeritata ai tuoi irrilevanti talenti. D’altronde come nuoti, o meglio dire annaspi, in questo universo? con quali squallidi mezzi porti avanti la tua miserabile esistenza, nemmeno degna di essere detta vita? Avvicini donne disperate, senza un passato a cui chiedere coraggio e senza un futuro a cui chiedere speranza, e le conquisti, quanto è facile per un lupo predare un cervo zoppo. Per quanti anni hai mentito? Quante donne hai rovinato? Quante ingenue hai fatto cadere nella tua ragnatela e divorate? Di sicuro non hai divorato me, che caddi sì nella tua ragnatela, ma ne uscii con coraggio, indenne e rafforzata. Ho ritrovato la mia identità, ho ritrovato il mio coraggio, la mia determinazione, e solo grazie al tuo tradimento. Ti ringrazio? Oh sì, tale è ringraziare una zanzara per aver affinato i miei riflessi. Ma non di meno riconosco il tuo merito. Abbandono e solitudine sono la natura nostra di umani e mia in particolare, tu servisti solo da promemoria. Conosco la realtà della nostra condizione. «In questo mondo regna la legge della giungla: ingannare ed essere ingannati è la logica della vita. Riporre fiducia nel prossimo non porta alcun guadagno: questo è il mio imperativo», questa la lezione che ho imparato.

Tu me la insegnasti a modo tuo, me la facesti sentire sulla pelle, fragile come vetro, rigettandomi nel gelo dell’abbandono, ma il vetro non si infranse, ne uscì temprato. Duro come il diamante, il mio spirito è incrollabile. Se ingannare è la logica della vita, ho imparato ad ingannare. Se essere traditi è il destino delle persone, ho imparato ad approfittarne per ricavare guadagno. Si sbaglia forse andando contro natura? Per questo non ti odio. Ti disprezzo, questo sì, disprezzo lo squallore dei tuoi mezzi, lo scarso valore delle tue conquiste. Ti definisci uomo? Quale vero predatore, nella giungla in cui viviamo, cercherebbe la preda più facile? Un parassita, ecco cosa sei. Strisci sotto il fogliame, per finire chi è già sull’orlo del vuoto. Così attaccasti anche me, neonato germoglio in un campo costantemente straziato dalla falce. La tua mano di contadino mi espose alla luce, quanto fu luminosa per un istante! ma quando provasti a recidermi alle radici, fallisti. Uomo patetico quale sei, non riuscisti a tagliare il più debole dei filamenti.

Ma che dico, fui io, fui io a non farmi recidere! Fui io, a portare sempre appresso il dubbio. Me ne accorgo oggi, quando dopo due anni ti ho finalmente visto per quello che sei. Intenzionalmente ho lasciato parlare il mio cuore all’inizio di questa lettera. L’ho permesso, ma adesso non più: ti avevo avvisato, il mio cuore ora è un monolite, l’oblio degli affetti e della nostalgia di essi. Non rimpiango il tuo falso amore, non rimpiango il tuo gelido calore. Come potrei? ripensandoci ora, mi accorsi in fondo ben presto che non era un filo rosso a legarci, ma una pesante catena. Ma a chi altro avrei potuto rivolgermi, al tempo? Non mi ero ancora resa conto della risposta tanto evidente quanto mi appare adesso la luce di questo schermo: “a me stessa”, ovviamente. Avrei dovuto cercare in me, nei miei mezzi, nelle mie capacità, il sollievo. Invece, delirante, lo cercai in un uomo. Quale ironia, cercare rifugio da braccia tese a strappare fra braccia strette a strangolare! «Ma una donna sventurata che senta per prima il peso di una catena, quali rischi ha da correre se cerca di sottrarsi ad essa, se osa soltanto sollevarla?» Così non osai combatterti, non osai fuggire, e restai a crogiolarmi nel calore del tuo inganno. Sentivo che «sarei stata senza risorse se tu fossi stato senza generosità».

È stato solo quando mi hai meschinamente tradita che mi sono resa conto della follia nella quale stavo conducendo la mia vita, che l’albero al quale credevo di sorreggermi era invece un opprimente viticcio intento ad offuscare ed indebolire i miei sensi. Che orrore, ripensare alle tue mani strette alle mie, al suono dei tuoi sussurri accanto al mio viso, alla sensazione delle tue labbra sul mio corpo! Quando ascoltavo la tua voce promettermi le infinite carezze dell’amore eterno, le infinite gioie della nostra affinità, mi pareva simile al vento che batte le lande deserte di Marte, caldo e rassicurante. Riportandola alla mente ora, non sento nulla di dissimile alle grida di un ubriaco nella notte di Blue Crow, patetico e miserabile.

Ma quando mi sono ritrovata di nuovo sola, o meglio sola come sempre, sono forse crollata di nuovo della disperazione? Ho forse maledetto il mio destino, pianto una pioggia di lacrime, strappato i miei capelli alle radici, deturpato il mio viso con le mie stesse unghie? Per chi, per l’uomo più insignificante dell’universo, per il pesce più minuscolo in questo oceano? Deturpare il mio viso, la cui fierezza non hai potuto cancellare, la cui bellezza è la mia arma ed il mio orgoglio? Quanto sarai rimasto deluso, vedendomi fuggire indenne al tuo inganno! Mi sono fatta forte e spietata. Sono diventata cacciatrice di taglie, ho saputo creare i miei mezzi, fondare i miei principi. Ho lavorato su di me «con cura, e con ancor più fatica». Fintanto che l’obiettivo è proteggere quanto di più prezioso ho al mondo, me stessa, ho rifiutato di farmi scrupoli. Gentilezza ed altruismo non esistono, solo inganno e egoismo, ed una lotta continua, una strenua ricerca della vetta più alta, dalla quale dominare e sopraffare chi non è in grado di raggiungerci e difendere da chi tenta. E oh, quanto mi sono elevata al di sopra della tua ombra! Tu, vile, sei invece sempre rimasto a bocconi sulla terra, a godere dei tuoi abietti successi, e quale delizia incontrare il tuo muso di bestia sull’elenco delle taglie rilasciate e constatare, con la facilità della tua cattura, la tua inferiorità! Tutto ciò che hai mai posseduto, i tuoi piccoli inganni, le tue piccole vittorie, io lo moltiplico mille volte. Do’ la caccia a pesci grossi, pesci che ti sbranerebbero in un solo boccone, e li piego sotto il mio stivale. Vuoi sapere a quanto ammontava la taglia più alta che ho mai riscosso? ₩28,000,00. Vuoi sapere a quanto ammonta la tua? Un ridicolo ₩19,000. Non mi basterà per un vestito nuovo, se non un mucchio di stracci. Potrei comprarli e spedirteli in prigione, che dici? Un mucchio di stracci per un patetico straccione, la cui voce è quella di un ubriaco.

Ma non troverei alcuna gioia ad umiliarti. La mia indifferenza nei tuoi confronti è una nave che ti sorpassa e ti annega nella sua scia, talmente vasta che al suo interno perderesti la tua identità. Sarebbe forse la fine adatta a te, ridurti come un animale, incapace di esprimere te stesso e la tua volontà, volontà disprezzabile, incapace di desiderare altro che il male di donne deboli e sole. Ma poi, quante volte la tua truffa è veramente riuscita? Quante volte sei stato in grado di distruggere veramente una donna, nel suo intimo, fino a non farle più desiderare di sorreggersi sulle sue stesse gambe e continuare a vivere in questo mondo? Non mi stupirei se la risposta fosse nessuna. Coloro che conoscono la realtà della nostra natura, non soccomberanno a te. Sei forte dei tuoi inganni con chi non sa ingannare a sua volta, ma impallidisci di fronte ad un confronto degno. E le donne, tutte, se educate a sufficienza dalla vita, hanno più valore di te. Le donne, tutte, se in possesso del proprio orgoglio, della propria integrità, dei propri mezzi e del proprio coraggio, hanno più valore di te. L’ammontare comicamente basso della tua taglia, se non altro, è chiaro segnale, del tuo essere nullità.

Chissà se ancora non te ne rendi conto, se ancora pensi che io mi senta in qualche modo legata a te, che forse il mio cuore cerchi ancora l’amore di cui tanto vaneggiavi, di cui tanto mi illudesti. Non lo cerco, non cerco sentimenti fasulli e privi di significato e di utilità pratica. Che provino a goderne gli stolti, si ravvedranno quando resteranno inevitabilmente delusi e traditi. Non provo nemmeno più il desiderio di conoscere il mio passato. Cos’altro potrei trovare nei miei trascorsi, che mi sia più utile a sopravvivere di quanto già so? Una famiglia, forse? Amici? Legami affettivi inutili, fardelli, debolezze. Una persona deve vivere per sé stessa e per nessun altro. Le uniche relazioni degne di essere intraprese sono quelle che portino guadagno, e si basano inevitabilmente sull’inganno. Mi sono riconciliata con l’amore, «non per provarlo in verità, ma per ispirarlo e fingerlo». Mi riesce meglio di tanti altri, poiché a differenza di una nullità come te, io sono sempre alla ricerca di un’occasione in più, di una sfida, «e se devo scegliere fra due mali, scelgo sempre quello che non ho provato prima». Le promesse, come le tue promesse di amore eterno, non posseggono per me più alcun significato. Se non altro, «le promesse sono fatte per essere infrante», come strumento utile ad ingannare.

E così, eccomi di nuovo al tuo cospetto, ma non di fronte a te o più piccola di te, bensì talmente in alto che i tuoi occhi da talpa, abituati a fissare la terra, non possono nemmeno scorgermi. Sono come ti ho descritto e come ti ho dimostrato: il tuo tradimento ha forse avuto successo? Non sei forse nel mio pugno, grande come una mosca, ammanettato alla parete come l’ultimo dei ladri che sei, al buio e circondato dai topi? Quasi ti immagino, a sperare che la polizia arrivi il prima possibile perché tu possa scappare dalle mie grinfie vendicative. E che questo tuo pensiero sia l’ultimo respiro del tuo debole orgoglio, che ti fa credere degno della mia vendetta. Non riceverai nulla da me, non uno sguardo, non un sospiro, non – no di certo! – una fiammella di compassione, e no, nemmeno questa lettera. Già, perché dovrei consegnartela, pensare ancora a te, mantenere alcun briciolo di qualsiasi genere di considerazione nei tuoi confronti, alcun amore, odio, o sentimento? Indifferenza è ciò che ti meriti. Bonaccia è l’oceano del mio animo, quanto è silenzioso l’universo più vasto. Addio, Whitney, che lo sconforto non ti tolga il sonno, e che non ti giunga troppo presto quello eterno.

Faye Valentine.

Bibliografia

P. C. De Laclos, Le relazioni pericolose, BUR, Milano, 2018.

Ovidio, Eroidi, a cura di Emanuela Salvadori, Garzanti.

Cowboy Bebop, studio Sunrise, editore it. Dynamic Italia, 1999.


Davanti al sentimento pericoloso

Carla Doglio, in questo suo scritto, rielabora Le relazioni pericolose di Laclos, raccontando ciò che il testo non dice. La riscrittura è stata sviluppata nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Il romanzo di Laclos non si dilunga sul modo in cui si sono conosciuti la Marchesa di Merteuil e il Visconte di Valmont, per questo ho pensato di raccontare il loro primo incontro. I due personaggi inventati, ai quali si rivolgono i protagonisti, sono immaginariamente due esponenti della stessa società borghese parigina, alla quale appartengono Merteuil e Valmont. Narrando un incontro remoto, ho ritenuto lecito introdurre comparse nuove che non compaiono nel romanzo originale di Laclos”.

*

Lettera dalla Marchesa di Merteuil alla Presidentessa di ***.
Mia cara, è trascorso un po’ di tempo dalla nostra ultima corrispondenza; vi scrivo, per giustificare questa mia prolungata assenza. 
Non voglio sembrare scortese iniziando presto a raccontarvi i fatti che mi sono accaduti, ma sento un bisogno irrefrenabile di aprirvi il mio cuore.
Ho trascorso delle giornate assolutamente squisite in compagnia del mio nuovo conoscente: il visconte di Valmont. 
Desidero raccontarvi tutto l’episodio dal suo primo sviluppo, partendo dai nostri primi sguardi scambiati. Mi trovavo al Palazzo de Tuilleries, in compagnia della contessa di Fillon, quando ho notato che un giovane dall’aspetto molto gradevole, rivolgeva lo sguardo nella nostra direzione più di quanto non succeda quando si è privi di interesse.
Trovando molto apprezzabile questo giovane, dall’aspetto, decisi di ricambiare i suoi sguardi, unendoci una punta di malizia che, come voi ben sapete, è la mia virtù principale. Nel frattempo, la pièce teatrale proseguiva e sembrava non finire mai; non ricordo né l’opera che si stesse rappresentando e tanto meno di cosa parlasse. Questo nostro gioco di sguardi potrebbe essere durato un attimo come un’eternità. é curioso notare come, per chi sappia leggere tra le righe, uno sguardo significhi tutto. Capivo già quali fossero le sue intenzioni, mi sembrava addirittura di conoscerlo, allorché non sapevo nemmeno il suo nome; non so se dal mio racconto si percepisca la profondità di questo scambio ma mi sentivo addirittura scompigliata.
Come voi ben sapete, le mie conquiste sono sempre il frutto di una lunga preparazione con maestranza quasi direttoriale; in questo caso è stato diverso, il destino ci ha teso le mani e ne abbiamo afferrata una a testa. é stato proprio così che mi sono sentita, come se una mano esterna mi prendesse con estrema dolcezza e mi trasportasse verso Valmont. Tutta la dolcezza di quella presa traspariva dai dolci occhi del mio nuovo e tenero amico.
La contessa di Fillon, diversamente da me, era stata rapita dallo spettacolo messo in scena, non si era resa conto di tutto il nostro giochetto e del mio nuovo amico. Mi sorprende sempre vedere come certe persone si lascino incantare da spettacoli tanto sciocchi e banali, un’esibizione di pura illusione; io ho sempre preferito creare il mio spettacolo, la mia messa in scena, giocando con l’universo della seduzione senza mai conoscere l’amore vero. Questa, mia cara, è la regola secondo la quale seleziono le mie conquiste. 
Il momento in cui il mio coinvolgimento ha raggiunto il suo apice, è stato a fine spettacolo, quando ci siamo finalmente presentati. Da parte di entrambi, un’attenzione quasi cronometrica ci ha permesso di giungere all’uscita nello stesso istante. A quel punto, i nostri sguardi si sono ancora una volta incrociati, portandoci, questa volta, ad uno scambio diretto. Come lo vogliono le regole in queste circostanze, è stato lui a salutarmi e a presentarsi. Quanta gioia si è impossessata di me, al secondo stesso in cui ho conosciuto il nome di questo curioso personaggio. D’altronde, un nome alquanto nobile: Visconte di Valmont. 
Non credo mi fosse mai capitato, prima di allora, di provare una così forte eccitazione all’idea di frequentare questo singolare seduttore; Io stessa mi sono resa conto di non riuscire a contenere il rossore che si impadroniva delle mie guance.
Come avrete sicuramente intuito, la nostra serata non si è conclusa con un freddo saluto, mi sono congedata dalla contessa di Fillon e ho trascorso alcune ore con Valmont. La sua personalità non ha deluso le mie aspettative, semmai le ha superate. 
Abbiamo avuto modo di acuire la nostra conoscenza con successivi incontri, l’ho anche invitato nel mio castello di ***, dove i nostri desideri sono stati appagati. Da quel giorno, la frequenza e l’ardore con il quale ricerca le mie attenzioni, è irrefrenabile. La nostra corrispondenza è delle più vivaci. Pensate che, da qualche giorno, passo una prima metà della giornata ad aspettare la sua lettera ed una seconda a rispondere. 
Per un primo momento, ho pensato di potermi comportare come in precedenza e che il nome di Valmont, si sarebbe potuto aggiungere alla lista delle mie sedotte vittime.
Non saprei ulteriormente nascondervi il mio turbamento, sono anni che condivido con voi tutte le mie conquiste amorose e conoscete il mio motto “Amoreggiare soltanto con coloro che intendi respingere”. Tuttavia, recentemente, mi sono resa conto di provare, nei confronti di Valmont, tutt’altro che forza di repulsione; durante i nostri incontri cerco di mantenere un profilo di freddezza, in linea con la mia reputazione, ma sento un calore interno divampare come non mi era mai capitato. Una parte di me conosce il rischio di questi legami fondati sul sentimento pericoloso; allo stesso tempo, non saprei farne a meno. La sola idea di interrompere la relazione che si sta instaurando tra di noi, comporta una sofferenza straziante e un senso di vertigine che mi sono del tutto nuovi. 
Cara amica, credetemi, il mio cuore palpita di contrarietà, da un lato gioisco della mia nuova conquista, dall’altra non posso che preoccuparmi per l’intensità del sentimento irrefrenabile che provo.
Ditemi, ve ne prego, quello che fareste al mio posto, quello che pensate. Mi rimetto a voi, nella speranza di ricevere qualcuno dei vostri preziosi consigli; siete l’unica della quale mi possa fidare, nella situazione di sconfitta vergognosa in cui temo di sprofondare.
Conoscete i sentimenti che mi legano a voi in un’amicizia che spero essere eterna, addio.
Parigi, 14 luglio 17**.

Lettre du Vicomte de Valmont à la Marquise de ***.
Ma chère Marquise, vous ne pouvez imaginer avec quelle joie, je me permet de vous informer des faits qui se sont produits peu de temps en arrière. 
Cependant, je considère bien malhonnête de commencer à vous raconter mon histoire, sans avant avoir pris de vos nouvelles. L’on m’avait annoncé que votre santé n’était pas des meilleures, si cela est vrai, j’en suis profondément affecté. Je suis sûr que les bonnes nouvelles que vous apportent cette lettre, pourront diminuer vos indispositions de santé.
Comme nous avions si minutieusement programmé, notre plan qui avait comme but de manipuler les sentiments de la marquise de Merteuil, a marché comme sur des roulettes. Ma conquête a été d’une simplicité presque gênante. En connaissant la réputation de cette femme, jamais je n’aurais pensé pouvoir la séduire avec un banal jeu de regards.
En réalité, je me trouve obligé de reconnaître en vous, toute la connaissance du monde féminin et c’est grâce à vos astuces que notre plan a pu joindre au but aussi rapidement. 
À présent, je ne peux me retenir davantage et je me vois obligé de vous raconter de quelle manière j’ai vécu ces dernières journées, en compagnie de notre jeune ingénue.
Nous nous trouvions au Palais des Tuileries, la Marquise était en compagnie de la comtesse de Fillon. Dès le premier instant où nos regards se sont croisés, elle n’est pas arrivée à détacher ses yeux des miens. Après avoir passé des heures interminables à l’observer avec malice, j’ai trouvé l’occasion pour enfin me présenter et faire sa connaissance. Vous auriez dû voir quels efforts elle devait faire pour chercher à maintenir sa froideur et son tempérament, ne réussissant pas à cacher son excitation. C’était surtout à cause de la rougeur qui envahissait ses joues, que je comprenais quelles étaient ses réelles pensées. Je décidais de profiter de la situation en l’invitant à faire une promenade le long de la Seine. Déjà de la façon dont nous conduisions la conversation, il était évident que nous avions un grand intérêt à affiner notre connaissance. J’ajouterais même que j’ai trouvé plutôt agréable et divertissant, passer du temps en sa compagnie. Il s’agissait d’une conversation piquante et un peu malicieuse qui m’a beaucoup délecté. 
Le moment où j’ai éprouvé le plus grand divertissement, est durant les journées qui ont suivi notre première rencontre. Si vous aviez pu voir la manière presque obsessive dans laquelle, notre pauvre marquise, recherchait mes attentions, je ne sais vous dire combien nous aurions pu rire ensemble. J’en étais presque gêné pour elle. Elle répondait à mes lettres avec une rapidité jamais vue, on aurait dit qu’elle n’avait rien d’autre à faire. Et dans ces mots, je retrouvais toute sa volonté de me revoir, qu’elle essayait vainement de cacher.
Considérez qu’elle a même été jusqu’à m’inviter dans son Château de *** , qu’elle surnomme son Temple de l’amour, le lieu où elle conduit ces amants.  C’est à ce moment là que j’ai pu posséder en toute intimité son corps, en profitant de son ingénuité pour assouvir mon désir. Elle s’est livrée à moi précipitamment et n’arrivait plus à se retenir; en ce précis instant, elle a perdu toute ombre de froideur (qui, par coutume, précède toujours son nom et sa réputation). Je n’ai pas l’intention de m’étendre sur ce sujet, ma bonne éducation me porte à connaitre quelles sont les limites que les bonnes manières ne veulent pas que nous dépassions. Il ne serait pas convenable de vous parler davantage de notre intime liaison et de la façon dont nous avons passé ces heures.
Ma chère amie, il faut admettre que les mœurs de la société et le contentement du désir, ne marchent pas main dans la main.
J’admets que je suis encore étonné de la facilité avec laquelle, la marquise s’est livrée à moi. J’ai surement dû lui sembler bienveillant et respectable (comme j’ai toujours chercher de paraître devant les yeux de la bonne société à laquelle nous appartenons). Elle ne se doute sûrement pas du piège que nous lui avons tendu, mais je crains qu’elle comprenne le danger du sentiment d’amour qui la possède. J’ai été informé par mes sources, que tout son entourage est boulversé par ses comportements: elle alterne des moments de joie folle (quand nous sommes ensemble) et d’autres de profonde angoisse, terrifiée par le nouveau sentiment qui ne lui offre aucun répit. 
Adieu, ma belle amie, je suis fort pressé; je dois rejoindre notre jeune Marquise qui attend avec impatience mon arrivée et je ne peux pas la décevoir. En ce qui concerne votre santé, je vous invite à nouveau à m’informer sur votre condition. Je renouvelle ma profonde affection pour vous, en espérant nous rencontrer au plus tôt; L’envie de jouir avec vous du bon achèvement du plan, est pour moi chaque minute plus forte. Je suis sûr que quand nous commencerons à en rire, une force inconnue ne nous permettra pas de cesser et ce sera un de ces moments merveilleux que seule votre compagnie m’offre. 
Avec tendresse, votre vicomte.
De… ce 25 juin 17**. 

BIBLIOGRAFIA
P. A. F. Choderlos de Laclos, Les liaisons dangereuses, Sodis, Parigi, 2013.