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Istituto Chimico

Citato in
Zinco, SP, I: 881

Passo
Si mormoravano sul suo conto [del Professor P.] le leggende assai sospette di spilorceria maniaca nella conduzione dell’Istituto Chimico e del suo laboratorio personale: che conservasse in cantina casse e casse di fiammiferi usati, che proibiva ai bidelli di buttare via; che i misteriosi minareti dell’Istituto stesso, che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo, li avesse fatti costruire lui, nella remota sua giovinezza, per celebrarvi ogni anno una immonda segreta orgia di ricuperi, in cui si bruciavano tutti gli stracci e le carte da filtro dell’annata, e le ceneri le analizzava lui personalmente, con pazienza pitocca, per estrarne tutti gli elementi pregiati (e forse anche i meno pregiati) in una sorta di palingenesi rituale a cui solo Caselli, il suo tecnico-bidello fedelissimo, era autorizzato ad assistere.

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Paradossalmente, il soggetto di questo estratto compare sottinteso: e quasi incoerente con la statura del suo personaggio, trattandosi di Giacomo Ponzio, allora rettore dell’Istituto di chimica e nonché professore di un estremamente giovane Levi, chimico in erba nei suoi primi anni di apprendistato universitario. Ponzio, il “professor P.”, era già scomparso all’epoca della pubblicazione, eppure Levi volle mantenere l’anonimato su una presenza tanto importante quanto la sua: sarà infatti proprio lui, dopo diverse citazioni nei capitoli del Sistema periodico che narrano gli anni alla facoltà di Chimica, l’unico professore ad accettarlo come tesista nonostante le leggi razziali dello stato fascista, alle quali non credeva, di cui anzi sembrava infischiarsene rinserrandosi sicuro dentro le mura del suo regno.

Sicuramente la storia è stata romanzata dallo scrittore maturo, tanto più che venne scritta circa trent’anni dopo essere stata vissuta: è molto probabile che la storia sia stata arrotondata e che il personaggio abbia risentito di una caratterizzazione relativamente forte. Ciononostante, Ponzio era un personaggio del tutto singolare: il classico tipo di professore vecchio stampo, che fece sudare sette camicie a molti degli studenti che passarono tra le sue grinfie. Così non fu per Levi, il quale iniziò a stimarlo sin da subito, avendo capito che si poteva trarre una morale di vita dalle sue lezioni di chimica (come ad esempio l’elogio dell’impurezza, prima grande lezione da mandare a memoria). Tale apprezzamento era anche ricambiato, poiché il docente e guardava al giovane come un allievo pieno di potenzialità e naturalmente predisposto all’imparare i misteri che la sua disciplina sondava.

Sono però questi anni in cui il giovane Primo non ha incredibilmente chiaro il percorso che si para davanti ai suoi passi: ai suoi occhi, le materie che gli vengono insegnate all’università sono quasi tutte favolose e affrontano il mondo in maniera esemplare, fornendosi dei nobili strumenti che hanno via via sviluppato e migliorato nel tempo, acuendo sempre più il genio della specie umana (ricordiamo ad esempio la figura dell’Assistente di Potassio, e con essa l’avvicinamento molto sentito di Levi alla disciplina fisica, la quale volle coniugare alla chimica nella sua stessa tesi di laurea).

In ogni caso, e specialmente dopo aver superato il test d’ingresso alla facoltà, Primo si sentiva una sorta di eletto: dai suoi studi sarebbe stato in grado di rifarsi delle verità rivelate propinategli durante il liceo, avrebbe potuto conoscere la materia dallo scontro a tu per tu (in particolare durante le lezioni di Ponzio, nelle estenuanti ore passate in laboratorio), avrebbe ottenuto la chiave per sondare i sommi capi dell’universo. E come tale la chimica si presentava quasi alla pari di un mistero iniziatico: Ponzio era colui che, facendo da cerimoniere, avrebbe guidato ogni partecipante alle sue lezioni alla scoperta della verità ultima che soggiace agli elementi e alla loro interazione atomica.

Nell’estratto qui riportato, si intravede infatti una parte fondamentale dell’Istituto Chimico che spicca nella linea dell’orizzonte torinese in corrispondenza del parco del Valentino: «i misteriosi minareti […] che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo», tali ancora oggi (seppure il dipartimento sia ora ubicato nell’edificio dirimpetto). Sarebbero dunque le stesse torri che, nella loro origine mitica – quasi leggendaria – si diceva che Ponzio avesse fatto costruire apposta per tenere sotto controllo qualsiasi reazione chimica innescata tra le mura del suo dominio, al fine di tenere (maniacalmente) sotto controllo il suo regno e guadagnare recuperando gli scarti fino all’osso.

Biblioteca dell’Istituto Chimico

Citato in
Azoto, SP, I: 991

Passo
Appena mi fu possibile filai in biblioteca: intendo dire, alla venerabile biblioteca dell’Istituto Chimico dell’Università di Torino, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io. […] L’orario era breve ed irrazionale; l’illuminazione scarsa; gli indici in disordine; d’inverno, nessun riscaldamento, non sedie, ma sgabelli metallici scomodi e rumorosi; e finalmente, il bibliotecario era un tanghero incompetente, insolente e di una bruttezza invereconda, messo sulla soglia per atterrire col suo aspetto e col suo latrato i pretendenti all’ingresso.

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni) e, come molti dei racconti presenti in questa raccolta, testimonia anche il mestiere di chimico non fu per Levi una grigia occupazione statica, quanto più un lavoro itinerante e dinamico.

Specialmente in Azoto, il testo qui citato: per soddisfare il desiderio di un cliente che si era presentato richiedendo niente più che una consulenza, il giovane chimico Levi viene incaricato di risolvere un mistero: perché il rossetto prodotto dal cliente di cui si parla in questo racconto non funziona come dovrebbe, e produce scempi estetici invece di imbellettare le signore che lo usano? Questa è la mansione che viene affidata alla ditta Levi-Salmoni.

Armato di pazienza e dei fondamentali ferri del mestiere che poteva reperire nel laboratorio, Levi analizza la ricetta chimica del rossetto e scopre che per migliorarlo serve assolutamente l’allosana. Il suo cliente, estasiato, gliene commissiona una grande quantità, che si dice disposto a pagare anche a caro prezzo; vista la difficoltà del periodo e la lentezza della ripresa nel Dopoguerra, l’opportunità non può essere lasciata andar persa. Ma dove trovarla?

Per essere risolto, il caso chimico necessita innanzitutto di uno studio teorico. E quale luogo migliore per svolgere delle ricerche dell’arca memoriae in cui il giovane Levi si era formato, e che aveva imparato a conoscere e frequentare già da studente? Per questo motivo la Biblioteca dell’Istituto Chimico (che nel 1985 venne intitolata proprio al professor Giacomo Ponzio, il rettore dell’Istituto di cui si parla nel capitolo Zinco e con cui Levi discusse la sua tesi di laurea, l’unico suo professore che lo accettò come tesista nonostante le sue origini ebraiche) gli offrì il retroterra ideale per iniziare le sue ricerche e ottenere risultati contro le sfide della materia.

Nel breve spaccato sopra citato rivive la biblioteca che gli aspiranti chimici frequentavano assiduamente durante il loro percorso di formazione universitaria: come negli altri passi, però, il complesso non è descritto in chiave paradisiaca, quanto più di degrado. Non si tratta infatti di un oasi idilliaca di sapere con personale estremamente disponibile e locali perfettamente predisposti allo studio, quanto più di un luogo relativamente inospitale, non completamente adatto allo studio poiché sprovvisto delle basilari condizioni invece necessarie agli studenti per implementare la loro formazione. Anche qui come altrove, inoltre, l’Istituto di Chimica è descritto al pari di un luogo dalla spiccata natura iniziatica: già a partire dall’accesso alla biblioteca, secondo Levi considerabile alla stregua di una vera e propria prova di pertinacia.

Rispolverando i segreti del mestiere imparati durante l’apprendistato universitario, il chimico ancora alle prime armi riporta il suo percorso libresco in uno spaccato teorico, ricostruendo e spiegando i procedimenti che dovrà intraprendere per portare a termine il proprio compito: con la professionalità del ricercatore, salta da un libro all’altro, mobilita la sua attenzione nell’inseguimento dei rimandi presenti nei libri. Nella fase di reperimento dei dati, Levi trascina il lettore con lui nel percorso che lo porta da un riferimento ad altre innumerevoli pubblicazioni. Il tutto a giustifica del fatto che i fondi librari – nonostante tutto, e al contrario dei locali – non erano poi così mal gestiti; anzi, in questo caso giocarono un ruolo fondamentale e approntarono il sostrato teorico da cui poté prendere avvio la parte pratica: quella «ricerca nei pulitissimi scaffali, odorosi di canfora, di cera e di secolari fatiche chimiche» (Azoto, SP, I: 993) portò frutti notevoli, almeno in via speculativa.

Corso Francia

Citato in
Azoto, SP, I: 994

Passo
In primo luogo, la pollina (si chiama così: noi inurbati non lo sapevamo, né sapevamo che, sempre per via dell’azoto, è apprezzatissima come concime per gli orti) non si regala, anzi si vende a caro prezzo. In secondo luogo, chi la compra se la va a raccattare, entrando a quattro gambe nei pollai e spigolando per le aie. In terzo luogo, ciò che effettivamente si raccoglie può essere direttamente usato come fertilizzante, ma si presta male ad ulteriori lavorazioni: è un miscuglio di sterco, terra, sassi, becchime, piume e pèrpójìn (sono i pidocchietti delle galline, che si annidano sotto le ali: non so come si chiamino in italiano). Ad ogni modo, pagando non poco, faticando ed insudiciandoci parecchio, la moglie impavida ed io ce ne ritornammo a sera per Corso Francia, con un chilo di sudata pollina nel portapacchi della bicicletta.

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni) e, come molti dei racconti presenti in questa raccolta, testimonia anche il mestiere di chimico non fu per Levi una grigia occupazione statica, quanto più un lavoro itinerante e dinamico.

Specialmente in Azoto, il testo qui citato: per soddisfare il desiderio di un cliente che si era presentato richiedendo niente più che una consulenza, il giovane chimico Levi viene incaricato di risolvere un mistero: perché il rossetto prodotto dal cliente di cui si parla in questo racconto non funziona come dovrebbe, e produce scempi estetici invece di imbellettare le signore che lo usano? Questa è la mansione che viene affidata alla ditta Levi-Salmoni.

Armato di pazienza e dei fondamentali ferri del mestiere che poteva reperire nel laboratorio, Levi analizza la ricetta chimica del rossetto e scopre che per migliorarlo serve assolutamente l’allosana. Il suo cliente, estasiato, gliene commissiona una grande quantità, che si dice disposto a pagare anche a caro prezzo; vista la difficoltà del periodo e la lentezza della ripresa nel Dopoguerra, l’opportunità non può essere lasciata andar persa. Ma dove trovarla? Soltanto dopo un pellegrinaggio fondamentale alla biblioteca della Facoltà di Chimica e una ricerca forsennata, Levi si rende conto di poter trovare il composto nello sterco del pollame o dei serpenti.

Vista l’esoticità del secondo animale e la grande abbondanza nostrana del primo, Levi decide di fare un giro nei pollai dei contadini dell’area campagnola subito fuori da Torino centro. La mansione non sarà difficile: dopo qualche chilometro di pedalata, pensa, dovrà soltanto raccogliere lo sterco dei volatili e, ritornato al laboratorio, isolare l’elemento per produrre infine l’allosana (proprio come un ritorno alle origini della chimica, agli antichi alchimisti, perché «la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima», Azoto, SP, I: 993).

In questa avventura lo accompagnerà la «recentissima moglie» (Azoto, SP, I: 994): i due andranno in campagna proprio alla ricerca di pollai, pronti a battere il tappeto escrementizio alla ricerca di quello che avrebbe fruttato loro un notevole guadagno. Levi scrive infatti: «avrei preso la bicicletta, e fatto un giro per le cascine della periferia (a quel tempo c’erano ancora) in cerca di stereo di gallina» (Azoto, SP, I: 994), segnando una testimonianza non poco importante, salvando dalle derive della memoria il fatto che l’odierna Collegno (ormai unita al centro di Torino a causa dell’irresistibile urbanizzazione) era una volta formata da un gruppo di cascine rurali, con contadini, animali e verdi campagne tutt’attorno. Era dunque alla portata di ogni torinese, giusto a qualche chilometro di bicicletta, un angolo agreste che oggi non si conserva più, e che è anzi stato sostituito completamente dal cemento e dall’asfalto.

L’impresa però riesce e i due neo-coniugi tornano a casa la sera vittoriosi: percorrendo un corso Francia libero dalle orde di macchine che lo popolano invece oggi quotidianamente a quasi tutte le ore del giorno, si godono la gita fuori porta lontano dal traffico e dalla confusione cittadina, ritornando in un ambiente che, all’epoca, viveva ancora immutato da tempo, prima di cambiare definitivamente i propri connotati in seguito alla spinta urbanistica degli anni Cinquanta-Sessanta.

Via Roma sotterranea

Citato in
Azoto, SP, I: 994

Passo
[…] proprio in quei giorni, nella galleria della Metropolitana (che esiste a Torino da quarant’anni, mentre la Metropolitana non esiste ancora) era stata inaugurata una mostra di serpenti. Perché non andare a vedere? I serpenti sono una razza pulita, non hanno piume né pidocchi e non razzolano fra la polvere; poi, un pitone è ben più grosso di una gallina. Forse i loro escrementi, al 90 per cento di acido urico, si potevano ottenere in abbondanza, in pezzatura non troppo minuta e in condizioni di purezza ragionevole.

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni) e, come molti dei racconti presenti in questa raccolta, testimonia anche il mestiere di chimico non fu per Levi una grigia occupazione statica, quanto più un lavoro itinerante e dinamico.

Specialmente in Azoto, il testo qui citato: per soddisfare il desiderio di un cliente che si era presentato richiedendo niente più che una consulenza, il giovane chimico Levi viene incaricato di risolvere un mistero: perché il rossetto prodotto dal cliente di cui si parla in questo racconto non funziona come dovrebbe, e produce scempi estetici invece di imbellettare le signore che lo usano? Questa è la mansione che viene affidata alla ditta Levi-Salmoni.

Armato di pazienza e dei fondamentali ferri del mestiere che poteva reperire nel laboratorio, Levi analizza la ricetta chimica del rossetto e scopre che per migliorarlo serve assolutamente l’allosana. Il suo cliente, estasiato, gliene commissiona una grande quantità, che si dice disposto a pagare anche a caro prezzo; vista la difficoltà del periodo e la lentezza della ripresa nel Dopoguerra, l’opportunità non può essere lasciata andar persa. Ma dove trovarla? Soltanto dopo un pellegrinaggio fondamentale alla biblioteca della Facoltà di Chimica e una ricerca forsennata nei pollai dei contadini dell’area campagnola subito fuori da Torino centro, Levi si rende conto di poter trovare il composto nello sterco dei serpenti (oltre che in quello del pollame).

Per combinazione, era stata inaugurata proprio in quei giorni una mostra di rettili (organizzata da Angelo Lombardi, che qualche anno più tardi sarebbe divenuto un celebre divulgatore televisivo del mondo animale) proprio nello scavo che il Comune di Torino aveva iniziato per creare le gallerie della metropolitana. Nelle immense sale di quello che oggi è divenuto un parcheggio sotterraneo, innumerevoli teche riempite di rettili erano in quei giorni uno degli oggetti di osservazione più gettonati tra i torinesi. Anche in questo caso possiamo vedere come nel Sistema Periodico sia stata inoculata una memoria geocritica, che ci permette oggi di scoprire il volto della città per come la conobbe (e conosceva) Levi. Torino aveva un volto profondamente diverso rispetto a quello odierno, di cui noi oggi possiamo osservare soltanto le vestigia, eventualmente ricostruendo e interpellando i frammenti memoriali che il chimico-scrittore ha lasciato nella sua opera.

Spiega bene Levi: quegli scavi erano stati iniziati quarant’anni prima (negli anni Trenta, poiché il volume è scritto negli anni Settanta, pur raccontando una storia risalente alla fine degli anni Quaranta) al fine di far transitare una metropolitana sul modello delle principali grandi capitali europee. Il luogo prescelto sarebbe stato proprio il centralissimo spazio di terreno sotto via Roma, che a più riprese venne trivellato, svuotato e puntellato per creare gli spazi che avrebbero aperto ancora di più la città alla modernità. Ma gli scavi vennero realizzati solo in parte e furono sospesi: il capoluogo torinese dovrà aspettare fino al nuovo millennio per vedere realizzata effettivamente le due linee della metropolitana che oggi percorrono l’underground e che così tanti utenti utilizzano ogni giorno; all’epoca, invece, i locali sotto via Roma rimasero vuoti e furono utilizzati come spazio espositivo (come testimoniano le parole di Levi), finché, collegandosi con altri scavi adiacenti, non divennero gli odierni parcheggi sotterranei.

La Torino di Primo Levi

– Quali sono i luoghi della città a cui si sente più legato?

– Quelli che compaiono qua e là nei miei libri. Le parti di casa, di scuola, vale a dire il D’Azeglio, l’Università, un po’ al Valentino un po’ in via Po, dove tra l’altro abitava la mia nonna paterna. Anche via Roma vecchia, che però ricordo vagamente. Uno dei miei nonni leggendari aveva un negozio di stoffe in via Roma vecchia e a carnevale era possibile salire al balcone dell’ammezzato per assistere alla sfilata dei carri. Nell’elenco metterei anche il percorso che ho fatto per 20 anni da Torino a Settimo e da Settimo a Torino. Proprio durante uno di questi percorsi pendolari scoprii in un’insegna di negozio lo pseudonimo [Damiano Malabaila] che adottai per Storie naturali.

Fu proprio questa citazione, dall’intervista rilasciata a Giovanni Tesio del 1980, che il mio progetto ha avuto inizio, qualche mese fa. Nasce da questa rassegna di luoghi e percorsi l’idea di creare una mappa letteraria della Torino di Primo Levi: non solo da questa, certo, bensì da un insieme più ampio di iniziative letterarie ed editoriali su cui ho ragionato e che mi hanno portato alla realizzazione di un progetto più articolato. Iniziative, innanzitutto, come due fondamentali volumi dedicati al rapporto tra il capoluogo piemontese e la letteratura: Una mole di parole: passeggiate nella Torino degli scrittori, a cura di Alba Andreini, Torino, CELID, 2006, che si presenta come una lunghissima passeggiata che porta il lettore a spaziare tra le opere di scrittori e scrittrici che hanno immortalato alcuni e tanti scorci torinesi nelle loro pagine; e anche il fondamentale volume di Alessandra Chiappori, Torino di carta: guida letteraria della città, Palindromo, Palermo, 2019, che evoca il capoluogo piemontese negli scritti di molti uomini e donne di penna che ricordano l’uno e l’altro angolo della preziosa città sabauda, rispolverando evocativi quadri memoriali loro ricordi più genuini. Ma c’è anche un’altra mappa, più simile a quella che mi accingo a presentare e specificamente dedicata all’opera di Primo Levi, che è quella organizzata dal Centro Studi nell’Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa (Einaudi, 2017, pp. 284-289): in queste poche pagine il centro della città viene scandagliato alla ricerca di quei luoghi che appaiono citati nell’opera del chimico-scrittore. Ma l’antecedente più importante del presente progetto è un altro: ho colto la sfida lanciata da una mia collega, Jasmine Mulliken, di origini irlandesi ma addottoratasi a Stanford (USA). Nel suo fondamentale progetto Mapping Dubliners, Mulliken ha preso in analisi i racconti che compongono Gente di Dublino di James Joyce, ha tracciato una vera e propria mappa di ogni spostamento di cui si trova notizia nelle pagine della raccolta, e ha puntellato di segnaposti la mappa del mondo intero (di Dublino in particolare, ma anche dell’Europa e dell’America) per permettere ai suoi fruitori di aggirarsi nei meandri geo-letterari dell’opera seguendo gli spostamenti descritti nei racconti che la compongono. Proprio a questa felice realizzazione il corrente progetto deve il suo impianto fondamentale: con la differenza che Primo Levi occupa il posto di James Joyce, e Torino si sostituisce a Dublino.

Per realizzare il progetto mi sono appoggiato al modello tridimensionale del capoluogo piemontese su Google Earth, ne ho evidenziato i luoghi che troviamo citati nell’opera del chimico-scrittore e li ho raccolti creando un quadro generale. Lungi dall’essere terminato (le scoperte si succedono sulla scala del quotidiano ancora dopo diversi mesi dall’inizio della ricognizione!), il progetto è composto da più di trenta schede di lettura, ognuna relativa ad un luogo specifico (a volte ripreso anche due volte, secondo le diverse sfaccettature che guadagna nell’opera di Levi): ogni luogo è inventariato in base alla relazione che intrattiene con la vita e con l’opera di Levi e la catalogazione segue una legenda precisa (che si trova più avanti qui sotto). Ogni scheda riporta nel proprio riquadro di informazioni il riferimento con il rimando alla fonte del passo citato, a cui seguono la citazione testuale e un link di rimando a un sito esterno. Cliccando quest’ultimo, si verrà automaticamente reindirizzati ad un’apposita pagina dedicata sul Blog degli studenti di Culture e Letterature Comparate di Torino, voluto e coordinato dalla professoressa Chiara Lombardi e del cui comitato di redazione sono membro sin dai primi momenti della sua nascita. In ogni pagina, oltre alle coordinate generali già presenti nel Progetto su Earth, si trova l’inquadratura ragionata per ogni estratto in cui Levi cita un luogo. Il tutto è corredato da un apparato di foto storiche, quasi interamente in bianco e nero o color seppia: si tratta di immagini ampiamente reperibili online che ho trovato sul web (segnalandone rigorosamente la fonte) e inserito con lo scopo di mostrare la vecchia Torino, le cui vestigia oggi rimodernate possiamo scorgere (o rivedere con gli occhi dell’immaginazione) passeggiando nel centro storico, tra le vie e i corsi, o nei comuni confinanti. Il tutto a portata di smartphone, tablet o pc: il progetto è infatti pensato per essere principalmente fruito in mobilità, magari passeggiando negli stessi luoghi in cui passeggiava e in cui si scandiva la vita di Primo Levi, ripensando a quali potessero essere i suoi percorsi all’interno del centro storico cittadino, rivedendo quali scene, immagini, oggetti o presenze abbiano ispirato le tante occasioni letterarie che riportano in vita l’uno o l’altro angolo della capitale piemontese.

Il risultato più evidente del progetto sarà proprio questo: fornire alla cittadinanza, ai gruppi turistici (o a chiunque ne fruisca) uno strumento utile che possa permettere loro di conoscere un altro lato della città, inedito in buona parte, che passa spesso inosservato tra i tanti temi che popolano l’opera del chimico-scrittore. Il Progetto su Google Earth sarà infatti fruibile in modalità online e offline e prenderà la forma di un oggetto utile a orientarsi nella conoscenza del patrimonio storico, artistico, urbanistico e letterario del centro di Torino (e immediati dintorni).

Prenderà insomma la forma di un particolare (e interattivo) vademecum letterario per chiunque voglia godere di una passeggiata (reale o virtuale) non solo tra le strade di Torino, ma anche tre le varie trasformazioni che l’hanno attraversata e ne hanno cambiato il volto: tutti processi di cui Primo Levi è stato – consapevolmente o meno, programmaticamente o no – testimone attento e intelligente. Ripercorrere i percorsi della sua opera che portano traccia di questi cambiamenti permetterà dunque ai fruitori di familiarizzare non soltanto con i suoi racconti, poesie, articoli e libri riscoprendone punti spesso messi in secondo piano, ma anche con la veste storica del centro cittadino, di cui metterà a nudo la sedimentazione storica spiegando come le cose erano prima che divenissero tali come sono oggi. Il tutto, ovviamente, inserito in un quadro più generale che rivela come Torino sia stata, agli occhi di Levi, non soltanto sua città natale e palestra di formazione educativa e lavorativa, ma anche città vespertina e brulicante di vita notturna, piena di scorci che meritavano di diritto una decantazione poetica, una riflessione giornalistica o che ben si prestavano, alla penna del chimico-scrittore, come un momento di creazione letteraria.

L’obiettivo principale del progetto è pertanto quello di creare una mappa; non una vera e propria cartina con degli itinerari (o per lo meno, non ancora), quanto più (in questa fase iniziale) un inventario geografico comune che, con un grande numero di segnaposti, illustri in maniera semplice e immediata la materia del discorso a chiunque lo fruisca. L’intento è permettere anche chi non studia sistematicamente i fenomeni letterari di avvicinarsi e familiarizzare con l’opera di Levi: quasi al termine del mio percorso di dottorato in Lettere presso l’ateneo torinese, ho voluto creare uno strumento che potesse essere accessibile (e soprattutto facilmente comprensibile) a chiunque, che permettesse di rivelare quanto Torino è intrisa di letteratura, e quanto la letteratura che ne parla sia una prova della sua radicale importanza come stimolo per la scrittura. L’opera di Levi, come spero che questo progetto dimostri, si pone come una delle vene sotterranee che scorrono sotto alla superficie della città: vene che hanno scandito la sedimentazione storica e identitaria dei suoi quartieri, edifici e strade e che, se interrogate correttamente, rivelano ancora oggi un interessante reticolo di informazioni ancora in buona parte da scoprire.

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Per accedere al progetto:

❧ cliccare qui e avviare (da app o da pc) Google Earth, su cui si visualizzerà il Progetto Earth La Torino di Primo Levi.

❧ Interagire liberamente con la mappa predisposta, su cui compaiono segnaposti di diversa natura e colore. Si seguirà questa legenda:

Punto d’inizio

Luoghi strettamente familiari

Luoghi legati all’educazione elementare, liceale e universitaria

Luoghi legati al mestiere di chimico

Luoghi legati al mestiere di scrittore

Luoghi citati nelle poesie, articoli o racconti

Luoghi legati alla parentela ebraico-piemontese

Luoghi reali citati ne La chiave a stella


❧ Ogni segnaposto contiene:

– una citazione dall’opera di Levi con il relativo riferimento. Le citazioni contengono anche informazioni più specifiche (il capitolo della raccolta da cui provengono, o la data di composizione o pubblicazione) e il numero romano del volume da cui sono tratte; segue il numero della/e pagina/e. Le citazioni dal terzo volume, contenente le dichiarazioni e le interviste, sono invece contrassegnate dal nome dell’intervistatore, il titolo dell’intervista, l’anno di pubblicazione, il numero romano che indica il volume e le pagine in cui è possibile leggerle. Le opere principali si possono leggere nei tre volumi di Primo Levi, Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 2016-2018 e sono citate con i seguenti acronimi:

T = La tregua (1963)
SP = Il sistema periodico (1975)
CS = La chiave a stella (1978)
AOI = Ad ora incerta (1984)
AM = L’altrui mestiere (1985)
AP = Altre poesie (1986)
PS = Pagine sparse 1947-1987

– un link che reindirizza all’apposita categoria predisposta su questo blog. In ogni scheda è contenuta una spiegazione e contestualizzazione del passo: lo scopo è ricostruire l’intorno da cui l’estratto proviene, o offrire alcuni spunti analitici nel caso di intere poesie.

In caso di problemi, domande o dubbi, il dott. Cravero è reperibile all’indirizzo mail mattia.cravero@unito.it.

Hotel Suisse

Citato in
Fosforo, SP, I: 940

Passo
Stavo inutilmente cercando, quando un mattino, cosa rarissima, fui chiamato al telefono delle Cave: dall’altro capo del filo una voce milanese, che mi parve rozza ed energica, e che diceva di appartenere ad un Dottor Martini, mi convocava per la domenica seguente all’Hotel Suisse di Torino, senza concedermi il lusso di alcun particolare. Per aveva proprio detto “Hotel Suisse”, e non “Albergo Svizzera” come avrebbe dovuto fare un cittadino ligio: a quel tempo, che era quello di Starace, a simili piccolezze si stava molto attenti, e gli orecchi erano esercitati a cogliere certe sfumature.
Nella hall (scusate: nel vestibolo) dell’Hotel Suisse, anacronistica oasi di velluti, penombre e tendaggi, mi attendeva il Dottor Martini, che era prevalentemente Commendatore, come avevo appreso poco prima dal portiere.

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Questo estratto ci riporta agli albori della carriera di chimico di Primo Levi: siamo nel 1942, ancora sotto le leggi razziali, al cospetto di un giovane ventitreenne in erba laureato in Chimica da non troppo, con alle spalle l’esperienza lavorativa presso le cave amiantifere di Balangero.

L’accaduto è quasi miracoloso, e Primo non può dire di no: attorno agli ebrei il fascismo sta facendo terra bruciata, li sta emarginando sempre più, impedendo loro di svolgere la maggior parte dei lavori. Lui stesso si è infatti appena messo alla ricerca di altro: sa bene che, se aspettasse ancora lavorando presso le cave, sarebbe solo una questione di tempo prima d’essere altrimenti interdetto.

La telefonata del misterioso Dottor Martini – un esemplare umano di cui non manca un’accurata descrizione gestuale, linguistica e leggermente caricaturale in pieno stile Levi nel corso di Fosforo – annuncia un lavoro, ma in maniera laconica: ciononostante, Levi non può che accettare, almeno per sentire la proposta che gli si vuole fare.

Dopo il colloquio scoprirà che, per più di un motivo a scapito dei pochi contro, la scelta giusta è trasferirsi: lavorerà per la Wander, una ditta farmaceutica svizzera (lo stesso Martini, a carte scoperte, si rivelerà elvetico) che richiede i suoi servigi per lavorare ad una segretissima cura orale contro il diabete. La mansione, che accetterà già sulla prima, gli richiederà finalmente di lasciare Torino (il cui clima di allora era molto pesante, al di là della penuria di viveri), guadagnare un stipendio sufficiente a mantenersi da solo a Milano, dove incontrerà prima una compagna di università (Giulia, al secolo Gabriella, la stessa che lo aveva presentato come genio ai suoi principali), e poi diversi suoi amici concittadini in trasferta (tra cui l’allora studentessa in Giurisprudenza Bianca Guidetti Serra), con i quali andrà a vivere e condividerà la breve avventura partigiana dopo l’8 settembre 1943.

Nell’estratto ci sono due coordinate di particolare interesse: la prima è quella cronologica, con la citazione di Achille Storace, segretario del Partito Fascista in auge, durante la quale era deprecabile ogni utilizzo di termini stranieri che non fossero stati italianizzati. Alle orecchie del giovane chimico appena laureato, non sfugge affatto tale dettaglio: anzi lo incoraggia sin da subito, poiché ha capito che il suo interlocutore, curiosamente, non segue le imposizioni del regime, né è interessato a discriminarlo (vuole addirittura offrirgli un lavoro molto ben retribuito). In un clima come quello di allora, con la città incancrenita dalla guerra e l’aria familiare carica di preoccupazione (anche ecnomica) a cuasa della malattia del padre, questa possibilità significava per il giovane Primo lasciarsi alle spalle il proprio guscio e mettersi alla prova, partire all’avventura con poche certezze e qualche effetto personale nello zaino («mi trasferii a Milano con le poche cose che sentivo indispensabili: la bicicletta, Rabelais, le Macaroneae, Moby Dick tradotto da Pavese ed altri pochi libri, la piccozza, la corda da roccia, il regolo logaritmico e un flauto dolce»; Fosforo, SP, I: 941).

L’altra coordinata importante è invece quella geografica, che cita l’hotel Swiss, allora situato negli immediati paraggi di Porta Nuova, all’incrocio con via Sacchi. I suoi saloni (oggi occupati da un caffè, con ai piani superiori abitazioni residenziali) ospitarono dunque uno dei primi incontri di lavoro di Levi, come leggiamo nell’estratto: i dettagli fitti nella memoria del chimico-scrittore che ricorda questa sua iniziatica esperienza riportano in vita il bizzarro salone dell’albergo. L’immagine dell’«anacronistica oasi di velluti, penombre e tendaggi» ci pone davanti agli occhi la presenza imperante di un prezioso arredo tipico anche, peraltro, degli sfarzosi tinelli borghesi in cui capitava più di qualche volta il giovane Primo durante la sua infanzia torinese.

Ciabattino di San Secondo

Citato in
Arsenico, SP, I: 987

Passo
La mia bottega è in via Gioberti angolo via Pastrengo: ci lavoro da trent’anni, il ciabattino… (ma lui diceva “‘l caglié”, “caligarius”: venerando vocabolo che sta scomparendo)… il ciabattino di San Secondo sono io; conosco tutti i piedi difficili, e per fare il mio lavoro mi bastano il martello e lo spago.

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Arsenico è una delle storie narrativamente a tutto tondo più originali nel Sistema periodico, ed è particolarmente importante perché Levi, stendendola, riesce a ritrovare un primo compromesso tra letteratura e finzione. Non sappiamo infatti se la vicenda narrata in questo racconto sia vera oppure no, ma sicuramente è verosimile: ci troviamo nel periodo in cui, alla ricerca forsennata di un lavoro, Levi decide di aprire un laboratorio chimico con l’amico Emilio (al secolo Alberto Salmoni), proprio nel cuore del suo quartiere, la Crocetta. Questo racconto si inserisce nel campionario di presenze umane legate al mestiere di chimico (clienti, collaboratori o corrispondenti) che fanno capolino nelle pagine di Levi: gli stessi esemplari umani di cui intende riprodurre un equivalente letterario quanto più concreto possibile (pur ricorrendo, qualche volta, all’arrotondamento fittizio).

Questo racconto è particolarmente importante perché possiamo vedere all’opera il grande talento da ritrattista di Levi: il personaggio del ciabattino, fondamentale per l’intreccio narrativo, è infatti rappresentato con un coefficiente di verosimiglianza davvero molto alto. Levi ne riporta i pensieri tramite discorso diretto e indiretto libero, e non dimentica di far trapelare la piemontesità del suo interlocutore, che a tutta prima gli sembra nulla più che un contadino di campagna spostatosi in città alla ricerca di fortuna (il signore parla infatti soltanto in piemontese, e non perde occasione di rispondere così a un giovane e timido Levi, preoccupato che la sua parlata dialettale risulti troppo libresca per essere vera).

Riuscì comunque nel suo intento, come leggiamo nell’estratto, in quanto divenne il ciabattino ufficiale del quartiere («il ciabattino di San Secondo sono io», con un riferimento toponomastico, citando l’adiacente omonima via), che tutti conoscevano. È infatti un profondo conoscitore delle signore anziane del posto, «quelle che hanno male ai piedi e non trovano, più nessun gusto a camminare e hanno solo un paio di scarpe» (Arsenico, SP, I: 988): le stesse che si affinano lui per farlo durare all’incirca in eterno quel mitico paio di scarpe da cui non avrebbero mai voluto separarsi. Il signore, ben consapevole della sua maestria nel mestiere, non esita a tirare acqua al proprio mulino e a porsi come un’istituzione del quartiere.

Con la fama, però, non tarda ad arrivare la concorrenza, e con essa i guai della competizione: il motivo che porta il signore a cercare l’aiuto di Levi ed Emilio ha proprio a che vedere con un regalo misteriosamente recapitato presso la sua attività. Si tratta di un pacchetto di zucchero alquanto sospetto, e il savio uomo anziano, non fidandosi di una tale gratuità, decide di far ispezionare il contenuto del regalo. Come in un vero e proprio giallo scientifico (il cui modulo narrativo ricorre più di una volta nel Sistema periodico), il giovane chimico Levi spende tutta una giornata ad analizzare questo zucchero e a cercare quale sia l’impurità presente in esso. Spicca in particolare, in questa cronaca, la rassegna di oggetti e procedure squisitamente chimiche che lo scrittore riporta, ricreando gesti, idee, attività e consuetudini tipiche di un giovane chimico alle sue prime esperienze lavorative.

Il rapporto clientelare è particolarmente importante in quanto è probabile che, nella mansione che il ciabattino chiese di svolgere a Levi, il nostro avesse rivisto una prova che aveva svolto per sua curiosità personale giusto l’anno prima. Così come il ciabattino aveva chiesto al giovane chimico di analizzare lo zucchero che gli era stato regalato in circostanze sospette, come ha scritto Fabio Levi citando Mark Bloch, anche Levi aveva già provato l’emozione di «interrogare le cose»: quando, di ritorno da Auschwitz e infervorato dal desiderio e dalla necessità di portare testimonianza della mortale esperienza vissuta entro i reticolati del campo di concentramento, il chimico Primo Levi vuole analizzare lo Zyklon B, il gas utilizzato da disinfestazione che i nazisti spargevano nelle camere di annientamento appositamente progettate per i loro prigionieri ebrei.

Alla fine della storia, la verità salta fuori: nel pacchetto di zucchero regalato, un altro ciabattino del quartiere, questo più giovane rispetto all’interlocutore di Levi, aveva inserito dell’arsenico per causare problemi al suo concorrente, oltre ad una campagna di screditamento pubblico con tutta la clientela locale. Ma il ciabattino anziano si riconferma saggio, e lascia il laboratorio di via Massena con una lezione, dopo aver specificato che non intende denunciare il rivale: vuole incontrarlo faccia a faccia, perché «è solo un povero diavolo, e non voglio rovinarlo. Anche per il mestiere, il mondo grande e c’è posto per tutti: lui non lo sa, ma io sì» (Arsenico, SP, I: 988).

Via Po – Cesare Levi

Citato in
Argon, SP, I: 873

Passo
[…] percorrevamo lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l’Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che comprasse quest’ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell’infrangere le regole del Kasherùt, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sottovoce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2929669610651142/

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Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Per quanto riguarda la figura di suo padre, però, possiamo credere con un buon margine di sicurezza che pressoché ogni informazione riportata fosse veritiera: Cesare Levi era un ingegnere che si recava in via Po per visitare la sua anziana madre quando Primo era ancora un giovane bambino. È più di un’intervista Levi ricorda che l’attenzione del padre verso i propri figli non era poi così incredibilmente spiccata: piuttosto, preferiva lavorare e lasciare la casa e l’educazione dei figli in compito alla moglie, pur accertandosi che alla sua famiglia non mancasse niente.

Durante la sua infanzia, Primo non spese infatti poi così tanto tempo con il padre, né strinse con lui un legame estremamente forte: nemmeno nei mesi che precedono la sua morte (a cui si allude di volata sempre nel stesso Sistema periodico, in Nichel) riesce a provare troppa compassione, ma anzi la rifiuta, sia perché non ha piena contezza della morte in sé sia perché inizia a capire che presto sarà su di loro il vortice che avrebbe sconvolto l’Europa in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, allora sempre più consistente. Ciò nonostante, nei suoi scritti e specialmente nelle sue interviste lo ricorda con grande rispetto e in linea di massima molto positivamente.

Specie perché, come giustifica l’estratto, gli somigliava molto, specie nelle abitudini intellettuali: spiccano in particolare due elementi, quello dei gatti randagi e quello dei libri, entrambi comuni e rappresentanti di due forti passioni che aveva anche Levi junior. Anzi, forse, se seguiamo le indicazioni che aprono la Ricerca delle radici, scopriamo che a suo padre Primo Levi doveva in realtà molto: ad esempio per la biblioteca che gli aveva comprato quando era piccola, o quella che egli lasciò in eredità dopo la sua morte; oppure ancora per il forte credo scientifico che gli aveva trasmesso (come testimonia il regolo logaritmico), poiché il padre era un capace ingegnere che durante la sua carriera aveva raggiunto anche mete oltralpe. E, non da meno, per l’insegnamento religioso: anche per Cesare Levi la religione non era propriamente una ragione di vita, quanto +1 costume avito, da coltivare poiché gli era stato passato il testimone, da trasmettere a sua volta ai propri figli. Tuttavia, come ben giustifica l’estratto, era credente a metà: subiva male le imposizioni del suo credo, e non si faceva troppi problemi a non rispettare quelle che credeva fossero insensate, o comunque difficilmente tollerabile. Da lui suo figlio ereditò una cultura religiosa estremamente vivida e precisa, così come il distaccamento che potesse garantirgli pure esistenza serena pur nel rispetto (almeno apparente) della religione della sua famiglia.

Come per gli altri parenti piemontesi, la fine arte di ritrattista di Levi serve qui per bloccare sulla pagina una volta per sempre la particolare figura del padre, che ci viene offerta così come si era saldata nella sua memoria. Per una panoramica più completa, è possibile consultare almeno le interviste di P. Lucarini, Intervista a Primo Levi, 1983, III: 368-376; P. Terni, Primo Levi. La musica e i dischi, 1984, III: 396-422; A. Gozzi, Lo specchio del cielo, 1985, III: 515-527.

Via Po – Casa di nonna Màlia

Citato in
Argon, SP, I: 872-873

Passo
[…] in età avanzata si lasciò sposare da un vecchio medico cristiano, maestoso barbuto e taciturno, e da allora andò inclinando verso l’avarizia e la stranezza, quantunque in gioventù fosse stata regalmente prodiga […]. Col passare degli anni si estraniò totalmente dagli affetti famigliari (che del resto non doveva aver mai sentiti con profondità). […] Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia. […] Quando arrivavamo sul pianerottolo tenebroso dell’alloggio di via Po, mio padre suonava il campanello, ed alla nonna che veniva ad aprire gridava in un orecchio: «A l’è ‘l prim ‘d la scòla!», è il primo della classe. La nonna ci faceva entrare con visibile riluttanza, e ci guidava attraverso una filza di camere polverose e disabitate, una delle quali, costellata di strumenti sinistri, era lo studio semiabbandonato del Dottore.

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Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Ritroviamo qui il personaggio di nonna Màlia (al secolo Adele Sinigaglia), la nonna paterna di Primo, madre di Cesare Levi, la cui memoria chiude il racconto. Dopo una storia familiare decisamente complicata che la vide spostarsi tra la provincia piemontese e Torino, riuscì a fermarsi stabilmente nel capoluogo piemontese, proprio in via Po (una delle vie più eleganti del centro cittadino), insieme al secondo marito (con cui contrasse matrimonio dopo essere rimasta vedova), il dottor Felice Rebaudengo, nonno acquisito con cui il piccolo Primo non sviluppò mai un vero e proprio rapporto, se non di soggezione.

In effetti, la caratterizzazione che la figura della nonna paterna assume nel ricordo del chimico-scrittore è decisamente chiara: già soltanto il pianerottolo dell’alloggio in cui abitano è «tenebroso», e la casa stessa è piena di inospitali «camere polverose e disabitate»; addirittura, Levi la descrive come una «vecchietta grinzosa, stizzosa, sciatta e favolosamente sorda nei miei ricordi d’infanzia più lontani» (Argon, SP, I: 872). Insomma, è tutto il contrario rispetto alle dimore degli antenati ebraico-piemontesi, i quali vivevano in grandi agglomerati familiari e gioivano della compagnia dei propri parenti. Al contrario, invece, nonna Màlia, forse spinta da un’amara vecchiaia a cui era approdata attraversando troppi problemi da vivere in una vita soltanto, forse scoraggiata e rinserrata nella sua solitudine dai problemi dovuti alla sua anzianità, «ci faceva entrare con visibile riluttanza», quasi come se non avesse un grande piacere di ricevere visite dal proprio figlio e dal primogenito nipote. Sembra non valere nulla, in questa perla di memoria, la simpatica frase che Cesare Levi sbraita alla propria madre che ormai poco riusciva a sentire: nonostante Primo sia presentato come il più bravo della classe (forse con un tirato gioco di parole legato al suo nome), l’anziana non sembra aver troppo riguardo dei propri ospiti.

A complicare ulteriormente il quadro della situazione, è «lo studio semiabbandonato del Dottore», quello che occupava una sola della trafila di camere inutilizzate, la quale era «costellata di strumenti sinistri». Il quadro memoriale offerto da questo estratto, se confrontato con quello degli altri avi di cui si parla nel racconto, non è per niente roseo, tantomeno vivido: quanto più lugubre, fosco, quasi oscuro, che giustifica poiché nonna Màlia non appare illuminata dalla stessa festante luce che ricade invece sui suoi altri parenti.

Via Po – Caffè Fiorio

Citato in
Argon, SP, I: 868

Passo
Da “rùakh”, plurale “rukhòd”, che vali “alito”, illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi (“Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque”), si era tratto “tirè ’n ruàkh”, “tirare un vento”, nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: “Davidin, bat la cana, c’as sento nèn le rókhòd!”: che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiatore in 1a classe in ferrovia […].

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Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

In ogni caso, comunque, quello che scrive qui è un ritrattista estremamente fine: è in grado di captare l’essenza dei suoi antenati e farli rivivere, anche in maniera irriverente (come giustifica ad esempio questo estratto), nelle pagine della raccolta in questione. E non solo: ci troviamo davanti ad una vera e propria testimonianza etno-socio-linguistica, poiché delineando il profilo di quegli ebrei torinesi che si erano assimilati (a modo proprio) nel tessuto cittadino, Levi ferma una volta per tutte sulla pagina tante interessanti caratteristiche di quei mitici parenti ormai scomparsi, con le loro strane abitudini e i loro particolarissimi modi di dire.

Ne leggiamo uno davvero singolare proprio qui: il detto dialettale «tirè  ’n ruàkh» è uno splendido esempio dell’ibridazione linguistica tra la lingua dei padri ebraici e il locale dialetto piemontese; come spiega Levi rifacendosi direttamente alle Sacre Scritture, l’allusione si può spiegare guardando ad un versetto della genesi, dove con «ruàkh» s’intende «alito». La zia Regina, che ha dato origine a un detto vero e proprio da usare simpaticamente quando si sentano rimbombare rumori e gorgoglii umani, indica proprio l’emissione di esalazioni ariose dagli orifizi corporali.

È una situazione decisamente comica, specialmente se la si immagina avvenire nel dehors del l’antico caffè Fiorio, ancora tutt’oggi uno dei bar più eleganti della centrale via Po (famoso per la bellezza dei suoi interni e per il saporito gelato lì prodotto), situato poco dopo il suo imbocco da Piazza Castello. Come nota anche la breve chiosa al termine dell’estratto, la «cana», e cioè il bastone da passeggio, era un vero e proprio simbolo di signoria: assolutamente adatto (a differenza del detto di zia Regina) al tenore della via prettamente borghese e commerciale che, diretta al fiume Po, attraversa il cuore della città. Sembra anche, peraltro, di sentir risuonare i lastroni che pavimentano gli ampi portici della via, schioccati dall’elegante e posato urto in apparenza casuale della canna, in realtà abilmente sfruttati per nascondere una verità decisamente più irriverente.