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Sleeping beast – La solitudine del coraggio

Tommaso Buffa immagina, in questo suo lavoro, un dialogo sull’amore e la vendetta fra Laclos, Ovidio e i personaggi di Cowboy Bebop. La riscrittura è stata sviluppata nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Easy come, easy go” sentenzia Faye Valentine in Cowboy Bebop. Ma ci si può davvero liberare facilmente del proprio dolore? O è forse esso a dimenticare di chi eravamo, toccando e cambiando la nostra interiorità più profonda? La sofferta lettera di Faye al suo amato traditore ci dimostra, dalla Roma antica al Giappone del XX secolo, passando per la Francia del ‘700, come il lamento, il disprezzo, il desiderio di rivalsa siano solo alcuni dei modi con i quali rinforzare (o distruggere) il proprio cuore segnato da crudele abbandono.

*

Questa lettera giunge a te, traditore di donne, usurpatore del luogo più sacro ed inaccessibile delle loro anime, ladro del sentimento che a loro e loro stesse dovrebbero dedicare. Non vi leggerai tuttavia altro che il mio disprezzo, non vi noterai altro che la mia determinazione, e se, illuso dalla tua stessa reputazione, inorgoglito dai tuoi disprezzabili successi, debole e superbo, la inclinassi contro luce, in cerca dei segni di una lacrima, di odio, di un rimpianto, dell’impronta indelebile che ancora credi di aver lasciata nel mio cuore, non vi troveresti altro che un oceano di indifferenza, ed il mio cuore freddo come una pietra e privo di scalfitture. Con quale audacia ti presentasti a me, fingendoti chi non eri, e se solo avessi saputo allora quanto fosse patetica la tua messinscena, disoneste le tue intenzioni! Ma funzionò, e cento volte sia maledetto il giorno che mi mostrai così debole! Solo un riflusso, l’oceano del mio cuore ancora inquieto, proferisce pensieri che non più gli appartengono. Perché infatti maledire un’occasione per migliorare? Perché disprezzare chi fui, quando amo chi sono? Chi, dopo aver aperto il forziere, lamenta il tempo speso a cercare la chiave? Chi ha sofferto senza riuscire a trovarsi. Io, al contrario, ti sono quasi grata. Ancora, non susciti più sentimenti tanto forti da scomodare il destino, non alimenti alcuna fiamma né tanto brillante né tanto cupa e desolante in me. Il mio cuore è sigillato, ma, ahimé, ecco! una stilettata, un dolore, un sibilo, e un debole lamento che ancora traspira. Mi infastidisce, ma lo lascerò libero di sfogarsi, che sia l’ultima volta e poi ti avrò espulso fuori bordo come un rifiuto. «Nata per vendicare il mio sesso e dominare il vostro, ti ho tolto il potere e la volontà di nuocermi, tiranno divenuto mio schiavo», e dopo questa lettera sarà l’oblio, per te e per il mio cuore.

Ma quale effetto mi facesti, come mi scombussolasti l’animo, quando ti vidi per la prima volta! «Perché mai mi piacquero più del dovuto i tuoi capelli grigi, la tua eleganza ed il garbo artificioso delle tue parole?» Ah, come riconosco e biasimo oggi il mio comportamento come quello delle «donne attive nell’ozio che chiamiamo sensibili, e in cui l’amore si impadronisce facilmente di tutta l’esistenza»! Ma come avrei potuto far accadere altrimenti? all’epoca ero priva delle conoscenze, non possedevo ancora i miei mezzi. Sola, in un mondo straniero, differente da quello che avevo lasciato, ma poi, quale mondo avevo lasciato, quando su nulla la mia volontà aveva avuto autorità? Fu tutto il resto a lasciare me, la mia famiglia, il mio pianeta, i miei ricordi, la mia realtà.

Venisti da me al mio risveglio da un sonno criogenico, cinquantaquattro anni terrestri, innumerevoli vite altrui iniziate e terminate trascorse alla deriva nel vuoto, nell’oscurità infinita, nella solitudine più cupa, nel gelo assoluto. All’alba di quell’interminabile notte, durante la quale la mia Terra era stata distrutta e gli umani avevano cominciato ad abitare l’universo, mi ritrovai priva di memoria, ed ogni traccia del mio passato, tranne il nome, Faye, obliterata. Tratta in salvo solo per essere messa di fronte ad un folle debito di spese mediche per un incidente di cui il mio corpo non portava alcuna traccia, il mondo che tanto a lungo si era dimenticato di me mi restituiva la coscienza per umiliarmi ed espormi al suo squallore. Fu allora che mi promettesti il tuo aiuto, il tuo supporto, poi il tuo amore, e “a che scopo? in cambio di cosa?” furono le domande che volli ma non fui capace di porre. Nuda, priva della mia identità, a malapena riuscivo a tenermi stretta la certezza di averne una, e come avrei potuto chiudere il mio cuore quando quello, completamente vuoto, bramava calore? Si può considerare chiusa una scatola vuota, se al suo interno c’è solo spazio da riempire? Ero ancora me stessa, sì, ma appena nata, e come un neonato che senza conoscere nulla cerca il seno della madre, io cercai qualcuno e ti facesti trovare tu, e «chi riesce a nascondere bene l’amore», quando non possiede altro? «La fiamma appare ben visibile, tradita dal suo stesso chiarore.». «Imprudente, nel mio amante attuale non seppi vedere il nemico del futuro!».

Mi ritrovai a dipendere da te nella mia interezza, il mio corpo, il mio animo, la mia volontà erano le tue, io continuavo a non capire, a non spiegarmi tanta gentilezza, ma intuivo l’affetto, il suo peso rassicurante, ero consapevole della tua presenza al mio fianco, mai troppo lontana ma, ahimé, mai lontana abbastanza! L’iniquo debito non diminuiva, la tua promessa non era mantenuta, ma la tua voce era ferma e rassicurante, ed io, ingenua, ero certa della sincerità del mio amore, e convinta che non servisse altro ad un’esistenza lieta. Poteva forse qualcosa di tanto squallido e materiale competere con l’elettività del nostro rapporto? Come in una fiaba, eravamo legati da un filo rosso, tu ti definivi «il mio principe ed io la tua bella addormentata», e tanto bastava ad allietare il mio cuore di bambina, debole ed illuso, tanto fragile che pareva minacciare di implodere se tu lo avessi nuovamente svuotato, con lo stesso impeto con il quale lo avevi riempito. Succuba e serena, non riuscivo a sentire alcun male nelle tue parole, non riuscivo a vedere alcuna distanza nei tuoi occhi, a notare alcuna menzogna nei tuoi discorsi, a percepire alcuna distanza nei tuoi abbracci. Eri lì al mio fianco, tanto più grande e luminoso di quanto non fossi io ed a me andava bene così, contenta della tua luce riflessa. Ancora priva di memoria come sono adesso, credevo per me stessa di non poter essere altro da ciò che tu la rendevi, e le tue azioni mi parevano sempre prive di malfatto, di un’armonia e bellezza ineguagliabili. Mi sentivo piena, come un frutto maturo appeso al ramo di un albero, piccola ed orgogliosa, orgogliosa di ciò che tu avevi fatta di me, ed in piena estate, bagnata dalla luce del sole, invincibile, non riuscivo nemmeno a concepire la separazione, ed ero sicura nella mia stoltezza.

Ciò che non sapevo, ciò di cui, irradiata da quell’amore bugiardo e che tuttavia era l’unica realtà che il mio sguardo trovasse, non mi rendevo conto, era che l’abbandono, apparentemente così lontano ed estraneo, come la colonia di un piccolo pianeta che si ha difficoltà anche solo a trovare sui radar, era in realtà l’elemento fondamentale della mia storia, il senso stesso del mio vuoto passato. Come potei dimenticarmene? Come potei dimenticare il torto subito dal destino, la beffa che l’universo, l’unica vera casa e famiglia di tutti gli esseri viventi, mi aveva giocato, strappandomi, di certo per invidia, dall’altra mia casa, dall’altra mia famiglia, dallo stesso pianeta che avevo sempre abitato, proiettandomi nel vuoto, intimo ed esterno? Come potei non accorgermi che coloro che mi avevano già abbandonata una volta, le persone, l’avrebbero fatto ancora ed ancora? Come potei non accorgermi della solitudine che è nostra natura più evidente?

Potrei giurare, questo giorno di due anni dopo, con il pensiero della tua patetica figura rinchiusa nella stiva della mia nave a mo’ di zavorra, che sì, me ne accorsi eccome, ma, ahimé, non seppi fuggire, non seppi voltare le spalle al tuo calore così accogliente per volgermi nuovamente all’infinito gelo della solitudine, buio e profondo come un abisso, sconcertante, crudele nella sua indifferenza e nel suo silenzio, dal quale mi avevi tratto in salvo. Che per di più il tempo pareva dissipare ogni dubbio, ed il nostro falso amore pareva più inamovibile del Monte Olimpo. Chi avrebbe immaginato che il periodo passato così dolcemente insieme era solo atto a rafforzare l’inganno!

Eravamo insieme, quella sera come tutte le altre, quando, orrore! mi guardasti con occhi mai stati tuoi, occhi gelidi, impassibili, all’improvviso fra di noi una distanza siderale – riecco l’abbandono! l’antico spettro tornato a tormentare la dimensione che non ha mai lasciato,  nei tuoi occhi, gli occhi del tradimento, vidi riflesse le mie lacrime e laddove avrei dovuto leggere l’inevitabile, il mio destino, resa ingenua e folle – sì, folle, solo ora mi è chiaro! – dalla paura di perderti vi lessi invece la tua determinazione, quando grave mi confessasti che i creditori si erano infine fatti vivi, e la tua intenzione, tragica e solenne, di liberarti di loro una volta per tutte! Ecco l’abile e misera menzogna! Quale imbarazzo mi causa oggi ripensare al trasporto con cui ti credetti quando, nascosto dalle suppliche di non andare, di fuggire solo con me, lontani da tutti, dall’avarizia, dal grigiore degli animi umani!, il mio animo gioiva spavaldo al pensiero tuo coraggioso, luminoso, proprio come un principe sul suo destriero – e quanto mi sentii orgogliosa di te, e di me stessa per essere tua, tua preziosa ed insostituibile, da proteggere a tutti i costi dal peso del mondo! Debole mi coprii con uno sguardo convenientemente infantile e pensai che sì, che sicuramente tu avresti combattuto e sconfitto – quanto risuona ingenuo adesso! – i malvagi creditori come il drago al castello, ma che sì, sicuramente il pericolo dava adito a precauzioni e sì, indubbiamente era necessario che diventassi immediatamente tua erede universale che, il caso non lo volesse (e come avrebbe potuto volerlo, quando il nostro amore era eletto dal destino?), tu fosti morto, avresti potuto continuare a prenderti cura di me. Ah, tanto più è dolorosa l’inevitabile rivelazione della realtà quanto più ci si è ostinati a non guardarla! Ma quale eroe, ma quali nobili intenzioni! Fuggisti come un codardo, e a mio carico la tua eredità, un ammontare di debiti due volte maggiore del primo! Eccovi servito l’amore eletto! Usata ed ingannata, ti permettesti – oh quale onore! – di considerarmi degna di affidarmi il tuo fardello – quale miseria! Esiste forse fardello più infimo? per poi lasciarmi nuovamente al freddo ed alla solitudine. Quale umiliazione dovetti di nuovo subire, ma quale coraggio ne ho tratto!

Ma prima tu, la tua pateticità, la tua meschinità: non un eroe, ma il più squallido dei semplici uomini, ma che dico, inferiore! Animale! Principe ti definisti, quanto è principe il maiale che per ultimo giunge al trogolo! Come osasti consolarmi con le tue parole sudicie, rassicurarmi con le tue false promesse, scaldarmi l’animo con i tuoi malvagi discorsi! Il principe dei serpenti al massimo, con una tale lingua biforcuta! Ti meriti il maggior disprezzo, ma la minima attenzione. Sicuramente sto dando troppa considerazione immeritata ai tuoi irrilevanti talenti. D’altronde come nuoti, o meglio dire annaspi, in questo universo? con quali squallidi mezzi porti avanti la tua miserabile esistenza, nemmeno degna di essere detta vita? Avvicini donne disperate, senza un passato a cui chiedere coraggio e senza un futuro a cui chiedere speranza, e le conquisti, quanto è facile per un lupo predare un cervo zoppo. Per quanti anni hai mentito? Quante donne hai rovinato? Quante ingenue hai fatto cadere nella tua ragnatela e divorate? Di sicuro non hai divorato me, che caddi sì nella tua ragnatela, ma ne uscii con coraggio, indenne e rafforzata. Ho ritrovato la mia identità, ho ritrovato il mio coraggio, la mia determinazione, e solo grazie al tuo tradimento. Ti ringrazio? Oh sì, tale è ringraziare una zanzara per aver affinato i miei riflessi. Ma non di meno riconosco il tuo merito. Abbandono e solitudine sono la natura nostra di umani e mia in particolare, tu servisti solo da promemoria. Conosco la realtà della nostra condizione. «In questo mondo regna la legge della giungla: ingannare ed essere ingannati è la logica della vita. Riporre fiducia nel prossimo non porta alcun guadagno: questo è il mio imperativo», questa la lezione che ho imparato.

Tu me la insegnasti a modo tuo, me la facesti sentire sulla pelle, fragile come vetro, rigettandomi nel gelo dell’abbandono, ma il vetro non si infranse, ne uscì temprato. Duro come il diamante, il mio spirito è incrollabile. Se ingannare è la logica della vita, ho imparato ad ingannare. Se essere traditi è il destino delle persone, ho imparato ad approfittarne per ricavare guadagno. Si sbaglia forse andando contro natura? Per questo non ti odio. Ti disprezzo, questo sì, disprezzo lo squallore dei tuoi mezzi, lo scarso valore delle tue conquiste. Ti definisci uomo? Quale vero predatore, nella giungla in cui viviamo, cercherebbe la preda più facile? Un parassita, ecco cosa sei. Strisci sotto il fogliame, per finire chi è già sull’orlo del vuoto. Così attaccasti anche me, neonato germoglio in un campo costantemente straziato dalla falce. La tua mano di contadino mi espose alla luce, quanto fu luminosa per un istante! ma quando provasti a recidermi alle radici, fallisti. Uomo patetico quale sei, non riuscisti a tagliare il più debole dei filamenti.

Ma che dico, fui io, fui io a non farmi recidere! Fui io, a portare sempre appresso il dubbio. Me ne accorgo oggi, quando dopo due anni ti ho finalmente visto per quello che sei. Intenzionalmente ho lasciato parlare il mio cuore all’inizio di questa lettera. L’ho permesso, ma adesso non più: ti avevo avvisato, il mio cuore ora è un monolite, l’oblio degli affetti e della nostalgia di essi. Non rimpiango il tuo falso amore, non rimpiango il tuo gelido calore. Come potrei? ripensandoci ora, mi accorsi in fondo ben presto che non era un filo rosso a legarci, ma una pesante catena. Ma a chi altro avrei potuto rivolgermi, al tempo? Non mi ero ancora resa conto della risposta tanto evidente quanto mi appare adesso la luce di questo schermo: “a me stessa”, ovviamente. Avrei dovuto cercare in me, nei miei mezzi, nelle mie capacità, il sollievo. Invece, delirante, lo cercai in un uomo. Quale ironia, cercare rifugio da braccia tese a strappare fra braccia strette a strangolare! «Ma una donna sventurata che senta per prima il peso di una catena, quali rischi ha da correre se cerca di sottrarsi ad essa, se osa soltanto sollevarla?» Così non osai combatterti, non osai fuggire, e restai a crogiolarmi nel calore del tuo inganno. Sentivo che «sarei stata senza risorse se tu fossi stato senza generosità».

È stato solo quando mi hai meschinamente tradita che mi sono resa conto della follia nella quale stavo conducendo la mia vita, che l’albero al quale credevo di sorreggermi era invece un opprimente viticcio intento ad offuscare ed indebolire i miei sensi. Che orrore, ripensare alle tue mani strette alle mie, al suono dei tuoi sussurri accanto al mio viso, alla sensazione delle tue labbra sul mio corpo! Quando ascoltavo la tua voce promettermi le infinite carezze dell’amore eterno, le infinite gioie della nostra affinità, mi pareva simile al vento che batte le lande deserte di Marte, caldo e rassicurante. Riportandola alla mente ora, non sento nulla di dissimile alle grida di un ubriaco nella notte di Blue Crow, patetico e miserabile.

Ma quando mi sono ritrovata di nuovo sola, o meglio sola come sempre, sono forse crollata di nuovo della disperazione? Ho forse maledetto il mio destino, pianto una pioggia di lacrime, strappato i miei capelli alle radici, deturpato il mio viso con le mie stesse unghie? Per chi, per l’uomo più insignificante dell’universo, per il pesce più minuscolo in questo oceano? Deturpare il mio viso, la cui fierezza non hai potuto cancellare, la cui bellezza è la mia arma ed il mio orgoglio? Quanto sarai rimasto deluso, vedendomi fuggire indenne al tuo inganno! Mi sono fatta forte e spietata. Sono diventata cacciatrice di taglie, ho saputo creare i miei mezzi, fondare i miei principi. Ho lavorato su di me «con cura, e con ancor più fatica». Fintanto che l’obiettivo è proteggere quanto di più prezioso ho al mondo, me stessa, ho rifiutato di farmi scrupoli. Gentilezza ed altruismo non esistono, solo inganno e egoismo, ed una lotta continua, una strenua ricerca della vetta più alta, dalla quale dominare e sopraffare chi non è in grado di raggiungerci e difendere da chi tenta. E oh, quanto mi sono elevata al di sopra della tua ombra! Tu, vile, sei invece sempre rimasto a bocconi sulla terra, a godere dei tuoi abietti successi, e quale delizia incontrare il tuo muso di bestia sull’elenco delle taglie rilasciate e constatare, con la facilità della tua cattura, la tua inferiorità! Tutto ciò che hai mai posseduto, i tuoi piccoli inganni, le tue piccole vittorie, io lo moltiplico mille volte. Do’ la caccia a pesci grossi, pesci che ti sbranerebbero in un solo boccone, e li piego sotto il mio stivale. Vuoi sapere a quanto ammontava la taglia più alta che ho mai riscosso? ₩28,000,00. Vuoi sapere a quanto ammonta la tua? Un ridicolo ₩19,000. Non mi basterà per un vestito nuovo, se non un mucchio di stracci. Potrei comprarli e spedirteli in prigione, che dici? Un mucchio di stracci per un patetico straccione, la cui voce è quella di un ubriaco.

Ma non troverei alcuna gioia ad umiliarti. La mia indifferenza nei tuoi confronti è una nave che ti sorpassa e ti annega nella sua scia, talmente vasta che al suo interno perderesti la tua identità. Sarebbe forse la fine adatta a te, ridurti come un animale, incapace di esprimere te stesso e la tua volontà, volontà disprezzabile, incapace di desiderare altro che il male di donne deboli e sole. Ma poi, quante volte la tua truffa è veramente riuscita? Quante volte sei stato in grado di distruggere veramente una donna, nel suo intimo, fino a non farle più desiderare di sorreggersi sulle sue stesse gambe e continuare a vivere in questo mondo? Non mi stupirei se la risposta fosse nessuna. Coloro che conoscono la realtà della nostra natura, non soccomberanno a te. Sei forte dei tuoi inganni con chi non sa ingannare a sua volta, ma impallidisci di fronte ad un confronto degno. E le donne, tutte, se educate a sufficienza dalla vita, hanno più valore di te. Le donne, tutte, se in possesso del proprio orgoglio, della propria integrità, dei propri mezzi e del proprio coraggio, hanno più valore di te. L’ammontare comicamente basso della tua taglia, se non altro, è chiaro segnale, del tuo essere nullità.

Chissà se ancora non te ne rendi conto, se ancora pensi che io mi senta in qualche modo legata a te, che forse il mio cuore cerchi ancora l’amore di cui tanto vaneggiavi, di cui tanto mi illudesti. Non lo cerco, non cerco sentimenti fasulli e privi di significato e di utilità pratica. Che provino a goderne gli stolti, si ravvedranno quando resteranno inevitabilmente delusi e traditi. Non provo nemmeno più il desiderio di conoscere il mio passato. Cos’altro potrei trovare nei miei trascorsi, che mi sia più utile a sopravvivere di quanto già so? Una famiglia, forse? Amici? Legami affettivi inutili, fardelli, debolezze. Una persona deve vivere per sé stessa e per nessun altro. Le uniche relazioni degne di essere intraprese sono quelle che portino guadagno, e si basano inevitabilmente sull’inganno. Mi sono riconciliata con l’amore, «non per provarlo in verità, ma per ispirarlo e fingerlo». Mi riesce meglio di tanti altri, poiché a differenza di una nullità come te, io sono sempre alla ricerca di un’occasione in più, di una sfida, «e se devo scegliere fra due mali, scelgo sempre quello che non ho provato prima». Le promesse, come le tue promesse di amore eterno, non posseggono per me più alcun significato. Se non altro, «le promesse sono fatte per essere infrante», come strumento utile ad ingannare.

E così, eccomi di nuovo al tuo cospetto, ma non di fronte a te o più piccola di te, bensì talmente in alto che i tuoi occhi da talpa, abituati a fissare la terra, non possono nemmeno scorgermi. Sono come ti ho descritto e come ti ho dimostrato: il tuo tradimento ha forse avuto successo? Non sei forse nel mio pugno, grande come una mosca, ammanettato alla parete come l’ultimo dei ladri che sei, al buio e circondato dai topi? Quasi ti immagino, a sperare che la polizia arrivi il prima possibile perché tu possa scappare dalle mie grinfie vendicative. E che questo tuo pensiero sia l’ultimo respiro del tuo debole orgoglio, che ti fa credere degno della mia vendetta. Non riceverai nulla da me, non uno sguardo, non un sospiro, non – no di certo! – una fiammella di compassione, e no, nemmeno questa lettera. Già, perché dovrei consegnartela, pensare ancora a te, mantenere alcun briciolo di qualsiasi genere di considerazione nei tuoi confronti, alcun amore, odio, o sentimento? Indifferenza è ciò che ti meriti. Bonaccia è l’oceano del mio animo, quanto è silenzioso l’universo più vasto. Addio, Whitney, che lo sconforto non ti tolga il sonno, e che non ti giunga troppo presto quello eterno.

Faye Valentine.

Bibliografia

P. C. De Laclos, Le relazioni pericolose, BUR, Milano, 2018.

Ovidio, Eroidi, a cura di Emanuela Salvadori, Garzanti.

Cowboy Bebop, studio Sunrise, editore it. Dynamic Italia, 1999.


Davanti al sentimento pericoloso

Carla Doglio, in questo suo scritto, rielabora Le relazioni pericolose di Laclos, raccontando ciò che il testo non dice. La riscrittura è stata sviluppata nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

“Il romanzo di Laclos non si dilunga sul modo in cui si sono conosciuti la Marchesa di Merteuil e il Visconte di Valmont, per questo ho pensato di raccontare il loro primo incontro. I due personaggi inventati, ai quali si rivolgono i protagonisti, sono immaginariamente due esponenti della stessa società borghese parigina, alla quale appartengono Merteuil e Valmont. Narrando un incontro remoto, ho ritenuto lecito introdurre comparse nuove che non compaiono nel romanzo originale di Laclos”.

*

Lettera dalla Marchesa di Merteuil alla Presidentessa di ***.
Mia cara, è trascorso un po’ di tempo dalla nostra ultima corrispondenza; vi scrivo, per giustificare questa mia prolungata assenza. 
Non voglio sembrare scortese iniziando presto a raccontarvi i fatti che mi sono accaduti, ma sento un bisogno irrefrenabile di aprirvi il mio cuore.
Ho trascorso delle giornate assolutamente squisite in compagnia del mio nuovo conoscente: il visconte di Valmont. 
Desidero raccontarvi tutto l’episodio dal suo primo sviluppo, partendo dai nostri primi sguardi scambiati. Mi trovavo al Palazzo de Tuilleries, in compagnia della contessa di Fillon, quando ho notato che un giovane dall’aspetto molto gradevole, rivolgeva lo sguardo nella nostra direzione più di quanto non succeda quando si è privi di interesse.
Trovando molto apprezzabile questo giovane, dall’aspetto, decisi di ricambiare i suoi sguardi, unendoci una punta di malizia che, come voi ben sapete, è la mia virtù principale. Nel frattempo, la pièce teatrale proseguiva e sembrava non finire mai; non ricordo né l’opera che si stesse rappresentando e tanto meno di cosa parlasse. Questo nostro gioco di sguardi potrebbe essere durato un attimo come un’eternità. é curioso notare come, per chi sappia leggere tra le righe, uno sguardo significhi tutto. Capivo già quali fossero le sue intenzioni, mi sembrava addirittura di conoscerlo, allorché non sapevo nemmeno il suo nome; non so se dal mio racconto si percepisca la profondità di questo scambio ma mi sentivo addirittura scompigliata.
Come voi ben sapete, le mie conquiste sono sempre il frutto di una lunga preparazione con maestranza quasi direttoriale; in questo caso è stato diverso, il destino ci ha teso le mani e ne abbiamo afferrata una a testa. é stato proprio così che mi sono sentita, come se una mano esterna mi prendesse con estrema dolcezza e mi trasportasse verso Valmont. Tutta la dolcezza di quella presa traspariva dai dolci occhi del mio nuovo e tenero amico.
La contessa di Fillon, diversamente da me, era stata rapita dallo spettacolo messo in scena, non si era resa conto di tutto il nostro giochetto e del mio nuovo amico. Mi sorprende sempre vedere come certe persone si lascino incantare da spettacoli tanto sciocchi e banali, un’esibizione di pura illusione; io ho sempre preferito creare il mio spettacolo, la mia messa in scena, giocando con l’universo della seduzione senza mai conoscere l’amore vero. Questa, mia cara, è la regola secondo la quale seleziono le mie conquiste. 
Il momento in cui il mio coinvolgimento ha raggiunto il suo apice, è stato a fine spettacolo, quando ci siamo finalmente presentati. Da parte di entrambi, un’attenzione quasi cronometrica ci ha permesso di giungere all’uscita nello stesso istante. A quel punto, i nostri sguardi si sono ancora una volta incrociati, portandoci, questa volta, ad uno scambio diretto. Come lo vogliono le regole in queste circostanze, è stato lui a salutarmi e a presentarsi. Quanta gioia si è impossessata di me, al secondo stesso in cui ho conosciuto il nome di questo curioso personaggio. D’altronde, un nome alquanto nobile: Visconte di Valmont. 
Non credo mi fosse mai capitato, prima di allora, di provare una così forte eccitazione all’idea di frequentare questo singolare seduttore; Io stessa mi sono resa conto di non riuscire a contenere il rossore che si impadroniva delle mie guance.
Come avrete sicuramente intuito, la nostra serata non si è conclusa con un freddo saluto, mi sono congedata dalla contessa di Fillon e ho trascorso alcune ore con Valmont. La sua personalità non ha deluso le mie aspettative, semmai le ha superate. 
Abbiamo avuto modo di acuire la nostra conoscenza con successivi incontri, l’ho anche invitato nel mio castello di ***, dove i nostri desideri sono stati appagati. Da quel giorno, la frequenza e l’ardore con il quale ricerca le mie attenzioni, è irrefrenabile. La nostra corrispondenza è delle più vivaci. Pensate che, da qualche giorno, passo una prima metà della giornata ad aspettare la sua lettera ed una seconda a rispondere. 
Per un primo momento, ho pensato di potermi comportare come in precedenza e che il nome di Valmont, si sarebbe potuto aggiungere alla lista delle mie sedotte vittime.
Non saprei ulteriormente nascondervi il mio turbamento, sono anni che condivido con voi tutte le mie conquiste amorose e conoscete il mio motto “Amoreggiare soltanto con coloro che intendi respingere”. Tuttavia, recentemente, mi sono resa conto di provare, nei confronti di Valmont, tutt’altro che forza di repulsione; durante i nostri incontri cerco di mantenere un profilo di freddezza, in linea con la mia reputazione, ma sento un calore interno divampare come non mi era mai capitato. Una parte di me conosce il rischio di questi legami fondati sul sentimento pericoloso; allo stesso tempo, non saprei farne a meno. La sola idea di interrompere la relazione che si sta instaurando tra di noi, comporta una sofferenza straziante e un senso di vertigine che mi sono del tutto nuovi. 
Cara amica, credetemi, il mio cuore palpita di contrarietà, da un lato gioisco della mia nuova conquista, dall’altra non posso che preoccuparmi per l’intensità del sentimento irrefrenabile che provo.
Ditemi, ve ne prego, quello che fareste al mio posto, quello che pensate. Mi rimetto a voi, nella speranza di ricevere qualcuno dei vostri preziosi consigli; siete l’unica della quale mi possa fidare, nella situazione di sconfitta vergognosa in cui temo di sprofondare.
Conoscete i sentimenti che mi legano a voi in un’amicizia che spero essere eterna, addio.
Parigi, 14 luglio 17**.

Lettre du Vicomte de Valmont à la Marquise de ***.
Ma chère Marquise, vous ne pouvez imaginer avec quelle joie, je me permet de vous informer des faits qui se sont produits peu de temps en arrière. 
Cependant, je considère bien malhonnête de commencer à vous raconter mon histoire, sans avant avoir pris de vos nouvelles. L’on m’avait annoncé que votre santé n’était pas des meilleures, si cela est vrai, j’en suis profondément affecté. Je suis sûr que les bonnes nouvelles que vous apportent cette lettre, pourront diminuer vos indispositions de santé.
Comme nous avions si minutieusement programmé, notre plan qui avait comme but de manipuler les sentiments de la marquise de Merteuil, a marché comme sur des roulettes. Ma conquête a été d’une simplicité presque gênante. En connaissant la réputation de cette femme, jamais je n’aurais pensé pouvoir la séduire avec un banal jeu de regards.
En réalité, je me trouve obligé de reconnaître en vous, toute la connaissance du monde féminin et c’est grâce à vos astuces que notre plan a pu joindre au but aussi rapidement. 
À présent, je ne peux me retenir davantage et je me vois obligé de vous raconter de quelle manière j’ai vécu ces dernières journées, en compagnie de notre jeune ingénue.
Nous nous trouvions au Palais des Tuileries, la Marquise était en compagnie de la comtesse de Fillon. Dès le premier instant où nos regards se sont croisés, elle n’est pas arrivée à détacher ses yeux des miens. Après avoir passé des heures interminables à l’observer avec malice, j’ai trouvé l’occasion pour enfin me présenter et faire sa connaissance. Vous auriez dû voir quels efforts elle devait faire pour chercher à maintenir sa froideur et son tempérament, ne réussissant pas à cacher son excitation. C’était surtout à cause de la rougeur qui envahissait ses joues, que je comprenais quelles étaient ses réelles pensées. Je décidais de profiter de la situation en l’invitant à faire une promenade le long de la Seine. Déjà de la façon dont nous conduisions la conversation, il était évident que nous avions un grand intérêt à affiner notre connaissance. J’ajouterais même que j’ai trouvé plutôt agréable et divertissant, passer du temps en sa compagnie. Il s’agissait d’une conversation piquante et un peu malicieuse qui m’a beaucoup délecté. 
Le moment où j’ai éprouvé le plus grand divertissement, est durant les journées qui ont suivi notre première rencontre. Si vous aviez pu voir la manière presque obsessive dans laquelle, notre pauvre marquise, recherchait mes attentions, je ne sais vous dire combien nous aurions pu rire ensemble. J’en étais presque gêné pour elle. Elle répondait à mes lettres avec une rapidité jamais vue, on aurait dit qu’elle n’avait rien d’autre à faire. Et dans ces mots, je retrouvais toute sa volonté de me revoir, qu’elle essayait vainement de cacher.
Considérez qu’elle a même été jusqu’à m’inviter dans son Château de *** , qu’elle surnomme son Temple de l’amour, le lieu où elle conduit ces amants.  C’est à ce moment là que j’ai pu posséder en toute intimité son corps, en profitant de son ingénuité pour assouvir mon désir. Elle s’est livrée à moi précipitamment et n’arrivait plus à se retenir; en ce précis instant, elle a perdu toute ombre de froideur (qui, par coutume, précède toujours son nom et sa réputation). Je n’ai pas l’intention de m’étendre sur ce sujet, ma bonne éducation me porte à connaitre quelles sont les limites que les bonnes manières ne veulent pas que nous dépassions. Il ne serait pas convenable de vous parler davantage de notre intime liaison et de la façon dont nous avons passé ces heures.
Ma chère amie, il faut admettre que les mœurs de la société et le contentement du désir, ne marchent pas main dans la main.
J’admets que je suis encore étonné de la facilité avec laquelle, la marquise s’est livrée à moi. J’ai surement dû lui sembler bienveillant et respectable (comme j’ai toujours chercher de paraître devant les yeux de la bonne société à laquelle nous appartenons). Elle ne se doute sûrement pas du piège que nous lui avons tendu, mais je crains qu’elle comprenne le danger du sentiment d’amour qui la possède. J’ai été informé par mes sources, que tout son entourage est boulversé par ses comportements: elle alterne des moments de joie folle (quand nous sommes ensemble) et d’autres de profonde angoisse, terrifiée par le nouveau sentiment qui ne lui offre aucun répit. 
Adieu, ma belle amie, je suis fort pressé; je dois rejoindre notre jeune Marquise qui attend avec impatience mon arrivée et je ne peux pas la décevoir. En ce qui concerne votre santé, je vous invite à nouveau à m’informer sur votre condition. Je renouvelle ma profonde affection pour vous, en espérant nous rencontrer au plus tôt; L’envie de jouir avec vous du bon achèvement du plan, est pour moi chaque minute plus forte. Je suis sûr que quand nous commencerons à en rire, une force inconnue ne nous permettra pas de cesser et ce sera un de ces moments merveilleux que seule votre compagnie m’offre. 
Avec tendresse, votre vicomte.
De… ce 25 juin 17**. 

BIBLIOGRAFIA
P. A. F. Choderlos de Laclos, Les liaisons dangereuses, Sodis, Parigi, 2013.

AL PRIMO SQUILLO

Maria Giraudo con questo lavoro riscrive Un amore di Dino Buzzati da un’inedita prospettiva contemporanea e irriverente, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

Il seguente elaborato nasce dalla riscrittura del personaggio di Antonio Dorigo, protagonista di Un amore di Dino Buzzati, trasportato ai giorni nostri nei panni di Carlo Bertozzi, un uomo mediocre sotto ogni aspetto. Egli desidera evadere dalla sua quotidianità e per farlo si serve degli incontri telefonici con Eva, giovane donna, impiegata in un “centralino-per-soli-uomini”.
Segue il racconto di alcune telefonate tra i due “amanti” che condurranno man mano alla scoperta da parte di Bertozzi di una situazione inaspettata dal gusto amaro.

*

Venerdì. 15:30. Ancora niente.
Pazienza, non ci pensare. Forse dovresti comprarlo quel tappeto di lana color panna, a Lucia piace
15:42. Tutto tace.
Non ti importa, lo sai che non ti importa. Penso che una chiamata alla dottoressa la dovresti fare, mi pare che la chiazza sulla mano di mamma sia cresciuta ancora.
15:53. Sempre nulla.
Fattene una ragione. Pensa piuttosto a finire di redigere i documenti, altrimenti sì che saranno grane.

Squilla il telefono.
Calma, con nonchalances: tira su e dì il tuo cognome, come sempre.

“Ragionier Bertozzi”.
“Carlo?”
Deglutisce. La voce gli scorre dalla bocca nella faringe, gli brucia nell’esofago come un liquore di qualità.

“Eva, finalmente. Quasi che mi preoccupavo”
“No tesoro, ho solo fatto tardi: ho trovato coda alla cassa”
“Torni da fare la spesa?”
“Sì, ho trovato il vino, quello che ti piace. Fermo. Pensavo che se non torni tardi, questa sera possiamo berlo insieme. Ho anche comprato della frutta fresca: fragole”
“Cos’è, sei venuta stupida forse? Vuoi ammazzarmi? O sei solo demente?”
“Carlo…” 
“Fragole, Eva? Sei seria? Come fai a non ricordare?”
“Oh, giusto, le fragole no. Facciamo albicocche allora?”
“Mh. Va bene, sì, certo. Ho ancora i conteggi da finire, cerco di sbrigarmi”
Silenzio dall’altro capo. E poi:
“Hai lavorato molto? Devi essere stanco, cosa posso fare per te?”

La telefonata si concluse sette minuti dopo. Bertozzi si ritenne soddisfatto. Bel lavoro continuava a ripetersi, mentre accendeva un cubano. Bel lavoro.
Cercò di rimettersi ai conti, era molto più concentrato, come al solito dopo quelle telefonate. 
Le telefonate. Ormai era un costume per lui: mercoledì e venerdì, alle 15,10, puntuali. A parte oggi. Quella là cominciava a prenderlo sottogamba. Ah, ma gliene avrebbe fatto passare la voglia lui. Ai ragionieri non piace scherzare, tutti lo sanno. Ma queste ragazzette poco si interessano alle convenzioni, infatti, era anche per questo che lui risultava a tutte così poco attraente: lui sulle convenzioni ci aveva costruito il suo castello. 

Si erano messi d’accordo per “vedersi” la sera stessa, alle nove e mezzo, ma lui sapeva già che avrebbe fatto tardi, lei non lo avrebbe aspettato. D’altronde, un uomo come lui, così ricercato e pieno di impegni, non poteva certo sprecare nemmeno un’ora con quelle come Eva, lo sapeva benissimo. Tuttavia, aveva comunque accettato l’impegno, perché metti mai che d’improvviso si liberasse, tipo che riceveva una telefonata da Poetti che diceva che il cliente aveva disdetto all’ultimo. “Carlo, l’abbiamo perso. Tutto saltato, tutto saltato! Ci stavi ancora lavorando? Lascia perdere, è perso, è perso!”. O magari iniziava a venir giù di brutto la pioggia -che in realtà era plausibile, dato che era tutto il giorno che minacciava pioggia- e tutte le strade si allagavano, non si poteva più circolare e al telegiornale delle 20:00 annunciavano codice rosso, la regione chiedeva lo stato d’emergenza e a tutti i cittadini era consigliato di non uscire nemmeno dalle camere da letto l’indomani. In tal caso il direttore l’avrebbe chiamato, sempre che prendeva ancora il telefono, e gli avrebbe annunciato la chiusura dell’ufficio per il giorno dopo. “Senta Bertozzi, non so se ha avuto tempo per vedere il TG, so che ha da fare lei…”. O magari era un gran terremoto, tipo quello del ’71 a Tarquinia, ma pure peggio, che apriva una voragine enorme al centro dell’ufficio stesso, così che fosse dichiarato inagibile e allora lui, ormai chiaramente senza lavoro, poteva liberamente andarsene e farsi consolare dalle tiepide braccia di Eva. 
Beh, plausibile, chiaro.
In tal caso, allora sì, sarebbe arrivato all’appuntamento a casa di Eva, magari anche con qualche decina di minuti di anticipo. Doveva portare qualcosa? Magari sì, eh. Insomma, andava pur sempre ad un appuntamento con una donna. Donnina, in verità. Eva è molto giovane. Non è che l’avesse ancora molto vista, ma da quello che gli aveva detto Antonella di lei era molto, molto giovane, per non parlare della sua voce al telefono: così appariva ancora più giovanissima. Però non valeva la pena che comprasse qualcosa, d’altronde lei mica era da premiare, con quello scivolone sulle fragole. Lo sapeva! Lo sapeva. Lo sapeva? Sì, sicuro che lo sapeva. E lo faceva apposta, per farlo arrabbiare. Lui sa di essere molto più attraente quando si arrabbia, ha un certo je ne sais quoi e, sicuro, lei l’aveva avvertito. Sì, lei è una che queste cose le avverte, eccome, e l’aveva fatto apposta. Per provocarlo.
Quella poco di buono.

Venerdì. 17:45.
Ora di tornare a casa dopo una scintillante giornata lavorativa. In realtà sarebbe dovuto rimanere ancora almeno una mezz’ora per finire di scrivere il rapporto sull’affare che gli aveva affibbiato Carmine Poetti, dell’ufficio accanto. Aveva già molto lavoro di suo e quello scansafatiche doveva appioppargliene altro ancora. L’aveva sempre detto che quello non aveva voglia di fare niente, sin da quando aveva messo piede in ufficio per la prima volta, gli era bastato uno sguardo: erano le 14:30 e quello stava mangiando delle melanzane per pranzo e nell’intero ufficio si era diffuso un odore disgustoso di fritto, ma nessuno osava dirgli nulla perché quello lavorava lì già da dodici anni. Roba da matti. Prese un appunto mentale: riferire al direttore lo scarico di lavoro (a mie spese) di Poetti e la sua nullafacenza.

Mentre passa in mezzo alla folla di gente in fila per addentrarsi nella bocca della metropolitana, si domanda se mai fra tutte quelle persone ce ne sia una che risponde al nome della prima peccatrice della cristianità. Chissà se lei è lì. Chissà se lo sta guardando, se sa chi sia e lo segue e lo ammira. O magari cambia strada perché la sua vista la disgusta, perché gli uomini rispettabili non cercano sulle pagine gialle il numero di un centralino per soli uomini. 
Questa ignoranza lo soffoca, si sente come un bambino relegato in un’altra stanza quando alla televisione danno un film vietato ai minori di dodici anni. Tuttavia, è l’ignoranza stessa a spingerlo a volerne sempre di più, perché quel bambino, escluso dal salotto, in camera sua gioca a “fare Sherlock Holmes” e cerca di risolvere l’enigma della Sfinge: chi è Eva?

Venerdì. 18:02.
Quattro fermate e scende dalla metropolitana. Si dirige in Via Primo Levi e inserisce le chiavi nella toppa del 5b, apre la porta e…
Buon compleanno papà!”
I bambini gli saltano al collo, mentre Lucia, sua moglie, gli dà un bacio svelto:
“Bentornato, amore. Sei stanco? I bambini avrebbero qualcosa per te”
“Guarda papà l’abbiamo fatta per te!” Dice il maggiore mentre la più piccola porta al papà una torta tutta storta di pan di Spagna con una glassa verde acido sopra.
“Carina. Fatemi togliere il cappotto”
La serata prosegue come una tipica serata a casa Bertozzi: ognuno per i fatti suoi.

Venerdì. 23:30
56 anni e rifugiarsi in bagno come un ragazzino di 15 che ha appena trovato una copia di Playboy. Bertozzi non si sente molto diverso da lui: adesso si trova in bagno con il telefono aziendale nella mano destra a comporre il numero del telefono aziendale di Eva.
Gli risponde lo smistamento chiamate: “Resti in attesa”.
In attesa. Bertozzi è in attesa da quando ha telefonato la prima volta. Un’attesa logorante, vorace, sembra sbranarlo vivo. Un’attesa che sa non avrà mai fine. Non andrà mai all’appuntamento con Eva: loro concordano sempre di incontrarsi, ma quegli appuntamenti sono vuoti, privi di indirizzi, privi di indicazioni per riconoscersi una volta giunti. Un’attesa così stressante che Bertozzi ha pensato più volte di lasciar perdere. Questo non è vivere: essere costantemente sull’attenti, temere il giudizio di chi passa davanti al suo ufficio mentre sbriga le sue chiamate. Temere che Lucia lo venga a sapere, come non lo sa, ma lo teme. Temere che un giorno incontrerà Eva e scoprirà che non rispecchia affatto le sue fantasie, che è troppo alta o bionda o ha gli occhi storti. 
Alla fine comunque Eva prende la chiamata.
“Carlo, è tardi”
“Avevo bisogno di sentirti. Oggi è ancora il mio compleanno”
“Sei a casa tua?”
“Sì”
“Vuoi ancora giocare a far finta? Cosa vuoi che mi inventi questa volta? Che tornata a casa dal lavoro ho spolverato? O magari che mentre aspettavo che tornassi anche tu ho cucinato il tiramisù, perché so che lo adori, e ho preso anche le candeline con il numero 40 sopra, così che una volta a casa potessimo festeggiare insieme?”
Carlo ascoltava inebetito, non si aspettava questo atteggiamento da parte di Eva.
“Non ho mai avuto clienti come te: tutti quanti non vedono l’ora di arrivare al dunque, mentre tu ti trastulli in queste chiacchiere, con questo far finta di avere una vita insieme. Non sei stanco?”
“E cosa dovrei fare secondo te, sentiamo”
“Penso che non dovresti più chiamare”
“Non vuoi che ti chiami più?”
“Certo che voglio che mi chiami, a me conviene che tu continui a farlo, ma non dovresti. Penso che tu non voglia telefonare a me, penso che tu voglia solo qualcuno con cui parlare, qualcuno che ti ascolti, e li hai! Hai una vita, hai dei figli e una famiglia. Hai una bella moglie che a te ci tiene. Smettila di ingannare tutti quanti, te compreso. Buonanotte Carlo, buon compleanno”.
E la chiamata si chiude.

Martedì. 11,45.
Non è ancora il giorno. Nonostante ciò, Bertozzi sente come un formicolio che pervade tutto il corpo, l’unico modo che conosce di alleviare questo fastidio è alzare il braccio, afferrare la cornetta e comporre il numero del centralino di Eva. Lo sa perché prova spesso questa sensazione durante la settimana.

Il telefono squilla. A lungo. Sembra quasi che dall’altro lato non ci sia nessuno, o che abbia chiamato qualcuno di molto lontano e il segnale ci mette molto a raggiungere l’altro capo. Questa situazione lo fa sorridere: stesse anche chiamando qualcuno di molto lontano il prezzo della chiamata sarebbe uguale.

Dall’altro lato prendono la chiamata
“Sì?”
Qualcosa non torna.
“Pronto? Eva?”
Una risatina. “Tesoro, non so chi sia Eva, ma se lo desideri puoi anche chiamarmi così”
A Carlo prende il panico. “Pronto? Pronto! Chi sei? Dov’è Eva?”
“E datti una calmata! Va bene, allora, io sono Eva. Con chi parlo? Cosa posso fare per te?”
Carlo riattacca. Non gli era mai capitata una situazione simile -e dire che è da un po’ che chiama il centralino e prima di sentire Eva aveva telefonato a molte altre donne. Ma qualcosa questa volta non gli sembrava giusto, non era convinto da quella voce molto più bassa e matura di quella di Eva. Ritelefona. ‘Stavolta l’attesa è brevissima. La donna dall’altro lato sembra scocciata.
“Sì?!”
“Lucia?”
Nessuno risponde. Hanno buttato giù.

BIBLIOGRAFIA

D. Buzzati. Un amore. Milano, Mondadori editore, 2015.
J. W. Goethe. Le affinità elettive. Milano, Feltrinelli editore, 2021.
B. Luhrmann (Regia). Moulin Rouge [Film]. 2001.
V. Nabokov. Lolita. Milano, Adelphi, 1996.




Vado… ma dove?

Marta Diotallevi, in questo lavoro, riscrive in un’edita prospettiva la lettera di Didone tratta dalle Eroidi di Ovidio, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

“Lo avesse fatto un uomo sarebbe stato un gran furbo però, vero? Rideremmo e gli faremmo pure i complimenti. Bravo, bravo. Invece lo ha fatto una donna che si è dimostrata un po’ meno ingenua e un po’ più scaltra, un po’ più forte e un po’ meno misera”.

*

Personaggi:
Direttore d’orchestra
Direttore artistico
Professor d’orchestra della sezione archi
Didone
Osmida
Enea

Scena. Stanza di un teatro. Pomeriggio tardo. I personaggi sono intenti a imbastire l’allestimento dell’opera la “Didone abbandonata” (1747) di Niccolò Jommelli e Pietro Metastasio e si confrontano sull’aria finale di Didone “Ah che dissi infelice!”. Affrontando delle difficoltà interpretative, il gruppo inizia una discussione sulla figura di Didone e sul tema dell’amore.

(Didone canta l’aria “Ah che dissi infelice!”)
“Ah che dissi, infelice! A qual eccesso mi trasse il mio furore?
Oh Dio, cresce l’orrore! Ovunque io miro,
mi vien la morte e lo spavento in faccia:
trema la reggia e di cader minaccia.
Selene, Osmida! Ah! tutti,
tutti cedeste alla mia sorte infida:
non v’è chi mi soccorra, o chi m’uccida.
Vado… Ma dove? Oh Dio! Resto… Ma poi… Che fo?
Dunque morir dovrò
senza trovar pietà?
E v’è tanta viltà nel petto mio?
No no, si mora; e l’infedele Enea
abbia nel mio destino
un augurio funesto al suo cammino.
Precipiti Cartago,
arda la reggia; e sia
il cenere di lei la tomba mia.”

Direttore d’orchestra    No! No! Così non va!

Direttore artistico    Cielo, non ne posso più.

Direttore d’orchestra    Cos’è? Una puntata di Febbre d’amore? Per fare una cosa fatta a metà io non la faccio. Né tanto meno ci metto la faccia, chiaro?

Direttore artistico    Si ma tra un po’ più che la Didone abbandonata facciamo la Didone sfiancata!

Didone    No dai, rifacciamola un’ultima volta. Ci sono quasi, devo solo concentrarmi meglio.

Professor d’orchestra    Ma non è questione… è che ce ne manca un pezzo.

Enea    Ma più d’uno direi!

Professor d’orchestra (rivolgendosi a Didone)    E’ quel Vado ma dove? che non funziona. Va bene tutto, va bene calarsi nella parte, lo sconforto,… ma lei un’idea di quello che sta facendo ce la deve avere? Se no facciamo prima ad andarcene tutti a casa e tanti saluti!

Osmida    Ma non credo che Didone non sapesse cosa fare. Penso che già lo avesse deciso che si sarebbe fatta fuori e tanti saluti a Enea.

Enea    Ma va! È Enea l’unico che sapeva cosa fare.

Osmida    Infatti! Lui sa di doversene andare. E Didone sa che troverà un’altra e che, anche se nessuno lo amerà mai quanto lei, Enea sarà felice. Ma lei si chiede: e io? Adesso? Cioè lui se ne va via, ma io? Dove vado senza di lui?

Enea    Ma perché vuole supplicarmi di restare!

Osmida    Ma cosa stai dicendo! Didone dice Non ti permetterò di restare. Anzi di fatto si accolla l’incarico di cacciarlo in mare senza che si spezzi il collo tra un’onda e l’altra. Che razza di sconsiderato. La poveretta gli chiede solo di aspettare un po’, giusto che il mare si calmi e che lei si abitui all’idea dell’abbandono.

Direttore artistico    Non tutti sono egoriferiti come te Enea.

Osmida    Va beh non ci allarghiamo! Anche Enea ha il suo destino insomma.

Direttore artistico    Ma guardala! Prima fa la paladina della giustizia poi però getta subito la mano.

Direttore d’orchestra    Si dice lanciare il sasso e nascondere la mano.

Direttore artistico    Si dice vivi e lascia vivere una buona volta!

Professor d’orchestra    Ma non parlerei di abbandono… Quanto più di partenza. Il centro di questo amore sta nel viaggio. Nasce da un viaggio! Didone gli chiede Dove scappi? Vedete che è un amore sempre con la valigia in mano, pronto a partire pronto in ogni momento ad andare da un’altra parte?

Didone    Ma assolutamente no! Io direi proprio che la pianta in asso lì per lì, senza neanche pensarci due volte. Si immagina sua moglie che una mattina si sveglia e le dice: “Caro mi spiace ma questa sera non ci sono per cena perchè devo compiere il mio destino.” Saluti e baci e non la vede mai più. Il viaggio sarebbe più sereno se lui fosse meno crudele con lei e aspettasse. Ma Enea vuole andare in mezzo a una tempesta che se non mancassero le rane sarebbe come fare un salto in Magnolia!

(Direttore artistico canticchiando e facendo il verso all’aria “Già si desta la tempesta!”)

“Già si desta la tempesta,
ai nemici venti e l’onde,
io ti chiamo su le sponde
e tu resti in mezzo al mar.”

Direttore d’orchestra    Qualcuno spenga il jukebox per favore!” (Poi rivolgendosi al direttore artistico) “Ci provi gusto ad essere insopportabile? Come avrai fatto a sposarti sarà sempre un mistero.

Direttore artistico    Diciamo che per amore ho viaggiato poco e non ho mai abbandonato mia moglie. Siamo una coppia semplice. Ma non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca… per cui ogni tanto cedo su delle piccole cosucce, ma solo per farla felice.

Direttore d’orchestra    Ah capito! Ecco il trucco di un amore duraturo! Sua moglie comanda e lei fa il bravo cagnolino. Altro che prendere il mare in tempesta! Ma non si vergogni. Probabilmente deve solo chiedere il permesso per guardare la partita? Poi una volta raggiunta la maggiore età magari potrà vendere anche i film con il bollino giallo.

Direttore artistico (indispettito)    Che ridere. Ma non si preoccupi che chi la fa l’aspetti.

Professor d’orchestra:    Per favore basta! Che non voglio stare qui fino a domani!

Osmida    “Però per me non si può neanche esagerare quel Vado ma dove? Vado? Resto? si rischia di cadere troppo nel lamento.

Enea    “Oh per carità! Ci manca solo un’altra Bridget Jones!

Professor d’orchestra    Ma secondo me non sarebbe neanche così male…D’altronde quello di Didone era il canto di un bianco cigno. È una preghiera fittizia. Sa che quello che chiede non si può realizzare, le sue richieste non porteranno a nessun effetto, nessun cambiamento. Enea partirà comunque per quanto lei si sforzi.

(Direttore artistico cantando)
When I am laid in earth,
May my wrongs create
No trouble in thy breast;
Remember me, But ah!
Forget my fate.

Didone    No ecco, Purcell e Dido and Aeneas lasciamoli perdere. Mi va bene tutto e sicuramente è un  eccezionale esempio di lamento. Non lo metto in dubbio e non mi permetterei mai. Ma se fatico a interpretare questa versione credo che una del genere non saprei neanche da che parte prenderla.

Enea    Si direi che Il lamento di Arianna 2 la vendetta lo facciamo la prossima volta.

Direttore d’orchestra    Che cafoni. Anche io ce l’avrei visto bene su di lei. Certo con un po’ di esercizio. Non è poi sbagliato vederci una supplica. Una donna che vuole riscrivere la storia dal suo punto di vista.

Direttore artistico    Non la dipinga come una santa però! Le cerca tutte per farlo restare. Cavolo dice di essere addirittura incinta e che Enea sarebbe stato l’assassino suo e di una vita non ancora venuta alla luce! Cioè mi sembra che la ragazza si sia un po’ spinta oltre.

Didone    Ma si sa che in amore non ci sono regole. Certo questo è giocare davvero sporco, ma mentire è poi sempre un male? Se Enea si fosse sciolto sentendo questo annuncio e non fosse partito, che male avrebbe fatto? Si sarebbe solo dimostrato un brav’uomo e un buon padre. O se partendo avesse incontrato la morte e questa bugia gli avesse salvato la vita? Nessuno avrebbe detto nulla e magari avremmo pure ringraziato Didone perché lo avrebbe salvato.

Enea    Ma stiamo scherzando? In amore se c’è una sola cosa fondamentale è l’onestà, la fiducia totale e reciproca. Non si può tollerare una cosa del genere. Se la mettiamo così allora dico che Enea ha fatto bene ad abbandonare una pazza del genere!

Osmida    Lo avesse fatto un uomo sarebbe stato un gran furbo però, vero? Rideremmo e gli faremmo pure i complimenti. Bravo, bravo. Invece lo ha fatto una donna che si è dimostrata un po’ meno ingenua e un po’ più scaltra, un po’ più forte e un po’ meno misera.

Direttore artistico    Sapete chi è un’altra donna forte e indipendente?
Mia moglie! Quindi visto che non stiamo combinando niente di che e si è fatta una cert’ora, io andrei a cena o al posto di Didone l’unico abbandonato sarò io.

Su Medea e l’immortalità

Sofia Crea, in questa composizione, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022, riscrive il dialogo del Simposio tra Socrate e Diotima sul desiderio di immortalità degli uomini, portando a esempio la storia di Medea.

“E appunto in questa maniera ogni cosa mortale si mette in salvo, ossia non già con l’essere sempre in tutto il medesimo, come ciò che è divino, ma con il lasciare in luogo di quello che se ne va o che invecchia, qualcos’altro che è giovane e simile a lui”.
(PLATONE, Simposio, 207 E – 208 C)

*

SOCRATE       Ma quindi, o Diotima, tu sostieni che nella ricerca degli uomini di essere immortali, la generazione possa, in parte, assolvere a tale spinta?

DIOTIMA       Certamente. La brama dell’immortalità è insita nella natura mortale, e per soddisfare tale desiderio l’uomo fa in modo di lasciare dopo di sé un altro essere che gli somigli, affinché possa mettersi in salvo.

SOCRATE       Solo così è possibile che ciò avvenga? La gloria conferita dalla memoria viene realizzata solo tramite il partorire, come dicesti tu, di nuovi esseri, per coloro la cui fecondità risiede nel corpo, o di saggezza e virtù, per i gravidi nell’anima? Non altre possibili soluzioni vengono offerte all’uomo?

DIOTIMA      Forse tu non credi che ciò non sia abbastanza? Non è forse vero che padri anziani abbiano fatto affidamento sui figlioli più giovani e robusti di loro per la sopravvivenza della dinastia? Non hanno forse, grandi poeti, lasciato ai posteri le opere frutto dei loro anni migliori acciocché queste vivano per sempre nella mente di coloro che le leggono? Non hanno forse recato vanto alla poetessa di Lesbo i suoi versi, lei a cui la bellezza non è stata data, ma il cui nome è da tutti conosciuto per le sue parole? Non ti sembra vero tutto quanto da me detto?

SOCRATE       Assolutamente.

DIOTIMA       Riconosci, allora, o Socrate, che quanto mi hai chiesto non sia già sufficiente? Hai detto bene che concordi con me ma vedo in te la scintilla del dubbio. Codesta scintilla io voglio spegnere perché tu ti senta fermamente convinto che ciò che ho detto non sia altro che la Verità.

SOCRATE       [A parte] E avendo parlato la straniera di Mantinea si fermò un attimo, come a voler raccogliere i propri pensieri.

DIOTIMA      Due sono le cose che ho intenzione di portare alla tua attenzione, o Socrate, e spero che queste ti persuadano. Come già affermato da me, agli uomini è concesso di mantenere vivo il loro ricordo per mezzo della generazione. Si prenda ora il primo caso, quello dato dalla fecondità nel corpo, e a dimostrazione di quanto detto porterò l’esempio della figlia di Eete, re della Colchide, che concesse i suoi favori a Giasone e dalla loro unione due figli furono generati. A tutti è noto il triste destino di Medea, lasciata dall’amato, il quale nessuno scrupolo si fece nell’abbandonare la moglie e i figli per sposare la figlia di Creonte. Quale altro mezzo aveva, l’innamorata, per far pagare all’ignobile ingrato la colpa commessa, lei che aveva tradito il padre e abbandonato la patria per seguirlo? Bastarono forse le terribili minacce? Di certo, la rabbia e passione tradita non furono placati solo con lo sfogo verbale, o questo è ciò che credi, o sapiente Socrate?

SOCRATE       Non lo credo.

DIOTIMA       Fai bene, perché questo non è ciò che accadde. L’amore della fanciulla, così come ardeva di desiderio per Giasone quando questi con lei rimase, di furore bruciava al momento dell’abbandono; scacciata dal palazzo di Esone e esiliata, a lungo si tormentò la povera infelice, divisa dalla passione che ancora nutriva per l’infedele e il desiderio di vendetta. A lungo maledisse la sua bocca menzognera, struggendosi giorno e notte. A quale gesto estremo arrivò, dunque, la povera scellerata? Si limitò all’uccisione di colei che aveva profanato il suo talamo? O andò oltre? A dimostrazione di quanto detto da me precedentemente, la giovane donna, guardando i figli, rivedeva nei loro volti la somiglianza con l’uomo tanto odiato. Nei due fanciulli Giasone aveva lasciato una parte di sé e la furia che ormai dominava la madre era tale da farle dimenticare l’affetto che provava per i due innocenti, colpevoli solo di essere nati da un padre tanto vile. Dominata dalla passione, e dopo un lungo conflitto interiore, la fanciulla di un crimine tremendo si macchiò: l’uccisione dei giovani figli.

SOCRATE       Credevo che tale delitto fosse rivolto alla privazione del padre dei suoi figlioli; non li ha forse uccisi per minare l’affetto paterno?

DIOTIMA      A quale fine? O Socrate, tu dimentichi ciò che io prima precisai. Il giovane non solo la moglie abbandonò, ma con essa anche la propria prole. Dell’amore di un genitore affettuoso tu parli? No, non di questo si trattò. Come potrebbe averne sofferto colui che per primo rese orfani i due fanciulli? Orfani di padre, giacché abbandonarli non è forse uguale ad averli lasciati se fosse morto? Uguale no, perché quello che fece fu peggio: non per causa superiore a lui se ne separò, ma per sua volontà. E non fu sempre lui che spinse, con la sua crudele dipartita, la moglie folle di dolore al culmine della vendetta? Non fu anche la sua mano di traditore a compiere, complice, ciò che ogni genitore dovrebbe rifuggire? No. Non per questo fine il misfatto venne compiuto. La figlia di Eete pensava a ben altro motivo quando premeditò l’infanticidio: non all’affetto paterno mirava, quanto alla brama di immortalità che domina ogni mortale. Uccidendogli l’unica prole, non solo si slegava dal comune possesso che la legava al perfido marito, possesso che era stato frutto di lieto tempo per lei ormai passato, ma si assicurava che questi non avesse più una discendenza. Sicché, quando escogitava la vendetta che più dolore avrebbe arrecato a colui che era colpevole della sua sofferenza, non pensò di porre fine alla vita dell’ingrato, consapevole che più danno gli avrebbe procurato se fosse morto senza la consolazione di una dinastia che ne avrebbe portato avanti la memoria.

SOCRATE       Codesto il movente? Questa la fiamma che animò la sua follia? Certamente ciò che dici è il Vero, o donna di Mantinea, ma non sono del tutto persuaso. Non dicesti che due erano le cose che volevi porre dinnanzi alla mia diffidenza?

DIOTIMA      E’ così, o Socrate. Ma devi lasciarmi il tempo di creare un discorso che tale si possa chiamare, e per fare ciò ho bisogno di riorganizzare le mie idee. Per suffragare quanto da me detto, affinché possa convincere e liberare te dal demone del dubbio, la mia orazione deve essere tanto completa quanto ben strutturata. Ora, ero rimasta alla fine della possibilità di Giasone di avere il proprio nome portato avanti dalla progenie. Questa, dunque, la fine della prima parte di avvaloramento del mio discorso. La seconda parte si discosta leggermente dalla via inizialmente intrapresa ma non temere, cercherò di essere il più coincisa e chiara possibile. Tu, però, non allontanare la mente dalle mie parole: segui attentamente ciò che ho da dire e non indugiare in altre riflessioni. Abbiamo detto che la morte è temuta dagli uomini se ad essa non si accompagna la consapevolezza che una parte di loro rimarrà indietro. Prima parlammo della generazione dei corpi fecondi, ma abbiamo anche nominato la fecondità nell’anima.

DIOTIMA      E qui la parte insidiosa. Uccidendo gli unici discendenti del marito, lei, che era diventata madre nello stesso tempo in cui lui divenne padre, si privò pure della stirpe. Doppio fu il suo sacrifico: non solo uccise i figlioli a lei cari, ma rinunciò anche lei stessa alla possibilità di immortalità di cui voleva privare il marito. Tale era la sua follia! Tale il suo dolore! Tuttavia, non devi pensare, o SOCRATE    , che compì questo gesto senza la totale guida della ragione: la giovane madre era consapevole di quanto stesse lasciando per punire il perfido amato e, nonostante ciò, scelse comunque di farlo. Sapeva che pur privandosi del frutto della generazione data dalla fecondità del suo corpo, la sua memoria non si sarebbe cancellata con esso: le rimaneva, infatti, la consolazione che in molti avrebbero raccontato la sua storia. Diversi sarebbero stati coloro che, gravidi nell’anima, avrebbero partorito versi per narrare le sue gesta. Non conosciamo noi il suo destino? Non eri già a conoscenza della colpa di cui si macchiò, prima ancora che te ne parlassi, o Socrate?

DIOTIMA       Ecco dunque conclusa la mia orazione. I due punti che avrebbero avvalorato la mia tesi li ho illustrati, e con ciò spero di averti convinto.

SOCRATE       [A parte] Questo disse la sapiente Diotima, e ne fui persuaso.

Alcibiade a Socrate

Beatrice Di Ciancia riscrive il discorso di Alcibiade nel Simposio rivolto a Socrate, in forma epistolare. Un’ipotetica ventiseiesima Eroide, aggiunta a quelle delle eroine abbandonate dai loro innamorati, dell’opera di Ovidio, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

“Questa potrebbe essere l’epistola XXII, quella di Alcibiade, il cui amore viene rifiutato da Socrate. Alcibiade non capisce il motivo del rifiuto e non accetta il semplice silenzio dell’amato: decide così di usare la scrittura come unico mezzo di comunicazione”.

*

Devo parlare, anche se la mia passione è già abbastanza nota e il mio amore appare ormai più evidente di quanto vorrei. Avrei preferito restasse nascosto, ma chi sarebbe in grado di nascondere un fuoco, che viene tradito dal suo stesso bagliore? Non sarei stato in grado di trattenermi oltre. Ti scrivo perché dal nostro ultimo incontro sono passate settimane e tu fuggi ai miei sguardi. Spero quindi che con questa lettera potrò toccare e smuovere anche solo la parte più in superficie del tuo cuore.

     Ho sentito della vittoria di Agatone, mi hanno detto che ha organizzato un banchetto a casa sua per festeggiare, c’erano le personalità più influenti della nostra città: tu ovviamente sarai stato il primo a ricevere l’invito. Avrei voluto condividere la sua gioia, ma non sono stato invitato. Probabilmente non sono degno dei vostri discorsi.
Sapevo che ti avrei trovato lì e infatti stavo quasi per raggiungervi, così da complimentarmi con il mio amico, e soprattutto per poter avere un’occasione per parlarti.
Ma non l’ho fatto, non ce l’ho fatta. Sono rimasto in casa, solo, la mia unica compagnia è il fiasco di vino che ho ancora davanti, ma presto anche questa compagnia mi sarà insufficiente.
Dicono che il vino faccia dire sempre la verità, quindi utilizzerò questa scusa per soddisfare un mio bisogno, la mia necessità di comunicare con te, di sapere cosa c’è nella tua testa e nel tuo cuore.
Tuttavia, la franchezza nel parlare è sempre stata una mia abilità che pensavo apprezzassi e mai come ora, intendo sfruttarla. 

     So che i discorsi di voi uomini di filosofia spesso vertono sull’Eros, voi fate encomi sull’Amore e credete di saperne i misteri e le origini. Quello che so io sull’Eros me l’hai insegnato proprio tu: saranno anche irrazionali i miei pensieri, ma per me Eros sei proprio tu. Quando ascolto le parole di Pericle, o di qualsiasi altro retore a noi contemporaneo o antico non provo niente. La mia anima non è scossa, non sente nulla. Quando ascolto te invece, rimango ogni volta sconvolto: il mio cuore si ferma di fronte ai tuoi discorsi e le lacrime sgorgano dai miei occhi. Dimmi se questo non è vero amore.
Tu sei come un musico, Socrate, ma non hai nemmeno bisogno di strumenti musicali per sedurre, a te bastano le parole.
Sai bene anche tu che solo davanti a te ho provato vergogna: io, amante perfetto, data la mia giovane età e la mia bellezza, non mi faccio sottomettere da nulla se non dalle tue parole.
Tu, Socrate, sei come una di quelle statuette che raffigurano i satiri, una di quelle che si trovano nelle botteghe degli scultori o degli artigiani, che quando si aprono mostrano al loro interno immagini di dei. Tu assomigli a un sileno per aspetto fisico ma soprattutto per il tuo intelletto, nessuno lo può negare. 
I tuoi discorsi hanno la capacità di sconvolgere gli animi di chiunque ascolti.

     Io sono l’unico che ti conosce davvero: io so che dietro al tuo carattere severo ma scherzoso alle spalle della gente, sempre in cerca di bei giovani, si nasconde un uomo insicuro, a tratti altezzoso, che non sa guardare oltre il viso o il denaro che possiede un bel giovane. Tu trascorri la tua vita fra le gente, la lasci ammaliata per poi prendertene gioco.
Altri giovani sono rimasti bruciati dalla loro stessa passione non ricambiata da te, ma io credevo di poterti cambiare, maestro. Sentivo che con me riuscivi a mostrare i tuoi lati più intimi e speravo di poter significare qualcosa anche io nella tua vita.
Credevo seriamente che tu fossi preso dalla mia bellezza, ho creduto fosse una fortuna per me avere un tale fascino e speravo che condividendo la vita con te, avresti condiviso la tua saggezza con me. Quello che ricercavo era il miglioramento della mia persona, divenire ottimo grazie a te.

     Ma ai tuoi occhi non valgo nulla. Disprezzi la bellezza esteriore e mi neghi l’accesso alla tua sapienza. Evidentemente la bellezza che tanto ricerchi è bellezza di altro genere, che forse io non posso offrire.
Ma perché mi allontani? Perché quella sera, nel momento in cui le luci si sono spente e io ti ho confidato che tu per me eri l’amante perfetto e che avrei voluto concedermi a te, ti sei mostrato così rigido e non hai risposto nulla?
Tu così virtuoso, senza paure, capace di camminare scalzo sul ghiaccio nel più gelido degli inverni, non sai accettare il mio affetto sincero. Come fa il tuo animo ad essere sempre così rigido e intransigente?
Io detesto la schiavitù a cui si riducono gli amanti per l’oggetto del loro desiderio, ma il mio amore va oltre ogni forma di orgoglio.
Ti ho parlato da innamorato e credevo di meritarti, ma tu ti sei distaccato. Da quella sera ti comporti come se non fossimo nemmeno amici, nessuno sguardo, nessuna parola. Queste righe sono il mio ultimo mezzo per comunicare con te.

     Sarà forse una punizione questa? La mia unica colpa è stata quella di volgere a te tutte le mie forze, tutto il mio interesse, rifiutando le proposte di amanti ben più meritevoli. Inizio a comprendere il proverbio “l’ingenuo fanciullo non impara se non soffrendo”, ma mai avrei immaginato di essere io a soffrire. Ciò che più mi disturba è che più mi rifiuti, più accresce la mia passione per te: non trovo nessun conforto a questo mio dolore, se non quello che l’ebbrezza del vino mi concede per qualche ora al giorno.

     O degno di meraviglia, non ti avrei conosciuto se solo non mi fossi mai interessato alla vita politica di questa città, a entrambi molto cara! Avrei potuto trascorrere la mia gioventù nelle campagne dell’Attica: una vita semplice, umile, inconsapevole, forse ignorante, ma spensierata. Invece lo studio e le conoscenze mi hanno avvicinato ai tuoi insegnamenti, mi hanno fatto apprezzare ogni tua parola e sono giunto ad un punto in cui non posso più tornare indietro. Non posso cancellare quello che tu mi hai trasmesso, quello che tu mi dai.

     Quindi mio caro Socrate, ti chiedo una spiegazione dei tuoi rifiuti, visto che ormai non ho più alcun mezzo per esprimere il dolore che una passione così forte che è stata repressa, mi causa. Dimmi che non sono degno del tuo amore o del tuo rispetto ma dammi una motivazione valida; sarai forse tu una divinità con le sembianze di un umano, venuta tra noi solo farci comprendere la nostra ignoranza e le nostre carenze al cospetto degli dèi?
Non accetto che tu semplicemente rigetti le mie parole e non me fornisca altre. Non lasciarmi nel dubbio di non essere sufficiente per te, quando magari nascondi qualche altra futile scusa.
Forse solo abbandonando la vita terrena potrò trovare risposta, forse trovare pace insieme a te, perché ora qui non riesco a trovare alcun conforto.

Tuo, Alcibiade.

Bibliografia:
OVIDIO, Eroidi, A cura di Emanuela Salvadori, Milano, Garzanti, 2021
PLATONE, Simposio, Traduzione e commento di Matteo Nucci, Torino, Einaudi, 2014

Ultime lettere al di là del mare

Alessandro Santoni in questo suo racconto, seguendo lo schema narrativo della canzone “Stan” di Eminem, riscrive, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022, le ultime lettere tra Didone ed Enea, quest’ultimo in quanto giovane emigrato giunto in Italia.
Eminem – Stan (Long Version) ft. Dido – YouTube

“Solo puoi immaginare il dolore che provavo quando ti pensavo sul tuo gommone trasportato verso l’oblio e la morte dalle onde di quel mediterraneo diventato come un nuovo acheronte.”

*

Lettera 1 
Caro Enea,
Ti ho scritto, ma tu non mi hai ancora chiamato. Ti ho lasciato il mio numero al fondo di tutte le lettere che ti ho inviato, ma forse non ti sono mai arrivate. Probabilmente c’è stato un errore all’ufficio postale o qualcosa del genere. Forse, per via dell’emozione del nostro amore che fa tremare questa mia mano, ho scritto male il tuo indirizzo. 
Ma ora chi se ne frega. Come stai mio amore? Sono passati ormai un paio di mesi da quando, anche se contro la mia volontà, hai intrapreso il tuo fatidico viaggio per le misteriose acque del mediterraneo.  Com’è andata l’attraversata? Sei arrivato sano e salvo in Italia? Hai fatto richiesta d’asilo? Hai trovato lavoro? Oh… scusami per le troppe domande, ma sai, le emozioni e le ansie sono troppe e l’attesa di una tua risposta mi strugge.
Non sai quante notti insonni ho passato pensando al tuo viaggio. Solo puoi immaginare il dolore che provavo quando ti pensavo sul tuo gommone trasportato verso l’oblio e la morte dalle onde di quel mediterraneo diventato come un nuovo acheronte. Fu il nostro amore a salvarmi dalla disperazione e ancora oggi esso è per me come la luce di un faro per un naufrago disperso in un oceano di timori e paure.
Ripenso a noi ogni giorno ed ogni notte.
In attesa di una tua risposta, 

La tua fedele e innamorata Dido.

Lettera 2 
Caro Enea, non hai ancora risposto alle mie lettere. Non sono arrabbiata, so che sei sommerso dagli impegni. Sono solo molto triste e questo tuo silenzio mi sconforta.
In questi giorni volevo pure darti una bella notizia… sono incinta. Lo so che è una cosa splendida, ma la felicità fatica a fiorire nella situazione che sto vivendo. Qui è tutto uno schifo: mio padre sta cercando di programmare il mio matrimonio con qualche altra nobile famiglia e mio fratello mi tiene segregata in camera allontanando con la violenza ogni mio pretendente non desiderato.
Le uniche due cose a tenermi in vita e a darmi un po’ di conforto e speranza in questi giorni sono la presenza di mia sorella Anna e il tuo ricordo, che, come vedi ancora non mi abbandona. 
Ricordo ancora alla perfezione il nostro primo incontro: rifugiati nella stessa grotta sulla spiaggia, per sfuggire da un temporale, ci mettemmo a parlare per ore.
Mi parlavi della tua vita passata e della fuga dalla guerra. Mi parlavi dei tuoi progetti e dei tuoi sogni. Volevi volare lontano come il vento. Dicevi che l’Italia era il posto giusto per iniziare una nuova vita.
Il tuo volto si illuminava quando parlavi di ciò e quella luce, che compariva nei tuoi occhi, ben presto mi conquistò.
Il cielo non fece in tempo a smettere di piangere che tu e le tue parole mi avevate già catturata.
La tua voglia di libertà e la tua voglia di prendere in mano la tua vita, di costruire il tuo destino, mi fecero provare nel medesimo istante una sensazione di invidia e ammirazione indescrivibile. 
Oh… dovevo seguire le tue parole e la forza del nostro amore, invece, le mie radici e la mia terra, mi hanno tenuta ferma qua. Intrappolata in una gabbia dal quale non posso uscire.
Da quella spiaggia, però, tu sei partito, leggero come una foglia al vento, ed io ora resto qui come un albero impossibile da sradicare. 
Hai compito il tuo destino, anche senza di me.
In attesa di una tua risposta, 
La tua triste e sola Dido.

Lettera 3 
Caro signor-sono-troppo-impegnato-per-scriverti, 
la vita qua è una merda e tu peggiori tutto.
Ma la verità è che non ce l’ho neanche con te.  È con la mia lurida e sporca terra che sono arrabbiata. 
Sono disperata Enea e sto pensando di farla finita. Le mie lacrime bagnano queste poche righe che forse tu non riceverai mai.
Il nostro amore e soprattutto il suo frutto, che porto dentro al mio ventre, sono stati un enorme errore. 
Esso mi ha sedotta ed illusa. 
Esso mi ha dato la speranza di un futuro che non vivrò mai. 
Il mio matrimonio forzato ormai è alle porte e se si dovesse scoprire del mio bambino io verrei uccisa.
Preferisco fare di mano mia questo estremo gesto.
Credevo che il nostro amore potesse essere superiore a tutto, ma non è riuscito nemmeno a piegare il tuo desiderio di fuga e ora come potrà  vincere la mia morte? 
Tu per me, Enea, sei stato come la visione del cielo stellato. 
Tu eri bellissimo e unico, ma proprio come le stelle so benissimo di non poterti raggiungere… non più.
Tu sei l’unico uomo che ho mai amato e ti amerò per sempre.
Ma tu hai fatto il viaggio verso il tuo destino e ora sono sola senza te.
Ora sono sulla spiaggia del nostro incontro e del nostro addio.
Ora in mano il coltello che mi regalasti.
Ora le fredde lacrime mi lavano il viso.
 Ora la lama fredda.
Ora il caldo sangue.
Ora più niente.
Non più in attesa di una tua risposta,
La tua amata ma ormai lontana Dido.

Lettera di Enea
Mia amata Dido,
Avevo voglia di scriverti. Non ho potuto. Scusa.
Questi mesi sono stato parecchio faticosi. Lavoro ogni giorno 12 ore sotto il sole cocente per pochi euro, ma sono felice perché li sto mettendo da parte per noi e per il nostro futuro. Ma a parte la fatica del lavoro qui è tutto splendido. È tutto come lo sognavo, ma senza te, anche questa terra perde tutta la sua bellezza. 
Sai che neanch’io passo un solo momento senza pensare a te? Ogni notte, nella quale non riesco a dormire, vado sulla riva del mare e guardo all’orizzonte, verso te. Ed è lì che io ti immagino, sulla nostra spiaggia a fare lo stesso e così, ricerco il tuo sguardo.
Ho ricevuto la notizia del nostro bambino con estrema gioia. Qui potremmo regalargli una vita più giusta e felice, appena ti invierò i soldi per farti arrivare qua. 
Purtroppo, ho letto anche la tua situazione. Ti chiedo solo ancora un po’ di pazienza, ti giuro che riuscirò a portarti via di là. Riuscirò a sradicarti da quella tua terra. La situazione non mi rassicura, anche per il fatto che, ogni giorno, ricevo terribili notizie dal vostro paese tramite le lettere dei miei compagni di viaggio e dai giornali. In questi giorni, ad esempio, una notizia che mi ha scioccato è stata quella di una ragazza che si è tolta la vita sulla nostra spiaggia. Anche lei come te aveva un matrimonio forzato in programma. Anche lei era incinta. Si è uccisa con una sorta di pugnale, mentre teneva stretta a se una lettera, ma purtroppo l’acqua l’ha rovinata e non si capisce a chi fosse indirizzata.

Fammi leggere come si chiamava. Ah, sì il suo nome era…    Suono di una penna che cade… poi più niente.

Un Simposio a New York

Anna Gribaudo in questa sua composizione proietta il Simposio platonico nella New York dei roaring twenties, nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

“Penso che sia per amore infatti che sono partito per la guerra […] perché l’amore ci spinge a proteggere chi amiamo. Inutile sottolineare che la guerra è quanto ci sia di più contrario all’amore. Adesso sembra però soltanto un lontano ricordo da lasciarsi alle spalle.” 

*

ARTHUR Negli ultimi tempi la vita qui a New York è cambiata notevolmente: l’economia non è mai stata così florida, e in tutti sembra albergare una gioia di vivere inarrestabile, una corsa al divertimento, alle distrazioni, che si traduce nei fatti in una corsa al benessere materiale. La città è sempre più rumorosa, il jazz più movimentato, e anche le nostre idee sono in fermento. Ho avuto modo di interrogarmi su di una questione poco pratica e più spirituale, per così dire, che volevo giusto proporvi, e  vi prego di soddisfare la mia curiosità, esprimendo il vostro parere in assoluta libertà.
Ebbene, la questione è questa: secondo voi come si può definire l’amore?”

FRANCIS/Fedro Si tratta di un tema in realtà molto pratico, praticamente all’ordine del giorno, mio caro Arthur, qualcosa che ci riguarda tutti. Ecco, se siete d’accordo inizierei io, che ho già una mia opinione a riguardo. Penso che l’amore sia il sentimento più potente che ci sia, ciò’ che fa sì che la nostra vita sia virtuosa e felice. Diciamocela tutta, uscire con voi signori nei locali è uno spasso, lavorare in ufficio con i colleghi è piacevole, ma queste singole attività di per sé non danno un valore compiuto all’esistenza, cosa che invece l’amore dà.
È una forza propulsiva, che ci muove costantemente all’azione, che ci fa agire al meglio: se nella borsa di Wall Street lavorassero tutti amanti e amati, le azioni sarebbero sempre in rialzo, perché quando amiamo puntiamo al meglio, ad essere la versione migliore di noi stessi.
Per amore si può giungere anche a morire. Penso che sia per amore infatti che sono partito per la guerra. Innanzitutto per amore della mia patria, anche se all’inizio pochi erano convinti delle ragioni dell’entrata in quel lontano bagno di sangue. Ma lo feci soprattutto per amore verso mia moglie e i miei figli, perché l’amore ci spinge a proteggere chi amiamo. Inutile sottolineare che la guerra è quanto ci sia di più contrario all’amore. Adesso sembra però soltanto un lontano ricordo da lasciarsi alle spalle.

PAUL/Pausania Ben detto, caro Francis. Condivido appieno la sua idea: la guerra genera orrore e devastazione, e quindi rimanda alla morte, mentre l’amore è sinonimo di vita, perché collegato alla procreazione.
Vorrei tuttavia aggiungere un particolare. Ritengo infatti che l’amore sia un sentimento assai complesso da definire,  essendoci vari tipi di amore. Anzi, probabilmente ne potrei definire due. Esiste da un lato un amore più volgare, che ci porta a cercare e ad apprezzare la bellezza dei corpi, quindi un sentimento legato all’attrazione fisica, all’aspetto esteriore di una persona. Questo tipo di amore è per sua natura fugace, perché la bellezza sfiorisce con lo scorrere del tempo, ed è anche occasionale, al quale si fa ricorso per soddisfare essenzialmente le pulsioni del corpo. Dall’altro lato esiste un amore celeste, spirituale, che ci porta a sentirci intimamente legati all’animo dell’altro, alla sua personalità, insomma al suo essere più profondo. Questo tipo di amore è destinato a durare più a lungo perché l’anima non sfigura come il corpo con gli anni, ma non è necessariamente superiore al primo, né viceversa. Entrambi questi amori sono necessari, ma penso stia ad ognuno capire ciò che pensa di meritare, ciò a cui aspira.

MARY Apprezzo molto il suo tono aperto al relativismo, perché a volte in discussioni simili emergono soluzioni forse troppo categoriche, come se la verità fosse una sola. Come ha detto, ognuno è libero di decidere ciò è meglio per sé. Mi collego a quanto ha detto esponendo la mia opinione adesso, sicuramente al passo coi tempi.
Se l’amore fosse un salotto mondano, sarebbe uno dei pochi luoghi in cui la donna è del tutto padrona di sé e non sottomessa all’uomo di turno. È dove invece di essere comandata detta le leggi, indirizza la conversazione, promuove nuovi incontri galanti. Allo stesso modo è padrona in amore, perché è lei che la quasi totalità delle volte si fa desiderare. Nella sfera amorosa è quella in cui a differenza di quella pubblica può essere libera, indipendente. In particolare, la donna è protagonista durante la seduzione, che altro non è che la premessa all’amore, la sua porta d’ingresso, il flirt per intenderci. Se quando la coppia è fissa allora iniziano i problemi, le gelosie, invece in questo momento ibrido il desiderio è la chiave di tutto. L’uomo desidera ciò che non ha, la donna all’altro capo della sala da ballo, intenta a fumare il sigaro, che con uno sguardo ammaliante ammicca nella sua direzione. L’uomo la desidera, ma lei lo fa impazzire, sparisce, ritorna con un amante, tutto per esasperarlo, vendicare la posizione subordinata nella quale il suo sesso è da tempo costretto. Con l’amore le donne possono riguadagnare insomma un ruolo, o per lo meno avere voce in capitolo.

HARRY/Aristofane Questa posizione è del tutto nuova per me, e penso abbia un fondo di verità. Pensandoci, in fin dei conti nel nostro Paese è stato recentemente introdotto il voto per il gentil sesso, segno che la vostra causa ha sicuramente molti sostenitori.
Per quanto mi  riguarda invece, sostengo che l’amore sia un po’ come la ricerca di un buon sigaro: si spende tanta fatica, attraverso tante brutte esperienze per arrivare finalmente a capire quale fa al caso nostro. Poi, una volta trovato, non se ne può più fare a meno. È destino quindi, e il nostro compito è ritrovare la metà perduta che ci è sempre appartenuta, nella nostra vita precedente forse, come se fossimo stati divisi da un’unità iniziale.
Se ci pensate bene questo spiegherebbe perchè, dopo aver parlato un po’ al bancone di un caffè con una persona, a volte si ha la sensazione di conoscersi da una vita. È infatti per questo motivo che siamo tutti alla ricerca di un posto dove stare bene, di braccia che ci accolgano come una casa, all’eterna ricerca di una perfezione originaria. Amore è quindi mancanza e conseguente ricerca della parte mancante, perché siamo in fin dei conti esseri incompleti, come una macchina senza il sedile per il passeggero, ovvero qualcuno che ci accompagni nel lungo viaggio della vita.

GARY Che immagine affascinante! Davvero suggestiva. Spiegherebbe molti racconti di storie d’amore durevoli e gratificanti, nati all’improvviso e durati una vita intera, un po’ come quelli che troviamo nelle pubblicità.
La mia idea  probabilmente è meno poetica a confronto. Ritengo infatti che l’amore sia amore di ciò che è bello, nuovo. Potremmo pensarla così: tutti ci siamo ritrovati negli ultimi tempi a comprare l’ultimo prodigio tecnico, la radio, insieme a  moltissimi vestiti, scarpe, perché aspiriamo al meglio. E questa nostra società ci fa desiderare sempre di più, ci avete mai fatto caso? I grandi magazzini sono sempre più imponenti, i cataloghi dei prodotti più lunghi, le rate alla portata di tutti. Dopo aver comprato un’auto se ne desidera subito un’altra, più costosa e più bella, che è appena stata prodotta, e poi un’altra ancora. È una corsa infinita, un desiderio inesauribile. Ebbene, allo stesso modo è l’amore.
Appena soddisfatto un desiderio, ecco che non ci basta più e ne nasce un altro. Questo può portare a non voler stare con una sola donna, ma a volerle un po’ tutte, anche se già impegnate. Anzi, soprattutto in questa evenienza. Funziona probabilmente come con gli alcolici al giorno d’oggi: secondo delle leggi discutibili, un po’ come quelle sul matrimonio, non si potrebbero consumare. È come se fosse stato sottratto l’oggetto del desiderio a un assetato, e questo non fa che fargli desiderare l’oggetto bramato ancora di più. Ecco spiegato il perché delle reputazioni di molti uomini (e anche di molte donne) dagli amori molteplici. Semplicemente si ama l’amore.

ARTHUR Forse avete tutti ragione o tutti torto, per fortuna non sta a noi deciderlo. Dal nostro piccolo dibattito è emerso che l’amore è un ripiego per alcuni, un’illusione per altri, un’abitudine per molti, una salvezza per qualcun altro, ma le cose stanno così: senza di esso la vita sarebbe più vuota, priva di significato. Innamorarsi può infatti cambiare il nostro destino. È un viaggio alla scoperta di sé stessi e dell’altro, fatto di burrasche, vento e tuoni, ma che non ha eguali in gioia e soddisfazione quando il cielo si fa luminoso.

La rivolta di Briseide

Gaia Garofali e Clara Vallauri, in questa composizione, riscrivono un’inedita Briseide in ribellione nei confronti di Achille. Il testo è stato sviluppato nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

 “L’elaborato seguente nasce per volontà di riscattare la figura di Briseide che si rende gradualmente conto di essersi innamorata di colui che l’aveva privata del proprio corpo, della propria famiglia e della propria libertà.  Finalmente la ragazza prende coscienza del proprio ruolo come sacerdotessa di Apollo e sente di meritare di più rispetto ad essere una schiava di un vanitoso Acheo.”

*

SCENA: Sera. Accampamento di Agamennone.

 ATTO PRIMO

 Briseide giace a terra, lo sguardo fisso su Euribate e Taltibio che sono ormai figure lontane.

BRISEIDE Queste lacrime che mi rigano il volto sono lo specchio della mia sofferenza.  Ma saranno le ultime, lo giuro, che io, Briseide, sacerdotessa del Dio Apollo verserò per un uomo così indegno.  In Lui credevo di aver ritrovato l’abbraccio di una madre, la protezione di un padre e la passione di un marito. Mi sbagliavo. Tutti vedono in lui un eroe, invece non è altro che una cinica macchina da guerra. Egli, infatti, si lancia in battaglia non per amore della sua patria, ma per decantare il suo primato in forza.  Chissà quante altre schiave come me si sono infatuate del proprio tormentatore, vedendo in lui una figura salvifica. Dobbiamo renderci conto della bassezza di essere bottino da guerra, futile merce di scambio. Il nostro carnefice non può essere l’unica salvezza che ci rimane. Dobbiamo trovare il modo di ribellarci a questa condizione umiliante, ma come? Non attraverso le armi perché, per via del loro burbero cuore non avremmo pari possibilità. Forse scappando alla ricerca di un futuro migliore?  Si, forse è la soluzione scappare, e affidarci ai numi celesti.

Briseide lentamente si alza e tende le braccia verso il cielo.

ATTO SECONDO

Mattina. Briseide dopo una notte insonne di preghiere rivolge l’ultima invocazione ad Apollo.

 BRISEIDE Io, come tua devotissima ancella, ti invoco, o Dio delle arti e della medicina, se mai hai sofferto pene d’amore, ascolta questo mio cuore lacerato, tanto distrutto quanto sincero.

Qualche dimesso singhiozzo interrompe la sua supplica.

BRISEIDE Come tu, o luminoso, non fosti ricambiato dall’amore carnale di Dafne, così io soffro per le menzogne di Achille che in realtà non ha mai corrisposto il mio sentimento. Infatti, fui la sua schiava e più volte a lui mi unii, ma scoprii di essere solo un suo effimero piacere. Ricordo con amarezza quelle volte in cui mi esortava con gentili parole ad uscire dalla tenda per poter accogliere il suo amato Patroclo. Ed io, in disparte, senza neppure una coperta per ripararmi dal freddo, con gli Achei che si facevano beffe di me, rimanevo ad attendere, per un tempo che sembrava essere infinito, il richiamo del mio carnefice. Adesso mi rendo conto di quanto vana e superflua fosse la mia vergogna di fronte alle urla dei combattenti: il vero disonore  è quello che mi arrecò Achille, preferendo la compagnia di Patroclo alla mia.

In nome di quel tormentato amore che lui stesso aveva vissuto e riconosciute le sofferenze della giovane fanciulla troiana, Apollo discese dal Parnaso, avvolto da una nube luminosa. Briseide, alla vista di cotanta luce fu costretta a coprirsi gli occhi.

APOLLO Mia fedele servitrice, i tuoi lamenti mi hanno commosso. Anche tu, come Criseide meriti la tua vendetta. Ai Greci non sono bastate le morti provocate dai miei dardi fatali.

BRISEIDE Sono grata della tua bontà d’animo e stupita della compassione che rivolgi verso un umile mortale.  O dio che porti l’arco d’argento, scaglia ancora una volta la tua ira contro questi tracotanti invasori. Presta particolare attenzione verso colui che ha preferito al profumo e alla morbidezza di una donna il sudore e il corpo d’acciaio di un uomo.

APOLLO Mia cara Briseide, ciò che mi chiedi è un’ardua impresa, poiché Achille dal piede veloce è stato immerso nello Stige dalla madre Teti. Tuttavia, il tallone non è il suo unico punto vulnerabile: egli si strugge per Patroclo come tu stessa notasti. Solo privandolo del suo amato compagno riusciremo a turbare l’imperturbabile figlio di Peleo. Ma tu, degna sacerdotessa di un dio clemente, non devi temere: verrai presto vendicata per affronto.  Al calar della sera una pestilenza di ratti invaderà l’accampamento greco e tu non dovrai far altro che cogliere il momento di confusione generale per scappare. Io ti aspetterò laddove sono attraccate le triremi nemiche. Adesso va, fanciulla dalla guancia graziosa, e non turbare oltre la tua anima. Chi ti ha offesa avrà quello che si merita. Le mie parole ti siano di conforto.

Queste furono le ultime parole del dio che se ne andò, portando con sé la sua immensa luce.

ATTO TERZO

Apollo mantiene la sua promessa e un’invasione di ratti ricopre il suolo fuori dalle mura della città, mentre Briseide attua la sua fuga.

BRISEIDE Il momento propizio è giunto, mentre gli occhi inorriditi degli stranieri sono occupati a fissare l’invasione delle bestie senza sapere come liberarsene, finalmente mi riprendo la mia libertà. Ecco il seduttore Achille, questa sarà l’ultima occasione per affrontarlo.

BRISEIDE Tu che ti credi superiore persino agli dei, voltati e guardami per l’ultima volta.

ACHILLE Come osi rivolgerti al tuo padrone ed amante con questo tono sprezzante. Non ho ancora trovato il modo di riscattare te, il mio bottino che mi spetta di diritto, da Agamennone.

BRISEIDE Non fingere che questa lontananza ti rattristi, stai indugiando perché preferisci startene disteso con il giovane Patroclo! E non provare a negarlo, è più che evidente.

ACHILLE Mia dolce Briseide, come puoi rivolgere proprio a me tali accuse? Io che ti ho accolto tra le mie braccia, quando, stremato, tornavo dai campi di battaglia. Tu confondi la compagnia del mio più fedele amico e compagno di armi, poiché sei accecata dalla gelosia. Torna in tenda e vai a ripararti dall’invasione.

BRISEIDE No, nelle vostre sudicie tende giammai ritornerò. Me ne vado, ancora una volta sottovalutate il potere di una sacerdotessa. Sono stata io ad invocare su di voi questa nuova sventura. Adesso che Ettore è morto ti credi invincibile, ma sappi che perirai sotto la rocca di Priamo, colpito in un punto che per te sarà fatale. Nello Stige raggiungerai le anime da te martoriate. Addio.

Nel momento in cui Achille stupefatto stava per replicare le parole della donna, sentì in lontananza la voce di Patroclo chiedere disperatamente aiuto. E Briseide sparì, inghiottita dal caos, compiaciuta dell’opera del divino Apollo.

ATTO QUARTO

Briseide arriva alle Triremi greche.

APOLLO Briseide, dalle guance purpuree, non hai più patria, né famiglia e sei stata coraggiosa a seguire le mie parole. Adesso non ti resta che venire sul Parnaso con me, lì potrai dimostrarmi la tua infinita gratitudine. Visto che ti sono venuto in soccorso per le tue sofferenze d’amore così tu mi appagherai, seminando attorno alla mia dimora un’infinità di allori che mi ricorderanno ogni giorno la mia amata Dafne. Ti dovrai prendere cura delle mie piante predilette e vivrai il resto della tua vita libera dal talamo nuziale.

Invincibile

Agnese Genta, in questo suo scritto, rielabora il celeberrimo mito degli androgini raccontato nel Simposio, concentrandosi sull’interiorità e sulla condizione di incompiutezza e confusione dell’essere rimasto dimezzato e paragonandola allo stato di incompletezza che caratterizza la natura umana. Il testo è stato sviluppato nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

“Perché a volte ci sentiamo incompleti, come se ci mancasse qualcosa, ma non sapessimo bene cosa? E qualunque cosa facciamo quella sensazione non passa. Sehnsucht, malinconia, desiderio, mancanza, un vuoto incolmabile e indefinibile. Questa riscrittura, sotto forma di introspezione, vuole essere una sorta di mito eziologico che risponde a tale domanda reinterpretando, anche con l’aggiunta di elementi innovativi di finzione narrativa, in chiave romantico – schopenhaueriana il mito degli androgini raccontato da Platone nel Simposio attraverso la maschera di Aristofane”.

*

Apro gli occhi.

Luce abbagliante. Luce, luce, luce e ancora luce. Basta.
Li richiudo.
Respiro. Una, due, tre volte. Più piano o mi mancherà l’aria.
Sono vivo, quindi.
Sono malamente appoggiato a qualcosa di duro e rovente. Dovrei provare a tastarlo per capire se sono in pericolo, ma ho paura a muovermi. Sono terrorizzato dalla possibilità di provarci e non riuscirci, di essere in qualche modo bloccato da qualcosa o da qualcuno.
Devo capire dove sono. Devo aprire gli occhi. Di nuovo. Non voglio.
Mi paralizza solamente percepire quella luminosità penetrante al di là delle palpebre. Mi lascia impaurito e tremante, con il torace che tutto d’un tratto sembra essere troppo debole per contenere il cuore, il sangue e tutti gli altri organi. Un nero luminescente e accecante, anche con gli occhi chiusi. È terribile, come se milioni di minuscoli aghi mi stessero trapassando gli occhi, la fronte, il cranio, fino ad arrivare al cervello.
Schiudo lentamente le palpebre facendo tremolare le ciglia un paio di volte prima di mettere finalmente a fuoco qualcosa oltre quel banco di luce. L’azzurro del cielo, il verde delle colline, il nero dei corvi che comunicano tra loro gracchiando. Riesco anche a sentire dei grilli. Una folata di vento solleva la polvere del terreno arido e mi solletica il naso in modo familiare.
Inspiro a fondo e tiro un sospiro di sollievo, ma nel farlo sento la pelle dell’addome tirare dolorosamente, come se fossi stato per giorni interi sotto il sole. Ma non lo sono stato, giusto? Respiro a fondo di nuovo. Ora riesco a percepire un punto preciso, proprio al centro del mio ventre, in cui tutto il dolore sembra convergere. Una cicatrice? Una cucitura? Mi sento rotto. So di essere rotto. Perché? Non guardare. Non guardare.
Apro del tutto gli occhi e li rivolgo verso l’alto per evitare di pensare allo stato del mio corpo. Il mio corpo. Non lo sento neanche più mio. Non lo sento e basta. Prima o poi dovrò farlo, dovrò identificare il problema e trovare una soluzione, ma per ora posso concedermi una manciata di secondi in più di beata ignoranza. Codardo.
La fonte di quella luce tanto opprimente era il sole. Solo il sole.
Perché non riesco a sopportare di vedere la luce del sole? Perché ne sono terrorizzato? Perché quando la fisso mi manca il respiro e mi sento svenire? Perché non riesco a muovermi? Perché sento un dolore lancinante in tutto il corpo, ma non sento le parti del mio corpo? Solo dolore. E soprattutto perché non riesco ad abbassare lo sguardo, e a provare a trovare una risposta a queste domande?
Sono bloccato, incapace di fare qualunque cosa che non sia fissare quel tunnel di un candore ipnotizzante e sentirmi morire. Ancora e ancora. Istante dopo istante. Senza morire mai effettivamente: una tortura infinita che riprende volta dopo volta sempre uguale a se stessa. Non riesco a pensare, non riesco a ricordare, non riesco a capire perché sono qui e non so cosa potrei fare dopo. Non riesco neanche più a sentire i grilli e i corvi o a vedere il cielo. Solo quel bianco, quell’urticante chiarore che mi svuota l’anima e lo stomaco, sempre che io ne abbia ancora uno. 
Non ne posso più. Chiudo gli occhi.
Perché quel puntino luminoso ha tanto potere su di me? Eppure è solo luce. È solo il sole. Così piccolo rispetto all’ imponente vetta della montagna che gli si staglia a fianco. Ecco dove sono accasciato: su una sporgenza rocciosa di quella stessa altura.
La luce. La montagna.
Volevo raggiungere il cielo.
Ecco perché sono qui.
Io non… Non mi sembra di essere caduto, però deve essere capitato.
Ora ricordo.
La sensazione della roccia fredda sulla punta delle dita. L’aria che diventava sempre più rarefatta. Il sole splendente nel cielo, più vicino a ogni passo. Prima o poi l’avrei toccato, ne ero sicuro. La stanchezza fisica che era in realtà solo una sensazione sfumata, sovrastata dal desiderio di raggiungere la vetta, di toccare il cielo, di chiacchierare con il sole, di dormire accanto alla luna e alle stelle. Quel fuoco che mi bruciava dentro, scintille scoppiettanti che mi esplodevano nel petto dandomi la forza di fare qualunque cosa. Mi sentivo invincibile. Ero invincibile.
Avevo lo sguardo fisso sull’obiettivo, i sensi annebbiati dall’ossessione di raggiungere quella sfera luminosa. Mi sembrava già di poter toccare le nuvole, di tastarne la soffice inconsistenza.
Poi all’improvviso quella luce familiare viene sovrastata da una del tutto sconosciuta che, in un secondo di violenza, cancella ogni cosa. Un lampo. Un fulmine a ciel sereno. Bianco. Il nulla.
Chiudo gli occhi. Un tuono romba in lontananza.
Strizzo gli occhi tanto da sentirli bruciare nella speranza di poter cancellare quel ricordo dalla mia mente.
Dopo il tuono cadevo in una voragine.
Via, via. Va’ via.
Era tutto buio.
Basta con tutto questo, basta frustrazione.
Urlavo, ma non usciva un suono.
Voglio tornare lì, sulla montagna, voglio scalare il cielo.
Volevo piangere, singhiozzare, disperarmi, tirare pugni, ma non riuscivo a fare nulla.
Una goccia gelida scende sul mio zigomo sinistro. Non è pioggia.
Così fragile nella mia impotenza.
Apro gli occhi per l’ennesima volta e capisco che è una lacrima, ma non sto piangendo. Una singola goccia salata.
Poi un taglio, un dolore allucinante ovunque.
Possibile che sia lì da prima? Il pianto di un morto, di qualcuno che non esiste più, e che ha provato ad ancorarsi con tutte le sue forze lì, nella coda dell’occhio.
Squarciato, mi sono sentito squarciato.
Se è davvero così allora questa piccola lacrima è tutto ciò che mi rimane di quello che ero. Come farei se la perdessi? Perderei anche me stesso? Resterei per sempre questo debole e inutile fantoccio?
Una persona divisa in due. Così, come se niente fosse.
Almeno il ricordo, almeno quello.
Aperto in metà, lasciato a sanguinare e poi buttato via come un giocattolo rotto.
Alzati! Per la miseria alzati! Sei ancora vivo, no? Fa’ qualcosa allora. Dimostralo!
In fondo sapevo di essere rotto.
Mi alzo di scatto e mi metto a sedere. Un brivido di disagio attraversa una ad una le mie vertebre.
Prima invece …
La lacrima inizia a scorrere velocemente lungo la guancia.
… ero …
No, non andare!
… felice, …
Mi tocco il mento per cercare di raccoglierla, ma non c’è già più.
… ero …
Cade a terra.
… completo.

Rimango ipnotizzato a fissare quella minuscola chiazza di colore più scuro che si asciuga per un lasso di tempo che non riesco a definire. Poi non rimane più nulla.
Ma nulla di cosa? A cosa stavo pensando prima? Non ricordo. Perché sto fissando il terreno? Non lo so. È strano: per quanto mi sforzi non riesco a ricordare niente di specifico. Quando ci provo tutti i miei pensieri si interrompono e non mi rimane una sola idea in mente.
Forse sono rimasto qui troppo a lungo e mi sono preso un’insolazione.
Devo proprio alzarmi e trovare un posto in cui ripararmi da questo sole cocente, sono quasi ustionato. Chissà come mai non mi sono spostato prima.
Faccio leva con la mano sulla roccia che ho a fianco e mi alzo in piedi piegando le gambe, ma non appena provo a muovere un passo perdo l’equilibrio, scivolo all’indietro e finisco di nuovo per terra alzando un nuvolone di polvere e insetti.
Ci riprovo: stesso risultato. È come se mi mancasse un appoggio da qualche parte.
Probabilmente l’insolazione è una questione molto più grave di quanto non pensassi.
Provo a gattonare per spostarmi e sembra funzionare meglio, anche se di tanto in tanto perdo ancora l’equilibrio e finisco per strisciare. Anche muovendomi lentamente sento comunque un dolore diffuso in tutto il corpo che non accenna a diminuire.
Ma cosa diamine mi è successo? Non può essere solo l’insolazione, forse sono caduto e mi sono fatto male da qualche parte. Appena al sicuro devo controllare di non avere ferite o ossa rotte.
Mentre mi sposto a fatica noto che, ben presto, il sole cocente non sarà più un problema dato che sta per tramontare. Fortunatamente poco dopo riesco a trovare un luogo riparato in cui passare la notte: una rientranza nella roccia circondata da una foresta di pini. Mi accascio contro la parete rocciosa e riprendo fiato con una certa difficoltà. L’odore del sottobosco mi inonda le narici e riesco a calmarmi. Rimango lì per minuti interi a sentire il mio stesso respiro, con la mente sgombra e incapace di formulare un qualunque pensiero.
Distendo per bene le gambe e inizio a ispezionare il mio corpo: i piedi, le caviglie, le gambe, le ginocchia, le cosce, l’inguine, i fianchi, il ventre. Porto la mano sul petto e la lascio così per qualche momento, la osservo alzarsi e abbassarsi. Passo alle spalle e al collo, poi alla schiena, alle natiche e infine alle braccia. Provo a muovere i gomiti, i polsi, le dita. Tasto la nuca, sposto le dita dietro alle orecchie, tra i capelli, sulla fronte: non è più calda. Le palpebre, le guance, il naso, le labbra, il mento. Sembra essere tutto a posto, non ho alcuna ragione per non riuscire a camminare.
E allora perché sento di non stare bene? Come se avessi un buco nero da qualche parte nelle viscere, un tarlo che striscia nello stomaco e divora piccole parti di me lasciandosi dietro solo dei cunicoli cavi. E più divora più vuole divorare. Ci sono cavità del mio animo che non pensavo esistessero e ora pulsano, bramando di essere riempite. Potrò mai colmarle? E se non potessi? È davvero possibile sopravvivere, vivere così? Ma come può mancarmi qualcosa? Non posso avere nostalgia di qualcosa che non c’è mai stato, sono sempre stato così. E se invece non lo fossi stato? Non posso esserne certo se non riesco a ricordare nient’altro. Presumo di essere nato, di essere stato creato intero, ma se non lo fossi stato? Chi o cosa sarei a quel punto? Se prima fossi stato un uccello e avessi perso le ali, o un serpente e avessi perso la coda? Mi passo la mano sulle scapole e poi sulla parte bassa della schiena. Nessun fantasma. Ormai il sole è tramontato. Gattono, questa volta con più sicurezza, fino a una radura vicina e cerco due rami abbastanza resistenti che possano fungere da sostegno. Ne trovo uno per terra e ne stacco uno da un pino aiutandomi con l’altro. Li spoglio di alcuni rametti e degli aghi e, appoggiandomi a un tronco, con l’aiuto dei miei nuovi bastoni, riesco a stare in piedi. La mia schiena è quasi incollata all’albero a causa della resina e le mie gambe stanno tremando, ma ci devo provare. Mi stacco dal tronco, sento i muscoli cedere, però mi faccio forza e, tenendo la presa salda, sposto uno dei bastoni più avanti e lo seguo con il piede. Barcollo un po’, ma riesco a non perdere l’equilibrio. Lentamente e con fatica riesco finalmente a camminare. Non dovrebbe essere così difficile, non dovrei sentirmi così inadeguato nel mio stesso corpo. È quasi del tutto buio quando riesco a ritrovare la ormai familiare rientranza nella roccia. Appena la riconosco cado in ginocchio sfinito e getto i bastoni lì vicino, mi trascino nel punto più nascosto e riparato e mi corico per terra. Lo sento ancora. Quel vuoto senza nome. È quasi insopportabile. Non appena penso di essermene liberato, non appena penso di aver portato a termine quello che volevo fare, ritorna, uguale a prima. Sono riuscito a camminare, non perfettamente, ma migliorerò, che altro può mancarmi ancora? La soddisfazione per essere riuscito a fare quello che volevo fare da tutto il pomeriggio è durata un secondo, giusto il tempo di riprendere fiato, poi sono tornato a sentirmi angosciato. Condannato alla frustrazione e al dolore in eterno. Vorrei solo poter capire questa sensazione in qualche modo, dargli un senso, un’origine, una soluzione, ma non riesco. Inizio a respirare sempre più affannosamente, poi comincio a prendere a pugni la terra, tiro calci contro la roccia, mi copro la faccia di polvere, urlo disperato singhiozzando. Continuo con questa scarica di violenza irrazionale finché, stremato, sporco e ferito, non mi raggomitolo su me stesso, portandomi le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra la testa. Mi stringo più forte che posso sperando che la resina che ho ancora addosso riesca a incollare tutto me stesso, a riempire tutti i buchi.
Mi addormento tremando. Sogno di essere sulla cima di una montagna, e per un attimo sono di nuovo invincibile.

Un dio ci ha reso monchi, continuamente alla ricerca di ciò che ci manca, e una lacrima caduta ci ha fatto dimenticare tutto, ci ha reso ignari di ciò che davvero desideriamo. Quindi spesso ci sentiamo frustrati, inadeguati, insufficienti a noi stessi e senza possibilità di uscita da questo stato, proprio come il nostro androgino. Tuttavia, esiste il mondo notturno dei sogni in cui, per un momento infinito, torniamo a essere perfetti, non mancanti di nulla, soddisfatti di noi stessi. Invincibili.

Bibliografia
Platone, Simposio, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2000
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giorgio Brianese, Torino, Einaudi, 2013